Prevenzione dei suicidi in carcere: cose da fare subito Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2017 Lettera aperta al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Gentile ministro Orlando, abbiamo letto la notizia che il 2 agosto Lei incontrerà i massimi dirigenti del Dap per affrontare il tema dei suicidi in carcere, che in questi giorni stanno pericolosamente aumentando. Vogliamo allora ricordarle quello che Lei senz’altro sa, ma che richiede un impegno molto maggiore da parte dell’Amministrazione penitenziaria: che per le persone detenute mantenere contatti più stretti con i propri cari, quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, così come quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire la più profonda forma di umanizzazione delle carceri e la più concreta modalità di prevenzione dei suicidi. C’è, in proposito, una serie di proposte che potrebbero essere attuate subito, con una semplice circolare del DAP, senza neppure cambiare la legge: - dove è in funzione il sistema della scheda telefonica (che andrebbe esteso a tutte le carceri, perché consente un’enorme riduzione della burocrazia rispetto alle tradizionali richieste scritte del detenuto per effettuare la telefonata) invitare i Direttori a concedere a TUTTI i detenuti delle telefonate aggiuntive, come succede a Padova (otto telefonate al mese) (stupisce in proposito che nell’ambito della prevenzione dei suicidi non si pensi prima di ogni altra soluzione a rafforzare in tutti i modi consentiti già dalla attuale legge i rapporti delle persone detenute con le famiglie); - consentire a tutti, anche ai detenuti di Alta Sicurezza, le telefonate ai cellulari, equiparandoli ai telefoni fissi, di cui ormai quasi nessuno dispone più; - dare la possibilità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese alcuni colloqui "lunghi" nel corso dell’anno per pranzare con i propri cari; - migliorare i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani e i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo dal freddo o dal caldo di questa estate torrida; attivare le aree verdi per i colloqui, dove esistono spazi esterni utilizzabili; - autorizzare tutti i colloqui con le "terze persone", che permettono alle persone detenute di curare le relazioni anche in vista di un futuro reinserimento; - autorizzare colloqui via Internet per i detenuti (anche quelli dell’Alta Sicurezza, che spesso hanno le famiglie lontane) che non possono fare regolarmente i colloqui visivi, utilizzando Skype, come già avviene in qualche carcere; - promuovere l’attivazione del servizio di spedizione di lettere via posta elettronica (MaiDire Mail), autorizzando anche i detenuti dell’Alta Sicurezza che non abbiano la censura sulla posta. Comunicare con i famigliari in tempi rapidi è infatti un altro modo per disinnescare ansie, paure, depressione; - rendere più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, aumentare il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute; - destinare, come già avviene in Inghilterra, un fondo al sostegno alle famiglie indigenti, pagando loro le spese per un determinato numero di colloqui all’anno (in Inghilterra sono 26), attingendo magari alla Cassa delle Ammende, una delle finalità della quale era proprio il sostegno alle famiglie. Serve poi una maggiore trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo e rispettare i principi della vicinanza alle famiglie e della possibilità di costruire reali percorsi di risocializzazione sul territorio. Spesso invece il trasferimento viene usato in maniera punitiva, o per "motivi di sicurezza", senza tener conto della disperazione e del senso di impotenza che suscita nella persona detenuta e nella sua famiglia. Ricordiamo in proposito un fatto lontano, ma significativo nella vita del nostro Paese: quando ci fu un boom dei suicidi di giovani militari nell’estate del 1986, l’allora ministro della Difesa Spadolini e le autorità militari predisposero un piano di contromisure, fra cui un aumento di fondi per l’ammodernamento delle caserme, ma soprattutto l’avvicinamento dei militari alle regioni di provenienza ("La naja diventerà meno pesante, i soldati si avvicinano a casa", scriveva Repubblica il 22 ottobre 1987). Un’altra piaga della vita detentiva è l’isolamento: il DAP dia allora l’indicazione di ricorrere il meno possibile a questa misura, che mette fortemente a rischio le persone, le indebolisce, le fa sentire abbandonate. Per prevenire i suicidi è importante anche garantire una qualità della vita detentiva dignitosa, che significa: - nell’immediato rendere più sopportabile il caldo incentivando l’impiego di frigoriferi e ventilatori nelle camere detentive, come consente una recente circolare del DAP; - consentire la visione di tutti i canali televisivi senza limitazioni inutili e frustranti; - consentire l’uso nelle stanze di pernottamento dei personal computer, che permettono di impegnare le tante ore vuote della detenzione; - promuovere in tutti gli istituti l’ampliamento degli orari delle attività, evitare che il periodo estivo significhi giornate vuote in cui le angosce personali si dilatano in modo insopportabile; - sviluppare al massimo la capacità di ascolto delle persone detenute, anche là dove il personale è insufficiente; - facilitare l’ingesso dei volontari ed ampliare gli orari della loro permanenza negli Istituti, come chiede con forza la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Due sono le Regole penitenziarie europee a cui si fa riferimento quando si parla della vita detentiva: Regola 3. Le restrizioni imposte alle persone private della libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte. Regola 5. La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera. Se è fondamentale allora ridurre allo stretto necessario le restrizioni e far assomigliare la vita detentiva alla vita libera, bisogna "tendere come un elastico" l’Ordinamento penitenziario, ovviamente senza violare le regole, senza imporre all’amministrazione rilevanti costi aggiuntivi, senza mettere minimamente a rischio la sicurezza, ma usando ogni risorsa disponibile per raggiungere obiettivi significativi rispetto a quanto ci chiedono le regole europee. Roman Horoberts e i corpi del reato: il suicidio nelle carceri di Margherita Rasulo eroicafenice.com, 2 agosto 2017 Il corpo di Roman Horoberts è stato ritrovato da un secondino lo scorso 17 luglio nel carcere di Ferrara: suicidio. Roman aveva trent’anni, si trovava in prigione da meno di 24 ore e si era impiccato alle sbarre della cella con i suoi stessi jeans. Durante la mattinata di domenica 16 luglio, in preda ad uno scatto d’ira, aveva preso a pugni una macchina distributrice di caffè in una palestra del ferrarese. Tanto è bastato per allertare le forze dell’ordine che, giunte sul luogo, hanno arrestato il giovane per i reati di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e minacce aggravate. Come hanno sostenuto esperti dell’ambito giuridico, secondo la legge italiana per uno scatto d’ira non sussistono gli estremi per un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). L’intervento delle forze dell’ordine sarebbe stato lecito ad una condizione: che, come la legge italiana prevede in tal caso, si sarebbe perlomeno dovuta assicurare al detenuto l’assistenza psicologica necessaria. Il caso di Roman Horoberts è singolare, ma non è un caso isolato. L’anatomia di uno scatto d’ira esula dalla definizione molto più estesa di pazzia. La presunta imprevedibilità del pazzo lo ha fatto per secoli percepire come pericoloso per sé e per gli altri (definizione ancora presente nella legislazione di quasi tutti i paesi, fuorché l’Italia, per giustificare trattamenti coatti a suo carico) e dunque destinatario di provvedimenti allo stesso tempo di cura e custodia. A patto però che sia dimostrato clinicamente il disturbo psicologico che affligge il soggetto in questione: cosa che nel caso di Horoberts non è accaduta. La stessa rabbia di Horoberts è stata commissariata. Sui pochi giornali locali che hanno parlato della sua morte è stato costantemente apostrofato come "lo straniero", poiché Roman aveva origini ucraine: che l’ossessione securitaria notamente e abilmente coltivata in tutte le democrazie occidentali, abbia giocato il suo ruolo? Che ancora un volta la paura sia servita a mascherare le crescenti insicurezze reali dovute alla perdita di coesione sociale, alle inesistenti prospettive di futuro per intere generazioni, alla erosione di reddito, lavoro, diritti? Sappiamo per certo che nell’attesa di conoscere una pena che si è tradotta in suicidio, il suo stesso corpo è diventato corpo del reato. Morti, ammazzati di carcere. Il suicidio nelle carceri italiane. Il 18 luglio, il giorno seguente il suicidio di Roman a Ferrara, nella Casa Circondariale di Avellino anche Luigi Della Valle, 43 anni, ristretto per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, si è impiccato nella propria cella. I suicidi in carcere non fanno notizia. Forse perché, sebbene siano 20 volte più frequenti rispetto al complesso della società italiana, sono normalizzati e giustificati dalla "inevitabile sofferenza" della detenzione. Anche tra il Personale di Polizia Penitenziaria la frequenza dei suicidi è 3 volte superiore alla norma: negli ultimi 10 anni quasi 100 poliziotti si sono uccisi. Eppure, ogni anno gli agenti ed i compagni di cella salvano oltre 1.000 persone da morte certa, quasi sempre per impiccagione. Senza questi interventi provvidenziali, le carceri italiane, "specchio della civiltà del Paese", sprofonderebbero ancora di più. Dall’inizio del 2017 le vittime nelle prigioni in Italia sono state 61, la metà delle quali morte per suicidio. Cinque suicidi al mese, più di uno a settimana. Il problema non è giudiziario, ma storico. È allora doveroso restituire l’identità a queste persone mostrificate da chi grida al linciaggio. Restituire una vita, una biografia, a queste morti. Come Roman Horoberts anche Vehbija Hrustic aveva 30 anni e non doveva trovarsi in carcere. Si è impiccato, piegato in due dal dolore, dopo essere stato informato della morte di sua figlia, Jana, di poco più di un anno. Vehbija, incensurato, era in prigione da un anno in attesa di giudizio. Dopo avergli comunicato l’orribile notizia, nessuno si è premurato che seguisse un percorso psicologico finalizzato ad affrontare un simile lutto. O Sasha Z., arrestato per furto, che l’ha fatta finita il 3 maggio scorso a soli 33 anni. Mentre un ragazzo bengalese di 19 anni ha deciso di uccidersi a Gennaio, a Velletri. Anche Giuseppe De Gioannis è stato trovato senza vita a maggio scorso; il quarantunenne si era impiccato nella sua cella a Cagliari. Carmelo Mortari, di 58 anni, è stato ritrovato in una pozza di sangue in una cella di Rebibbia. Si è tagliato la gola e ha aspettato di morire dissanguato. E Piero Nolasco, che pendeva con una corda al collo nella sua cella all’età di 26 anni, a Siracusa. Giovanni Cherchi, è morto suicida nel carcere di Bancali, a Sassari, dopo una settimana di detenzione. ù+ Anche Valerio Guerrieri aveva problemi psicologici: una personalità borderline. Era stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. Anche lui, come Roman, era incline al suicidio. Anche lui, come Roman, si è fabbricato un cappio e si è tolto la vita. Aveva 22 anni. E poi c’è chi, come Andrea Cesar, 36 anni, soffriva di disturbi che, con tutta probabilità, erano aggravati dalle condizioni carcerarie. Andrea era seguito dagli psicologi e si è ucciso con un massiccio cocktail di psicofarmaci. Buttare la chiave: o della legittimazione della repressione. Si parla sempre poco del carcere e, soprattutto, se ne parla male. È un’istituzione oscura per il "buon" senso comune, che si esprime con un linguaggio che si ripete uguale a se stesso e, così facendo, produce una realtà perennemente immutata. "Buttare la chiave", "vitto e alloggio pagati" sono espressioni continuamente ripetute da una società che vuole un carcere doloroso, terrifico e punitivo quando, invece, semplicemente, ne ignora gli spazi, i meccanismi, i corpi, le relazioni. ù E, così facendo, restituisce al potere la possibilità che esso si eserciti strategicamente, anche senza una classe dominante che lo possieda. Esso così investe la società e, attraverso essa, si impone. In questo modo la prigione resta il luogo dell’altro da sé, il luogo che si pensa destinato a chi non si potrà mai essere. È essenziale, per ripensare il carcere, fare i conti con queste biografie e passare oltre. Oltre la storia, attraverso le storie, nomi che hanno beffato la giustizia ricoprendola di sangue e amaro dolore. Avere parole nuove, parole per narrare la loro morte e, soprattutto, la loro vita. Un linguaggio che non legittimi più tutto un apparato giudiziario-poliziesco repressivo che mantiene immobili quelle storie, riproducendo così com’è questa società, le sue classi, le sue pene. Accade che quelle biografie devono essere fermate, arrestate. Immobilizzate nel presente di una società che le rifiuta e si immobilizza a sua volta, si arresta, restando uguale a se stessa. Riproducendo, in questo modo, al suo interno le dinamiche della repressione che si pongono in essere nel meccanismo carcerario: arrestare la storia, impedire il cambiamento, riprodurre l’esistente. Le raccomandazioni del Dap per combattere il caldo in cella: inviata una Circolare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2017 L’estate è comunemente riconosciuta come uno dei periodi dell’anno in cui maggiore è l’insorgenza di situazioni a rischio e di disagio per la popolazione detenuta. L’eccezionale ondata di gran caldo che sta interessando il Paese, non fa che acuire il problema. Come se non bastasse, è in corso anche l’emergenza idrica e, nonostante che il pericolo, per ora, è stato scongiurato, c’è sempre il rischio del razionamento dell’acqua potabile. Per questo motivo, a metà luglio, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha inviato una circolare a tutti gli Istituti per porre l’accento su quegli accorgimenti utili a mitigare le situazioni di disagio. Il capo del Dap Santi Consolo prega le direzioni degli istituti penitenziari di voler vigilare, affinché nei penitenziari, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, siano previste le seguenti accortezze: prevedere una diversa modulazione degli orari dei passeggi per evitare che le persone siano all’aria nelle ore più calde della giornata; assicurare e incrementare la funzionalità, nei cortili di passeggio, dei punti idrici a getto e/o dei cosiddetti nebulizzatori; realizzare, laddove sia possibile, aree ombreggiate; favorire la permanenza dei detenuti in spazi comuni che, per le caratteristiche strutturali, possano assicurare un maggiore confort quanto a refrigerio; negli istituti penalizzati da una oggettiva carenza di acqua per l’eventuale razionamento idrico da parte dei gestori del servizio pubblico, prevedere per i detenuti la fornitura di acqua potabile in bottiglia nonché di taniche per ogni stanza, da utilizzare quale riserva in caso di improvvisa mancanza di acqua (ciò nella consapevolezza che in esito a verifiche, taluni istituti, negli anni più sovraesposti al problema, sono già attrezzati in tale senso); implementazione della disponibilità di frigoriferi nei reparti per il deposito di bottiglie d’acqua o altri generi alimentari, anche di evitare il dispendio d’acqua dai rubinetti utilizzata per refrigerare; riformulare, pur sempre nel rispetto delle tabelle del vitto, i menù giornalieri prevedendo la disponibilità degli alimenti consigliati nella stagione estiva, agevolandone la disponibilità e l’acquisto anche tramite il sopravvitto. Il capo del Dap inoltre pone l’attenzione anche ai blindi delle stanze detentive, chiedendo che vengano aperte di notte per favorire il circolo dell’aria. Chiede, inoltre, di sensibilizzare l’area sanitaria a prestare la massima attenzione alle persone detenute che, sotto il profilo della salute, possano maggiormente risentire delle temperature così elevate. Il capo del Dap e la Carovana della giustizia. Consolo: "condivido le iniziative Radicali" di Valentina Stella Il Dubbio, 2 agosto 2017 Dopo l’importante iscrizione di Bruno Contrada, il Partito Radicale, nell’ambito delle iniziative pubbliche della Carovana per la Giustizia, ha raccolto le iscrizioni di Giacomo Frazzitta, Francesco Moceri, Francesca Frusteri, rispettivamente Presidente, vice presidente, tesoriere delle Camere Penali di Marsala, e Marco Campagna, Consigliere Camere Penali Marsala e Segretario Provinciale Partito Democratico di Trapani. Risultati positivi anche dall’interno delle carceri dell’Ucciardone, di Termini Imerese e Pagliarelli dove circa 700 detenuti hanno sottoscritto la proposta di legge per la separazione delle carriere tra pm e giudici. Su questa mobilitazione si è espresso anche il responsabile del Dap, Santi Consolo: "ho sempre condiviso e agevolato le attività dei radicali per una ragione di fondo che è decisiva: siete nonviolenti e in maniera pacifica e civile portate avanti le vostre idee. È giusto che possiate raccogliere le firme e assumere iniziative in termine di assoluta civiltà anche all’interno degli istituti di pena. Per i ristretti avere un gruppo che vuole aiutare il più debole significa prevenire sia gesti violenti che autolesionisti". "Liberare i prigionieri in Africa". Solidarietà ai detenuti africani dalle carceri italiane santegidio.org, 2 agosto 2017 Il progetto "Liberare i prigionieri in Africa", coinvolgerà i detenuti di 200 istituti di pena italiani, chiedendo loro di venire incontro alle necessità di quelli che si trovano nelle carceri africane. Perché nessuno è così povero da non poter aiutare un altro povero. E la dignità di una persona dipende anche dalla possibilità di aiutare gli altri. Basta poco: un piccolo aiuto può cambiare la vita di una persona. Così i detenuti che vorranno aderire alla proposta della Comunità di Sant’Egidio, potranno, con piccole offerte, aiutare quelli che si trovano nelle carceri africane, per alleviarne le terribili condizioni di detenzione. Lo faranno acquistando loro una stuoia dove dormire o 5 pezzi di sapone per lavarsi (basta 1 euro). Con 3 euro potranno inviare i medicinali di prima necessità per un detenuto malato, con 6 euro il cibo aggiuntivo per un mese. E con piccoli contributi potranno partecipare alla liberazione di alcuni prigionieri più poveri con l’estinzione di quelle spese necessarie per lo svolgimento del processo o con il pagamento della tassa prevista in molti paesi che, se non pagata, costringe a rimanere in carcere un tempo indefinitamente lungo. La vita in molte carceri africane è particolarmente dura: nelle celle non c’è aria, non c’è luce elettrica, spesso non c’è acqua. Il sapone è un genere di lusso che arriva solo due o tre volte l’anno. Non ci sono letti, nel migliore dei casi solo qualche stuoia: si dorme per terra, nel fango, a volte non c’è spazio neanche per permettere a tutti di sdraiarsi contemporaneamente. Le condizioni igieniche sono pessime. I medici non ci sono, le epidemie si diffondono facilmente e molti muoiono così, senza cure. Il cibo, già scarso in molti paesi africani a causa della povertà, in carcere talvolta è assente e alcuni muoiono di stenti. Gran parte dei detenuti resta in attesa di giudizio per lungo tempo perché non è in grado di pagare l’avvocato che permetterà l’inizio del processo. Come è successo a J.G., un camionista nigeriano accusato di contrabbando. In carcere, a Conakry, non trovava nessuno che parlasse la sua lingua. Da un anno e mezzo attendeva un processo che non sarebbe mai stato celebrato, perché nessuno lo aveva richiesto. La Comunità di Sant’Egidio ha trovato un interprete e ha pagato un avvocato (circa 50 euro) per avviare il processo. La sentenza lo ha condannato a un anno di prigione, che J.G. aveva già scontato. Molti detenuti non hanno vestiti per coprirsi e rimangono con gli stessi indumenti anche per mesi. Le condizioni sono spesso disumane: nel carcere di Faranah in Guinea Conakry non c’è approvvigionamento idrico e l’acqua viene portata dalle autobotti. Nel carcere di Tcholliré nel nord del Camerun non ci sono i letti e la Comunità ha donato 1100 materassi. In alcune carceri mancano i cortili all’aria aperta. In altre sono state ristrutturate le latrine e, grazie alla raccolta fondi di Sant’Egidio, è stato rifatto l’impianto idrico. Riforma dei tribunali per i minori verso lo stralcio: plauso delle associazioni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 2 agosto 2017 L’annuncio di Orlando incassa approvazioni dal mondo associativo. Gazzi (Assistenti sociali): bene, disponibili a fornire contributo costruttivo. Giunto (Ussm Ancona): Ottima notizia. Sos Villaggi dei Bambini, Cnca, Cismai, Agevolando e Progetto Famiglia: capacità di ascolto. "Felice della buona notizia: i tribunali dei minori non chiuderanno". Il twett del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, fa eco all’annuncio lanciato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in occasione della visita alla casa famiglia intitolata a Peppino Brancati e gestita dai Salesiani a Torre Annunziata. Ma più che un passo indietro, secondo le dichiarazioni di Orlando si tratta di chiarire un "equivoco di fondo" che avrebbe acceso la polemica e le tante iniziative avviate da mesi nei confronti dell’emendamento n. 1.25 proposto dalla deputata del Pd Ferranti. Non ultima, la raccolta di oltre 26 mila firme su Change.org avviata da Paolo Tartaglione, referente del Cnca Lombardia, che ha visto tra i primi firmatari anche Gherardo Colombo, Nando Dalla Chiesa e Giuliano Pisapia "A mio avviso - ha detto il ministro - su questa cosa dei tribunali dei minori si è creato un equivoco. L’ipotesi non è mai stata di sopprimerli, quanto di portarli all’interno del tribunale della famiglia in modo che la tematica minorile non sia più trattata in maniera isolata ma in modo più globale e in un contesto più ampio". Auspicando un maggior coordinamento tra la procura antimafia e la procura minorile, il ministro ha sottolineato che "comunque stralceremo la norma per ascoltare altre voci, come mi è stato chiesto di fare, e favorire così un approfondimento in materia". "Ottima l’iniziativa del Ministro Orlando che ha stralciato la norma relativa ai Tribunali per i minorenni dal complesso della riforma della Giustizia attualmente in discussione al Senato - commenta Gianmario Gazzi, Presidente del Consiglio nazionale degli Assistenti sociali. L’iniziativa mostra quanto questo tema stia cuore al Guardasigilli che ha ritenuto di accogliere in questo modo le numerose sollecitazione, comprese quelle degli assistenti sociali, che da più parti in questi mesi gli erano pervenute affinché vi fosse una pausa di riflessione su questo particolare aspetto della riforma". "Ora - sottolinea Gazzi - non si tratta certamente di ricominciare tutto da capo, ma di recepire nelle nuove e riformatrici norme che riguardano questo particolare e assai delicato tema tutte quelle esperienze di questi decenni che vanno senz’altro adattate al mutare dei tempi e all’evoluzione della società. Gli assistenti sociali confermano ancora una volta, come anche auspicato proprio oggi dall’on. Zampa, vicepresidente della commissione Infanzia e adolescenza nonché responsabile del dipartimento Minori del Partito democratico, la loro disponibilità a fornire quel contributo propositivo e costruttivo maturato sul campo. Il tutto sempre e comunque al fine di rendere ancora più efficace una giustizia che metta realmente il minorenne al centro dell’azione di tutti i soggetti che ad essa partecipano". Per Patrizia Giunto, direttore dell’Ufficio servizi sociali per i minori del tribunale di Ancona "è un’ottima notizia". "Il sistema di protezione giudiziaria dei minori - spiega - esce dall’incertezza e può continuare il cammino di impegno, professionalità ed innovazione che contraddistingue tutti gli operatori della giustizia minorile. Speriamo che si possa continuare a lavorare per sempre nuove e più adeguate strategie di intervento a favore dei minori e che questa scelta del ministro sia seguita da ulteriori scelte di impegno e di maggiori risorse, che ci tolga dalla precarietà e dall’impoverimento che hanno caratterizzato la situazione degli ultimi anni". E Sos Villaggi dei Bambini, Cnca, Cncm, Cismai, Agevolando e Progetto Famiglia si uniscono all’Onorevole Sandra Zampa "nell’esprimere viva soddisfazione per la decisione presa dal ministro Andrea Orlando di stralciare la norma relativa all’abolizione del Tribunale per i Minorenni dalla riforma del processo civile attualmente in esame". "Questa decisione - si legge in una nota - è segno di capacità di ascolto e di riconoscimento dell’importanza del confronto con chi è quotidianamente impegnato sul campo per una tutela giuridica davvero a misura di bambino e delle famiglie". Le organizzazioni "confermano la loro disponibilità a collaborare con le Istituzioni per un miglioramento del sistema di giustizia minorile". Il magnifico mondo del dott. Gratteri: una telecamera a ogni angolo di strada di Errico Novi Il Dubbio, 2 agosto 2017 Il magistrato spiega che è l’unico modo per trovare i colpevoli. Una telecamera a ogni angolo di strada. A ogni incrocio, a ogni chilometro, ovunque. Una specie di Truman show globale in cui tutto è filmato, ogni singolo gesto di un passante, di un automobilista, in modo che nulla sfugga all’occhio del pm. Un incubo? No, un sogno. Almeno per Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro. Il quale ieri mattina ha sottoscritto un accordo con Regione e ministero dell’Interno per cominciare a realizzare almeno nel capoluogo calabrese la meravigliosa idea. Si parte con un sistema di videosorveglianza pagato un po’ dalle amministrazioni locali un po’ dal Viminale, ma è solo l’inizio. Parola di Gratteri: "L’obiettivo è estendere questo genere di sistema di videosorveglianza a tutta Italia e al mondo, perché chi non ha niente da nascondere non si deve preoccupare se viene ripreso dalla telecamere, tanto i video inutili vengono cancellati in poco tempo". E non è uno scherzo. Il capo dei pm di Catanzaro ha davvero in testa un grande progetto di vivisezione per immagini della realtà. Alla sipula di ieri il magistrato si è presentato a poche ore dall’arresto di un presunto omicida, al quale la sua Procura è arrivata proprio grazie alle telecamere, che hanno ripreso il killer dalla partenza (Lamezia terme) fino al luogo del delitto. Si tratta di un 32enne incensurato, Marco Gallo, assiduo frequentatore dei poligoni di tiro, che sarebbe l’autore dell’agguato (su commissione) al ferroviere Gregorio Mezzatesta, fratello di Domenico, un killer della ‘ ndrangheta. Una storia atroce che un anno fa aveva visto anche l’assassinio dell’avvocato di Domenico Mezzatesta, Francesco Pagliuso. Gratteri può rivendicare che il presunto autore dell’omicidio del ferroviere, avvenuto nel giugno scorso, "non sarebbe avvenuto senza l’ausilio dei video delle telecamere, prevalentemente private: se non ci fossero state l’assassino l’avrebbe fatta franca". Su questo, poco da dire. Ma poi Gratteri si lascia di nuovo rapire dal sogno: "Pensate se avessimo avuto un sistema di telecamere da qui a Lamezia Terme: alle volte un filmato di mezzo minuto può valere più di un anno di intercettazioni o di lavoro tradizionale investigativo". Va bene. Ma, in questa visione onirica, quanto vale la vita (privata) di chi preferirebbe non essere ripreso a ogni passo? Ah già: chi non ha niente da nascondere non deve preoccuparsi. Resta solo da capire se è già tutto nel programma del governo in cui, stavolta, Gratteri farà davvero il ministro. O forse è un sogno anche questo. Intercettazioni, perché non basta non avere nulla da nascondere di Francesco Petrelli* Il Mattino, 2 agosto 2017 Cresce da tempo l’idea che i diritti della persona siano un vezzo illuministico, una cosa un poco snob che non riguardi affatto l’intera comunità democratica, ma solo un’esigua schiera di malfattori che lucra su quella bizzarra idea che vi debba essere un limite all’invadenza dello Stato, ed alla sua azione repressiva. Un limite invalicabile che disegna in fondo il perimetro della sua stessa legittimazione. Si fa affermando l’idea irresponsabile che il paese possa essere "rigirato come un calzino" e che non se ne debba aver paura se non si ha nulla da nascondere. Un assioma tanto allettante quanto pericoloso, sul quale occorrerebbe fare qualche non oziosa riflessione. Solo chi non possiede nulla, infatti, non ha niente da nascondere. In senso morale si intende. Solo chi non ha alcuna idea dei propri diritti civili, chi vive nell’oblio dei principi che li fondano e delle idee che nutrono i rapporti dei singoli cittadini con l’autorità dello stato, non possiede nulla e non può perdere nulla. Chi dice di non temere affatto di essere intercettato perché "non ha nulla da nascondere", vive della miseria di questo equivoco. Ovvero nell’ingenuità dell’idea che i diritti di libertà e i diritti della persona siano cose che riguardano esclusivamente i corrotti e i delinquenti. Che l’onestà non abbia bisogno di tutele e di statuti, di regole e di costituzioni. Che le garanzie le abbiano inventate gli usurpatori ai danni delle persone per bene. Una convinzione tanto errata quanto pericolosa che insuffla a sua volta negli individui un’idea proprietaria dei diritti, dei quali ognuno può far quel che vuole. Tutte le "notti di San Bartolomeo" che ci son servite per affermare l’idea della tolleranza religiosa, tutti i tormenti e tutti i supplizi che son stati necessari per produrre l’idea della "dolcezza delle pene" e della inviolabilità del corpo dell’ultimo dei dannati, tutti i soprusi, le discriminazioni razziali, le espropriazioni, i confini e le altre misure di polizia degli stati totalitari, ci hanno infine convinto della necessità e della imprescindibilità della libertà personali senza le quali le libertà civili e politiche neppure si danno. Ci hanno persuaso del fatto che le libertà stanno e cadono tutte assieme. Svenderle, mortificarle, cederle al primo offerente, dimenticando che quei diritti di libertà sono stati conquistati per tutti e sono dunque di tutti, significa danneggiare l’intera collettività. L’inviolabilità dei domicili e delle comunicazioni, la natura sacra e inviolabile del diritto di difesa, la presunzione di innocenza, dovrebbero essere intesi come un patrimonio comune, diffuso ed inalienabile, coessenziale ad una società democratica matura. Non proprietà del singolo che, ingenuamente convinto di essere al riparo da ogni possibile illibertà, pensa che aprire la porta al "grande fratello" sia un gesto di grande modernità. Compie invece quel che Herbert Marcuse, oltre cinquanta anni fa, teorizzava nella sua opera più pessimista, L’uomo a una dimensione, laddove nel segno di una "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà" gli uomini erano indotti a deprivarsi dei propri diritti ed a rendersi ingenuamente schiavi da sé stessi consegnandosi ad un potere illiberale, tecnologico e invasivo. Solo perché non hanno più nulla da nascondere. *Segretario Unione Camere Penali Femminicidio: Palazzo Chigi impugna risarcimento orfani La Repubblica, 2 agosto 2017 La presidenza del Consiglio avrebbe dovuto pagare per la condanna dei magistrati negligenti che non avevano preso in considerazione 12 denunce della donna contro il marito che poi l’ha uccisa. È stato un femminicidio annunciato: fu uccisa dal marito che aveva denunciato, invano, 12 volte alla procura della Repubblica di Caltagirone. I magistrati sono stati ritenuti responsabili di negligenza dal tribunale civile di Messina e la presidenza del Consiglio è stata condannata a risarcire il danno subito dagli orfani. Palazzo Chigi, però, ha appellato la sentenza. Lo rendono noto gli avvocati Alfredo Galasso e Licia D’Amico legali dei figli di Marianna Manduca, assassinata dal marito, Saverio Nolfo, nel 2007. "Si tratta di una decisione grave ed inattesa, che tende a porre nel nulla un provvedimento giudiziario che per la prima volta riconosce e punisce la responsabilità non della magistratura nel suo complesso, ma di singoli magistrati, colpevoli di una inerzia giudicata dai loro stessi colleghi ingiustificabile", dicono gli avvocati. "C’era parso - spiegano - che una corretta ed imparziale applicazione della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, recentemente riformata, avrebbe indotto il presidente del Consiglio dei ministri ad adottare una diversa e solidale decisione nei confronti di una famiglia notoriamente generosa e bisognosa come quella che ha accolto da anni i figli di Marianna Manduca". "Ma ciò che è ancor più grave - proseguono - e che ci indigna è che è nell’atto di appello è stata chiesta la sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado, allo scopo di non pagare al padre adottivo Carmelo Calì il modesto risarcimento riconosciuto, in attesa dell’esito di un appello che riteniamo del tutto infondato e dilatorio". Dodici denunce per maltrattamenti, minacce e percosse non furono sufficienti a salvare la vita a Marianna Manduca. Nonostante avesse segnalato agli inquirenti anche il progetto omicida del marito, nessuno fermò la mano dell’assassinio. Dopo una lunga battaglia legale, il Tribunale civile di Messina ha condannato la presidenza del Consiglio dei ministri a risarcire 300 mila euro di danni patrimoniali ai tre figli della donna. I giudici hanno applicato la norma sulla responsabilità civile dei magistrati, ritenendo che i pm che si occuparono del caso, in servizio nella procura di Caltagirone (Catania), non fecero quanto in loro potere per evitare il femminicidio. Scomunica ai mafiosi e ai corrotti, ecco il documento del Vaticano di Paolo Rodari La Repubblica, 2 agosto 2017 Pubblicate le conclusioni del "Dibattito internazionale sulla corruzione". La Chiesa di Francesco definisce il suo ruolo contro il crimine organizzato e traccia le linee guida per passare "a gesti concreti". "La Consulta non si ridurrà a pie esortazioni, perché occorrono gesti concreti". E, in particolare, lavorerà per "definire il ruolo della Chiesa e del laicato contro la corruzione, le mafie e il crimine organizzato". Inoltre, per "approfondire lo studio sulle possibilità di estendere a livello globale - attraverso le conferenze episcopali e le chiese locali - la scomunica ai mafiosi e alle organizzazioni criminali affini. Approfondire, inoltre, la questione relativa alla scomunica della corruzione, attraverso il confronto con le conferenze episcopali e le chiese locali". Recita così il documento finale del "Dibattito internazionale sulla corruzione" e obiettivi della "Consulta internazionale sulla giustizia, la corruzione e il crimine organizzato, le mafie" riunita in Vaticano lo scorso 15 giugno per volere del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale in collaborazione con la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Esponenti della Chiesa, della magistratura, di associazioni e vittime di crimini avevano messo in piedi una task force per una battaglia culturale contro la corruzione, una piaga che è prima di tutto un modo di essere e di pensare, linguaggio di mafie e organizzazioni criminali. Lo scopo della Consulta era ed è quello di creare sinergie per contrastare questo fenomeno. Il documento finale è il frutto di un lavoro non facile, con la conferma ineludibile della necessità di lavorare anche a livello della dottrina giuridica della Chiesa sulla questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa. Il compito è affidato alle singole conferenze episcopali che sul territorio dovranno trovare le modalità giuste d’azione, fino ad arrivare a quella scomunica già auspicata dal Papa nella spianata di Sibari a Cassano all’Jonio, nel 2014: "I mafiosi sono scomunicati", aveva detto. La scomunica è la pena più grave nella Chiesa. Comporta l’allontanamento dalla comunità dei fedeli e la conseguente esclusione dai sacramenti. È riservata a chi viola i segreti del conclave; oppure chi profana le ostie o attenta alla vita del Papa. È sempre possibile chiedere perdono, confessarsi, ma ci sono diversi gradi: se, infatti, generalmente una scomunica può essere tolta dal prete durante la confessione, alcune sono riservate al vescovo o, persino, alla Santa Sede, cioè alla Penitenzieria apostolica, il competente ufficio della Curia romana. La corruzione è un tema che ricorre spesso nelle parole di Francesco, che ha più volte avvisato quanto sia pericolosa e come uno che corrompe sia molto più che un peccatore: "Il peccatore, se si pente, torna indietro; il corrotto, difficilmente", ha spiegato qualche mese fa in una delle omelie a Casa Santa Marta. E nella prefazione al libro "Corrosione" (Rizzoli), scritto dal cardinale Peter K. A. Turkson, prefetto del Dicastero dello Sviluppo, con Vittorio V. Alberti, il Pontefice l’ha definita un "cancro" da estirpare. Taglia su Igor. Gli avvocati penalisti: "inconciliabile con i principi di uno Stato di diritto" La Repubblica, 2 agosto 2017 La Camera penale di Bologna contro la ricompensa promessa dagli amici e dalla famiglia del barista ucciso a chi dà informazioni sul ricercato Norbert Feher. La taglia su Norbert Feher, indagato per gli omicidi di Budrio e Portomaggiore, è "inconciliabile con i principi fondanti di uno Stato di diritto nel quale il compito di ricercare e perseguire il responsabile anche del più efferato delitto va ricondotto in via esclusiva all’Autorità giudiziaria ed alla Polizia giudiziaria che con essa collabora". Così il direttivo della Camera penale di Bologna condanna l’iniziativa del comitato degli amici di Davide Fabbri, la prima vittima di Feher, che ha messo in palio una ricompensa di 50mila euro per chi fornirà informazioni sul killer, la metà sul cadavere. I penalisti, "fermo restando il profondo rispetto per l’aspettativa di giustizia dei prossimi congiunti delle persone rimaste vittime dei barbari episodi in merito ai quali la Procura della Repubblica sta svolgendo indagini preliminari", ritengono di dover stigmatizzare la taglia. L’attività investigativa difensiva, come disciplinata dal codice di procedura penale, "rappresenta una grande conquista nell’ambito del processo accusatorio, per rendere meno diseguali i poteri del difensore rispetto a quelli del pubblico ministero. Va esercitata con rigore, senza mai dimenticare che la persona offesa non può sostituirsi agli organi abilitati alla ricerca delle prove, trasformandosi in un’accusa parallela". "50mila euro vivo, 25mila morto" Il regolamento steso dal legale della vedova di Davide Fabbri, il barista ucciso da Norbert Feher. Dopo l’annuncio di pochi giorni fa, gli amici di Davide Fabbri, il barista ucciso a Budrio da Norberto Feher, alias Igor, passano ai fatti. Assieme a Giorgio Bacchelli, avvocato della vedova, è stato deciso l’importo della taglia a favore di chi darà informazioni utili per la cattura del latitante. L’importo sarà di 50mila euro. Nel "regolamento" steso dal legale si specifica anche che se Igor dovesse essere trovato morto la ricompensa sarà inferiore del 50 per cento, cioè di 25mila euro. E vengono dettati i tempi: entro il 22 ottobre di quest’anno. Le segnalazioni dovranno essere indirizzate al legale o al presidente del Comitato Amici di Davide Fabbri, Augusto Morena. La taglia, che adesso viene chiamata semplicemente bando, è stata criticata nei giorni scorsi dal nuovo sindaco di Budrio, Maurizio Mazzanti, che si è detto preoccupato per l’affermarsi della "giustizia fai da te". D’altro canto l’avvocato della vedova di Fabbri, Maria Sirica, ha risposto che si tratta di una possibilità, quella dell’offerta pubblica, prevista dal codice civile. Il legale precisa, in un comunicato stampa, che "l’iniziativa deve considerarsi un ausilio alle indagini di polizia già da tempo avviate". Una caccia al latitante che prosegue da oltre tre mesi. Il primo aprile è avvenuto infatti l’omicidio di Fabbri. Una settimana dopo, l’8, quello della guardia volontaria Valerio Verri, che ha dato il via a una imponente caccia all’uomo. La sentenza di assoluzione per effetto della depenalizzazione senza contraddittorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 30201/2017. Una conclusione che i giudici della terza sezione penale della Cassazione (sentenza 30201) hanno raggiunto basandosi sull’interpretazione letterale del Dlgs 8\2016. E, in particolare sull’articolo 9 della norma che disciplina l’epilogo del processo penale tenendo conto della fase in cui questo si trova al momento della depenalizzazione. I giudici hanno così respinto il ricorso fatto per l’annullamento della sentenza con la quale il Tribunale, aveva assolto "de plano" l’imputato dal reato omesso versamento delle ritenute (l’importo era sotto la soglia di rilevanza) perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Il ricorrente affermava comunque il suo interesse a impugnare per evitare la sanzione amministrativa. Nel caso esaminato, precisano i giudici, si applica il comma 3 dell’articolo 9 il quale prevede che, se l’azione penale è stata esercitata, il giudice può passare all’immediata dichiarazione della causa di non punibilità (articolo 129 del Codice di procedura penale), aprendo così la strada al passaggio successivo della trasmissione degli atti per "infliggere" la sanzione amministrativa. Secondo il collegio la norma, esplicitando il potere del giudice di primo grado (esteso al giudice dell’impugnazione) di dichiarare la causa di non punibilità in base all’articolo 129 del codice di rito, si pone in un rapporto di specialità rispetto all’articolo 469 del Codice di procedura penale che impone l’instaurazione del contraddittorio. I giudici aggiungono la precisazione che "la declaratoria di una causa estintiva o di proscioglimento con formula diversa da quelle ampiamente favorevoli prevalgono sulla declaratoria di nullità, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato". Il rapporto di specialità vale anche rispetto all’articolo 129, che presuppone un contraddittorio già instaurato. Secondo la Suprema sarebbe privo di senso un richiamo al codice di rito, per rendere il meccanismo processuale disegnato dalla depenalizzazione, sovrapponibile a quello ordinario. La conclusione raggiunta per i giudici è in linea anche con il principio del giusto processo. Caserta: nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono in tanti e senza acqua di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2017 Non c’è una rete idrica e con la siccità è diminuito l’approvvigionamento dai pozzi. La regione Campania ha approvato, nel 2016, il bando di gara per la realizzazione della condotta, ma l’iter burocratico ha subito rallentamenti che rischiano di far saltare i tempi. I detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere patiscono ancora la manca d’acqua e l’iter dell’aggiudicazione del bando per creare una condotta idrica è ancora in alto mare. La situazione, con l’avvento del caldo, si fa ancora più critica. L’acqua per gli usi quotidiani - come già denunciato da Il Dubbio nei giorni scorsi - viene fornita dai pozzi e nel periodo estivo la falda si abbassa a causa della siccità creando non pochi problemi, soprattutto ai piani alti del carcere che come la maggior parte degli Istituti di pena, sconta il sovraffollamento con il 35 per cento in più della capacità di ricezione del carcere. Ma non solo. L’istituto campano è un carcere di alta sicurezza che ospita anche una sezione psichiatrica di 20 detenuti che provengono dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. La mancanza d’acqua, assieme al problema dell’energia elettrica che giunge a singhiozzi, provoca non poca tensione tra gli agenti e i detenuti. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere, attivo dal 1996 e ampliato con l’apertura ad ottobre del 2013 di un nuovo padiglione, è stato costruito senza una condotta idrica. Questo è il motivo della poca disponibilità di acqua. Per ovviare a tale anomala situazione, che, soprattutto nei mesi estivi, crea una vera e propria emergenza all’interno dell’istituto penitenziario, la Regione Campania, con delibera della G. R. N. 142 del 5.4.2016, aveva approvato lo "schema di Protocollo di Intesa per la costruzione di una condotta idrica a servizio della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere e delle aule Bunker", istituendo un apposito capitolo di spesa nel bilancio di previsione della Regione Campania per l’esercizio finanziario 2016, per €. 2.190.000,00, cofinanziati dall’Unione europea. Ma l’iter risulta troppo lento. Vediamo il perché. Dopo che, con la deliberazione del commissario straordinario del comune di Santa Maria Capua Vetere, n. 62 del 24.5.2016, era stato approvato lo schema di protocollo d’intesa tra la Regione ed il Comune, elaborato dalla Regione Campania (all’interno del quale è specificato che la Regione si impegna a finanziare l’intervento ed il Comune a realizzarlo nel rispetto del cronoprogramma), finalmente, in agosto del 2016, era stato sottoscritto il protocollo d’intesa e, conseguentemente, era stata avviata la procedura per la realizzazione dell’intervento. Solo il 12 dicembre 2016, con determinazione dirigenziale del 12.12.2016 n. 2391, è stato approvato il bando di gara per la progettazione dell’opera ed individuata la copertura di spesa, per un importo di 96.600,00 euro, nel bilancio comunale, al capitolo di spesa 36514 - u. 2.02.01.09.000 "Spesa per la realizzazione condotta idrica di approvvigionamento per la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere - Fondi Regionali". La gara prevede cinque diverse fasi, alcune pubbliche (le prime due e le ultime due) ed una non pubblica (attribuzione dei punteggi alle singole offerte). Inoltre prevede dei definiti tempi di durata, considerato che espressamente il bando di gara stabilisce che le offerte pervenute saranno ritenute vincolanti (per l’offerente) per un periodo di 180 giorni, dalla prima seduta di gara: dopo lo spirare del termine di 180 giorni, l’offerente potrà svincolarsi dall’offerta in caso di mancata aggiudicazione della gara. Ma cosa è accaduto? Le attività della commissione di gara hanno conosciuto inspiegabili e patologici rallentamenti che non hanno consentito, allo stato, di determinare l’aggiudicazione della progettazione dell’opera - dopo la prima seduta del 31 gennaio scorso, le operazioni di gara sono state rinviate al sette febbraio e, dopo un rinvio a data da destinarsi per consentire l’integrazione della documentazione a taluni concorrenti -, al 13 giugno, data della terza seduta. Da allora, ultimate le due fasi pubbliche, ancora non è stata avviata la terza fase non pubblica. Eppure, in teoria, l’aggiudicazione del bando è prevista per la fine di ottobre. Il rischio è che i tempi si dilatino ancora di più visto che ancora mancano ben tre fasi. Pescara: detenuti al lavoro per riapertura sentieri del parco del Gran Sasso Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2017 A sei mesi dalla tragedia dell’Hotel Rigopiano, riaprirà al pubblico giovedì 3 agosto alle ore 18.00 il sentiero del Vitello d’Oro di Farindola, uno dei sentieri più importanti del parco del Gran Sasso e dei monti della Laga. Riapertura resa possibile in tempi brevi grazie al lavoro di 8 detenuti del carcere di Pescara che hanno lavorato con impegno al recupero delle risorse naturalistiche e dei sentieri. Un progetto frutto di un protocollo d’intesa sottoscritto nel mese di giugno tra il Ministero della Giustizia, il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e Comune di Farindola. Il Sentiero sarà intitolato alla memoria di Marco Riccitelli, ragazzo farindolese di 29 anni annegato il 24 agosto dello scorso anno nel mare di Punta Aderci a Vasto. All’inaugurazione saranno presenti il Sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli, l’On. Maurizio Lupi già ministro dei Trasporti dei governi Letta e Renzi, il Sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, il Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga Tommaso Navarra. A seguire alle ore 19.00, presso la sala Consiliare, la presentazione del libro fotografico "Il Colore del Gusto", volume che mostra con estrema bellezza le abitudini, la storia e le tradizioni culinarie della gente di Farindola. Alle ore 20.00, presso le vie del centro storico, l’inaugurazione dell’8° edizione della Sagra del Pecorino di Farindola. Un pomeriggio all’insegna della rinascita e riscoperta di luoghi e tradizioni che gli eventi climatici e sismici di gennaio rischiavano di far sparire. La stampa è invitata a partecipare. Per info: Simone di Mauro (380.9072071) - Segreteria Sottosegretario Federica Chiavaroli. Perugia: pulizia delle strade e cura del verde, i detenuti lavoreranno per il bene della città perugiatoday.it, 2 agosto 2017 I detenuti svolgeranno lavori socialmente utili per la città. Sottoscritta nei giorni scorsi la convenzione tra l’Istituto penitenziario di Perugia "Capanne" e l’amministrazione pievese. I detenuti svolgeranno lavori socialmente utili per il Comune di Città della Pieve. È stata sottoscritta nei giorni scorsi la convenzione tra l’Istituto penitenziario di Perugia "Capanne" e l’amministrazione pievese. Nata da un progetto sostenuto dal sindaco Fausto Scricciolo e dalla direttrice del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia, dott.ssa Bernardina Di Mario, questa collaborazione coinvolgerà i detenuti ammessi al "lavoro all’esterno" (ai sensi dell’art. 21, comma 4 ter della legge 354/75), per attività sul territorio comunale non retribuita e in favore della collettività. "Il Comune di Città della Pieve ha dimostrato da tempo di credere fortemente nella cosa pubblica intesa come bene comune - spiega il sindaco - lo portiamo avanti come un credo civico che ci ha visto collaborare con i ragazzi del Ceis, così come con i giovani richiedenti asilo ospitati da Arci e tantissimi privati cittadini che nel capoluogo come nelle frazioni si sono spesi in molteplici attività a scopo sociale. Città della Pieve ha una tradizione fortissima di volontariato e accoglienza. Oggi con questo atto sentiamo di aver rafforzato la nostra identità". "Siamo particolarmente grati nei confronti dell’Amministrazione pievese - dichiara la dott.ssa Di Mario - per essersi resa disponibile ad attuare una previsione di legge che è, al tempo stesso, opportunità di reinserimento sociale per il cittadino detenuto e condizione che contribuisce a perseguire gli obiettivi di sicurezza sociale. I progetti di pubblica utilità sono, quindi, parte dell’impegno che l’Amministrazione penitenziaria tutta propone alle componenti sociali perché si utilizzino al meglio le risorse." I detenuti verranno impiegati in prestazioni volte al miglioramento della qualità della vita, alla protezione dei diritti della persona, alla tutela e valorizzazione dell’ambiente. In particolare: prestazioni di tutela e cura del patrimonio culturale con particolare riferimento al trasferimento degli archivi e sistemazione magazzini comunali, cura e manutenzione del verde, azioni coordinate di tutela del patrimonio ambientale, recupero e pulizia del patrimonio comunale (giardini, alberi, sentieri ed itinerari culturali), manutenzione e decoro delle strade pubbliche e dei muri della città, compresi immobili privati, in particolare lavori di rimozione di graffiti e scritte e in altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del detenuto. Verranno impiegati non più di 4 detenuti per un massimo di 20 ore settimanali pro-capite. Il Comune di Città della Pieve predisporrà, previo accordo con la Direzione del N.C.P. di Perugia "Capanne", il programma di lavoro con cadenza mensile, indicando tipologia ed orari di lavoro, luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, il funzionario responsabile per l’impiego proposto, luogo ed orario per l’eventuale fruizione del pasto, numero di ore previste per l’eventuale formazione/affiancamento che potrà rendersi necessario per l’utilizzo di strumentazioni particolari. Reggio Emilia: il Garante dei detenuti Marighelli venerdì in visita agli Istituti penitenziari sassuolo2000.it, 2 agosto 2017 Il Garante regionale per le persone private della libertà personale Marcello Marighelli venerdì (4 agosto) sarà in visita agli Istituti penitenziari di Reggio Emilia dove incontrerà la direzione e i detenuti. La visita del Garante avviene subito dopo il suicidio di un detenuto tunisino lo scorso 25 luglio. "Troppi suicidi - ha dichiarato Marighelli - dei 32 registrati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, sei si sono verificati negli istituti della nostra regione. Il fenomeno è particolarmente preoccupante perché si verifica in un momento difficile per la mancanza di personale nelle carceri. Gli educatori - ha aggiunto il Garante - sono ormai pochissimi, gli agenti sono sotto organico. Soprattutto i direttori, essenziali figure di governo e equilibrio negli istituti spesso si devono occupare contemporaneamente di più sedi". Marighelli si unisce al comunicato del Garante nazionale Mauro Palma, che in una nota diffusa ieri chiede interventi urgenti volti a migliorare il sistema di prevenzione messo a punto dal Ministero della giustizia. Airola (Bn): "la nostra vita in cella", i selfie dei baby-boss finiscono sui social di Irene De Arcangelis La Repubblica, 2 agosto 2017 Ai minori detenuti nel Beneventano scoperti smartphone e schede sim. "Comunicavano con amici e clan". Entra biancheria pulita e qualcosa di buono da mangiare. Passa qualche libro (pochi) e quello che è invece rigorosamente vietato non trova ostacoli: i telefonini. Cellulari nel carcere minorile. I detenuti li usano per telefonare ma anche per fare i selfie e postarli su Facebook. Non si può. È proibito avere uno smartphone dietro le sbarre, figuriamoci usarlo per comunicare sui social network. Eppure è così, nel carcere minorile di Airola (Benevento). L’altra faccia della medaglia dell’anarchia è che il detenuto che pubblica le foto è destinato ad essere scoperto. Così è stato. Non una, più volte. Telefonini ovunque: sotto una mattonella e in una cella, nei bagni e fuori da una finestra con le grate. Schede sim cariche, comprate senza intestatario grazie a un sito Internet. Troppo per il Sappe, il Sindacato autonomo Polizia penitenziaria, che ieri denuncia quanto succede ad Airola a causa di un sistema di sicurezza carente e l’adozione della cosiddetta "vigilanza dinamica": il detenuto ha la cella aperta tutto il giorno, gira per la struttura, incontra chi viene e chi va, dagli avvocati agli infermieri agli educatori. Ventisei luglio scorso nel carcere minorile che conta trentotto detenuti e quattro guardie carcerarie per turno: gli ospiti arrivano fino ai venticinque anni, perché per legge chi viene condannato da minorenne continua a scontare la pena in un carcere minorile anche dopo i diciotto anni. Non più solo ragazzini. E reati pesanti come l’omicidio, la contiguità ai clan, come si deduce dalle scritte sui muri delle celle. In una di queste viene trovato uno smartphone con sim card anonima da trenta euro. E da quel telefonino sono partite anche chiamate verso cellulari esterni già intercettati dalle forze dell’ordine. Indaga la Polizia penitenziaria. È solo l’ultimo caso. Sei luglio scorso. Ad Airola di cellulari ne vengono trovati tre. Uno è stato nascosto sotto la mattonella di un corridoio che viene sollevata grazie a una pinzetta per le sopracciglia. I detenuti si passano i telefoni tra i due reparti attraverso la finestra. E con uno di quei cellulari vengono fatti i selfie. Foto di gruppo, ragazzi legati ai Quartieri Spagnoli e alla Vinella Grassi (quartiere della terza faida di Scampia). Scatti in cella e nei corridoi, la scritta con tanto di errore di ortografia "Airola live". In un caso manca la sim card, viene ritrovata in bocca a uno dei detenuti. A furia di cercare in una bomboletta di deodorante spray viene recuperata della droga nel tappo. I selfie e le fotografie scattati nel carcere ritraggono in tutto sei detenuti. Li posta sul suo profilo Facebook un ventenne di Scampia, condannato per associazione camorristica e droga. Si diverte dal 18 luglio scorso, quando scrive: "Io non sono nessuno ma mai nessuno è come me". Gli risponde la sorella per confortarlo: "Non pensare a nessuno. Ora dobbiamo solo superare questa ed è finita. Qui c’è la tua famiglia ad aspettarti". E un amico: "Tutto passa, sei un leone". Il detenuto comunica anche con la madre che gli ricorda quanto gli vuole bene, mentre gli altri ragazzi immortalati con i selfie non hanno profili Facebook. Due di loro sono minorenni, condannati per omicidio. E uno di loro, ancora diciassettenne, è della cosca dei Sibillo, la "paranza dei bambini" di Forcella che ha insanguinato il cuore di Napoli nel 2015. Massa Marittima (Gr): la raccolta differenziata porta a porta arriva in carcere Il Tirreno, 2 agosto 2017 Non solo in città: a Massa Marittima anche i detenuti della casa circondariale faranno la raccolta differenziata. Ieri mattina è stato firmato il protocollo d’intesa dal sindaco Marcello Giuntini, dal vicepresidente di Sei Toscana Alessandro Frosali e dal direttore della casa circondariale di Massa Marittima Carlo Mazzerbo. Con la firma del protocollo dalle prossime settimane anche i detenuti saranno impegnati nella raccolta differenziata definita "cella a cella". "Questo servizio - ha detto l’assessore all’ambiente del Maurizio Giovannetti - segna la prima sperimentazione del sistema di raccolta porta a porta che sarà avviato nei primi mesi del 2018 in tutto il territorio comunale. Si tratta di una sorta di progetto pilota che ci darà così un feedback sul funzionamento e su eventuali correttivi da attuare. Ci fa piacere che la Casa Circondariale partecipi anche questa volta ai cambiamenti che coinvolgono l’intera comunità locale". Per far sì che i rifiuti vengano differenziati correttamente sia i detenuti che il personale del carcere seguiranno delle lezioni tenute dai tecnici di Sei Toscana, inoltre a gennaio e a luglio di ogni anno sarà convocata una riunione tra le parti per verificare l’attuazione e i risultati del progetto. "Per noi è un’ottima occasione per offrire un servizio agli ospiti della struttura- ha spiegato il direttore del carcere Carlo Mazzerbo - in questo modo i detenuti hanno la possibilità di sentirsi cittadini della società in cui presto rientreranno. Il contatto tra chi si trova dentro la casa circondariale e la comunità all’esterno è un obiettivo alto, rispondente a principi costituzionali, che sarebbe stato irrealizzabile senza la collaborazione del territorio. Per questo ringrazio l’amministrazione comunale e Sei Toscana per la realizzazione del progetto sperimentale della raccolta differenziata e tante altre realtà come Slow Food, la biblioteca comunale, ma anche privati cittadini, che ci hanno permesso di offrire opportunità concrete di apertura e reinserimento sociale alle persone in attesa di finire di scontare la propria pena". Migranti. L’accoglienza Minniti: più Cie e meno diritti di Cecilia Ferrara Il Dubbio, 2 agosto 2017 La legge per il contrasto all’immigrazione entra in vigore dal 18 agosto. Dal 18 agosto la protezione internazionale sarà decisa da un giudice che potrà non sentire né il richiedente asilo né il suo avvocato, potrà decidere di non celebrare neanche un’udienza. In caso negativo, per il ricorrente non ci sarà più il secondo grado ma solo il ricorso alla Cassazione. Operatori sociali a fare i poliziotti e a notificare i dinieghi delle richieste, ma soprattutto più Cie per la detenzione amministrativa dei migranti. Questi sono tra i punti principali della legge Minniti-Orlando n. 46/ 2017 "Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale", entrata in vigore il 18 aprile. La legge infatti istituisce delle sezioni specializzate in materia di diritto degli stranieri presso i tribunali nel luogo dove hanno sede le Corti d’appello. "Il problema è che non tutte le competenze in materia di migrazione andranno alle sezioni specializzate - dice Guido Savio avvocato dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) molto critica rispetto alla nuova legge - ad esempio tutto ciò che riguarda le espulsioni rimane competenza dei giudici di pace, così come le controversie su permessi di soggiorno e ricongiungimenti familiari rimarranno attribuite alla giurisdizione amministrativa. Si è persa una buona occasione per aggregare alla sezione specializzata del tribunale tutta la materia dell’immigrazione, ma se questa non si occupa di come le persone entrano in Italia di come fanno a restare e di quando devono essere espulse è una sezione monca". Nel 2016 sono state presentate 123.600 richieste di protezione internazionale con un aumento del 47% rispetto al 2015; ne sono state esaminate 91.102, ma il 60% delle domande riceve una risposta negativa. L’esame viene fatto dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, ovvero Ministero dell’Interno, enti locali e Unhcr. La parola d’ordine, oggi, è snellire il sistema, velocizzare le procedure sulla decisione per il questo disegna un sistema in materia di protezione internazionale principalmente cartolare, ovvero. Con la Minniti-Orlando tutte le audizioni in fase di Commissione territoriale verranno videoregistrate con un sistema di riconoscimento vocale che effettua la trascrizione in italiano. Visto che non ci sarà l’obbligo di convocare le parti quella diventerà la prova decisiva. "Le audizioni in Commissione durano un paio d’ore - spiega Savio - e pensare che il giudice se le riveda dal suo computer al giudice che dal suo computer fa sorridere. Il rischio potrebbe essere anche quello di rallentare il processo decisionale. Senza contare che il riconoscimento di una dei tre tipi di protezione si basa in gran parte sull’attendibilità e sulla credibilità, la coerenza della narrazione dei fatti da parte della persona interessata, è molto opinabile che una decisione di questo tipo possa essere presa senza un contatto diretto con l’interessato". E poi c’è l’abolizione del secondo grado di giudizio sempre con l’idea di accelerare i tempi. "Nessuna di queste nuove procedure è di per se incostituzionale - conclude Savio - il secondo grado di giudizio non è coperto dalla Costituzione, così come non incostituzionale il rito camerale, ma la sinergia di queste misure crea un sistema che lede fortemente il diritto alla difesa di persone che più di altre avrebbero bisogno di protezione e garanzie". Un’altra questione che sta destando molte perplessità è l’attribuzione del dovere di notifica ai centri di accoglienza: non sarà più la polizia a notificare al richiedente asilo la risposta positiva o negativa sulla sua richiesta di protezione, ma lo farà il responsabile della struttura dove si trova. "Noi siamo stati da subito molto critici su questa disposizione - afferma Manuela Di Marco operatrice legale del settore immigrazione Caritas Italiana - non è più chi prende la decisione a dare la notizia, ma chi accoglie. Ci fanno diventare dei vigili urbani, va molto oltre rispetto al ruolo di sussidiarietà in ambito di accoglienza che ci prendiamo in quanto società civile". Il responsabile riceverà la notifica tramite Pec dovrà comunicarla al richiedente ottenendo una ricevuta dell’avvenuta comunicazione. "Questo significa delegare a persone non competenti una funzione delicatissima - dice Di Marco - che se fatta male può avere conseguenze pesanti. Senza contare che l’ 80% dei richiedenti asilo si trova in centri di emergenza, i Cas (Centri Accoglienza Straordinaria), disposti direttamente dalle prefetture. A gestire i Cas non c’è solo il privato sociale ormai esperto nell’accoglienza come Caritas e altri, ma anche gli alberghi e i motel. Come farà l’albergatore a garantire la notifica?". Missione in Libia. "Nessuna ingerenza", ma anche nessuna certezza per i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 2 agosto 2017 Alfano e Pinotti: "Non intacca la sovranità di Tripoli". "Noi non opereremo da soli ma insieme ai libici decideremo da dove partire, dove andare, qualsiasi attività di supporto fare". Parlando davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, la ministra Roberta Pinotti fa molta attenzione nello spiegare come la missione navale che si prepara a partire per la Libia non rappresenti una ingerenza negli affari interni del paese nordafricano. Sottolineatura che serve soprattutto per rassicurare chi ascolta dall’altra sponda del Mediterraneo e utile a non creare pretesti che possano indebolire ulteriormente il leader libico Fayez al Serraj. Non a caso la ministra della Difesa ci tiene a lasciare aperte tutte le porte spiegando come Roma "riconosce il Governo di accordo nazionale di Serraj", ma "parliamo con tutti gli attori libici". Diplomazia che dovrebbe servire anche a spianare la strada alle nostre navi per quando si troveranno in acque libiche, o almeno a provarci. Detto questo, però, le audizioni della Pinotti e del collega degli Esteri Angelino Alfano poco e niente hanno aggiunto a quanto già si sapeva della missione, che questa mattina verrà votata delle aule di Camera e Senato. Le prime a partire saranno una nave logistica con a bordo personale in grado di riparare le motovedette libiche e una pattugliatore con gli ufficiali italiani che dovranno incontrare colleghi libici per mettere a punto i dettagli dell’operazione. "Si decide assieme quali sono le necessità e come intervenire", ha spiegato ieri Pinotti ribadendo come in ogni caso l’impegno italiano si limiterà ad azioni di "supporto e difesa" dei mezzi della Guardia costiera libica. Per questo, se necessario, verranno utilizzate le navi della missione "Mare sicuro" impegnate attualmente in acque non distanti da quelle libiche. E con le stesse regole di ingaggio di Mare sicuro che però "dovranno essere estese perché la missione diventa bilaterale". Se attaccati dagli scafisti i nostri militari potranno difendersi rispondendo al fuoco, e la stessa cosa potranno fare se a essere presi di mira saranno i mezzi della Guardia costiera libica. Inoltre è prevista la presenza a bordo dei fucilieri del battaglione San Marco o degli incursori della marina per la difesa delle navi quando si trovano in porto a Tripoli. Per quanto riguarda le questioni più operative, ovvero il contrasto dei barconi carichi di migranti, sembra di capire che le navi italiane staranno bene attente a non entrare direttamente in contatto con i disperati che fuggono dalla Libia. Più concretamente significa che grazie ai mezzi che hanno a disposizione - radar, satelliti, droni ed elicotteri -, i militari italiani sono in grado di individuare subito il punto di partenza di un barcone segnalandone la posizione ai libici e limitandosi a vigilare sull’operazione di recupero dei migranti. La cui sorte resta uno dei punti oscuri della missione. Nonostante le rassicurazioni del governo italiano, non c’è infatti nessuna garanzia che uomini, donne e bambini una volta recuperati dalle autorità libiche non finiscano in uno dei tanti centri di detenzione dove sono costretti in condizioni disumane. Non a caso ieri l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, è tornata a insistere con i governi italiano e libico perché garantiscano che "le persone salvate in acque libiche abbiano accesso ad una protezione adeguata". Oggi Camera e Senato daranno il via libera alla missione. Al voto contrario di Sinistra italiana si è aggiunto ieri quella della Lega nord (per il vicesegretario Giancarlo Giorgetti la missione "è una Mare nostrum 2 raffazzonato e confuso") e contro alla fine potrebbe votare anche il M5S. In forse il voto di Mdp. Ieri sera il movimento di Bersani si è astenuto nel voto in commissione e per oggi ha chiesto al governo chiarimenti su tre punti: il contesto internazionale nel quale si muove la missione, le regole di ingaggio e, soprattutto, sulla sorte dei migranti fermati. Non è escluso che alla fine possa smarcarsi dal governo votandogli contro. Stessa cosa, anche se con motivazioni opposte, potrebbe fare FdI. A favore, invece, Pd, Ap e Forza Italia. Migranti. Il codice del capro espiatorio di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 2 agosto 2017 Il codice di condotta delle Ong proposto - ma sarebbe meglio dire imposto - dal nostro governo, è un tentativo maldestro di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica, dall’incapacità dell’Ue, e dell’Italia, di trovare soluzioni giuste e praticabili alla crisi umanitaria che investe il vecchio Continente, alle attività delle organizzazioni umanitarie che hanno in questi mesi tratto in salvo il 40% delle persone sbarcate in Italia ricoprendo, in parte, la responsabilità pubblica di salvare vite umane nel Mediterraneo. Le regole per le navi che svolgono attività di ricerca e salvataggio in mare già esistono, e volerne imporre altre inserendole in un "Codice di condotta", suggerisce che le organizzazioni umanitarie non abbiano agito correttamente. L’obiettivo concreto continua a rimanere quello di bloccare i flussi, impedendo alle persone di mettersi in salvo, anche consegnandole alle bande che controllano il territorio e i porti libici, di cui è noto il comportamento criminale. Il precedente accordo con il regime di Erdogan dimostra che i nostri governanti non si fanno molti scrupoli quanto a conseguenze delle loro scelte sui diritti delle persone. L’importante è poter raccontare all’opinione pubblica, agli elettori, che si è fatto il possibile, magari riuscendoci, per impedire ai migranti di raggiungere le nostre frontiere. Anche mettendo in campo una vera e propria guerra contro i migranti, come ha deciso di fare il nostro governo. In questo quadro, il Codice di condotta per le Ong ripete disposizioni di legge già previste, indicando procedure normalmente applicate dalle navi delle organizzazioni umanitarie e introducendo alcuni elementi preoccupanti che puntano a limitarne l’operatività, criminalizzando le associazioni. La previsione di impegnare la polizia giudiziaria per operare indagini sulla presenza a bordo di eventuali scafisti, rappresenta un ulteriore elemento di criminalizzazione dei migranti nel momento in cui sono più vulnerabili, oltre che una inaccettabile volontà di controllo fuori dalle regole. Infine la richiesta di dichiarare le fonti di finanziamento a Ong che già pubblicano i bilanci on line serve solo a creare diffidenza nei loro confronti. In definitiva, questa del Codice si configura come un’operazione intimidatoria (verso le Ong) e di propaganda, che non risolverà certamente i problemi di scarsa autorevolezza del governo italiano nell’Ue e il cui unico effetto potrebbe essere l’aumento dei morti in mare. Di ben altro coraggio e intelligenza politica ci sarebbe bisogno, sia nella relazione con gli altri governi dell’Ue che nella gestione dei flussi straordinari. Chiedere all’Ue di attivare la Direttiva 55/2001, indicando finalmente la strada della condivisione e della solidarietà e non della chiusura e dell’egoismo nazionalista, aprire canali d’accesso legali e sicuri sottraendo le persone in cerca di protezione al ricatto dei trafficanti e mettere in campo un programma europeo di ricerca e salvataggio. Misure che darebbero finalmente centralità alla vita e alla dignità delle persone e credibilità al nostro Paese, isolando i predicatori d’odio e i razzisti di professione. Purtroppo una strada tutta diversa da quella imboccata dal nostro governo con questo "codice del capro espiatorio", con la criminalizzazione della solidarietà e la contestuale dichiarazione di guerra ai migranti. *Vicepresidente dell’Arci Migranti. Giro di vite: prima nave Ong bloccata a Lampedusa per controlli Corriere della Sera, 2 agosto 2017 La nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet,non ha firmato il protocollo. È stata bloccata al largo di Lampedusa dalla Guardia costiera, che l’ha scortata fino al porto. Primo giro di vite nei confronti delle Ong che soccorrono migranti nel Mediterraneo dopo il codice di comportamento predisposto dal Viminale, che è stato sottoscritto solo da tre organizzazioni. La nave Iuventa della ong tedesca Jugend Rettet, che non ha firmato il protocollo, è stata bloccata in nottata al largo di Lampedusa dalla Guardia costiera italiana, che l’ha scortata fino al porto dell’isola. ùDalla nave sono stati fatti scendere due siriani, che sono stati accompagnati nel Centro di prima accoglienza dell’isola. I due migranti erano stati trasferiti in precedenza a bordo della nave della ong tedesca proprio da una delle unità militari italiane impegnate nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo. Per scortare in porto la Iuventa sono intervenute diverse motovedette della Guardia costiera, con un grande spiegamento di forze dell’ordine anche sulla banchina. Il comandante della Capitaneria di porto di Lampedusa, il tenente di vascello Paolo Monaco, è salito a bordo della nave dove è rimasto per oltre due ore nella cabina di comando. "Si tratta di un normale controllo, che abbiamo fatto e che non comporterà alcun problema", ha spiegato l’ufficiale dopo essere sceso dalla Iuventa: "Ora controlleremo - ha aggiunto - i documenti di tutto l’equipaggio e già questa mattina potranno ripartire da Lampedusa se dagli accertamenti emergerà che tutto è in regola". La ong Jugend Rettet, fondata nel 2015 da giovani dell’alta e media borghesia tedesca che hanno scelto di salvare i migranti in fuga dalle guerre e dalla fame, aveva acquistato due anni fa la Iuventa nel porto di Endem, in Germania, trasformando quel vecchio peschereccio in una vera nave adatta a missioni di search and rescue. I dubbi sulla missione: "Difficile riportare i migranti a Tripoli" di Marco Ventura Il Messaggero, 2 agosto 2017 Si vota e si parte. Destinazione acque e porti libici. Obiettivo: contrastare i trafficanti di esseri umani e arginare l’esodo di migranti. I ministri della Difesa e degli Esteri, Roberta Pinotti e Angelino Alfano, hanno illustrato ieri nella Sala Mappamondo della Camera dei deputati i dettagli della missione navale a supporto della guardia costiera libica. E confermato che le nostre navi, non solo le prime due previste (un pattugliatore con a bordo il team di ufficiali che dovranno definire insieme con i libici la cornice dell’intervento, più un moto trasportatore costiero in funzione di officina galleggiante per la manutenzione dei mezzi libici), ma anche ulteriori unità del dispositivo Mare Sicuro già operante in acque internazionali, potrebbero essere chiamate nell’area in caso d’emergenza. L’area, spiega il ministro Pinotti, sarà pubblicamente definita dalle autorità di Tripoli come "Sar", ovvero il perimetro di mare da incrociare per la ricerca e soccorso, comunque a est e a ovest della (ex) capitale, "non perché saranno l’area esclusiva - precisa la Pinotti - ma perché queste sono le zone principali di partenza, da Sabrata, Zuara e Garabuli". Un’area che potrebbe estendersi, a seconda dei movimenti dei barconi verso l’Italia, "ad altri spicchi di mare, sempre in accordo coi libici". La premessa di fondo per entrambi i ministri è che l’uso della forza militare da parte italiana avverrà in pieno, rispettoso accordo con i libici del governo riconosciuto, quello di Fayyez Al Serraj, senza alcuna "lesione di sovranità" di Tripoli. Sulle regole d’ingaggio il ministro Pinotti conferma che saranno quelle già in vigore per Mare Sicuro ma aggiustate "tenendo conto che la missione diventa bilaterale". È invece il diritto internazionale che già autorizza la "legittima difesa per i nostri militari, estesa all’uso della forza limitato, graduale e proporzionale". In pratica, se uno scafista spara contro una nostra nave "possiamo rispondere e la stessa cosa vale se è a rischio una nave libica". Dice il ministro che "sulla sicurezza dei nostri militari non si deflette, daremo il massimo della protezione". Ma resta un’incertezza sulla destinazione dei profughi che non superano lo sbarramento navale (non un "blocco", precisano Pinotti e Alfano, che sarebbe "un atto ostile"): saranno raccolti, salvati secondo le leggi del mare, e portati in Italia, o saranno riportati in Libia. In base al principio del non respingimento, potrebbe non essere semplice sbarcarli là da dove sono partiti. Insorgono su questo punto la Lega e Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia. I 5 Stelle sembrano anche loro orientati a non dare fiducia alla soluzione navale. Oggi si vota in Aula la risoluzione, poi le prime navi arriveranno a destinazione per cominciare il lavoro. Intanto, il ministro Alfano sollecita l’istituzione in Libia di hotspot, "campi per rifugiati che siano all’altezza degli standard di dignità umana e del rispetto dei diritti umani sostenibili dalla comunità internazionale di cui facciamo parte". Alfano sottolinea che il 96 per cento dei migranti parte dalla Libia come paese di transito, non di provenienza, e che negli ultimi mesi si è registrata una "considerevole riduzione dei flussi diretti verso la Libia" dal resto dell’Africa, grazie alla cooperazione con Niger, Ciad e Sudan. Dal Niger, per esempio, si è passati da 7lmila persone nel maggio 2016, a poco più di 4.600 ad aprile di quest’anno. Dalla Libia, intanto, continuano ad arrivare notizie contrastanti. Il portavoce dell’operazione Bunian al Marsus, guidata dalle milizie di Misurata fedeli al governo di Al Serraj, Mohammed al Ghasri, ha denunciato il "tentativo di ritorno a Sirte di elementi dello Stato Islamico", che attualmente si trovano soprattutto a sud di Sirte e a ovest, vicino a Bani Walid, a quanto pare con circa 160 veicoli ben armati. La stabilizzazione del Paese è ancora lontana. Droghe. Stanze del consumo, è l’ora di Baltimora di Susanna Ronconi Il Manifesto, 2 agosto 2017 Con le Sif (Supervised Injection Facilities) la città individua il servizio che può dare un contributo a ridurre, insieme, overdose e altri danni correlati all’uso iniettivo, e avvia un dibattito. Gli Stati Uniti sono alla ribalta per quella rapida inversione di tendenza che li ha resi i protagonisti di un vasto processo di legalizzazione della cannabis che coinvolge numerosi Stati. Gli States restano però un paese di grandi contraddizioni, hanno infatti ripreso a sostenere la war on drugs dopo la parentesi della presidenza Obama e mentre si legalizza al contempo continua il bando contro i servizi di riduzione del danno (RdD) che altrove, in Europa per esempio, sono ormai acquisiti: per andarli a scovare bisogna leggere le iniziative delle organizzazioni della società civile, come accade per la distribuzione di naloxone o di siringhe. Una novità è rappresentata da alcune municipalità, che rivendicano un nuovo protagonismo, proprio come avvenne in Europa negli anni novanta. Già tra il 2014 e il 2015 il sindaco della cittadina di Ithaca, 30mila abitanti, Stato di New York, avvia un processo partecipato con la società civile e stila un documento programmatico, Piano Itaca. Un approccio di salute pubblica e di sicurezza su droghe e politica delle droghe che ha il merito di promuovere una alternativa dichiarata all’approccio law&order, affermando che i servizi orientati all’astinenza non sono tutto ciò che si deve fare e pianificando lo sviluppo della RdD, stanza del consumo inclusa (http://ungass2016.fuoriluogo.it/2016/02/27/626/). Oggi si appresta a muoversi in questa direzione anche Baltimora, Maryland, 700 mila abitanti e un’area metropolitana di oltre due milioni e mezzo di abitanti, con uno dei più elevati tassi di morti per overdose degli Usa, un aumento vertiginoso dell’uso problematico di fentanyl, una percentuale di persone Hiv positive tra i consumatori per via iniettiva che è il doppio di quella federale. La città individua nelle stanze del consumo (chiamate Sif, Supervised Injection Facilities) il servizio che può dare un contributo a ridurre, insieme, overdose e altri danni correlati all’uso iniettivo, e avvia un dibattito. Un variegato gruppo di esperti - da membri della polizia a esperti di salute pubblica, a ricercatori universitari, con il sostegno della British Columbia University di Vancouver - elabora uno studio costi/benefici, a supporto dei decisori locali. Vengono analizzate le ricadute di una eventuale Sif sul piano dei risultati sanitari (infezioni da Hiv e Hcv, overdose, altre infezioni e patologie correlate, ospedalizzazioni), e viene valutata la sua sostenibilità sul piano economico. Ebbene: in un anno una Sif previene 5,7 casi di Hiv e 21 di Hcv, 5,9 morti per overdose, e fa risparmiare 108 chiamate di soccorso, 78 visite e 27 ospedalizzazioni overdose-correlate, e 374 giorni di ospedale per patologie diverse correlate all’iniezione. In positivo, poi, l’attività della Sif porterebbe 121 consumatori verso i servizi. A fronte di questi risultati, in termini economici, al costo annuo del servizio - 1,79 milioni di dollari - fa riscontro un risparmio del sistema sanitario e sociale di 7,77 milioni: per ogni dollaro investito se ne risparmiano 4,35. Lo studio aggiunge che, oltre le cifre, ogni Sif porta con sé altri benefici rilevanti, quali il decrescere dell’uso in pubblico, della violenza di strada, del numero di siringhe abbandonate, facilita il protagonismo dei consumatori e il contatto con le popolazioni nascoste. A leggere questo rapporto viene in mente quante competenze abbiamo in Italia per uno studio simile. Eppure, non ne abbiamo visto mezzo. Cosa manca? Una regione o una città che abbiano il coraggio politico della razionalità. Egitto. Cittadino irlandese in carcere da quattro anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 agosto 2017 Quella di oggi è stata la 29ma udienza e, alle 21 ora del Cairo, ancora non si sa com’è andata. Probabile che anche questa volta si sia deciso di aggiornare il processo. Un processo di massa, che vede alla sbarra circa 500 persone, tra cui Ibrahim Halawa, cittadino irlandese nato il 17 dicembre 1995, arrestate il 13 agosto 2013, durante le manifestazioni della Fratellanza musulmana contro la deposizione di Mohamed Morsi. La buona notizia è che nell’udienza precedente la pubblica accusa ha terminato la sua requisitoria e oggi ha iniziato la difesa. Ibrahim e gli altri devono rispondere di omicidio, tentato omicidio, disturbo all’ordine pubblico, intralcio alle attività delle istituzioni nazionali, protesta senza autorizzazione, distruzione di beni pubblici, impedimento ai fedeli di pregare nella moschea Al Fath, possesso di armi, attacco alle forze di sicurezza. Ibrahim, figlio di uno dei più noti imam irlandesi, era partito da Dublino insieme alle sorelle Somaia, Fatima e Omaima per andare a trovare i parenti al Cairo. Lì decisero di prendere parte alle proteste della Fratellanza musulmana. In quelle manifestazioni, caratterizzate anche da numerosi atti di violenza da parte delle persone scese in strada, le forze di sicurezza egiziane fecero una strage. Le sorelle Halawa, dopo tre mesi di carcere, furono rilasciate ed espulse in Irlanda. Al rientro a Dublino, denunciarono le torture subite dal fratello, confermate anche dal giornalista di al-Jazeera Peter Greste, che ha condiviso con lui un periodo di detenzione nel carcere di Tora. In questi quattro anni di carcere, Ibrahim Halawa ha passato molto tempo in isolamento, senza poter incontrare un avvocato. Inoltre, a causa della mancanza di cure mediche, ha riportato una lesione permanente a una mano, colpita da un proiettile al momento dell’arresto. La vicenda di Ibrahim Halawa è paradossale: è accusato di aver preso parte agli scontri con la polizia in un luogo in cui non si trovava e di aver impedito l’ingresso ai fedeli nella stessa moschea nella quale a sua volta si era rifugiato per evitare di essere colpito, moschea poi sgomberata con la forza dai militari. Amnesty International Irlanda ha esaminato con estrema attenzione il caso ed è giunta alla conclusione che Ibrahim Halawa sia un prigioniero di coscienza. Non avrebbe mai dovuto essere arrestato. Invece, in carcere è diventato maggiorenne e chissà se riuscirà a celebrare, libero, nel paese dov’è nato, almeno il suo 22mo compleanno. Deriva autoritaria in Venezuela: arrestati i leader anti-Maduro di Alfredo Spalla Il Messaggero, 2 agosto 2017 Prelevati nella notte e portati in carcere Leopoldo Lopez e Antonio Ledezma. Le opposizioni accusano il presidente. Nuovo colpo all’opposizione venezuelana. Leopoldo López e Antonio Ledezma, fra gli esponenti di spicco del panorama anti-governativo, sono stati prelevati con la forza dalle loro case, dove stavano scontando gli arresti domiciliari. L’azione è stata compiuta dal Sebin (il servizio bolivariano d’intelligence nazionale, ndr) su ordine della Corte Suprema, anche se non è difficile rintracciare una volontà politica nella revoca dei domiciliari. "Se succede qualcosa ai nostri cari, riterremo responsabile Maduro", hanno accusato i parenti di López e Ledezma attraverso i social. Entrambi sarebbero stati condotti nel carcere militare di Ramo Verde, dove avevano già scontato parte delle loro pene. Il premier Gentiloni - tramite twitter - ha definito "inaccettabile l’arresto dei leader dell’opposizione", ribadendo che "l’Italia è impegnata contro il rischio dittatura e guerra civile". Un appello subito seguito dal messaggio di Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo: "Condanno con forza la costante violazione dei diritti umani in Venezuela. Arresti ingiustificati di Ledezma e López". Il Tribunale ha giustificato la sospensione per "inadempienza delle condizioni imposte dagli arresti domiciliari". La Corte Suprema, citando fonti d’intelligence ufficiali, ha inoltre prospettato la possibilità di una "fuga dei due cittadini". La spiegazione più plausibile, però, è quella di carattere politico. López - condannato a 14 anni per aver istigato le rivolte del 2014, in cui ci furono 43 morti, 600 feriti e oltre 3500 arresti - era tornato nella propria abitazione lo scorso 8 luglio. Un segnale d’apertura da parte del governo Maduro, subito tornato sui suoi passi dopo aver ottenuto l’elezione di un’assemblea Costituente, che avrà il principale compito di fornirgli più poteri per scavalcare il congresso in mano all’opposizione. Nel corso degli arresti domiciliari, López aveva diffuso dei video sui social per incentivare le manifestazioni anti-Maduro. Una violazione inaccettabile per il fronte governativo. "Bisogna evidenziare che le condizioni imposte a López non gli permettono di realizzare nessun tipo di proselitismo politico. Questo - ha spiegato la Corte Suprema - in ragione della sentenza che pende su di lui e che ha come pena accessoria l’inabilitazione politica per il tempo della pena". Il nuovo arresto di López è stato comunicato dalla moglie, Lilian Tintori: "Si stanno portando via Leopoldo. Non sappiamo dove. Maduro è responsabile se gli accade qualcosa". Juan Carlos Gutiérrez, l’avvocato di López, ha però parlato di una "decisione arbitraria". "Le sue condizioni erano chiare: non uscire dalla residenza e non rilasciare dichiarazioni ai mezzi di comunicazione. Si tratta di una ritorsione politica", ha detto il legale alla Bbc. Ledezma, detenuto dal 2015 per cospirazione politica contro il governo Maduro, è stato invece portato via perché doveva "astenersi dal rilasciare dichiarazioni tramite qualsiasi mezzo". Ledezma aveva pubblicato un video sui social criticando sia il governo chavista che la Mud, il polo delle opposizioni, per la mancanza di un progetto realmente condiviso. Intanto, il clima resta teso nel paese sudamericano: l’opposizione venezuelana e le principali democrazie internazionali non riconoscono il risultato per le elezioni dell’assemblea Costituente. Il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato Maduro, poiché a suo dire "vuole riscrivere la Costituzione e imporre un regime autoritario al popolo venezuelano". Una misura apparentemente ignorata dal leader di estrema sinistra, che si è detto "orgoglioso" della sanzione che bloccherà i suoi beni negli Usa e gli impedirà di fare transazioni con cittadini e/o imprese statunitensi. La polarizzazione politica e sociale rischia di peggiorare il bilancio di oltre 120 vittime dall’inizio delle proteste dell’aprile scorso. Turchia. Erdogan inizia i maxiprocessi: 500 militari alla sbarra di Carlo Panella Libero, 2 agosto 2017 Tayyp Erdogan si gusta con freddezza la sua irrefrenabile voglia di vendetta per il tentativo fallito di golpe del 15 luglio 2016 con un maxi processo iniziato ieri ad Ankara contro ben 486 imputati. Il più importante, accusato di essere l’ideologo, l’organizzatore del tentato golpe, l’ideologo islamista Fetullah Gülen è contumace, perché da anni risiede negli Stati Uniti che sinora - giustamente si sono rifiutati di concederne l’estradizione, nonostante le roboanti richieste di Erdogan. Contumaci sono anche tre alti ufficiali dell’aviazione che si sono rifugiati in Germania il giorno dopo il fallito golpe. Anche con la Germania Erdogan è ai ferri corti perché - per palese volontà del governo di Angela Merkel - si rifiuta di concederne l’estradizione. Questo processo - altri l’hanno preceduto e lo seguiranno - riguarda essenzialmente i militari della base aerea di Akinci, dalla quale presero il volo gli F16 che avevano - secondo l’accusa - l’obiettivo di uccidere Tayyp Erdogan e che bombardarono il palazzo presidenziale. Tra i 486 imputati, che sono stati accolti da un pubblico inferocito che ne chiedeva morte, il più importante è infatti l’ex comandante dell’aeronautica Akin Ozturk, che avrebbe diretto le operazioni nella base aerea di Akinci, il leader religioso Adil Oksuz, noto come l’imam del golpe e anche lui in fuga, l’imprenditore Kemal Batmaz, accusato di aver sostenuto il predicatore Oksuz. Gli imputati sono accusati di aver "violato la Costituzione, cercato di assassinare il presidente Erdogan, tentato di abolire il governo, gestito un’organizzazione terroristica armata, sequestrato di una base militare, omicidio, tentato omicidio e di sequestro di persona". Più volte, subito dopo il fallito golpe, Erdogan ha minacciato di volere reintrodurre in Turchia la pena di morte, appunto per punire con la massima crudeltà i golpisti. Sinora non l’ha fatto, anche per le durissima risposta dell’Unione Europea, ma è certo che il processo - che durerà pochissimi giorni, perché è previsto che le udienze termineranno il 29 agosto - verranno condannati con decine, forse centinaia di ergastoli. Al di là di questo processo sono impressionanti le cifre della repressione di massa voluta e pilotata da Erdogan: sono 29.464 i dipendenti pubblici sospesi, compresi poliziotti e uomini delle forze di sicurezza; 21mila docenti di scuole private si sono visti revocare l’abilitazione all’insegnamento; 7.899 soldati sono detenuti, mentre sono 103 i generali e gli ammiragli arrestati; 950 i civili arrestati. Sale dunque a 9.322 il totale delle persone finite alla sbarra con l’accusa di tradimento, o per sospetti legami con Gülen. Nel mirino sono finiti anche i 1.577 rettori di tutte le università pubbliche e private turche, sollevati dai loro incarichi, le cui dimissioni sono state chieste dal Consiglio per l’educazione superiore. Il Consiglio Supremo radiotelevisivo ha poi annullato le licenze a tutte le emittenti radio-televisive che hanno sostenuto la notte del 15 luglio l’azione dei golpisti.