La linea sottile tra legge e giustizia di Roberta De Monticelli Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017 Ci sono momenti in cui si può arrivare a disperare che attenzione, conoscenza dei problemi, onestà e logica siano d’aiuto nelle discussioni sui fatti della vita politica e civile. Questi momenti sono molto bui, perché queste discussioni sono la microstruttura delle democrazie, il loro tessuto cellulare. Se le cellule impazziscono, sappiamo cosa accade all’organismo. Cito due esempi, come due icone in cui si contemplano tutti insieme i grandi problemi attuali della convivenza civile: entrambi hanno a che vedere con la grande questione delle migrazioni. La discussione intorno a queste icone sembra in questi giorni impazzita. Un momento iconico recente è stata una frase di apparenza paradossale, come "reato umanitario", con cui un magistrato inquirente si riferì al presunto comportamento dei responsabili di una nave Ong nei pressi della costa libica. Aveva ben chiarito il senso delle sue parole: una certa azione costituisce effettivamente una violazione di leggi o normative di rilievo penale e perciò si chiama "reato". Ma può essere compiuta per motivi del tutto estranei al vantaggio personale, per motivi nobili e altruistici, come una causa umanitaria. Ebbene: dov’è lo scandalo? Mettiamo fra parentesi la questione se così sia avvenuto. Ma è lecito negare che sia una possibilità logica? È lecito, voglio dire, se si fa attenzione al senso delle parole, si ha una conoscenza anche minima del diritto, della morale e della storia - e rispetto per la logica? Come avrebbero potuto esistere gli obiettori di coscienza? E Socrate, per cosa sarebbe vissuto e morto? E sottolineo: morto. Accettando le conclusioni della legge che era accusato di violare. E allora perché quasi all’unisono alcuni fra gli scrittori, oratori, commentatori che hanno più presenza, e spesso nobile, nel dibattito pubblico, hanno profuso sarcasmo e sdegno sull’idea stessa? Come se non fosse una verità possibile, ma un vituperio lanciato contro avversari politici. Una visione anti-umanitaria del mondo. La vedi così perché sei di destra. Io invece sono di sinistra. Ma questo è terribile: perché che si possano commettere reati anche per ragioni nobili è vero, e crederlo non dipende dalle fedi politiche. Se non fosse vero, allora delle due l’una: o nessuna legge sarebbe mai sbagliata, ingiusta, da correggere. Misura della giustizia sarebbe solo il diritto positivo esistente. Oppure la nobiltà dell’intenzione dispenserebbe dall’osservanza di qualunque legge ostacoli l’intenzione. Anzi renderebbe superflua qualunque regolamentazione (tanto per riferirsi concretamente a quella tentata dal Codice Minniti). Entrambi i corni dell’alternativa segnano l’impazzimento del codice genetico stesso di una democrazia: la distinzione fra etica e diritto. Proprio perché questa distinzione c’è, è possibile che alcune leggi esistenti siano ingiuste, e quindi vadano cambiate. Ma, di nuovo per questa distinzione, vanno cambiate nel rispetto delle leggi, cioè per vie politiche. Non basta fregarsene. Oppure è tutto il concetto e il valore della legalità che si rigetta. Però la legge del cuore e la rivoluzione non stridono un pò con l’accettare tutte le altre regole che tutelano i nostri diritti, anche quello di discuterle e cambiarle? Un’altra icona di questi giorni è una piazza di Roma sgomberata dai migranti che vi dormivano. Sta in mezzo alla coscienza di chi ne ha una, come anche il palazzo sgomberato prima, esempio di cento altri edifici abusivamente occupati, come la tendopoli pietosamente organizzata accolta dai frati minori sotto i portici quattrocenteschi della basilica dei Santi Apostoli. Degnissimo esercizio di pietà cristiana anche questo. Ma, di nuovo: non è anche suolo pubblico, quello? E se lo è, sarebbe lecito occuparlo con delle tendopoli? Ora, naturalmente, la sommessa domanda è in chi scrive subito tacitata dalla gratitudine per i frati minori: ma la struttura logica della riflessione, salva l’empatia verso le ragioni cristiane, è la stessa. Si possono commettere infrazioni per nobili motivi. Magari anche violenze, come le occupazioni abusive di edifici? Certo che si può. Ma non si dovrebbe. E dunque la cosa più urgente è accertare le responsabilità e le inadempienze di ciascuno. Se siamo per l’accoglienza, dobbiamo in primo luogo chiedere che siano approntati i mezzi legali per farvi fronte: alloggi non rifiutabili e rigorosi percorsi di integrazione. Se invece punti il dito su Nessuno o lo Spirito del Mondo, e lo accusi di farci credere che "la povertà è una colpa" (editoriale di Repubblica, 26.07), e poi come ai tempi dei Borboni te la prendi con "gli sbirri", nasce allora il dubbio che anche tu, caro amico, di logica, etica e legalità te ne freghi. Basta la politica. Ti basta sottintendere: io sono di sinistra, tu di destra (e giù insulti, sui social). Solo che non c’è società più marcia di quelle dove la politica si riduce a questo. Processo penale, come la società può influenzare le scelte dei giudici di Luca D’Auria Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017 La giustizia penale non è un corpo estraneo alla società ed alle sue dinamiche più profonde. Pensare il contrario sarebbe un grave errore; almeno decisivo come quello di ammettere questa osmosi continua tra processo e società, senza però comprendere quali siano le pulsioni che realmente contraddistinguono l’epoca di riferimento. Sarebbe, ad esempio, fuorviante pensare che, in questi decenni, la scienza "la faccia da padrone" e per questo il processo si debba avvalere di essa e degli strumenti più sofisticati dalla medesima perché "scientificamente certi". Su tutti la genetica con la prova del Dna. Questo errore prospettico causa proprio lo scivolamento a cui stiamo assistendo e cioè pensare che quando si introduce la genetica nel processo, si introduce la scienza e in specie quell’assodata certezza secondo cui il patrimonio genetico di ciascuno è unico e personale. Capire quale sia l’istanza fondamentale di oggi vuol dire anche non cadere in questa trappola. Il mondo di oggi è, non già quello della scienza (che pure riveste un ruolo importante) ma quello della tecnica, cioè di strumenti che possono avere alle spalle un loro paradigma scientifico ma che rappresentano, piuttosto, una declinazione pratica, umana e gestita dall’uomo di metodi scientifici. La differenza tra tecnica è scienza è dunque radicale ed irriducibile: la certezza (quando c’è) della scienza non ha nulla a che vedere con la natura "umana" della tecnica. La scienza è quella che scopre le proprietà che permettono alla mongolfiera di volare; la tecnica è come la mongolfiera viene guidata e detta le condizioni che, di volta in volta, debbono essere affrontate. L’essere umano di oggi, affidandosi alla tecnica per dare maggiore certezza alla sua evoluzione culturale antropologica, utilizza la tecnica in un campo sempre più vasto di "saperi", tra cui il processo. Quello di cui l’homo faber non si accorge è che tra tecnica ed evoluzione culturale si è scatenata una guerra di civiltà in cui la prima sta erodendo, fagocitando e nullificando la seconda. Come se l’essere umano accettasse la compressione e la distruzione della propria evoluzione, pur di non perdere tracce di tecnica. Il processo è la cartina di tornasole di tutto questo. A fronte di una legislazione che presuppone una serie assai corposa di norme che garantiscono il migliore accertamento, l’avvento della tecnica ha nullificato tutto questo, riportando le lancette del tempo culturale-processuale ad epoche che si ritenevano superate. Oggi la regola imporrebbe una strada e la tecnica ne desertifica ogni valore ed istanza, in nome del risultato, qualunque esso sia. L’evoluzione culturale vuole che l’accusa raccolga le prove e le presenti alla difesa. Questa, a sua volta può verificarle. A seguito di questa dialettica gnoseologica, un giudice, terzo e imparziale, decide. La tecnica cancella tutto ciò: la possibilità per l’accusa di valutare la capacità probatoria degli elementi a disposizione ed il diritto alla contro-prova per la difesa. Di conseguenza mette il giudice nella posizione di chi decide su dati del tutto virtuali ed assunti come veri o non veri sulla base di un atto di fede. In questo consiste lo scontro di civiltà, da un lato la tecnica a cui la civiltà culturale ha chiesto un aiuto, dall’altro la tecnica stessa, che spazza via ogni baluardo di evoluzione culturale, offrendo un risultato incompatibile con le regole su cui si fonda la vita di colui che ha richiesto il suo intervento. Oggi, il Dna è "visto" solamente dal tecnico che assume di repertarlo. È conservato solamente dal tecnico che assume di averlo conservato; è analizzato solamente dal tecnico che assume di averlo analizzato; è valutato solamente dal tecnico che assume di averlo valutato. Chiunque faccia parte del mondo che quel dato deve gestire (magistrati, avvocati, ecc.) è tagliato fuori da ogni possibile intervento. In questo scontro di civiltà, la civiltà giuridica non ha nessuna "coscienza di classe" ed è incapace di reagire, facendo valere le proprie istanze di giustizia. Il magistrato si piega supinamente a questa sconfitta pur di ottenere il risultato processuale. L’avvocato avanza attacchi frontali all’accusa, che divengono delle battaglie di retroguardia. L’ulteriore effetto perverso è che, complice la tecnica, la regola, che dovrebbe rappresentare il limite ed il baluardo contro l’ingiustizia ed i soprusi, si correda sempre più di nuove garanzie che, al lato pratico, divengono dei simulacri utili solamente a dare voce a un vacuo dissenso processuale, senza che però questo possa realmente trovare una forma dialettica utile all’accertamento. Questa è la triste fine fatta dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione, che vuole il contraddittorio come mezzo di formazione della prova, così come della riforma dell’indagine difensiva e di tutte quelle disposizioni che vengono genericamente definite "garantiste". Laddove l’unica garanzia che salvaguardano è quella di un teatrino delle marionette di stampo pre-inquisitorio. Almeno, al tempo della tanto vituperata inquisizione, l’accusato era fisicamente portato davanti al Santo Uffizio e al tribunale che doveva giudicarlo. Oggi il Dna fantasma e la tecnica fantasma bypassano anche questo rito. Come sostenuto dal genetista forense Marzio Capra, tutto ciò non ha nulla di scientifico, atteso che la scienza, da Newton e Galileo in avanti, vuole la ripetibilità dell’esperimento e il confronto delle tesi. Ecco quindi che le vicende di Bossetti e di Rosa Bazzi e Olindo Romano diventano dei momenti di verifica dello scontro tra civiltà della tecnica e civiltà del diritto. Da queste vicende scaturisce il futuro di questa battaglia che non può vedere il mondo giuridico arroccato in retroguardia, con la magistratura che si trincera dietro la propria interpretazione delle regole e l’avvocatura, di converso, che gioca una sua partita giuridica solitaria e donchisciottesca. Questa è la battaglia campale in atto nella nostra società, quella tra una tecnica trabordante e un’evoluzione culturale oramai arresa alla propria autodistruzione. Questo vale in tutti campi, nella politica (contro le tecnicalità dell’economia) come nella creazione (contro le tecnicalità della digitalizzazione massiccia). È lo specchio di quanto preconizzato dal filosofo ungherese Lukacs quando parlava di "idiotismo specialistico". "Eccessi nelle indagini sulla politica, il giustizialismo viene anche da lì" di Errico Novi Il Dubbio, 29 agosto 2017 Intervista a Mariarosaria Guglielmi, Segretaria di Magistratura Democratica. Mariarosaria Guglielmi, segretaria di Md (Magistratura Democratica, cioè la corrente di sinistra delle toghe) nei giorni scorsi aveva aperto una polemica contro una parte della magistratura, quella che persegue le Ong. Con questa intervista va molto oltre e afferma il garantismo come valore fondante della giurisdizione e come principio al quale la magistratura non può rinunciare. "L’Anm - spiega - deve continuare ad essere il luogo dove la magistratura porta avanti questo impegno comune per la giurisdizione e il dialogo sui diritti e sulle garanzie con l’avvocatura, raccogliendo oggi la grande sfida che le parole dell’avvocato Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente". C’è una magistratura consapevole, preoccupata, capace di autocritica e di non guardare alla sola ricerca del consenso in vista delle elezioni al Csm. Mariarosaria Guglielmi, pm a Roma e giovane segretaria di Magistratura democratica, è un esempio di questa vigilanza che le toghe non hanno affatto smarrito. Ammette una "responsabilità" rispetto a "errori ed eccessi, che non sono mancati, anche nelle indagini condotte nei confronti della classe politica", e agli "effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti giustizialisti". Riconosce però anche il ruolo che la magistratura può continuare ad avere "nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza e il presidio dei diritti fondamentali", anche "nel dialogo con l’avvocatura". A tal proposito, Guglielmi ricorda "la grande sfida che le parole dell’avvocato Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare ‘ una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmentè". Dottoressa Guglielmi, in un suo intervento su Repubblica della scorsa settimana, lei ha indicato il rischio di un pregiudizio diffuso nei confronti dei deboli, innanzitutto dei migranti. Pregiudizio che, secondo la sua analisi, si riflette in alcune scelte politiche non condivisibili, che viene amplificato dai media e che fatalmente si radica nell’opinione pubblica. Crede che questo fenomeno abbia un legame con il diffondersi di un generale atteggiamento giustizialista? C’entra qualcosa anche la continua caccia al colpevole alimentata da alcune trasmissioni televisive? Quando in materia di giustizia e di diritto penale si ricorre alla demagogia e alle sue semplificazioni si rischia di smarrire la consapevolezza dei valori complessi, come quelli del garantismo, di invocare la pena a tutti i costi, di non riconoscere il carattere relativo della verità processuale. Le semplificazioni del giustizialismo non distinguono però fra soggetti "deboli" e soggetti "forti". È vero il contrario: nella logica giustizialista, le garanzie diventano inutili formalismi sia quando si chiede di punire e così di neutralizzare il nemico sociale, il migrante ma oggi anche il povero, sia quando ai giudici si chiede di "vendicare" i torti che abbiamo subito ad opera del "potente" di turno. Parliamo insomma di una categoria che precede altri sentimenti collettivi di base. Un momento. Il giustizialismo vuole i suoi nemici dichiarati ed è l’altra faccia delle scelte di politica criminale che li costruisce. Scelte che in tema di immigrazione hanno prodotto il reato di clandestinità con la finalità di esprimere il massimo disvalore rispetto al migrante "irregolare" e criminalizzare la persona in quanto tale. La conferma della cifra ideologica di questo reato è nelle ragioni dichiarate per le quali, preannunciata ed invocata anche da esponenti politici di rilievo, la sua abrogazione è stata rinviata: ragioni di "opportunità" per non inviare all’opinione pubblica un "messaggio negativo per la percezione di sicurezza". Ancor più che il pregiudizio, queste scelte tradiscono la logica del nemico, che oggi riconosciamo nel linguaggio e nei contenuti del dibattito pubblico sull’immigrazione e che porta a scelte di "esclusione", anche quando contrarie a principi elementari di civiltà giuridica, mi riferisco alla riforma sulla cittadinanza, come risposta al senso di insicurezza e di paura della collettività. Fino a che punto un certo atteggiamento giustizialista può essere stato innescato da alcuni possibili eccessi dell’azione penale - e delle sue proiezioni mediatiche - condotta negli ultimi anni nei confronti della classe politica? La magistratura non deve mai fare sconti a se stessa nel riconoscere le sue responsabilità, nell’analizzare le cause dei suoi errori ed eccessi, che non sono mancati anche nelle indagini condotte nei confronti della classe politica, e sugli effetti avuti nella diffusione di atteggiamenti giustizialisti. Questo le consente di rivendicare credibilmente il ruolo svolto nella tutela e nella riaffermazione della legalità nel nostro paese, come valore della nostra democrazia, e che ne ha fatto un argine alla crisi di sfiducia che ha investito le istituzioni. Con la capacità di autocritica, l’attenzione alle garanzie, la consapevolezza dei limiti della propria funzione, la magistratura deve oggi confrontarsi con i rischi delle nuove forme del populismo giudiziario e con i sentimenti dell’antipolitica che alla magistratura chiedono di attribuirsi e di interpretare il ruolo di unica istituzione sana dal paese. Un ruolo molto rischioso, che ci porta fuori dal recinto del confronto istituzionale nel quale nessuno può scegliersi gli interlocutori e tutti sono obbligati a riconoscersi reciproca legittimazione. Lei rappresenta un importante gruppo associativo di magistrati progressisti, e in un momento culturalmente difficile come questo vi fate carico di sollevare dinanzi all’opinione pubblica i rischi dell’indifferenza nei confronti dei più deboli. A proposito di quegli eccessi in cui si è imbattuta l’azione penale, avverte una qualche responsabilità indiretta, come magistrata e come magistrata progressista, rispetto al maturare di quest’indifferenza? Anche all’ultimo congresso di Bologna del 2016 Magistratura democratica ha ribadito il senso del suo impegno nella società e nella giurisdizione a favore dei diritti e delle garanzie. Un impegno che tutta la magistratura progressista rappresentata da Area democratica per la giustizia deve portare avanti nel dibattito associativo e nell’autogoverno per contrastare chiusure e derive corporative, per favorire una crescita collettiva della magistratura con l’attenzione ai valori costituzionali della giurisdizione. Questo impegno nasce anche dalla consapevolezza delle nostre responsabilità per aver subito e in parte assecondato il ripiegamento della magistratura verso forme di neocorporativismo, a scapito dell’attenzione sulle tematiche della giurisdizione, e di dover recuperare una forte capacità di autocritica e di vigilanza anche rispetto a scorciatoie e a prassi discutibili sulle quali si misura, in concreto, la tenuta del sistema delle garanzie. Al di là del ruolo svolto dalla giustizia penale, il giustizialismo e l’indifferenza di parte dell’opinione pubblica rispetto al dramma degli ultimi ha un legame con lo smarrimento per l’oggettiva incapacità della classe politica di fornire risposte al disagio diffusosi con la crisi? Giustizialismo, populismo, smarrimento e indifferenza dell’opinione pubblica per il dramma degli ultimi sono espressione di un’emotività che si nutre della tensione sociale generata dalla perdita di diritti e di tutela. Nell’epoca delle nuove diseguaglianze, nuovi perdenti si sentono contrapposti ad altri perdenti, soggetti deboli e senza diritti, come i migranti; si rivendica il diritto ad escludere gli altri; si perde il senso di appartenenza ad una comunità nella quale i valori di eguaglianza equità e solidarietà sono valori unificanti e base della coesione sociale. Un’emotività cresciuta nel vuoto lasciato dalla rinuncia della politica a governare i cambiamenti prodotti dalla crisi economica e a porre rimedio all’aggressione allo stato sociale e ai diritti dei lavoratori. E che oggi è il fuoco sul quale soffiano populismi e nazionalismi. Il giustizialismo e l’indifferenza posso essere intravisti anche dietro comportamenti come quello del funzionario di polizia che ha invitato a spaccare un braccio ai senzatetto che si fossero opposti allo sgombero? Nell’intervista rilasciata qualche tempo fa il capo della Polizia dottor Gabrielli ha parlato dell’importanza di accertare le responsabilità "sistemiche" per i gravi fatti del G8, al di là di quelle individuali, e di comprendere quel che rende inaccettabile in uno Stato di diritto ogni atto di violenza da parte di chi detiene il monopolio della forza pubblica a tutela della collettività. Gabrielli ha parlato di un tradimento della fiducia dei cittadini verso le istituzioni, al quale si può rimediare non solo sanzionando chi ha sbagliato ma con una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, che può restituire ai cittadini il senso di appartenenza ad una collettività. Uso questi stessi parametri per una valutazione sui fatti di Roma: al di là di quel che ha motivato la condotta di singoli, che è oggetto di verifica nelle sedi opportune, ciò su cui dobbiamo riflettere sono le responsabilità sistemiche per una strategia di risposta, in termini di ordine pubblico e di ripristino della "legalità formale", a situazioni che ci pongono di fronte agli effetti di una esclusione dai diritti. Sono scelte coerenti con l’emotività dei nostri tempi che trasforma il povero, come il migrante, in una minaccia da neutralizzare e in espressione di disordine sociale, alla quale si risponde non eliminando le cause della marginalizzazione ma ciò che la rende visibile. A breve l’Anm celebrerà un congresso in cui discuterete anche di immigrazione. La posizione sua e del suo gruppo è chiara. Crede che possa risultare anche prevalente all’interno dell’Anm? La giurisdizione, cito Luigi Ferrajoli, può essere un luogo di garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e perciò dei soggetti più deboli, solo se sorretta da un forte impegno collettivo della magistratura nella difesa dei principi costituzionali, come l’indipendenza dei giudici e il loro ruolo di garanzia dei diritti fondamentali. L’Anm deve continuare ad essere il luogo dove la magistratura porta avanti questo impegno comune per la giurisdizione e il dialogo sui diritti e sulle garanzie con l’avvocatura, raccogliendo oggi la grande sfida che le parole dell’avvocato. Mascherin ci hanno consegnato: avvocatura e magistratura su questo terreno possono diventare "una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente". L’Anm si è sempre impegnata sulle tematiche dell’immigrazione, intervenendo anche sulle criticità della recente riforma dei procedimenti in materia di protezione internazionale. La comune consapevolezza dell’importanza dei valori in gioco in questo ambito è la base della quale parte il confronto interno alla magistratura e ciò che può unire intorno al tema dei diritti le diverse sensibilità culturali. In una recente intervista al Dubbio il consigliere Morosini ha segnalato il rischio di una eccessiva preoccupazione per la carriera, che allontani i magistrati dalle grandi questioni della tutela dei diritti: quel rischio esiste davvero? L’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario è stata vissuta dalla magistratura come una soluzione di compromesso rispetto all’ originario progetto Castelli ma, al tempo stesso, come una sfida lanciata dal legislatore per un progetto di autoriforma, che il sistema di autogoverno ha raccolto, impegnandosi sulle valutazioni di professionalità e realizzando un effettivo rinnovamento della dirigenza. Una sfida anche culturale per la magistratura, che imponeva il superamento del principio della carriera intangibile e della visione della dirigenza come premio di fine carriera. Ma proprio Morosini rileva, tra l’altro, le disfunzioni prodotte dal ricorso a una discrezionalità che, per non apparire arbitrio, deve rifarsi a qualche parametro "certificabile" e finisce però così per dare un enorme peso alle valutazioni dei dirigenti... Il buon uso dell’ampia discrezionalità attribuita al Csm in materia di nomine richiede un livello alto di tutto il sistema di autogoverno: fonti di conoscenza e di valutazioni attendibili; impegno nel rendere conto, anche attraverso motivazioni trasparenti, del modo in cui si esercita la discrezionalità e dello sforzo di conformarla ai criteri che devono orientarla. Su questo aspetto la sfida non può dirsi certamente vinta e le criticità emerse nell’esercizio della discrezionalità sono oggi al centro del dibattito associativo. A distanza di dieci anni dalla riforma si colgono i segni di nuove dinamiche di carrierismo e del ritorno a vecchie logiche corporative, assecondato dalla mancanza di un adeguato investimento sulle "leve" dell’autogoverno che avrebbero dovuto scardinarle, come le valutazioni e le conferme quadriennali. Una magistratura concentrata sulle prospettive di avanzamento e di conservazione della carriera è una magistratura autoreferenziale e non pienamente consapevole del suo ruolo, che distoglie lo sguardo dalle tematiche dei diritti e della giurisdizione e, in vista della carriera, è indotta anche a fare scelte di conformismo giurisprudenziale. E qui la sua analisi è assai vicina a quella di Morosini.... Aggiungo che da questa fase dobbiamo uscire non pensando a scelte rinunciatarie ma rilanciando la "sfida". La complessità dei compiti legati alla dirigenza degli uffici e le ricadute delle scelte organizzative sulla qualità della giurisdizione e sull’efficienza del servizio per la collettività oggi più che in passato richiedono il nostro impegno per tornare a promuovere nell’autogoverno un modello culturale di dirigenza come funzione di servizio. Nell’autogoverno la magistratura deve essere in grado di assicurare un esercizio trasparente della discrezionalità, che renda riconoscibili i criteri di valutazione adottati. Reintrodurre forme di selezione ancorate al solo criterio automatico dell’anzianità senza demerito rischia di riportarci al vecchio modello di dirigente "buon padre di famiglia" e di restituire valore proprio a quelle "certezze" di carriera di cui oggi la magistratura sente troppo fortemente il bisogno. Abusivismo. De Luca sfida Orlando: "Inasprire le pene" La Repubblica, 29 agosto 2017 Dopo il terremoto di Ischia sull’abusivismo c’è stata "una campagna di mistificazione intollerabile" secondo il governatore Vincenzo De Luca che ha parlato in conferenza stampa. "La legge regionale non parla mai né di condono, né di sanatoria, né di abuso di necessità", ha sottolineato. "La lotta all’abusivismo si fa prevedendo tre anni di carcere per chi costruisce abusivamente, la sospensione dei funzionari che autorizzano l’allaccio utenze e l’espulsione dalle attività economiche delle imprese che costruiscono". Lo ha detto Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania nel corso di una conferenza stampa convocata per rispondere alle accuse del "ministro della Giustizia che si presenta come campione della battaglia contro l’abusivismo", ha affermato in risposta alle critiche avanzate alla Regione Campania dal guardasigilli in un’intervista a Repubblica. Dopo il terremoto di Ischia del 21 agosto "il dibattito pubblico - per De Luca - ha assunto carattere di assoluta confusione e volgare demagogia e strumentalizzazione, in relazione alla legge approvata dalla Regione". Legge, rinviata alla Consulta, che consentirebbe l’acquisizione al patrimonio comunale degli abusi che non si riescono a demolire. "L’unico a proporre una sanatoria è stato il ministro della giustizia - ha aggiunto De Luca - La nostra norma è 10 volte più rigorosa mentre quella che propone lui è tollerante". Il ministro aveva già bocciato l’idea del presidente della Campania di prevedere il carcere per chi commette abusi "ma così facendo - risponde il governatore - confessa che lo stato è impotente e che le misure penali non possono essere applicate. È scandaloso. Con una pena bassa si ha di conseguenza una sospensione della pena. Questo sarebbe il motivo per rinunciare a esercitare l’azione penale? è scandaloso e sconcertante". "A giorni verrà nominato un commissario per Ischia. Mi auguro sia una figura tecnica che stia lì 24 ore su 24 a Ischia. Occorre fare chiarezza su confusione sconcertante: lo Stato demolisca gli immobili in zone di vincolo assoluto, realizzati da camorra o in zone a rischio idrogeologico. In zone interne possono essere acquisiti al pubblico e messi in graduatoria". Così il governatore Vincenzo De Luca a margine della conferenza stampa. "La discriminante è tra parlatori e chi fa, no all’Italia del mezzo mezzo e di chi fa finta, quella che grida contro l’abusivismo e poi non muove un dito. Abbiamo ricevuto un’eredità drammatica dai decenni alle spalle: in questi 25 anni di demolizioni se ne saranno viste alcune, che si contano sulle dita di una mano. Primo obiettivo: ripristinare la verità. Secondo: chiarimento sulla nostra legge regionale e le strumentalizzazioni da esponenti del Governo. Terzo: siamo noi che sfidiamo il mondo politico, Governo e Parlamento, sul tema dell’ambientalismo". Così il governatore Vincenzo De Luca in conferenza stampa. Riciclaggio, la tracciabilità dei movimenti non esclude il reato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2017 Corte d’Appello di Palermo - Sezione IV - Sentenza 10 aprile 2017 n. 1696. La tracciabilità dei movimenti relativi al denaro illecito non esclude il reato di riciclaggio. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza 10 aprile 2017 n. 1696, sostanzialmente confermando la condanna emessa in primo grado e chiarendo che all’uopo è sufficiente aver creato delle "difficoltà" nella ricostruzione dei diversi passaggi di soldi. Il Tribunale di Trapani, infatti, aveva ritenuto colpevole l’imputato del reato previsto dall’ articolo 648 bis comma 3 del codice penale, "perché, avendo ricevuto sulla propria carta (attivata presso l’Ufficio Postale), la somma di 970,00 euro proveniente dal delitto di frode informatica, commesso in danno del c/c n. (...) intestato all’amministrazione di condominio dei civici n. (...), trasferiva tale somma di denaro a persona residente all’estero mediante vaglia effettuato presso intermediario finanziario". Nell’atto di appello, l’imputato, da una parte, ha sostenuto che "alcun atto dissimulatorio richiesto per l’integrazione del reato di riciclaggio si era verificato, risultando che le movimentazioni del denaro erano rimaste sempre immediatamente tracciabili". Dall’altro, che l’imputato, "avanti negli anni e vedovo, nel tentativo di crearsi una nuova vita sentimentale, come documentato dai rapporti epistolari intercorsi, era rimasto in buon fede coinvolto nelle operazioni di trasferimento senza mai potersi render conto dell’origine illecita delle somme". Per il Collegio però "la tracciabilità e pertanto il pronto accertamento dei movimenti del denaro di provenienza delittuosa verso e dalla Postepay, non escludono gli estremi oggettivi del reato di riciclaggio, rilevando al riguardo, come già chiarito dal primo giudice, anche la sola difficoltà creata all’individuazione dei passaggi intermedi e finali del provento del reato". Nel caso particolare, infatti, dopo aver individuato la destinazione iniziale dell’importo, e cioè la Postepay dell’imputato, "si è reso necessario acquisire i dati tracciabili dei movimenti in entrata ed in uscita di detta Postepay, in modo da poter comprendere che si era verificato un ulteriore trasferimento all’estero del denaro di origine delittuosa". E questa seconda operazione "ha di fatto reso irrecuperabile il medesimo importo, potendo l’ultimo destinatario dopo il prelievo all’estero farne perdere ogni traccia". Ciò, prosegue la decisione, "non sarebbe potuto avvenire senza l’apporto dell’imputato, il quale pertanto ha contribuito al risultato finale di tutta la condotta". Sono infondate dunque le doglianze volte a negare il dolo tipico "essendo sufficiente la mera coscienza e volontà della condotta con i conseguenti effetti, anche nei termini della mera accettazione del rischio del dolo eventuale". Mentre l’idea di allacciare un rapporto sentimentale con la donna alla quale era destinato il denaro, "può al più raffigurare il plausibile movente della condotta" ma è "assolutamente inverosimile che l’imputato abbia agito ritenendo che gli importi in quel modo da lui veicolati, fino a farne perdere taccia, riguardassero operazioni attinenti alla movimentazione di fondi di origine lecita". Del resto, anche dopo il fermo della carta, l’imputato "lungi dal chiedersi il motivo del "blocco" come avrebbe fatto chiunque in buona fede, onde continuare la concertata condotta delittuosa si attivava per munirsi di altra Postapay". La Corte territoriale ha però riconosciuto le attenuanti generiche, considerato che la somma "seppure non esigua rimane di importo contenuto" e che la dinamica dei fatti "rivela pur sempre una certa ingenuità dell’imputato nel rapportarsi con committenti ben più spregiudicati". Infine, conclude la decisione, non è neppure certo che l’imputato "abbia conseguito vantaggi di qualsiasi genere". Da qui la riduzione della pena. Impedito controllo a carico dell’amministratore solo se c’è un danno di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39443/2017. Nessun reato di impedito controllo a carico dell’amministratore della società che non fornisce tutta la documentazione contabile al socio accomandante, per determinare la liquidazione della sua quota, se il suo rifiuto non provoca alcun danno al socio. La Corte di cassazione, con la sentenza 39443, accoglie il ricorso dell’amministratore di una società in accomandita semplice, condannato in appello per il reato di impedito controllo, previsto dall’articolo 2625 del Codice civile. Il ricorrente, socio accomandante e amministratore, era stato querelato con l’accusa di non aver messo a disposizione del socio la documentazione che questo gli aveva richiesto per controllare i risultati della gestione e, soprattutto, per determinare la corretta entità della quota che gli spettava dopo che aveva esercitato il suo diritto di recesso. Il socio "uscente" era stato liquidato con circa 54mila euro a fronte di una richiesta iniziale del diretto interessato di 700mila euro: una somma scesa a poco più di 271mila euro dopo una stima tecnica formulata nel corso del giudizio civile. La Corte d’Appello aveva condannato l’amministratore per il reato contemplato dal codice civile che, con il comma 2, prevede la reclusione fino a un anno se la condotta ha provocato un danno in caso di querela della persona offesa. Per la Corte di merito il danno c’era stato ed era quantificabile nella differenza tra la "liquidazione" ottenuta e quella realmente spettante che il socio sarebbe stato in grado di determinare con precisione se avesse avuto accesso alla documentazione richiesta. Per i giudici di seconda istanza era, dunque, provato il nesso, richiesto dalla norma per far scattare la punibilità, tra condotta contestata e pregiudizio prodotto. Di parere diverso la Cassazione, che assolve l’amministratore, il cui reato era comunque prescritto, con la formula "il fatto non sussiste". La Suprema corte chiarisce che la norma di tutela dell’impedito controllo non assicura la partecipazione del socio e l’esercizio dei relativi diritti riguardo a tutti gli aspetti della vita societaria, ma sanziona solo l’impedimento alle funzioni ispettive sulla regolarità di gestione. Inoltre la norma richiede anche una condotta attiva dell’amministratore, come la falsificazione o la distruzione dei documenti, e non solo omissiva. Il rifiuto di fornire tutta la documentazione non basta senza la prova di un’alterazione dei dati. Il danno poi non era derivato dalla mancata consultazione, ma era semmai addebitabile alla conflittualità tra le parti che aveva impedito una liquidazione consensuale e tempestiva. La divergenza di importi è dipesa da una scelta della società, amministrata sì dall’imputato, ma comunque dotata di propria personalità giuridica. In ogni caso il rifiuto dell’amministratore di concordare sull’importo della quota non poteva essere superato solo prendendo visione dei dati della società. Il "serio pericolo" di trattamento inumano tra Mae ed estradizione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2017 Mandato d’arresto europeo c.d. esecutivo - Consegna del pervenuto - Presupposti - Legge 69 del 2005 - Criteri - Sentenza della corte costituzionale 227 del 2010. In tema di mandato di arresto europeo c.d. esecutivo, il motivo di rifiuto della consegna di cui alla Legge n. 69/2009, art. 18, che ricorre in caso di "serio pericolo" che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, impone all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento disumano da parte dello Stato richiedente, se, in concreto, la persona oggetto del M.A.E. potrà essere sottoposta a un siffatto trattamento, sicché a tal fine può essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria. Le eventuali contestazioni ulteriori addotte dalla difesa del consegnando quanto al serio e permanente trattamento inumano e degradante nel carcere straniero, non valgono a infirmare le garanzie offerte dallo Stato richiedente nel rispetto di procedure, contenuti e principi fissati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e prima ancora dalle sentenze della Corte Edu. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 12 maggio 2017 n. 23695. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Estradizione per l’estero - Procedimento - Decisione - Condizioni - Estradizione per l’estero richiesta dalla Turchia - Condizioni per negare l’estradizione ex art. 705, comma 2, lett. a) e c) c.p.p. - Fattispecie. Ai sensi di quanto previsto dall’art. 705, comma 2, lett. a) e c), deve essere rifiutata l’estradizione richiesta dalla Turchia, rilevato che nel Paese sussistono condizioni generali di violazione dei diritti fondamentali della persona e del giusto processo, con trattamenti degradanti nelle carceri e forti limitazioni dei diritti di difesa, essendo stata formalmente sospesa sul territorio dello Stato (dal 21 luglio 2016) l’applicazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo ed essendosi riscontrate condizioni generali di detenzione arbitraria, nonché il ricorso a pratiche di tortura nei confronti dei detenuti, risultanti da documentazione proveniente da "Amnesty International". • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 dicembre 2016 n. 54467. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - In genere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Rifiuto della consegna ai sensi dell’art. 18, comma primo, lett. h), L. n. 69 del 2005 - "Serio pericolo" che la persona richiesta sia sottoposta alla pena di morte, alla tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti - Necessità - Condizioni - Fattispecie. In tema di mandato di arresto europeo, il motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, comma primo, lett. h), L. n. 69 del 2005 - che ricorre in caso di "serio pericolo" che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti - non può ritenersi integrato dalla mera prospettazione dell’esistenza, nello Stato richiedente, di una condizione di sovraffollamento carcerario o di una possibile mancanza di adeguata assistenza medica, laddove tale prospettazione non sia corredata dalla dimostrazione del livello di pericolo derivante da quanto rappresentato, né da elementi concreti sulla reale situazione nelle carceri di quello Stato. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto insufficiente a desumere l’esistenza di una condizione di sovraffollamento carcerario nello Stato richiedente da un rapporto del 2012 attestante un numero di posti disponibili nelle carceri inferiore a quello dei detenuti). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 novembre 2015 n. 47237. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - In genere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Rifiuto della consegna ai sensi dell’art. 18, comma primo, lett. h), l. n. 69 del 2005 - "Serio pericolo" che la persona richiesta sia sottoposta alla pena di morte, alla tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti - Necessità - Condizioni. In tema di mandato di arresto europeo, il motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, comma primo, lett. h), L. n. 69 del 2005 - che ricorre in caso di "serio pericolo" che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti - non può ritenersi integrato dalla mera prospettazione dell’esistenza, nello Stato richiedente, di una condizione di sovraffollamento carcerario o di una possibile mancanza di adeguata assistenza medica, laddove tale prospettazione non sia corredata dalla dimostrazione del livello di pericolo derivante da quanto rappresentato, né da elementi concreti sulla reale situazione nelle carceri di quello Stato (ad es. in relazione allo spazio individuale minimo assicurato, o alle condizioni sanitarie). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 17 ottobre 2014 n. 43537. Sardegna: Carovana della giustizia del Partito Radicale "manca il Garante dei detenuti" di Valentina Stella Il Dubbio, 29 agosto 2017 Sono 103 le sottoscrizioni alla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati raccolte dalla delegazione del Partito Radicale in visita ieri al carcere sardo di Tempio Pausania, dove 170 detenuti hanno anche aderito al Grande Satyagraha - digiuno di dialogo - promosso in primis da Rita Bernardini per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Invece 130 quelle raccolte a Sassari. Oggi la Carovana per la Giustizia sarà nelle case di reclusione di Alghero ed Oristano. La situazione carceraria sarda soffre di un grosso problema da anni: manca il Garante Regionale dei Detenuti. Si tratta di "una questione evidentemente emblematica sulla quale da anni le istituzioni regionali della Sardegna latitano", ci racconta Irene Testa, membro della Presidenza del Partito Radicale; eppure, ci dice, "la legge regionale del 7 febbraio 2011, n. 7, prevede un "sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria e istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Tra le finalità principali della legge leggiamo che "La Regione autonoma della Sardegna, nell’ambito delle proprie competenze, concorre a tutelare e assicurare il rispetto dei diritti e della dignità delle persone adulte e dei minori presenti negli istituti penitenziari o ammessi a misure alternative e sostitutive della detenzione [..]". "Si tratta degli scopi voluti dal Legislatore stesso, non ce n’è uno che possa essere sottovalutato o, ancora peggio, dimenticato - commenta Testa. Di estrema importanza sarebbero infatti, per l’amministrazione penitenziaria, le disposizioni in merito ad assistenza sanitaria, formazione e istruzione negli istituti della Regione. Eppure è lo stesso legislatore a non adempiere a quanto da esso stesso prescritto". Oltre a fissare gli obiettivi e gli attori "la legge prevede anche gli strumenti finanziari per raggiungere lo scopo, ovvero 2 milioni annui in totale", precisa Testa: "ebbene, dall’ormai lontano 2011 questa legge regionale non ha mai trovato applicazione. Non si sa per qual motivo, né se si preveda di darne attuazione in un futuro prossimo o remoto". Ma a rendere ulteriormente poco chiara la situazione è il fatto che, come previsto dall’articolo 20 "Le spese previste per l’attuazione della presente legge gravano sulla UPB S05.03.009 del bilancio della Regione per gli anni 2011- 2013 e su quelle corrispondenti dei bilanci per gli anni successivi". Perché non sono stati stanziati questi soldi? "Come Partito Radicale abbiamo sollecitato più volte questa domanda, ottenendo solo il silenzio: l’ultima volta con una lettera del 2015 di Maurizio Turco indirizzata al Presidente della Regione Francesco Pigliaru in cui si chiedeva di incaricare quanto prima il Consiglio Regionale a lavorare per l’attuazione delle legge". Lombardia: situazione delle carceri, il Provveditore Luigi Pagano risponde ai Radicali Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2017 Risposta del Dott. Luigi Pagano, Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, alla email inviata il 26.8.17 da Lucio Bertè (Detenuto Ignoto) per migliorare le condizioni di detenzione in Lombardia. "Gentili Signori, ho ricevuto il vostro appello e, spero, non vi siano dubbi sull’impegno e l’attenzione che l’Amministrazione Penitenziaria nazionale e quella che dirigo in sede regionale pone nella ricerca di soluzioni intese a migliorare la vita all’interno dei nostri istituti. E a onor del vero, le acclarate difficoltà esistenti non sono mai state invocate a mò di alibi quale giustificazioni per non operare, anzi credo che molto sia stato fatto nonostante il sovraffollamento e la carenze di risorse. L’obiettivo primario è sempre stato quello di sensibilizzare non solo il personale tutto, ma il mondo esterno, la società civile, a forme di collaborazione incisive e costanti, convinti come siamo che solo con l’apporto di tutti si possa realizzare la trasformazione delle carceri da mero luogo di segregazione a comunità dove, fermo restando le garanzie di sicurezza, si perseguono i fini costituzionali di una pena non contraria al senso di umanità e tendente al reinserimento del condannato. In questo, devo sottolineare, per esperienza diretta che in Lombardia ho trovato una particolare sensibilità, ben oltre quello che è il dovere istituzionale, sia da parte della Magistratura di sorveglianza sia degli enti locali tanto da realizzare, insieme, progetti di assoluto rilievo e che possiamo definire all’avanguardia nel panorama nazionale. Ma sono altrettanto persuaso che molto ancora si possa e si debba fare, ribadisco nonostante le difficoltà, se si realizza una coesione di tutte le forze interessate intorno a obiettivi che si possono comunemente determinare.. mi riferisco a esempio alla prevenzione dei suicidi, visto anche il piano nazionale recentemente varato dalla Conferenza Stato-Regioni il 27/7/17 e pubblicato in GU in data 14/8, alla creazione di opportunità lavorative interne ed esterne. Per questi motivi sono a disposizione per poter discutere sul da farsi, senza pregiudizi, intendendo con voi che ogni investimento nelle carceri sia non solo segno di civiltà, ma ha come conseguenza, da non disdegnare, un abbassamento della recidiva e quindi si traduce in investimento in termini di sicurezza sociale. Grato dell’attenzione, rimango in attesa e porgo i miei più distinti saluti". Luigi Pagano Saluzzo (Cn): un suicidio in carcere che solleva parecchi dubbi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 agosto 2017 Si chiamava Fabio Cucina e da quasi 10 anni era nella sezione di Alta Sorveglianza. Avrebbe tentato di impiccarsi con un laccio dell’accappatoio, ma la versione ufficiale non convince i familiari. Il magistrato ha disposto il sequestro del corpo e l’autopsia. Il 37esimo suicidio avvenuto nelle nostre patrie galere è tutto ancora da chiarire. Si chiamava Fabio Cucina, un 46enne di origini palermitane ristretto da quasi 10 anni nella sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Avrebbe finito di scontare la pena tra circa sei anni, ma è uscito prima dal carcere in fin di vita. Stando alla versione ufficiale, Fabio avrebbe tentato di impiccarsi giovedì pomeriggio con un laccio dell’accappatoio. In teoria era sorvegliato a vista 24 ore su 24. L’agente penitenziario se ne sarebbe accorto solo dopo e, dopo aver tentato di rianimarlo, Fabio è stato trasportato d’urgenza nell’ospedale di Cuneo. Oramai era andato in coma, ha combattuto tra vita e la morte per tre giorni, ma domenica pomeriggio ha smesso di respirare. I familiari, per ordine del magistrato, sono stati costretti a vedere il corpo di Fabio - con tanto di piantoni a vigilare - per soli 10 minuti. Tanto è bastato per osservare il collo che non presentava nessun segno visibile. Strano per un’impiccagione. Il resto del corpo era coperto da un lenzuolo e quindi non hanno potuto osservare le gravi lesioni che i medici avevano riscontrato. Lesioni che ne hanno causato la morte. Molti dubbi e diversi punti oscuri ancora da chiarire. Ma non sono sospetti posti esclusivamente dai familiari. Il magistrato di turno del tribunale di Cuneo, avvalendosi anche dalle perplessità espresse dagli stessi medici, ha subito disposto il sequestro del corpo per effettuare, in settimana, l’autopsia. Gli operatori del carcere hanno riferito ai familiari che Fabio Cucina avrebbe già tentato di suicidarsi nei giorni precedenti. Eppure i familiari non ne sapevano niente e non sono mai stati avvertiti. Inoltre, lo stesso detenuto, durante i colloqui non avrebbe riferito nulla. Ma se fosse vero, la questione diventa ancora più grave: come mai, nonostante il presunto precedente tentativo di suicidio, gli avrebbero permesso di possedere il laccio dell’accappatoio? Tanti dubbi, poche certezze, che verranno dipananti dalla magistratura. I familiari di Fabio Cucina ricordano anche che il magistrato di sorveglianza avesse negato un permesso speciale per poter assistere al funerale del padre che morì a luglio scorso. Permessi di necessità che vengono concessi ai detenuti ostativi. Dopo 10 anni di galera, Fabio aveva anche chiesto altri permessi, come quelli di lavorare esternamente. Ma i benefici della pena vengono negati per chi commette reati ostativi. Durante gli stati generali dell’esecuzione penale è emersa una proposta per superare tali divieti. Nel documento finale c’è scritto che "l’intervento ipotizzato consiste nell’integrazione dell’attuale disposto con un comma di nuovo conio (1bis), descrittivo di condotte riparative assunte quali manifestazione di ravvedimento e risocializzazione del condannato che possano fungere da chiave di superamento dell’ostatività alla concessione dei benefici penitenziari in termini equipollenti alle condotte concretamente collaborative già descritte nella vigente dizione normativa". Una proposta che dovrebbe essere recepita dalle commissioni istituite di recente dal ministro della giustizia Andrea Orlando per redigere le bozze dei decreti per attuare la riforma dell’ordinamento penitenziario. Nel frattempo, parlare di carcere, è come stilare un lungo e inarrestabile necrologio. Salgono a 37 i suicidi (alcuni da chiarire), per un totale di 75 morti. Domenica, nel giro di 24 ore, si sono verificati due sucidi. Oltre alla morte di Fabio Cucina, c’è anche da registrare il suicidio di un nordafricano di 28 anni detenuto nel carcere di Monza. Si è ucciso inalandosi la bomboletta del gas che viene utilizzata per cucinare il cibo e riscaldare le bevande. Il Sappe, il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, fa sapere che sempre nello stesso carcere, il mese scorso, è stato sventato un tentativo di suicidio. Anche in quel caso era un detenuto straniero e ha tentato di suicidarsi impiccandosi nella sua cella, ma per fortuna è stato salvato grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria. Sempre quest’anno, due suicidi sono avvenuti in una sola mattinata proprio nel carcere di Monza: uno di 29 anni che ha inalato il gas e l’altro di 56 anni impiccatosi nel reparto di infermeria. Ma anche nel carcere si Saluzzo ci sono stati altri casi. Riguarda Sasha Z., 33 anni, morto il 3 maggio scorso: condannato per furto a meno di un anno di detenzione, era in isolamento da alcuni giorni. Tanti, troppi sucidi. A commentare il triste primato di quest’anno che ancora deve volgere al termine è Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale. "La cadenza dei suicidi di questa estate da dimenticare - racconta l’esponente radicale, mi ha riportato alla mente le parole di Giorgio Napolitano al convegno radicale del 28 luglio di sei anni fa. Quella delle carceri, disse l’allora Presidente della Repubblica, "è una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi nelle carceri"". Prosegue la Bernardini: "A Pannella, che mettendo in pericolo la sua stessa vita chiedeva amnistia e indulto (le uniche misure che avrebbero consentito di rientrare immeditatamente nella legalità costituzionale), veniva risposto che occorrevano riforme strutturali e durature che però non sono mai arrivate. Sono così trascorsi 6 anni di oltraggi ai diritti umani fondamentali, di trattamenti inumani e degradanti "fino all’impulso a togliersi la vita". L’esponente del Partito Radicale conclude con una speranza ricordando l’azione non violenta intrapresa da migliaia di detenuti: "I quasi seimila detenuti che con la nonviolenza danno vita al Satyagraha promosso dal Partito Radicale, stanno aiutando il ministro Orlando e il governo affinché non si distragga da quel che urgentemente deve fare: la riforma dell’Ordinamento penitenziario secondo la delega ricevuta dal Parlamento". Sassari: a Bancali arrivano agenti "speciali" per il controllo dei terroristi islamici di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 29 agosto 2017 Il decreto firmato a luglio da Orlando. Il ministro aveva visitato il penitenziario che ospita 25 jihadisti. Il ministero della Giustizia ha deciso di rinforzare i controlli nei confronti dei terroristi islamici detenuti nelle carceri italiane, a cominciare dal penitenziario di Bancali dove i reclusi sono 25, mentre a Nuoro sono 7. A fine luglio è stato firmato il decreto con il quale si ridefiniscono le competenze del Gruppo Operativo Mobile (il cosiddetto Gom) e a loro - che già si occupano dei detenuti sottoposti al regime del 41bis - spetterà il compito di sorvegliare i terroristi di matrice islamica. La procedura ha subito una accelerazione nelle ultime settimane, anche perché nelle carceri (compreso quello sassarese) si sarebbero moltiplicati gli episodi di minacce da parte dei reclusi accusati di terrorismo nei confronti di agenti della polizia penitenziaria in servizio nei reparti chiamati "As2" (Alta sorveglianza 2, quella che viene immediatamente dopo la "As1" che è quella con la quale vengono classificati i 41bis: i detenuti per reati di mafia e i boss della criminalità organizzata in generale), con offese e provocazioni accompagnate dal grido "Italiani di m...viva Allah"). Il ministro della Giustizia Orlando aveva già visitato il supercarcere di Bancali e anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria conosce molto bene la realtà Sassarese e quella sarda più in generale. I controlli, evidentemente, sono sempre piuttosto elevati e legati anche ai possibili rischi di radicalizzazione in carcere con azioni mirate nei confronti di detenuti fragili e facilmente "trattabili". Con il decreto nella fase esecutiva, i rinforzi a Bancali sono attesi a breve (a Nuoro invece i detenuti As2 erano già sotto il controllo del Gom nel cosiddetto "braccetto della morte" ricavato a Badu e Carros). E proprio i corpi speciali arrivano con una formazione specifica per la gestione delle nuove esigenze che nascono dalla presenza dei detenuti filo-jihadisti che puntano a ritagliarsi sempre nuovi spazi. Dall’inizio del 2016 - tra l’altro - sarebbero una ventina le conversioni all’Islam nel carcere sassarese di Bancali. La Sardegna è sotto la lente del Ministero e dell’amministrazione penitenziaria perché in Italia sono 44 i detenuti di fede islamica accusati di terrorismo internazionale e più della metà sono rinchiusi nei penitenziari dell’Isola: 25 a Sassari, appunto, e 8 a Nuoro. A Bancali sono una decina quelli che stanno subendo il processo perché considerati parte della cellula olbiese di Al Quaeda, e siccome nel penitenziario risultano rinchiusi i più pericolosi, ecco che alcuni segnali di insofferenza e certi atteggiamenti ripetuti nel tempo hanno convinto l’amministrazione penitenziaria a sollecitare una estensione delle competenze del Gom anche a Sassari dove il Gruppo operativo mobile già si occupa dei 41bis. L’elenco è interessante. Tra i sorvegliati speciali nel carcere di Bancali c’è - per esempio - Hamadi Ben Abdul Aziz Benm Ali, il 51enne tunisino con una lista infinita di alias, che a suo tempo figurava nei primi 30 super-jihadisti della black list stilata da Obama. Ma dietro le sbarre del supercarcere sassarese ci sono anche altri volti noti, come quello di Abderrahim Moutaharrik, il marocchino 27enne, campione di kick boxing, conosciuto come "il pugile" e arrestato con l’accusa di terrorismo internazionale e presunti legami con l’Isis. E poi c’è Karlito Brigande, considerato uno dei criminali macedoni più pericolosi, ex militante dell’esercito nazionalista Uck e ritenuto uno dei "cani sciolti" dell’Isis: era stato arrestato a Roma mentre era in procinto di partire per l’Iraq. L’arrivo dei nuovi agenti speciali del Gom consentirà alla direzione del carcere e all’amministrazione penitenziaria di riorganizzare i servizi e destinare l’organico della polizia penitenziaria (che risulta carente) alla gestione degli altri reclusi. Parma: protesta dei detenuti della sezione circondariale, si rifiutano di rientrare in cella La Repubblica, 29 agosto 2017 Protesta nel carcere di Parma, dove i detenuti della sezione circondariale (dove alcuni sono sotto osservazione per probabile radicalizzazione) si sono rifiutati di rientrare in sezione domenica pomeriggio. Lo rende noto il segretario generale del sindacato Osapp, Leo Beneduci. "La protesta - spiega - sarebbe ufficialmente imputabile alla qualità del vitto, ma la rivendicazione riguarderebbe nei fatti la richiesta di proseguire con il regime delle celle aperte oltre le ore 15, sulla falsariga delle altre sezioni a sorveglianza dinamica. Solo nel tardi pomeriggio la situazione è stata riportata alla normalità, non senza attimi di tensione tra gli agenti di polizia penitenziaria e i ristretti". Secondo Beneduci, "i regimi custodiali dinamici invece di consentire una migliore conoscenza del contesto detentivo da parte degli operatori ha portato alla creazione di territori fuori da ogni possibile controllo, considerata anche la forte carenza di organico tra gli agenti di polizia penitenziari". "L’organico a Parma è fortemente sottodimensionato - prosegue - con meno di quattrocento agenti in servizio sui cinquecento previsti. Con questi numeri non si riesce a garantire uno standard minimo di ordine e sicurezza. I detenuti sono circa seicento unità". Milano: black-out al carcere Beccaria, un topo si è mangiato i fili elettrici di Annamaria Lazzari Il Giorno, 29 agosto 2017 Blackout di quattro ore al carcere minorile Beccaria. Ieri mattina, dalle 7 fino alle 11, sia il padiglione detentivo che la caserma degli agenti penitenziari di via Calchi Taeggi sono rimasti al buio e senza elettricità. A mandare in tilt il sistema elettrico dell’istituto penale per minorenni di zona Bisceglie non è stato il sovraccarico della rete, per l’abuso estivo dei condizionatori ma un topo "incosciente". L’animale, dopo essere penetrato nella cabina elettrica, ha iniziato a rosicare i fili che ha trovato. Secondo Giuseppe Merola, segretario regionale del sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria, in questa storia non c’è proprio nulla da ridere. "Da mesi denunciamo la situazione di emergenza medico-sanitaria che affligge il Beccaria. Questo è solo l’ultimo incredibile episodio accaduto negli ultimi mesi. In questo istituto vivono ormai colonie di roditori che hanno trovato il loro habitat ideale, a causa dei rifiuti che spesso i reclusi gettano dalle finestre e delle pessime condizioni sanitarie in cui versa la struttura". Il blackout ha creato disservizi tanto sia agli agenti che ai detenuti, costretti ad affrontare l’afa per ore senza l’ausilio di un ventilatore. Si sono registrate anche criticità in mensa dove viene preparato il vitto ai minori che comunque è stato garantito regolarmente. Solo verso le 11 i tecnici di A2A sono riusciti a ripristinare la fornitura di energia elettrica. "La situazione è grave da gennaio di quest’anno - prosegue il segretario lombardo del Sinappe - nei mesi scorsi sono stati avvistati dei topi di grosse dimensioni non solo nelle aree all’aperto ma anche all’interno, nell’ufficio del capoposto e in quello del comandante. È solo fortuna se nessuno è stato ancora morso da una "pantegana". Sono già stati fatti dei sopralluoghi dai tecnici dell’Ats ed avviati programmi di derattizzazione ma senza successo. Oggi (ieri per chi legge ndr) si è superata la linea. Ci appelliamo al sindaco Giuseppe Sala. In quanto autorità sanitaria locale deve intervenire con urgenza perché sia garantito il ripristino delle condizioni igienico-sanitarie e di sicurezza dell’istituto penale dove vivono reclusi minorenni e lavorano agenti. Chiederemo anche nuove ispezioni sanitarie all’ex Asl nonché l’intervento dei Nas dei carabinieri se il problema non si dovesse risolvere a breve". Secondo Merola, il direttore in carica, Olimpia Monda, avrebbe "sottovalutato ampiamente la situazione che ora è degenerata". La speranza da parte degli agenti è che venga aperto a breve il neo padiglione, "già pronto, che dovrebbe garantire migliori condizioni di vivibilità. Siamo in attesa da anni". Mantova: un orto nel carcere, detenuti al lavoro nel giardino ritrovato di Alice Liana Galli La Gazzetta di Mantova, 29 agosto 2017 La coltivazione di ortaggi come mezzo per la rieducazione. Progetto di Arte dell’Assurdo nell’ex parco del direttore. Pronto un nuovo progetto di Arte dell’Assurdo: un jardin potager per i carcerati di via Poma. Il nome è "Orto al Fresco". Fiori, ortaggi e legumi nel giardino dell’ex alloggio del direttore della struttura da affidare ai detenuti. Un’iniziativa che ha richiesto tempo ed energie da parte degli artisti di strada dell’associazione di cui è presidente Annalisa Venturini. Da cosa nasce il progetto? Dalla scoperta di un grande giardino che si affaccia sulle mura del cortile interno del penitenziario mantovano. La presidente Venturini, con l’aiuto del collaboratore artistico dell’associazione Riccardo Braglia, ha pensato che fosse uno spazio dalle grandi potenzialità. Il giardino faceva parte della villa che si trova tra via Poma e via Grioli e che un tempo veniva assegnata al direttore del carcere. Dopo che il privilegio dell’alloggio per i direttori dei penitenziari è stato eliminato, il parco è stato abbandonato e finora era rimasto in disuso. Questo spazio si può ben sposare con l’esigenza dei carcerati di spazi ludici all’aperto. Grazie al benestare della direttrice Rossella Padula, l’idea si è poi trasformata in progetto che, dopo essere stato approvato dal ministero della Giustizia, si trasformerà in realtà. Durante l’inverno Venturini e Braglia si sono impegnati nel trovare una figura competente che hanno individuato in Elisabetta Bonini. Figura che potesse aiutarli nella realizzazione di un hortus conclusus (alla francese jardin potager), un giardino nel quale, oltre ai fiori, vengono coltivati anche ortaggi e legumi. "Sarà utile per la produzione interna di ortaggi e per il processo di rieducazione dei ragazzi, aiuterà corpo e anima - commenta Braglia -. Attraverso l’ergoterapia (terapia del lavoro) i carcerati saranno stimolati e potranno anche sperimentare un mestiere. Impareranno a lavorare la terra e curare il giardino. Inoltre ci piacerebbe aggiungere degli animali come cani, gatti, caprette e conigli per avviare anche un percorso di pet therapy". Ad ornare il giardino del penitenziario anche numerose piante aromatiche dalle quali si potrebbero ricavare diversi tipi di liquori: "L’idea è quella di coltivare, almeno in parte, gli ortaggi che poi verrebbero consumati dagli stessi carcerati, ma sarebbe bello anche produrre un liquore da vendere per fare una campagna di sensibilizzazione sui nostri detenuti. Il ricavato potrebbe essere utilizzato per altri eventi o laboratori da svolgere all’interno del penitenziario - spiega Venturini - abbiamo ricevuto un grande sostegno da parte di tutti: in primis dalla direttrice, da Letizia Tognali, comandante del personale di custodia, e dallo psicologo Carlo Alberto Aitini che si spendono moltissimo per i ragazzi della struttura. Senza dimenticare don Lino, cappellano della casa circondariale, e suor Deanna che con generosità ed entusiasmo accompagnano e sostengono i detenuti nel loro percorso". Dopo aver concluso l’iter burocratico previsto per l’approvazione del progetto e dopo aver preparato con l’esperta la futura immagine del giardino resta solo un ultimo ostacolo: l’installazione delle telecamere, già richieste dal carcere al ministero e ora attese in via Poma. Quando questa fase sarà ultimata sarà possibile iniziare i lavori. "Ci servono volontari. Non sono richieste competenze precise, basta avere voglia di tirarsi su le maniche e di dare una mano. Questo progetto è un’assunzione di responsabilità e un’occasione di dimostrare ai ragazzi del penitenziario che la città crede in loro, che non sono soli in questo cammino", conclude Braglia che nel penitenziario di via Poma ha trovato "una seconda famiglia". Chi volesse sostenere il progetto come volontario può contattare Annalisa Venturini al numero 3356115369. Perugia: Brunello Cucinelli crea un laboratorio di sartoria per detenuti di Valeria Paglionico fanpage.it, 29 agosto 2017 Brunello Cucinelli ha lanciato un’iniziativa molto particolare: è entrato nel carcere di Perugia e ha creato un laboratorio di sartoria per detenuti. L’obiettivo è favorire il loro reinserimento una volta usciti dalla Casa circondariale, evitando che cadano ancora una volta nel giro della criminalità. Brunello Cucinelli non è solo uno degli stilisti italiani più famosi al mondo, ha dimostrato di essere anche un uomo dall’animo nobile. Il cosiddetto "re del cashmere" del fashion system è diventato protagonista di un progetto che intende unire lavoro e riabilitazione, così da andare incontro ai detenuti che vogliono ricominciare da zero una volta usciti dal carcere. Il designer è infatti entrato nel penitenziario di Perugia e ha pensato bene di portare tra quelle mura la sua esperienza, creando un laboratorio di sartoria artigianale. L’iniziativa è nata dopo che il Capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, e Carolina Cucinelli della "Brunello Cucinelli S.p.A." hanno firmato un protocollo d’intesa che prevede la nascita di un luogo dedicato a coloro che vogliono lanciarsi nell’artigianato, in particolare nel confezionamento di maglioni per il Corpo di Polizia Penitenziaria. In tutto si contano 364 carcerati sia uomini che donne e a tutti verrà data la possibilità di prendere parte al progetto. Non è la prima volta che nella casa circondariale di Perugia "Capanne" vengono lanciate delle iniziative di recupero per i detenuti. È da anni che si tengono già corsi scolastici, laboratori, iniziative teatrali, sportive e lavorative, tutte opportunità preziose per i carcerati. La Maison di Cucinelli metterà a loro disposizione del personale specializzato per la realizzazione e la supervisione dei prodotti. L’obiettivo è solo e unicamente di carattere sociale: accrescere le loro competenze, così da favorirne il reinserimento ed evitare che cadano ancora una volta nel giro della criminalità. La grandiosità e il limite di Beccaria: l’illuminismo di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 29 agosto 2017 La pena deve essere pubblica, pronta, necessaria, minima, proporzionata e dettata dalle leggi. Siamo così giunti, dopo questa veloce cavalcata, alla conclusione della fatica di Beccaria e questi ne profitta per ribadire alcuni concetti già espressi, ma che egli ritiene particolarmente rilevanti e significativi del suo pensiero. Insiste così sulla necessità della diffusione del sapere e, sulle tracce di Rousseau, della educazione dei cittadini, certo che quando entrambi saranno consolidati, i delitti saranno quasi depennati dai comportamenti sociali. Ora, che il sapere e la educazione civica debbano essere diffusi e a tutti garantiti è cosa di cui nessuno dubita, ma, come già in precedenza accennato, possiamo esser certi che ciò non basterà affatto a debellare la commissione di delitti. Ribadisco qui che dunque Beccaria, oltre i suoi enormi meriti, incappa nel limite proprio della formazione illuministica del suo tempo, consistente in una sorta di endemico socratismo giuridico-sociale, tanto più fragile quanto più autentico. Come è noto, per Socrate, la conoscenza della virtù è la strada maestra per seguirla, tutto risolvendosi appunto nella necessità di vincere l’ignoranza che affligge l’animo umano. Non è così, come l’esperienza insegna. In moltissimi casi, non basta conoscere la virtù - morale o sociale - per seguirne le tracce senza esitazioni. Occorre invece, dopo averla conosciuta, volerla seguire in modo deliberato e consapevole. Il razionalismo socratico - che poi è quello medesimo di Beccaria - incorre infatti proprio in questo limite insuperabile: mettere in primo piano la ragione, ma senza far i conti, come invece sembra necessario, con la volontà degli uomini. Se fosse come sostiene Beccaria, basterebbe un’opera massiccia di scolarizzazione sociale per debellare i delitti. Ebbene, in Italia, nel dopoguerra, la percentuale di analfabeti, si è pressoché azzerata, ma non sembra che i delitti siano diminuiti in modo considerevole; anzi, negli ultimi decenni, essi sono lievitati di numero e di gravità in modo esponenziale. In altri termini, non basta conoscere la virtù per fare il bene ed evitare il male: bisogna esercitarsi con la volontà, usando rettamente di questa nei casi specifici e concreti. Va da se che in un modello sociale come quello auspicato da Beccaria - dove al massimo sapere corrisponde la quasi scomparsa dei delitti - il potere che normalmente viene riconosciuto quale prerogativa della sovranità, quello di concedere la grazia, va debitamente escluso. Infatti, egli definisce "felice" la nazione ove la clemenza e il perdono del sovrano divenissero non solo meno necessari, ma addirittura funesti. Ora, in un modello ideale ciò può anche essere, a patto però che si abbia consapevolezza che appunto si tratti di un modello ideale e non reale. Molto meno convincente è tale conclusione, se ci si pone davanti alla cruda realtà dei rapporti sociali e dei comportamenti umani. Allora, si vedrà che del potere di concedere la grazia da parte del sovrano nessun ordinamento reale potrà mai fare a meno, per il semplice motivo che mai è possibile rinunciare alla correzione del diritto e della sentenza, mai alla possibilità di rovesciare un verdetto, mai a quella di rimediare ad un errore, mai insomma a quello che Radbruch definiva come "un raggio di luce che penetra nel freddo ed oscuro mondo del diritto". Preziosa è infine la sintesi finale con cui, prendendo congedo dai lettori, Beccaria ripropone le caratteristiche che la pena deve possedere per non essere tirannica. La pena deve dunque essere pubblica, perché tutti le possano conoscere e valutare; pronta, perché l’eccessivo trascorrere del tempo dopo la commissione del delitto non ne vanifichi il significato e la portata; necessaria, perché essa non sembri frutto di arbitrio e di dispotismo; minima, perché tutti vedano che di essa non si abusa, ma si usa con la necessaria moderazione; proporzionata, perché, se non lo fosse, la pena medesima commetterebbe grave ingiustizia; dettata dalle leggi, perché non sembri stabilita dai singoli magistrati o dal potere sovrano, ma prevista per tutti in modo imparziale e indifferente. Tutte dimensioni della pena che per noi oggi suonano come normali ed ovvie, al punto che se ne mancasse soltanto una, grideremmo al misfatto e alla tirannia del potere. Non così, al tempo di Beccaria; e di questo, nell’accostarsi a queste pagine, dobbiamo sempre mantenere adeguata consapevolezza. Per questa ragione, tutti i popoli europei conserviamo verso queste pagine un enorme debito di riconoscenza, nel duplice senso del ringraziamento e della continua meditazione. Se Beccaria non avesse illuminato la storia con queste sue coraggiose riflessioni, probabilmente oggi non potremmo esercitare la nostra libertà di cittadini come siamo soliti fare. Tuttavia, molto del suo insegnamento va sempre riproposto, in quanto ancora non sufficientemente assimilato dal nostro sistema giuridico, come abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo commento. Molto, ancora e nonostante tutto, va ancora imparato e messo in pratica. Dopo quasi tre secoli, non credo che Beccaria ne sarebbe contento. CAPITOLO XLII. DELLE SCIENZE Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto piú facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perché non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano divenire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa. Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità, e quando lo furono era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell’uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti piú rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perché la loro indolenza e poca sagacità gli preservava dall’errore. Ma i bisogni si moltiplicavano sempre piú col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque necessarie impressioni piú forti e piú durevoli che gli distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d’insociabilità, che si rendeva sempre piú funesto. Fecero dunque un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico) e che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quegli che osarono sorprendergli e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati, perché non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono dà popoli selvaggi, questa fu l’epoca della formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario e forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piú straordinari e le grazie piú segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come è proprietà dell’errore di sottodividersi all’infinito, cosí le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l’antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio le opinioni, sono dannose. La seconda è nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla verità, dall’oscurità non conosciuta alla luce. L’urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le verità utili ai molti deboli, l’avvicinamento ed il fermento delle passioni, che si destano in quell’occasione, fanno infiniti mali alla misera umanità. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto all’epoche principali, vi troverà piú volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando, calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che l’opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni dè monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti? Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero, l’uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtú della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione, ma felicità momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino la probabilità sempre grande di una cattiva elezione. CAPITOLO XLIII. MAGISTRATI Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d’interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse che alla corruzione. Quanto maggiore è il numero che lo compone tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo dell’intrapresa. Se il sovrano coll’apparecchio e colla pompa, coll’austerità degli editti, col non permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere piú i magistrati che le leggi, essi profitteranno piú di questo timore di quello che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza. CAPITOLO XLIV. RICOMPENSE Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtú. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dal- le accademie ai discuopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché non i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno altresí le azioni virtuose? La moneta dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore. CAPITOLO XLV. EDUCAZIONE Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre fino ai piú remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sí morali che fisici che il caso o l’industria presenta ai novelli animi dei giovani, nello spingere alla virtú per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità e dell’inconveniente, e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza. CAPITOLO XLVI. DELLE GRAZIE Amisura che le pene divengono piú dolci, la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtú che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutt’i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi e dell’atrocità delle condanne. Quest’è la piú bella prerogativa del trono, questo è il piú desiderabile attributo della sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed imponente corredo d’infiniti commentatori, il grave apparato dell’eterne formalità e l’adesione dei piú insinuanti e meno temuti semidot- ti. Ma si consideri che la clemenza è la virtú del legislatore e non dell’esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè la pubblica sicurezza ad un particolare, e che con un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d’impunità. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene dè particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace quella piccola porzione di felicità che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da quello che è, fa loro godere in quest’angolo dell’universo. CAPITOLO XLVII. CONCLUSIONE Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione. Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi. Il razzismo dimentica i nemici che ha in casa di Dacia Maraini Corriere della Sera, 29 agosto 2017 Il diverso da odiare oggi è lo straniero, ma la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta, che uccidono e taglieggiano i cittadini, sono molto più pericolose. Assieme all’antieuropeismo stanno montando il razzismo, il suprematismo bianco, il nazionalismo arrabbiato, l’odio contro lo straniero, il rifiuto del diverso. Ma dove comincia la diversità e chi la stabilisce? I figli prediletti di un Dio crudele, vogliono che tutto il mondo si adegui alle loro regole selettive, stabilendo un modello antropologico unico a cui riferirsi. I nazisti lo avevano sancito per legge: il portatore di purezza era il bianco ariano conquistatore di terre e di popoli, il solo degno di governare il mondo. Tutti gli altri erano inferiori e quindi meritevoli di esclusione, persecuzione, spoliazione, fino alla vera e propria eliminazione fisica. E fra questi non c’erano solo gli ebrei, i più pericolosi perché bianchi anche essi e capaci di pensieri sofisticati e combattivi, ma c’erano gli zingari, che non riconoscevano la supremazia ariana; c’erano gli omosessuali, "malati e pervertiti" che minacciavano la purezza della razza; c’erano i comunisti, rischiosissimi per le loro idee egualitarie. Il diverso porta sempre in corpo il male, ovvero una minaccia fisica nei riguardi di una società data come sana e coesa. Eppure basta mettere il naso nella storia per capire che i concetti di diversità e di male cambiano in continuazione secondo gli interessi e le paure. Laura Boldrini, la appassionata e coraggiosa presidente della Camera che in questi giorni è venuta a parlare dell’Europa fra i monti abruzzesi, ha ricordato il martirio della deputata inglese Jo Cox uccisa da un suprematista che, mentre la prendeva a coltellate gridava: "Britain first!". L’odio contro chi difendeva i diversi e l’Europa unita, ha armato la mano di un fanatico. Una volta da noi il diverso era il meridionale considerato inferiore perché piccolo di statura, prigioniero di dialetti incomprensibili, contadino e ignorante; inferiore era la donna perché dotata di una sessualità incontrollabile e responsabile della cacciata dal paradiso ; pericoloso e da uccidere il brigante, che come asseriva Lombroso aveva orecchie più piccole, labbra sporgenti e fronte corta come le scimmie. Oggi, in tempi di immigrazione il diverso è lo straniero, chi scappa dalla fame o dalla guerra per approdare, a rischio della vita, in lidi più sicuri. Nella immaginazione dei razzisti è portatore di disordine e di violenza, dimenticando che teniamo in casa nemici ben più radicati e temibili che taglieggiano i cittadini, uccidono a sangue freddo, tengono a freno, con i loro abusi, lo sviluppo del paese: mafia, ‘ndrangheta e camorra. Quale il pericolo maggiore? Migranti. La svolta Ue sugli sbarchi e gli ostacoli che rimangono di Franco Venturini Corriere della Sera, 29 agosto 2017 Dal vertice di Parigi sono venute all’Italia e al suo governo impegnative espressioni di appoggio nel quadro di una strategia complessiva. Buone notizie dall’Europa. Da quanto tempo le aspettavamo, sul tema scottante dei flussi migratori che dalla Libia attraversano il Mediterraneo per raggiungere le nostre coste? Da molto, troppo tempo. Ma così come siamo stati puntuali e severi nel denunciare le indifferenze europee quando si sono manifestate, oggi è doveroso constatare con un cauto compiacimento che dal vertice di Parigi sono venute all’Italia e al suo governo impegnative espressioni di appoggio. Le regole per le Ong, gli accordi raggiunti dal ministro Minniti con autorità locali libiche, l’appoggio operativo dato alla guardia costiera di Tripoli, sono stati recepiti come altrettanti punti di partenza di una strategia complessiva che offre proprio in Italia l’incoraggiante riscontro di un netto calo degli arrivi. Certo, attorno al tavolo di Parigi e sotto il patrocinio di Emmanuel Macron sono state scambiate parole, ancora parole. E a pronunciarle, malgrado la presenza dell’Alto rappresentante per la politica estera della Ue Federica Mogherini, era una minoranza dell’Europa, non tutta l’Europa. E tuttavia il cambiamento di approccio nei confronti della "linea italiana" è stato politicamente rilevante. Per almeno due motivi. Perché i Quattro di Parigi (Francia, Germania, Italia, Spagna) sono gli stessi Quattro che dopo le elezioni tedesche di fine settembre dovrebbero guidare il rilancio dell’Europa secondo il metodo delle "diverse velocità". Soprattutto perché la più influente di queste avanguardie, quella signora Merkel che è ormai certa di essere rieletta alla Cancelleria, ha affermato alla vigilia dell’incontro di Parigi che "tutti in Europa devono riconoscere come il vecchio sistema di Dublino non sia più sostenibile". L’idea di una rottamazione del metodo di Dublino (il profugo resta nel Paese dove viene identificato per la prima volta) non è nuova, e non è la prima volta che Angela Merkel la evoca. Ma riaffermarla mentre è in atto la volata finale della sua campagna elettorale e portarla volutamente sul tavolo di Parigi sono elementi che fanno pensare a una volontà politica precisa destinata a manifestarsi con maggior forza dopo il responso delle urne. Ed è evidente che ripensare radicalmente Dublino resta per l’Italia il più importante dei traguardi da raggiungere. Un passo avanti è stato dunque compiuto, forse uno di quei passi che annunciano svolte profonde. L’Italia ha tutto il diritto di aspettarselo. Ma il compiacimento di oggi, per non rischiare di trasformarsi in delusione cocente, deve essere temperato dalla consapevolezza degli ostacoli che sussistono sulla via di una corretta e realistica gestione delle spinte migratorie. Il tempo delle vite da salvare in mare non è tramontato, e verosimilmente non tramonterà. L’opera delle Ong che hanno preferito ritirarsi pur di non accettare le nuove regole imposte dall’Italia andrà compensata, perché non è pensabile, e nessuno vuole pensare, che un aumento delle morti in mare faccia parte della soluzione. L’opera della guardia costiera libica, anche grazie all’appoggio e all’assistenza italiana, si sta rivelando positiva. Ma ha ragione la Merkel quando, dopo gli elogi, ricorda che essa deve attenersi alle leggi internazionali sia nella gestione dei migranti sia con le Ong. Non si può e non si deve trasformare la Libia in un enorme campo profughi privo di garanzie umanitarie minime. Alla massa crescente dei migranti in attesa di imbarcarsi si aggiunge ora quella più piccola di coloro che sono stati intercettati e riportati a terra. E per i primi come per i secondi non esistono garanzie sulle procedure che vengono seguite, mentre esistono invece certezze sulle atrocità che le milizie dei trafficanti infliggono ai loro ostaggi. Senza un effettivo intervento in Libia dell’apposita agenzia Onu e della Organizzazione mondiale delle migrazioni, la realtà libica può soltanto alimentare preoccupazioni assai gravi. Anche in quella Tripolitania che dovrebbe essere governata dal nostro alleato Fayez al Serraj. Quando gli standard umanitari minimi saranno garantiti, ma soltanto allora, si potrà passare alla creazione di hot spots in Libia e al rimpatrio dei migranti nei loro Paesi di origine partendo, traguardo questo di fondamentale importanza, dal territorio africano anziché da quello europeo. Questa strategia richiede una serie di politiche preliminari. Vanno conclusi accordi con i Paesi africani interessati e con quelli che possono frenare i migranti che attraversano il Sahel per entrare poi in Libia (i presidenti di Ciad e Niger erano a Parigi), occorre offrire alternative economiche alle popolazioni che oggi si trovano sulla rotta dei migranti e ne traggono benefici, occorre investire nei Paesi di origine per contenere la spinta all’emigrazione. Ma gli investimenti economici necessitano di tempo per dare frutti, e la pressione migratoria ha fretta. Sullo sfondo rimangono tutte le divisioni e tutta l’insicurezza della Libia attuale. A Parigi c’era Al Serraj (anche questo è un riconoscimento per la linea italiana), ma senza una reale collaborazione con Haftar e la Cirenaica, rivelatasi finora impossibile, i progressi in Tripolitania restano vulnerabili. Oppure indicano la via di una "cantonizzazione" della Libia. Sul versante europeo, poi, la questione migratoria rischia di spaccare la Ue. Mentre tutti guardano alla Brexit, è il gruppo di Visegrad che rappresenta per l’Europa la più seria minaccia di secessione. Una minaccia che viene già attuata quando si tratta, come dice risolutamente la Merkel, di "distribuire i profughi in modo solidale". La grande partita sta per cominciare, e si giocherà in Europa non meno che in Africa. Migranti. Campi profughi in Africa in cambio di investimenti di Carlo Lania Il Manifesto, 29 agosto 2017 Al vertice di Parigi l’Europa fa sua la linea italiana per contenere i flussi dei migranti. E promette di voler di riformare Dublino. Campi profughi in Niger e Ciad, addestramento di personale dei due paesi africani per arrivare alla costituzione di una guardia di confine lungo la frontiera con la Libia. Ma anche trasferimenti dalla Libia direttamente nei Paesi di origine dei migranti, un ulteriore rafforzamento della guardia costiera di Tripoli e sostegno economico ai Paesi di transito, perché si adoperino nel contrasto dell’immigrazione irregolare. A Parigi, in un vertice che vede riuniti i leader di Francia, Spagna, Italia e Germania con quelli di Libia, Ciad e Niger, l’Unione europea fa sua la linea indicata dal governo italiano per fermare i flussi diretti nel nostro Paese e, in questo modo, sposta ancora più a sud i suoi confini. Non più il Mediterraneo, non più la Libia - che nonostante la sua instabilità resta un punto di riferimento - ma Ciad e Niger, due Paesi che sono altrettanti punti di passaggio per quanti fuggono da miseria e persecuzioni e ai quali, adesso, si chiede di sigillare ulteriormente le proprie frontiere in cambio di aiuti allo sviluppo. Una linea che, prima ancora che al vertice francese, è stata confermata in un incontro che si è tenuto in mattinata al Viminale tra il ministro degli Interni Marco Minniti e i colleghi di Ciad, Mali e Niger nel quale è stata decisa la costituzione di una task force tra le polizie dei quattro Paesi. È nei prossimi mesi che il "piano d’azione" messo a punto ieri a Parigi diventerà operativo. A spiegarlo è stato il presidente francese Emmanuel Macron sottolineando come, negli sforzi per contenere i migranti, non sia escluso un contributo militare da parte delle forze del G5 Sahel. "Allo scopo - ha spiegato - di mettere in sicurezza le frontiere all’interno del G5, misure che sono oggetto di vari milioni di euro di finanziamento a livello Ue". Le prossime tappe prevedono un nuovo vertice in autunno da tenersi in Spagna prima di arrivare a novembre, quando si terrà il previsto summit tra Ue e Unione africana. Ma la strada - che punta alla chiusura la rotta del Sahel per chiudere definitivamente quella del Mediterraneo centrale, è ormai tracciata. Ai paesi africani, ha spiegato Macron, l’Unione europea garantirà dotazioni economiche, di personale e di mezzi: jeep e sistemi radar per controllare i confini terrestri, addestramento del personale sono gli obiettivi a breve termine, ai quali faranno seguito finanziamenti destinati a progetti allo sviluppo. Come quelli su sanità e istruzione che l’Italia si è impegnata a finanziare ai sindaci libici e che sabato scorso, in un incontro al Viminale, sono stato consegnati al ministro Minniti. Da tutti i partecipanti al vertice è stata sottolineata la necessità che si arrivi al più presto a una stabilizzazione della Libia, così come quella di riformare il regolamento di Dublino. A rimanere invece sullo sfondo, se non a parole, è come al solito la questione più delicata, vale a dire il rispetto dei diritti umani dei migranti. Era stato garantito per quelli detenuti nei centri di detenzione in Libia, - e oggi tutti sanno che non è così, al punto che ieri il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto alle autorità libiche di "rilasciare immediatamente" i migranti più vulnerabili. Ora viene garantita per i campi che verranno allestiti in Ciad e Niger e che dovrebbero essere gestiti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. "Abbiamo preso atto - ha assicurato sempre Macron - di poter avere un trattamento umanitario all’altezza delle nostre aspettative". Scopo dei campi sarà quello di selezionare i migranti dividendoli tra economici e quanti invece hanno diritto a presentare domanda di asilo. In Niger, come in Ciad e soprattutto in Libia, ha spiegato Macron, "l’identificazione degli aventi diritto avverrà su liste chiuse dell’Unhcr". Ci vorrà qualche mese per capir se il piano d’azione messo a punto ieri a Parigi risponderà ai desideri europei oppure no. Tutto dipenderà anche da quanto l’Europa sarà disposta a investire in Africa, come ha ricordato ieri il presidente del Ciad Idriss Deby, presente anche lui al vertice. "Cos’è che spinge i giovani africani ad attraversare il deserto a rischio della vita?", ha chiesto. "È la povertà, la mancanza di istruzione. Il problema resterà sempre lo sviluppo, c’è bisogno di risorse". Migranti. "Una doccia a Calais", l’ironia delle associazioni di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 29 agosto 2017 Migrazioni. La giustizia obbliga stato e comune a mettere dei rubinetti per i rifugiati. Il ministro degli Interni vuole evitare a tutti costi di creare "un richiamo": niente docce, mentre si diffondo le malattie dovute alla mancanza di igiene (e la violenza esasperata dalle condizioni di vita "inumane", secondo il Consiglio di stato). Macron vuole aprire hotspot in Africa. Un pò di grazia per alleggerire la dura realtà. Negli ultimi giorni, dei militanti associativi - l’idea è venuta al Secours Catholique - pubblicano sui social delle foto con l’invito: "Sono Vincent (o Léa o altri nomi), vengo a fare la doccia a Calais". È la risposta ironica alla recente affermazione del ministro degli Interni, Gérard Collomb: toilette e docce per i migranti trasformerebbero Calais in un "punto di fissazione", attirando persone, mentre l’obiettivo del governo è di impedire che si formino di nuovo degli accampamenti improvvisati, dopo la distruzione della "giungla" nell’ottobre 2016. A Calais vagano di nuovo centinaia di persone, almeno 700 per le associazioni, 450 per le autorità, sempre con l’obiettivo di tentare l’attraversamento della Manica per recarsi in Gran Bretagna. La Prefettura e il comune hanno dovuto rimettere dei rubinetti per l’acqua e dei gabinetti, dopo che il Consiglio di stato, il 31 luglio scorso, ha confermato una sentenza del tribunale amministrativo di Lille, che ordinava di fornire dei servizi sanitari d’emergenza ai migranti, ridotti a subire "trattamenti inumani e degradanti". Ma le docce non ci sono ancora per tutti, ne esistono solo alcune "terapeutiche" per chi è affetto da malattie della pelle. Per Médecins du monde, "la questione delle docce è centrale", vista la diffusione delle malattie dovute alla mancanza di igiene. Ma per il Prefetto, la risposta dello stato è "equilibrata", con dei punti d’acqua mobili ridotti al minimo. I pochi rubinetti disponibili sono diventati una nuova fonte di tensione tra comunità. Nelle ultime settimane, si sono verificati scontri a Calais e dintorni. Un’inchiesta realizzata il 17 e 18 agosto, interrogando 162 persone, mette in luce la precarietà di vita: il 76% afferma di aver subito interventi repressivi della polizia, che distrugge sistematicamente il poco materiale di cui dispongono i migranti. In media, stando a questa inchiesta, le persone rifugiate a Calais non dormono più di 4 ore per notte. Human Rights Watch aveva denunciato a fine luglio l’utilizzazione di gas urticante da parte della polizia, un non rispetto dei diritti dell’uomo "di eccezionale e inedita gravità" a Calais. Per Vincent De Cornick, del Secours catholique, i rubinetti al contagocce sono una risposta "nulla", "una situazione risibile, pietosa". Al vertice di ieri all’Eliseo, Macron ha presentato di nuovo il programma già delineato a grandi linee in un discorso a Orléans il 27 luglio scorso: l’idea è di coordinare varie iniziative, dalla lotta alle rete dei trafficanti all’aiuto al ritorno per chi non ottiene l’asilo, passando per una più efficiente sorveglianza delle frontiere, apertura di hotspot in Niger e Ciad per esaminare sul posto le domande con la presenza di funzionari francesi dell’immigrazione e investimenti in Arica per rilanciare l’economia (ma, en même temps, il governo ha tagliato di 141 milioni di euro l’aiuto allo sviluppo per quest’anno). Nei dintorni di Calais sono stati aperti l’8 agosto scorso dei centri di accoglienza, con lo scopo di accelerare le risposte alle richieste d’asilo. Ma la maggior parte dei migranti presenti a Calais "sono in transito, non vogliono chiedere l’asilo in Francia", ma sperano sempre di arrivare in Gran Bretagna, spiega Corinne Torre di Médecins sans frontières. Se i migranti rifiutano di chiedere l’asilo cadono sotto la procedura di Dublino (la maggior parte è entrata dall’Italia e qui dovrebbe venire rimandata). Così, questi centri sono occupati solo parzialmente e soprattutto da persone che vengono da Parigi, dopo l’ennesimo sgombero degli accampamenti improvvisati a Porte de La Chapelle (2459 evacuati nell’estate). Ragazzi fantasma: 10 mila minori migranti scomparsi in Italia nell’ultimo anno di Davide Lessi La Stampa, 29 agosto 2017 Tanti sono svaniti dai nostri centri d’accoglienza. "Ora sono minacciati dalla criminalità". Ma molti sarebbero fuggiti negli altri Paesi europei. "Sono vivo. Tecnicamente". Alla fine di un viaggio durato più di due anni, dopo aver rischiato prima di ammalarsi di ebola in Guinea e poi di morire disidratato nel deserto algerino, Biko, sbarcato in Sicilia, si era definito così: vivo, tecnicamente. Diciassette anni e nome d’invenzione, Biko è solo uno dei migliaia di minori non accompagnati che arrivano sulle coste italiane. Da gennaio a luglio l’Unhcr ne ha contati 11.400, sul totale degli oltre 83 mila arrivi: praticamente un migrante su otto di quelli soccorsi è uno straniero che è partito solo, senza famiglia e senza aver compiuto 18 anni. Ma l’epopea per Biko, non è finita. Adesso rischia di diventare un "ragazzo fantasma". Uno dei tanti minorenni che, una volta arrivati in Italia, si rendono irreperibili. In totale sono 31.653 i minori stranieri ancora da rintracciare nel territorio italiano. Nell’ultimo anno sono 9754 in più rispetto al 2016, in aumento del 44,5%, secondo la relazione presentata dal commissario straordinario del governo Vittorio Piscitelli. Di questi irreperibili 8372 si sono allontanati dai centri di accoglienza. Un esercito che, dopo essere entrato nel sistema, è sfuggito al radar delle autorità. Tanto che lo stesso commissario Piscitelli lo definisce come "il fenomeno più preoccupante". Alcuni sono scappati in altri Paesi europei, altri nelle grosse città italiane. Ma tanti rischiano il reclutamento nella criminalità o di essere vittime della tratta. A lanciare l’allarme sul rischio fu, nel febbraio 2016, il capo dello staff di Europol, Brian Donald, aggiungendo di temere che "10 mila minorenni scomparsi in Europa fossero in mano a criminali o trafficanti". Che fine hanno fatto i minorenni spariti dall’Italia? Per inquadrare il fenomeno aiuta sentire Elena Carnevali deputata Pd e coordinatrice del gruppo di lavoro sui minori stranieri non accompagnati. "Negli ultimi anni gli arrivi sono aumentati e la percentuale degli irreperibili sul totale è rimasta circa un terzo". Cresce il numero dei minori soli (17 mila quelli censiti a luglio) e, di conseguenza, cresce la "fetta di irreperibilità". Un limbo sconosciuto in cui, aggiunge Carnevali, "questi ragazzi potrebbero essere esposti allo sfruttamento e altri pericoli". A fine maggio, secondo i dati del ministero del Lavoro, gli irreperibili risultavano essere 5190: la maggior parte proveniente da Egitto (1002), Eritrea (863), Somalia (853), Afghanistan (529), Guinea (274) e Nigeria (225). Ma il dato è sottostimato: a questi vanno aggiunti quelli sfuggiti dai censimenti perché sono riusciti a non farsi foto-segnalare in Italia. Un caso denunciato dalla sindaca di Roma Virginia Raggi nell’intervista pubblicata domenica da La Stampa. E confermato anche da Valeria Gerace, legale di Save the Children, Ong attiva nella protezione dei bambini. "Le cause della scomparsa dei minori sono diverse", spiega individuandone almeno tre tipologie. "Da una parte ci sono i cosiddetti "minori in transito", per di più afghani, eritrei e somali, che cercano di velocizzare i ricongiungimenti con i famigliari nel Nord Europa". Il regolamento di Dublino 3 già lo permetterebbe, ma questi ragazzi hanno fretta di arrivare in Svezia, Norvegia o Germania per trovare un lavoro e, magari, ripagare i debiti del viaggio. "Altro caso - specifica Gerace - è quello di chi viene dal Sud Sahara, e spesso cerca di raggiungere le loro comunità a Milano e Roma". Gli egiziani, l’11,7% degli arrivi, invece "vogliono trovare un lavoro al più presto e a ogni costo". Nella fuga di questi ragazzi invisibili, c’è dell’altro. "Pur esistendo dei centri di primo livello, delle volte le condizioni alle quali sono sottoposti diventano dei muri reali", ammette Carnevali in merito ai migranti in transito. La lungaggine nella nomina del tutore, i bassi numeri dei rimpatri (solo 426 le indagini famigliari svolte nel 2016) e i ritardi nella richiesta di ricongiungimento con i famigliari già presenti in altri Stati europei inducono i minori a sparire. Chi richiede asilo, infine, denuncia una condizione di abbandono. L’unico sistema funzionante, quello dello Sprar (il Sistema di protezione per i richiedenti asilo) garantisce solo 2127 posti ai minorenni. "Pochi - ammette Carnevali - ma anche qui entrano in gioco i Comuni: in tanti si oppongono all’accoglienza". L’ultima protesta, pochi giorni fa, è andata in scena a Breno di Borgonovo (Piacenza). "No ai neri e alle coop rosse", hanno scritto sul muro dell’ex scuola dove dovevano trovare casa 15 minori non accompagnati. Eritrea. Le verità negate sui profughi che scappano dall’ex colonia italiana di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 29 agosto 2017 Le ragioni di un esodo per la dittatura di Isaias Afewerki, che dura dal 1993, in un Paese che ha mantenuto stretti contatti con l’Italia anche dopo il passato coloniale. "Camèl, barchéta e te turnet a cà. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi. Non ti va bene? Camèl, barchéta e te turnet a cà". Nello sfogatoio di questi giorni contro gli immigrati eritrei sgomberati con le cattive dal grande edificio occupato a Roma è mancata solo la voce dell’ex assessore fascio-leghista della Regione Lombardia, Pier Gianni Prosperini, famoso appunto per quel tormentone securitario in dialetto con cui chiudeva le sue sfuriate televisive: "Cammello, barchetta e te ne torni a casa". Lui sì, aveva le idee chiare sugli eritrei che, stando ai rapporti dell’Alto commissariato per i rifugiati, hanno rappresentato in anni recenti come il 2015 la fetta più grossa dei profughi sbarcati dalle carrette del mare in Italia. Davanti ai nigeriani, ai somali, ai sudanesi… Macché rifugiati in fuga dal terrore! Erano tutti giovani, spiegò una volta a Radio Popolare, che "certamente non fuggono per motivi politici o disagio personale. Vengono verso un mondo di lustrini dove si può guadagnare di più". E le denunce internazionali contro il regime di Isaias Afewerki, che dopo aver portato nel 1993 l’Eritrea all’indipendenza dall’Etiopia si impossessò del potere abolendo le elezioni e instaurando un regime dittatoriale? E i dossier di Amnesty International sulla leva obbligatoria a tempo indeterminato ("per questo nessuno può avere un passaporto prima dei 60 anni", spiegò il Sole 24 Ore) e la progressiva corsa alle armi che ha portato il Paese ad essere classificato come il secondo stato più militarizzato al mondo? E l’abolizione della libertà di stampa che ha guadagnato per sei anni consecutivi ad Asmara, dove dal 2010 non ci son più corrispondenti esteri, il marchio assegnato da "Reporters sans frontières" di Paese meno libero del pianeta? E il durissimo rapporto (con 830 interviste e 160 deposizioni scritte) della Commissione d’inchiesta Onu sulle torture più spaventose applicate sistematicamente ai prigionieri? Ecco, sarebbe bello se in questi giorni di polemiche sulla opportunità o meno di applicare in modo così ruvido la legge nello sgombero dell’"hotel clandestino" di piazza Indipendenza (dove gli "ospiti" pagavano per una topaia quanto uno studente universitario per dividere una camera intorno alla Bicocca o al Verano) gli italiani fossero informati meglio anche su "chi" c’era dentro, quel palazzo: eritrei. E soprattutto sul "perché" tanti eritrei sono scappati dalla loro patria per cercare rifugio da noi. Anche nella scia d’un passato che per una sessantina di anni vide l’Eritrea, "Colonia primogenita dell’Italia", riempirsi di immigrati italiani saliti via via fino a oltre centomila. Il tutto tra il plauso della Chiesa cattolica per l’invasione di quella terra da diciassette secoli già cristiana ortodossa ("Essi vogliono portare a quelle genti, avvolte negli orrori della schiavitù e nelle tenebre delle false religioni", spiegò il vescovo Giovanni Giorgis, "la luce divina della vera fede e della carità fraterna, e procurare insieme un vasto campo di lavoro a tante famiglie che non hanno il pane sufficiente in patria") e la diffidenza razzista di Roma. Valga per tutte una circolare del Governatore dell’Eritrea del 1936 (prima delle leggi razziali: prima!) ripresa recentemente nel libro In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza) di Emanuele Ertola. Circolare che deprecava "lo spettacolo che si verifica giornalmente dinanzi alle case malfamate delle donne indigene, dove molti nazionali fanno ressa e schiamazzi per avere la precedenza nell’ingresso, come sono degradanti alcune manifestazioni cui si sono abbandonati taluni giovani cittadini che si sono fatti vedere pubblicamente in pose di ridicola svenevolezza verso donne indigene e, peggio, si sono fatti fotografare". Di più, continuava il documento, "nonostante i richiami già fatti, si vedono ancora cittadini nazionali che vanno in autovettura od in carrozza con indigeni, o si recano a passeggio e nei caffè con indigeni, o danno comunque eccessiva confidenza agli indigeni stessi". Ecco: così eravamo noi là, a casa loro. A casa degli eritrei. E certo la nostra storia, per quanto costituita fortunatamente anche dal buon lavoro e dalla stima guadagnata da tanti nostri connazionali, non è una storia di cui andare tanto fieri. Ma per capir meglio certe indecenti ipocrisie, è utile risentire appunto quanto diceva Pier Gianni Prosperini in una video-intervista che gli fece nel 2009 Fabrizio Gatti dal titolo "L’amico Isaias". Dove l’allora assessore alla sicurezza (alla sicurezza!) della più importante regione italiana si vantava d’esser "colonnello dell’esercito eritreo" e di esserne "molto orgoglioso". Definiva Afewerki "un uomo capace e sagace" che conduceva il Paese "con mano ferma e paterna". Ferma e paterna. Chi scappa via, tuonava il rissoso alleato di Roberto Formigoni, "è un traditore. Perché in questo momento c’è bisogno che stiano lì". E poi: "Dove sono questi torturati? Io non li ho visti. Ho girato il Paese in lungo e in largo ma non ho visto prigioni con torturati o torturanti. Cosa pensano, che gli strappino le unghie? Ma dove l’hanno visto? Che prove hanno più che le balle che loro e qualche pretaccio infame vanno in giro dicendo? C’è un governo, vogliamo dire un pò autoritario? Ci vuole! Torture perché? Casomai li ammazzano: li butti in un formicaio e li troveremo fra duemila anni…" Poche settimane dopo veniva arrestato. L’accusa: tangenti. Ad aprile del 2015 i nostri Alessandra Coppola e Michele Farina raccontavano sulla diaspora eritrea: "Non c’è luogo al mondo che non sia in guerra e che registri un esodo così massiccio e continuato. Sei milioni di abitanti. Il 20 per cento è già partito. Ma non sempre è arrivato. In 350 sono morti solo nell’ultimo naufragio". Negli stessi giorni usciva un’Ansa: "L’ex assessore regionale lombardo Pier Gianni Prosperini è stato condannato a 4 anni di reclusione nel processo milanese che lo vedeva accusato di esportazione illegale di materiale d’armamento verso l’Eritrea". Camèl, barchéta e coerenza. Iran. Sciopero fame carcerati. Nessuno tocchi Caino: il governo li ascolti Askanews, 29 agosto 2017 Nessuno tocchi Caino si unisce alla mobilitazione internazionale a sostegno delle ragioni dei detenuti politici del carcere di Rajài Shahr a Karaj, in sciopero della fame da 27 giorni, e chiede al Governo italiano di attivarsi affinché siano rispettai i loro diritti umani. All’azione nonviolenta in corso dal 30 luglio da parte di detenuti politici nella prigione di massima sicurezza di Rajài Shahr si sono uniti anche detenuti di altre carceri come quelli di Ardebil che il 24 agosto hanno annunciato uno sciopero della fame di una settimana. Il 30 luglio scorso, circa 53 prigionieri politici sono stati forzatamente trasferiti nella sezione 10 del carcere di Rajài Shahr: picchiati e senza poter prendere i beni personali, compresi i farmaci, i vestiti, i quaderni, le foto e le lettere si sono ritrovati in una sezione le cui condizioni sono descritte come claustrofobiche, con le finestre delle celle oscurate da lamiere e le porte sigillate, in ambienti umidi e privi della circolazione dell’aria, senza che vi sia acqua potabile e con letti insufficienti per tutti, privati anche delle visite dei familiari e della possibilità di un contatto telefonico con loro. Telecamere a circuito chiuso e dispositivi di ascolto sono ovunque, anche nelle docce e nei bagni. Il procuratore generale di Teheran, Jafari-Dolatabadi, persona che si trova nella "Lista nera" dell’Unione Europea per le gravi violazioni dei diritti umani di cui si è reso responsabile, ha minacciato pubblicamente i detenuti dichiarando che "le loro azioni falliranno" e che "il sistema giudiziario non è condizionabile da azioni dei prigionieri come lo sciopero della fame ". I detenuti che stanno portando avanti lo sciopero della fame nel carcere di Rajài Shahr sono almeno 21 e tra loro vi sono prigionieri di coscienza, come militanti dei diritti umani, sindacalisti, giornalisti, studenti, dissidenti politici e appartenenti alla comunità Bahài perseguitata in Iran. Con la loro azione nonviolenta, chiedono di poter tornare nelle sezioni di provenienza e di riavere i loro beni e il risarcimento di quanto andato perduto. "Non possiamo restare indifferenti di fronte alle condizioni disumane e degradanti in cui queste persone, che non dovrebbero neppure stare in carcere per come si sono svolti i loro processi e per i capi d’accusa che gli sono stati contestati, sono costrette a vivere - hanno dichiarato Sergio d’Elia, Segretario di Nessuno tocchi Caino ed Elisabetta Zamparutti, tesoriera - Per questo consideriamo urgente una visita dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran nel carcere di Rajài Shahr, così come un intervento del Governo italiano, sia in via bilaterale che multilaterale affinché siano accolte le richieste dei detenuti politici della prigione di Rajài Shahr e siano rispettati i loro diritti umani". Yemen. Campagna per liberare la star dei social media di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 agosto 2017 Il 14 agosto il suo profilo Twitter è improvvisamente diventato muto. Un evento insolito per Hisham Al-Omeisy, 38 anni, che aggiorna i suoi 25mila follower sulla situazione in Yemen in modo quasi maniacale. Per questo i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani e tutti quelli che lo seguono si sono preoccupati. Il suo ultimo cinguettio il 13 agosto diceva che c’erano delle persone armate fuori dalla sua porta a Saana. Poche ore dopo un suo amico scriveva che Hisham Al-Omeisy era stato portato via in un convoglio pieno di gente armata diretto verso un’area controllata dai ribelli Houthi. Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno chiesto il suo immediato rilascio. Intanto online con l’hashtag #FreeHishamAlOmeisy è partita una petizione lanciata dalle migliaia di follower dell’attivista che, nei suoi post, era stato critico di tutti e due i fronti della guerra in Yemen. Da quando Hosham è stato arrestato si è diffusa una maggiore paura a pubblicare post e tweet che raccontino il conflitto. Secondo Human Rights Watch dal 2015 sono stati 66 i casi di persone arrestate arbitrariamente o semplicemente scomparse. Da più di due anni lo Yemen è teatro di una cruenta guerra civile fra i sunniti, sostenuti da una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, e gli sciiti Houthi, spalleggiati dall’Iran. I violenti scontri dal 2015 hanno provocato oltre 8.400 morti e 47.000 feriti. Nel Paese è allarme carestia: su 25 milioni di abitanti, il 70% avrebbe bisogno di aiuto umanitario. Due milioni di bambini sono malnutriti. Il colera dilaga: 130 mila casi e 942 decessi registrati.