L’ergastolo che ti fa morire senza speranza esiste davvero Il Mattino di Padova, 28 agosto 2017 Sono in tanti a pensare che nel nostro Paese l’ergastolo "non se lo sconta nessuno", nel senso che esiste sulla carta, ma poi anche l’ergastolano accede a permessi e altre misure all’esterno. Non è così semplice, e non riguarda affatto tutti questa possibilità che la pena detentiva venga trasformata, per esempio, dopo molti anni in una semilibertà da trascorrere di giorno al lavoro fuori, di notte in carcere. Ci sono ergastoli scontati fino all’ultimo giorno di vita in galera, così è stato quello di Carmelo Calautti, un ergastolano morto in questa torrida estate, a 76 anni, per infarto. Lo vogliamo ricordare, attraverso le parole del suo insegnante di scrittura in carcere, e poi di due suoi compagni, per far capire una cosa semplicissima, a cui però non si pensa mai abbastanza: che dietro ogni detenuto, anche condannato alla pena perpetua, c’è comunque un essere umano. Carmelo nel ricordo del suo insegnante Volevo scrivere su Carmelo due righe, sul personaggio che è stato, nel nostro gruppo, una figura di presenza, voleva esserci, starci, da quando aveva deciso era sempre venuto. Salvo quando stava poco bene. La morte pone fine alla costruzione e permette di vedere il capitolo della nostra storia concluso. (…) Si sedeva, sistemava la cartellina "vede che ce l’ho sempre?" - con i fogli a posto e iniziava a seguire la lettura. Lentamente, ma chiedendo se non trovava o se, "mi scusi se la interrompo, ma mi pare che abbia saltato una parola". Aveva altri pensieri Carmelo, la salute soprattutto, sottolineata negli ultimi mesi da frequenti assenze di carattere medico o da visite in ospedale. "Sono uscito per andare allo spitale, diceva, è stato bello vedere Santo Antonio dalla ‘mbulanza, era la prima volta". Ma poi il pensiero tornava al suo paese. "Un giorno Le porto le foto. Si chiama Mammola il mio paese, sa, è sulla collina, è bellissimo e ci sono delle buonissime ricette". E lì si apriva un altro capitolo. "Mi scusi, Carmelo, devo andare avanti con la lezione", "Mi scusi lei, ma quando ce vo’ ce vo’ " e proseguiva, da vero capo. (…) Carmelo scriveva poesie e piccole pagine, parlava di luna e di amore. Da non credere. Siamo in carcere, siamo tra ergastolani nel senso letterale, con tutto quello che accompagna la situazione delle condanne di questo tipo. Eppure portava dei brevi testi di sogno e di omaggio a una presenza femminile che lo aveva avvicinato durante le attività di incontro di Ristretti Orizzonti. "Mi fa un favore? Potrebbe farmi anche a me un libretto con le poesie che le ho portato in questi mesi?", mi chiese il 9 giugno scorso e poi di nuovo il 15. Non ho fatto in tempo, pensavo di farlo alla ripresa dei corsi, a settembre, e l’ho anche criticato per la sua fretta e l’imposizione implicita nella pressione. Mi scusi ora, Carmelo. Carmelo, mi scusi ora, forse lei sapeva già qualche cosa. Mi ha scritto una lettera di grazie a fine scuola, pochi giorni dopo, ed era il 21. L’ho ricevuta il 28 di giugno, le ho risposto il 7 luglio, ma ho spedito il 10... E quindi credo di non essere arrivato in tempo. Mi scusi di nuovo, la abbraccio ora, ma non è sufficiente. Porterò tutte le poesie e lettere al gruppo, il 14 settembre. Angelo Ferrarini, professore di "scrittura-lettura-ascolto" in carcere Era l’uomo delle caramelle Il titolo di questo mio racconto suscita forse un po’ di curiosità, ma di curioso non c’è proprio nulla, è solo una storia triste. Lo chiamavamo "l’uomo delle caramelle", il suo nome era Carmelo, scrivo era perché è deceduto all’ospedale, non ce l’ha fatta a sopravvivere a quel malore che gli era venuto una domenica mattina, durante la santa messa nella chiesetta situata all’interno della Casa di Reclusione di Padova. Quest’uomo, Carmelo Calautti, era di Mammola, un paese della provincia di Reggio Calabria, lo so perché ne parlava sempre. Carmelo era una persona che aveva superato la terza età da diversi anni, ma era da diversi anni che era recluso nelle patrie galere. Anche lui era stato condannato alla pena perpetua e cioè alla condanna dell’ergastolo e il suo fine pena era: "31.12.9999". Carmelo era il detenuto più anziano che, una volta a settimana, partecipava al corso di "scrittura, ascolto e lettura" di Ristretti Orizzonti. Ogni giovedì mattina che ci incontravamo al corso, era l’unico detenuto che dalle tasche della sua giacchetta tirava fuori le caramelle e qualche cioccolatino che offriva al professore Angelo Ferrarini e a qualche altro volontario. Noi compagni di corso eravamo sempre gli ultimi e ugualmente dovevamo accettare la caramella o il cioccolatino, così lui sorrideva ed era contento. Di una sola cosa non era contento, del fatto che non gli concedevano qualche permesso premio. Permessi premio di cui aveva usufruito in passato dal carcere di Potenza. Non so per quali motivi sia stato trasferito qui al carcere di Padova. Comunque era da diversi anni detenuto in questa Casa di reclusione, la sua ossessione era quella di poter rivedere il suo paese natio, ma quel paese rimarrà nei suoi ricordi nell’aldilà. Anche il nostro caro Carmelo sapeva che con la condanna all’ergastolo sulle spalle, sarebbe morto in carcere. Sapeva che non c’era speranza di morire al suo paese, però, ogni tanto sperava che il magistrato di Sorveglianza prima o poi gli avrebbe concesso un permesso per poter rivedere quei luoghi dove aveva trascorso la sua infanzia. Questa è la tragica fine di un altro ergastolano, condannato a non avere più speranza, condannato a non vedere più il suo paese nativo. Ricorderò di Carmelo che, dietro ai suoi sorrisi e ai lunghi silenzi, si celava un animo buono e sensibile, non privo di una certa dolcezza. Pace all’anima sua. Angelo Meneghetti, ergastolano Morire senza libertà Stavamo in riunione in redazione nel solito pomeriggio afoso di inizio agosto quando è entrato Bardhyl a dirci: "è morto Carmelo" … siamo rimasti tutti zitti in un silenzio quasi pudico misto tra sentimenti di rispetto, tristezza e di grande rammarico per una vita che praticamente aveva cominciato a spegnersi qui dentro, nella cappella del carcere. Lo avevano poi ricoverato in ospedale dove era stato operato d’urgenza con la speranza che si riprendesse. Non si è più ripreso. Il dolore per la morte improvvisa di una persona a cui si è imparato a voler bene suscita sgomento, rabbia, incredulità, soprattutto se è una morte avvenuta senza libertà e senza speranza. Con lui muore qualcosa di noi. Non ci si può abituare, è difficile davvero accettarlo. Carmelo Calautti aveva 76 anni era nato il 10 luglio 1941, condannato all’ergastolo era detenuto da circa venticinque anni. Si trovava qui nella Casa di reclusione di Padova dal 2008. Proveniva da un carcere della Basilicata, da dove, grazie al suo buon comportamento e all’età avanzata, aveva potuto usufruire dei benefici penitenziari. Perciò per alcuni anni poté uscire in permesso premio e soggiornare qualche giorno a casa dei familiari, tuttavia, aveva un nipote con dei precedenti penali e credo che i contatti con lui siano stati il motivo per cui il giudice di Sorveglianza di Potenza gli aveva revocato il beneficio del permesso premio. Da lì, qualche tempo dopo, fu trasferito qui al carcere di Padova. A Padova in questi nove anni non gli furono più concessi i permessi premio per trascorrere qualche giorno a casa dai parenti, probabilmente perché lui si dichiarava sempre innocente. Al momento dell’arresto, al processo e durante l’espiazione della pena, non cessava infatti di sostenere la sua estraneità all’omicidio che gli era costato l’ergastolo. Ma l’innocenza che lui rivendicava veniva classificata come "mancata revisione critica" del suo passato. Da venticinque anni stava all’ergastolo, e se lo fosse stato davvero, innocente? Colpevole o innocente, lui era comunque una persona. Un uomo dal fisico minuto, gentile e sorridente. Quando parlava della sua situazione si capiva che ne soffriva, a volte capitava che si contrariasse ma non trascendeva mai. Era uno che in ogni luogo entrava sempre in punta di piedi. Frequentava il gruppo di discussione della redazione di Ristretti Orizzonti e li abbiamo imparato tutti a volergli bene. Veniva spesso anche allo sportello giuridico per i ritardi della sua pensione che gli arrivava dalla Germania, ma ogni volta si presentava sempre offrendo caramelle e cioccolatini con un sorriso che colpiva. Andava a messa tutte le domeniche mattina perché gli piaceva il contatto con le persone, e suppongo che credesse davvero in qualcosa. Ebbene, quella domenica mattina di luglio è stato proprio lì, nella cappella della chiesa del carcere, che ha staccato la spina e ha dato una spallata all’ergastolo. Ciao Carmelo. Bruno Turci Lotta ai suicidi in carcere partendo dalla formazione degli operatori di Eden Uboldi Italia Oggi, 28 agosto 2017 Parole d’ordine: formazione e collaborazione fra gli operatori attivi nei carceri. Ecco due degli elementi chiave contenuti nell’Accordo sul documento recante "Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidane nel sistema penitenziario per adulti" approvato definitivamente da parte della Conferenza Stato-Regioni del 27/7/17 e pubblicato in GU in data 14/8. Il Piano nazionale, incorporando le indicazioni fornite dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel documento del 2007 "La prevenzione del suicidio nelle carceri" delinea per contrastare il problema un modus operandi "integrato" e "multidisciplinare" che dovrà permeare il lavoro futuro di tutti i soggetti che operano nel sistema penitenziario. Dopo la riforma della sanità penitenziaria, nel 2012 la Conferenza unificata ha approvato un Accordo in merito alle "Linee di indirizzo per la riduzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internauti e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale" proposte dal tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria. Ma, a distanza di cinque anni, la necessità di "superare la fase di sperimentazione" costruendo una architettura organizzativa includente gli interventi nazionali quanti quelli degli enti più periferici, e il riconoscimento delle differenze tra popolazione minorenne e maggiorenne hanno portato all’adozione, tramite il nuovo Accordo, di un Piano nazionale che dispone una serie di azioni pratiche volte alla prevenzione del fenomeno. Osservando i dati raccolti da Ristretti Orizzonti nel dossier "Morire di Carcere" i suicidi sono diminuiti negli ultimi anni: se nel 2009 si uccisero 72 detenuti, nel 2016, 45. La serie storica rileva una lenta diminuzione progressiva fino al 2015, durante il quale si tolsero la vita 43 carcerati. Durante il question lime del 1° marzo 2017, il ministro della giustizia Andrea Orlando. oltre a dare i dati ufficiali (43 casi di suicidio nel 2014, 39 nel 2015, 39 nel 2016), ha affermato che "l’Italia, nella comparazione con gli altri grandi paesi europei realizzata dal Consiglio d’Europa, registra uno dei tassi più bassi di suicidio". Invece, secondo il XIII Rapporto dell’Associazione Antigone, sono in aumento i tentativi di suicidi e l’autolesionismo. Benché in questi casi il dato sia profondamente condizionato dai criteri di classificazione adottati nell’interpretazione dei fatti, variabile nel tempo e a seconda dell’istituto, il rapporto sostiene che nell’ultimo ventennio tassi così alti di tentativi di suicidio si erano registrati .solo a fine anni 90 (nel 1998 segnalati 188 casi), nel 2012 con 196 casi. L’8 gennaio dell’anno successivo la Corte di giustizia Ue si pronuncerà con la sentenza pilota sul ricorso "Torreggiani e altri c. Italia, evidenziando i limiti dell’iper-affollato sistema carcerario nazionale), e nel 2016 con 187 tentativi. "Questa recrudescenza del fenomeno ci suggerisce che la prevenzione del suicidio nelle carceri italiane stia funzionando meglio soprattutto se inteso come intervento immediato nel momento in cui si materializza un tentativo. Quindi, l’intervento materiale degli agenti preposti al controllo piuttosto che un miglioramento generale del benessere all’interno delle strutture" si legge nel Rapporto. Per quanto riguarda gli atti di autolesionismo, il trend di crescita ha un balzo significativo a partire dal 2007 e non si arresta neanche negli anni in cui il numero dei detenuti diminuisce, raggiungendo quota 8.586 casi nel 2016. I progetti attivati Dal 9/5 scorso e iniziato un corso ad hoc da svolgere in un triennio per tutti gli operatori delle cinque Case circondariali presenti nella provincia catanese mentre l’azienda sanitaria di Palermo ha attivato la presenza mensile per complessive 364 ore di psicologi e per 350 ore di psichiatri nelle carceri provinciali. Ecco il risultato delle "Linee guida sul Programma operativo di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario in carcere" emanate da Baldassarre Guicciardi, assessorato regionale alla salute il 21 aprile scorso, che ha stimolato anche la firma di tre protocolli da parte dell’Azienda sanitaria e dai direttori dei carceri di Ucciardone, Pagliarelli e Termini Imerese per intercettare e trattare con tempestività gli stati di disagio psicologico, di disturbo psichico o altre fragilità, attribuendo anche ai detenuti un ruolo importante come quello di caregiver e peer supporter. Nella casa di reclusione dì San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, lo scorso mese è partito, invece, un progetto sperimentale indirizzato a detenuti e operatori per imparare la pratica della mediazione. "Abbiamo dato spazio alla formazione nelle linee guida, racconta a Italia Oggi Emanuele Luigi Piscitello, Capo di gabinetto vicario dell’assessorato regionale salute "come anche alla collaborazione, includendo nelle scelte tutti gli stakeholder dal cappellano al garante regionale delle persone detenute, che ha espresso la disponibilità a fornire 15 mila euro per sostenere le spese di formazione degli operatori. Fare rete e l’accrescimento delle competenze sono due elementi fondamentali per prevenire il mal di vivere". In realtà, secondo l’ultimo monitoraggio del Ministero della giustizia, datato 21/12/2016, le Linee guida sono state adottate solo da 13 Regioni: mancano all’appello quelle del Friuli, Basilicata, Sardegna, Trentino, Umbria e Valle d’Aosta (come detto, la Sicilia le ha emanate il 21/4/17). "Ogni ente cerca di declinare gli indirizzi nazionali a seconda delle criticità degli istituti presenti sul territorio" conclude Piscitello. Dall’inizio dell’anno molte le realtà locali che hanno firmato protocolli in tema di prevenzione: l’Asl di Teramo e il carcere di Castrogno hanno puntato a uno staff dal background differente che include anche figure come il mediatore culturale mentre l’istituto di Busto Arsi-zio e l’Assi Valle Olona hanno preferito concentrare i propri sforzi con una doppia visita, psicologica e psichiatrica, per i nuovi giunti. "Serve un nuovo percorso diagnostico terapeutico assistenziale" afferma Claudio Mencacci, ex presidente della Società italiana di psichiatria, raccontando a Italia Oggi Sette il progetto itinerante "Insieme - La salute mentale in carcere, promosso anche dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria e dalla Società italiana di psichiatria delle dipendenze. L’iniziativa, partita il 26/9/16 e conclusa nei primi mesi del 2017, è nata per sensibilizzare e formare i soggetti coinvolti nel circuito assistenziale, sollecitando un nuovo approccio alla gestione delle malattie mentale in carcere. "Al momento i problemi più ardui sono la scarsa integrazione delle figure professionali e la mancanza di dati epidemiologici precisi, necessari per offrire l’opportuna assistenza alle fasce più vulnerabili dei detenuti" Infatti, come rivela l’Oms, i detenuti con disturbi psichiatrici sono a maggior rischio suicidario. Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute nella relazione al Parlamento, presentata nel marzo scorso, ha invitato a potenziare progetti non di carattere contenutivo perché "l’isolamento e la sorveglianza non possono essere considerate di per sé strumenti di prevenzione". A proposito dell’articolo intitolato "Cibo dietro le sbarre" a firma di Stefano Zurlo di Cesare Burdese (Architetto) Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2017 Nell’articolo pubblicato sul quotidiano Il Giornale di ieri la questione del vitto in carcere è mal posta: nel titolo stesso e nei contenuti esposti. Spiego di seguito il perché, conoscendo la questione del "vitto e sopravvitto" in carcere essendomene occupato nel 2013/2014 quale componente della commissione ministeriale per le questioni penitenziarie presieduta dal prof. Mauro Palma. Descrivere come spreco di denaro pubblico la procedura di appalto e le sue prescrizioni in materia è sbagliato: il valore assoluto di 14 milioni per la fornitura dei pasti delle carceri del triveneto e dell’Emilia-Romagna dipende dal numero degli stessi e non dal genere del cibo (definito dal giornalista "bio"). Basti pensare che oggi la spesa complessiva giornaliera per la prima colazione, il pranzo e la cena ("vitto") di un detenuto (vado a memoria) è di circa € 4,00. Una cifra troppo contenuta per essere appetibile all’imprenditore erogatore che compensa con "il sopravvitto" a spese del detenuto e non del contribuente a prezzi "leggermente" fuori mercato. Le indicazioni a riguardo che la suddetta commissione diede (peraltro ignorate) furono quelle di separare l’appalto del "vitto" da quello del "sopravvitto" per questioni di equità e di superamento del monopolio esistente appartenente a un ristrettissimo numero di ditte fornitrici. Il principio sotteso era quello della "normalizzazione" (come l’Europa raccomanda) anche in questo settore del carcere, con la creazione anche fisica di empori all’interno delle strutture detentive accessibili alle persone detenute e quali opportunità lavorative per le stesse, come da tempo avviene all’estero (vedi Francia, Spagna, ecc.) Altra questione in atto il confezionamento dei pasti, che avviene nelle cucine del carcere peraltro di fatto in carico a personale poco o niente professionale (detenuti ai fornelli, agenti di custodia alla verifica della qualità della materia prima fornita). A questo riguardo ricordo che da poco è terminata la sperimentazione durata per legge qualche anno nelle cucine carcerarie gestite da professionisti del settore incaricati anche di formare i detenuti impiegati. Altra questione ancora quella che nelle nostre carceri per legge non si possono consumare all’interno i prodotti alimentari li coltivati e confezionati (eclatante il caso delle colonie penitenziarie sarde, grandi produttrici di pecorino, ortaggi, suini ecc. dove il "vitto" e il cibo per il personale arriva da "fuori". Ricordo che "a macchia di leopardo" le produzioni food nel nostro paese sono una eccellenza (Torino, Saluzzo, Padova, Isili, Mamone, is Arenas, Gorgona, solo per citarne alcune), purtroppo ancora troppo poco pubblicizzata e valorizzata. Da architetto impegnato a dare coerenza spaziale al dettato costituzionale in ambito penitenziario, ritengo le questioni accennate una priorità di grande impatto architettonico da risolvere anche in considerazione di quello. Ben vengano dunque gli articoli che portano alla ribalta questo tipo di questioni legate alla quotidianità detentiva, anche se " svianti". Chi sa e ha a cuore il problema potrà correggere... per una informazione corretta. Livia Pomodoro: "della vita in magistratura rivendico perfino gli errori" di Antonio Gnoli La Repubblica, 28 agosto 2017 "Io, giurista che ha sempre creduto nelle regole". Nata e cresciuta a Molfetta in una famiglia numerosa è, insieme alla sorella gemella Teresa, la più piccola di tre fratelli maschi. Figlia di un farmacista che fu preso di mira dal podestà fascista. Laureata a pieni voti in diritto privato internazionale entra in magistratura nel 1965, lavorando prima al tribunale di Bari e poi in quello di Milano Esperta di diritto familiare, è stata anche capo di gabinetto del ministero della Giustizia. Alcune opere, come il "Manuale di ordinamento giudiziario" (Giappichelli), hanno avuto diverse edizioni. Tra gli altri testi: "A quattordici smetto" (Melampo); "Manuale di diritto di famiglia e dei minori" (Utet) e "Rispettare l’altro" (San Paolo). Avrei detto che incontrando Livia Pomodoro mi sarei imbattuto nella tipologia di quelle donne che hanno ottenuto tutto dalla vita. A cominciare dal potere che Livia ha esercitato con fermezza soprattutto in passato, per finire alle gratificazioni che passano attraverso una serie di incarichi con cui spende la sua autorità. "Sono stato un capo per tutta la vita e ne conosco il significato profondo", dice con convinzione brusca. È tra le altre cose, presidente dell’Accademia di Brera, nonché presidente del Teatro No’hma che lei guida (è solo un’impressione fugace) con piglio decisionista. Per tre quarti della nostra conversazione è emersa una donna tanto sicura di sé da apparirmi profondamente sola. Una solitudine, mi si passi questa sensazione arbitraria, vissuta in mezzo a decine se non centinaia di persone cui impartisce ordini e compiti. Vorrei chiamare questa storia "il complesso di Teresa". Teresa: la sorella un po’ meno grande e un po’ più bella; un’archeologa, ma soprattutto attrice e drammaturga che dedicò tutto il suo tempo al teatro, come ci si dedica a una passione assoluta: "I complessi sono spesso nodi irrisolti, vaghi traumi di cui spesso ci si vergogna. Ma io non ho nulla da rimproverarmi. Potrei aggiungere che la mia è stata una storia di successi e di qualche assenza che ha pesato, come il vuoto lasciato da mia sorella". Un tentativo di riempire quel vuoto è stato nel volerla "sostituire" quando è morta. "Può darsi che sia così, del resto le sue idee mi affascinavano. Fin da piccola mi sembrava lei la più forte, la più bella, la più determinata". Invece le cose sono andate altrimenti. "No, no. Teresa ha realizzato ciò che ha voluto. Ha saputo fare quello che le piaceva. Voleva realizzare un teatro, questo in cui parliamo, dove gli spettatori non pagano il biglietto, perché il teatro, come la vita, appartiene a tutti. E tutti ne possono godere. Fino a che le è restato di vivere si è battuta perché a tutti fossero date le stesse opportunità culturali". Dove è nata? "A Molfetta, eravamo una famiglia abbastanza numerosa: cinque figli di cui tre maschi; poi arrivammo noi femmine, io e Teresa. Padre farmacista. Ho avuto un’infanzia bella, nonostante sia nata in piena guerra. Ricordo vagamente il podestà. Un uomo duro e fanatico. Prese di mira papà imponendogli i turni di notte". Perché questo accanimento? "Perché oltre ad essere farmacista era un uomo intelligente, visionario, ospitale. Come poteva andare d’accordo con il fascismo? Certe volte tornava per cena e poi rientrava nella farmacia. Lo guardavo uscire stanco ma con il sorriso sulle labbra. Non era felice per quella imposizione". Questi sono i primi ricordi? "Il primo in assoluto è una casa di campagna in una contrada di Molfetta. Gli inglesi la bruciarono, convinti che fosse la proprietà di un repubblichino. Noi eravamo in città e non potemmo difendere quello che era nostro di diritto. Malgrado questo episodio e la guerra sono stata felice e sa quando l’ho scoperto?". Quando? " Ero a Caracas, in missione. La sera andai a passeggiare sulla spiaggia e venni improvvisamente avvolta da centinaia di lucciole. Mi ricordai che Angelina, la nostra domestica, preparava con le lucciole delle coroncine che deponeva sulle nostre teste. Mia sorella e io sembravamo delle piccole regine, ma era solo lo stupore dell’infanzia". Poi lo stupore finì. "Studiammo. Teresa prese lettere classiche e una specializzazione in archeologia paleocristiana; io mi iscrissi a biologia. Uno zio magistrato mi convinse a passare a legge. Mi laureai in diritto privato internazionale. Dietro quella scelta c’era la convinzione che i diritti umani sono la nostra conquista più importante". Le piace così com’è il genere umano? " Non ho tesi evoluzioniste che spieghino dove l’umanità è giunta. Mi capita spesso di pensare alle cose spregevoli, volgari, violente che nel corso della storia abbiamo commesso. E allora mi chiedo da cosa dipenda questo amore per l’umanità, quanta velleità nasconde, quanta astrattezza". Ha trovato una risposta? "Il mio convincimento, è che si tratti del desiderio di non vedere scomparire il genere umano. Lo so, è un credo come un altro. Ma senza questa convinzione di fondo, la chiami pure idea regolativa, molto del lavoro che faccio non avrebbe senso". Anche Dio può diventare un’idea regolativa. "Ma io sono una giurista che ha sempre creduto nelle regole. Non le regole per le regole, ma quelle condivise. Se comprendessimo e accettassimo questo piccolo punto vivremmo molto meglio ". Cosa serve per la condivisone? "Potrei farle un lungo elenco di motivazioni necessarie. La più importante è l’onestà intellettuale". Concetto un po’ vago. " All’inizio, certo, può essere frutto di un’impressione ma alla fine è pienamente verificabile sapere se davanti ho una persona perbene o no". Lei entra in magistratura con questi ideali. "C’entro consapevole che serva molta competenza e quella non la inventi, non ce l’hai in dote fin dall’inizio, ma anche con la convinzione che puoi laicamente impegnarti nella difesa di principi che garantiscano la nostra dignità". Quando è entrata in magistratura? "Avevo 24 anni, divenni magistrato effettivo nel 1965. Per un breve periodo fui assistente di Francesco Capotorti all’Istituto di diritto internazionale a Bari. Capotorti, che fu stretto collaboratore di Altiero Spinelli, lavorò con pochi altri alla stesura del progetto sul trattato dell’Unione europea. Erano uomini che inorridirebbero davanti all’attuale modestia di certe visioni". Com’era la vita culturale a Bari? "C’era la casa editrice Laterza che primeggiava; in quegli anni si affermò anche la De Donato. Entrambe si facevano concorrenza nel pubblicare testi marxisti. Prese vita allora quella che un po’ ironicamente e un po’ no, venne chiamata " l’école barisienne": c’erano Beppe Vacca, Biagio De Giovanni, Franco Cassano. Presi parte a qualche riunione. Già allora si discuteva dei destini della sinistra. E non si è smesso mai di parlarne e di dividersi". Una condanna? "Non avevo quella familiarità teorica con i nomi che allora venivano spesi: Marx, Hegel, Gramsci. Sembravano discussioni bizantine e anche per questo quando mi si offrì l’occasione, cioè l’anno dopo, mi trasferii a Milano". Cosa le offrivano? "La cosa che più mi interessava: lavorare nei tribunali. Giunsi a Milano nel tardo autunno del 1966. La città era avvolta dalla nebbia. Per un attimo fui presa dallo sgomento. Poi i ritmi della città mi assorbirono. Nei momenti liberi frequentavo i miei cugini: Giò e Arnaldo Pomodoro. La sera dormivo da un’amica di mia madre; il giorno lavoravo nel gruppo di Adolfo Beria d’Argentine. Avevo contatti anche con Luigi Bianchi d’Espinosa, allora presidente del tribunale di Milano. Furono due uomini probi. Quando d’Espinosa morì mi lasciò in dote, come segno di stima, la sua toga rossa". Di Beria d’Argentine che ricordo ha? "Lo considero il mio vero maestro, e mi onoro di essergli stata amica. Era un uomo schivo e risoluto. I nostri rapporti si strinsero negli anni della contestazione". Che giudizio dà del Sessantotto? "Ne ho apprezzato il desiderio di libertà. Ogni giovane deve fare almeno una volta nella vita un’esperienza di rottura. Ma se questo deve significare buttare via tutto senza costruire niente di nuovo allora si cade nel fanatismo e nel pericolo". E il pericolo lei come lo visse? "Fu qualcosa di progressivo e minaccioso. Alla fine degli anni Settanta un po’ tutto il nostro gruppo, composto di gente che credeva nel riformismo, si ritrovò nel mirino del terrorismo. In una sequenza terribile Prima Linea assassinò Emilio Alessandrini e Guido Galli. Successivamente, in un covo delle Br, furono trovati dei documenti e una lista di nomi. Sul mio e su quello di Beria d’Argentine era stata fatta una croce. Cominciarono gli orrendi attacchi alla vita privata dei funzionari". Non ha avuto paura di morire? "Mai. So che tutti dobbiamo morire e ogni giorno può davvero essere l’ultimo, può essere la tua apocalisse. Ma questo a me dà serenità non paura". La paura era iscritta in quegli anni di violenza quotidiana. "Si tendeva soltanto a distruggere e credo che dipendesse molto dal fanatismo di quelle frange violente. Ordine e disordine non possono essere due variabili indipendenti. Vale per l’individuo, per la società, per la famiglia". A un certo punto lei è diventata un’esperta del diritto di famiglia. A cosa legò quella scelta? "Vedevo, ahimè, la progressiva distruzione del nucleo familiare. Si vagheggiava la creazione di legami comunitari, si parlava di libertà sessuale, ma era come vivere una certa immagine della realtà prescindendo dalla realtà stessa. Fu in quel clima che decisi di occuparmi del diritto di famiglia, di cui divenni grande esperta. Tutto questo è poi sfociato nel lavoro sui minori. Dal 1993 al 2007 sono stata presidente del tribunale per i minori". Ha figli? "No, un po’ per scelta e un po’ perché mi sono sposata che non ero più molto giovane. Potrei dirle che ogni volta che ho risolto un caso su un minore mi sono sentita anche un po’ madre". Sa un po’ di retorica. "Lo ammetto, ma dopotutto mi piace anche pensare di essere stata materna oltre i legami di sangue". Suo marito che dice? "Ci siamo sposati nel 1978 e dopo dieci anni abbiamo deciso di divorziare. Riconosco che fare il "principe consorte" con una come me era complicato". La sua idea di servizio pubblico non l’ha mai spinta a fare politica, perché? "Perché ho molto rispetto del servizio pubblico. E poi, in qualche modo, sono stata intrecciata con la politica svolgendo il lavoro prima di vice e poi di capo di gabinetto per due governi. Ero capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia Martelli quando ci furono le stragi di Falcone e successivamente quella di Borsellino. Furono mesi terribili. Mi ricordai di una cosa che mi disse Ciampi, quando era ancora Governatore della Banca d’Italia: Livia sono felicissimo che tu abbia avuto questo incarico, ma non ti invidio, perché le decisioni un capo le deve prendere da solo". In cinquant’anni di magistratura si pente degli errori che ha commesso? "Posso patirli ma non pentirmi. Ogni decisione è stata vissuta da me con responsabilità. Da questo punto di vista, rivendico perfino gli errori, perché sono stati commessi in buona fede. Questo non significa autogiustificarsi. Quando alcuni miei colleghi si stracciavano le vesti perché la sentenza era stata rivista in Cassazione, io dicevo: meno male che ci si può correggere!". Quando ha chiuso la carriera di magistrato come si è sentita? "Sono stati anni un po’ difficili". E ora eccola qui in questo bel teatro. " La prima volta che vidi questo spazio fu con mia sorella. Mi trascinò in questa palazzina dismessa che il Comune aveva adibito alla gestione dell’acqua potabile. Teresa mi disse che quello era il luogo della nascita e lì poco distante era fiorita una rosa". Lei cosa rispose? "La guardai stupita pensando che fosse pazza. Ma come farai a gestire una cosa del genere? Lei disse che quel gioiello di archeologia industriale era il luogo giusto per realizzare un teatro. Riusciva a vedere ciò che io non ero in grado". Due sorelle molto diverse. "Ero quella con l’encefalogramma piatto. E quando mia sorella si ammalò ricordo che per sdrammatizzare scherzava sulla mia intelligenza. Lo so. Non ho mai avuto il dono della creatività. Amo l’arte e quando mia sorella è morta, nell’agosto del 2008, ho scoperto improvvisamente questa passione per il teatro. È stato l’ultimo dono che mi ha fatto". Ho l’impressione che dietro la donna di potere, che ha avuto successo, ci sia una donna sola. " Il potere l’ho esercitato in una certa stagione della mia vita. Non mi rammarico di non averlo più in quel modo. Quanto al successo l’ho sempre vissuto come uno stimolo a quello che avrei potuto fare, più che il riconoscimento per quello che ho fatto. La solitudine, infine, più che una scelta esistenziale è una condizione di vita che non sempre scegli. A volte torno a casa la sera, dopo aver incontrato decine di persone, e mi siedo a cenare. Spesso da sola. Non mi dispiace. Capisco di non aver risposto in profondità alla sua domanda. Ma ci sono domande alle quali nessuno può dare risposte convincenti". Mandato di arresto europeo: non in caso di trattamenti inumani ogginotizie.it, 28 agosto 2017 La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 39400 del 23 agosto 2017, ha stabilito che nel caso cittadino straniero condannato al carcere nel Paese d’origine, che si trova in Italia, non deve essere eseguito il mandato di arresto europeo prima di aver accertato l’assenza di trattamenti inumani e degradanti. Tra questo tipo di trattamenti rientra anche il sovraffollamento delle carceri, così come chiarito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura in un rapporto del 24 settembre 2015. Il caso - I giudici della Cassazione hanno così deciso in merito al ricorso presentato da un cittadino rumeno condannato per furto aggravato e continuato, ritenendo violata la normativa dalla Corte d’Appello di Torino, che aveva eseguito la richiesta avanzata dalle autorità rumene. A tal proposito, i giudici della Cassazione hanno richiamato un principio evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Vasilescu c. Belgio del 25/11/2014, secondo cui sussiste un obbligo per l"autorità giudiziaria richiesta della consegna di verificare in concreto la sussistenza del rischio di trattamenti inumani e degradanti dei detenuti, "correlata alla condizione degli istituti carcerari dello Stato di emissione, attraverso la richiesta di informazioni individualizzate allo Stato richiedente relative al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe, specificamente, sottoposto il soggetto interessato". La Corte d’Appello di Torino dovrà, dunque, raccogliere tali specifiche informazioni e darne conto nel provvedimento di consegna, qualora questo sia legittimo. Il commento - "Si tratta di una decisione - commenta Maria Francesca Ciriello, dottoressa in Diritto e amministrazione pubblica - che sarà certamente strumentalizzata da chi promuove il pensiero fascista nel nostro Paese, ma ad accogliere con favore questa decisione saranno tutti coloro che sono impegnati nel campo della difesa dei diritti umani. Quanto sottolineato dai giudici della Corte di Cassazione evidenzia un principio generale recepito dall’ordinamento italiano, ovvero la tutela della dignità della persona, al di là delle condizioni in cui essa si trova. E l’importanza di questo principio emerge in modo particolare nel caso di soggetti condannati a subire una restrizione della libertà personale in condizioni inumane e degradanti, come nelle situazioni di sovraffollamento delle carceri, per i quali è stato inoltrato un mandato di arresto europeo. La Corte di Cassazione si è trovata ad affrontare il caso di un Paese come la Romania, che nonostante le numerose condanne per violazione dei diritti umani e gli impietosi rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, continua a non risolvere il gravissimo problema del sovraffollamento delle carceri, che si traduce inevitabilmente in una restrizione delle cure, dell’igiene e del cibo: di tutto ciò che è fondamentale per conservare la dignità della persona. La speranza è che, più che suscitare polemiche, questa sentenza possa far concentrare ancora una volta l’attenzione sul tema del sovraffollamento delle carceri anche nel nostro Paese e al quale dovrà essere trovata al più presto una soluzione adeguata". La maestra che usa violenze fisiche e psichiche commette il reato di maltrattamenti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 30 giugno 2017 n. 31717. L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti. Lo ha detto la Suprema corte con la sentenza n. 31717 del 30 giugno 2017. In applicazione di tale principio, la Cassazione ha ritenuto correttamente qualificata a titolo di maltrattamenti, e non quale abuso dei mezzi di correzione come preteso dalla difesa, la condotta di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica, inflitta, per pretese finalità educative, da una maestra in servizio presso una scuola primaria a un’alunna iscritta alla classe prima. I limiti della finalità educativa - L’impostazione della Corte (in termini, tra le tante, sezione VI, 22 ottobre 2014, Pm in proc. B) è lineare e corretta, siccome rispettosa dei principi costituzionali e sovranazionali che contribuiscono a chiarire entro quali limiti possa e debba intendersi la finalità educativa nei confronti del minore, onde evitare che, attraverso il preteso richiamo a tale atteggiamento psicologico, si finisca con il legittimare condotte non solo abusive, ma anche concretamente lesive della personalità fisica e morale del bambino. Al riguardo, occorre partire dal rilievo che, nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costituzione della Repubblica e qualificato dalle norme in materia di diritto di famiglia (introdotte dalla legge n. 151 del 1975) e dalla Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176 del 1991), il termine "correzione", utilizzato dall’articolo 571 del Cp, va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. Ne deriva che non può (più) ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure distortamente finalizzato a soddisfare pretesi scopi educativi: ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti; sia perché non può più perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, utilizzando mezzi violenti e costrittivi (così, sezione VI, 7 febbraio 2005, C.; nonché, sezione VI, 22 settembre 2005, A.). Il reato di abuso dei mezzi di correzione - In questa prospettiva, allora, proprio alla luce dell’evoluzione culturale in tema di metodi educativi da adottare nei confronti dei minori, sviluppatasi soprattutto a partire dalla citata Convenzione di New York del 1989, il minore non può più essere considerato (solo) "oggetto" di protezione e tutela, ma piuttosto un "soggetto di diritto", che va aiutato a crescere, assecondato nelle sue inclinazioni, rispettato, vedendo in lui una persona in formazione, che ha bisogno di una guida, che lo aiuti a superarne la naturale fragilità e vulnerabilità e ne rispetti la dignità di persona. Cosicché è possibile tollerare, solo eccezionalmente e in casi estremi, una vis modicissima nei confronti dei bambini, la quale sola sarebbe compatibile con la finalità di "correzione/educazione". A ciò dovendosi aggiungere che l’abuso di mezzi di correzione postula l’eccesso in mezzi giuridicamente leciti e tale non può ritenersi l’uso della violenza, neppure se eventualmente posta in essere nell’esercizio dello ius corrigendi: il reato di abuso dei mezzi di correzione presuppone, infatti, un uso consentito e legittimo degli stessi, tramutato per eccesso in illecito, ma la violenza non può mai ritenersi un mezzo legittimo e consentito. Saluzzo (Cn): detenuto si impicca, soccorso dalla Polizia penitenziaria muore in ospedale Ansa, 28 agosto 2017 Un detenuto nel carcere di Saluzzo è morto in ospedale a Savigliano (Cuneo) dove era stato trasportato il 24 agosto dopo un tentativo di suicidio. L’uomo, un italiano di 46 anni, Fabio C., di origini palermitane, sottoposto al regime di "Alta Sicurezza", era stato soccorso dalla Polizia penitenziaria, ma le lesioni che si era procurato erano troppo gravi. "Purtroppo - afferma il segretario generale del sindacato autonomo Osapp, Leo Beneduci - si tratta dell’ennesima vita persa nelle carceri italiane. Nonostante lo strenuo impegno degli agenti. Ma non dimentichiamo che ad ogni morte per suicidio corrispondono dieci tentativi vanificati grazie alla costante attenzione della polizia penitenziaria". "Il decesso - continua Beneduci - ha tra le cause ‘oscurè anche la gravissima carenza di organico del personale del Corpo, costretto per esempio a Saluzzo ad aprire un nuovo padiglione per duecento detenuti in più senza alcun rafforzamento laddove già sussisteva una carenza di ottanta su 256 unità previste". Monza: inala gas dalla bomboletta per cucinare, morto in carcere un ragazzo di 28 anni monzatoday.it, 28 agosto 2017 Ha inalato gas dalla bomboletta che aveva in dotazione per cucinare in cella ed è morto. Si è tolto la vita così, nella tarda serata di sabato, un detenuto di 28 anni in carcere a Monza. Il ragazzo, di nazionalità marocchina, imputato per reati di droga e ristretto nella V Sezione detentiva del carcere di Monza, potrebbe aver inalato la sostanza nel tentativo di togliersi la vita oppure per cercare un po’ di "sballo" come purtroppo troppo spesso accade. A darne notizie è stato il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "L’uomo è morto dopo avere inalato in cella il gas della bomboletta che legittimamente i detenuti posseggono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande. Non è ancora chiaro se si tratta di suicidio o le conseguenze di uno "sballo" finito male, gli accertamenti sono in corso. Polizia penitenziaria di servizio e personale sanitario sono tempestivamente intervenuti ed hanno portato l’uomo in ospedale, ma è purtroppo morto. Certo, la morte del detenuto di Monza riporta drammaticamente d’attualità la grave situazione penitenziaria. E il fatto che sia morto inalando il gas dalla bomboletta che tutti i reclusi legittimamente detengono per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande, come prevede il regolamento penitenziario, deve fare seriamente riflettere sulle modalità di utilizzo e di possesso di questi oggetti nelle celle. Ogni detenuto può disporre di queste bombolette di gas, che però spesso servono o come oggetto atto ad offendere contro i poliziotti, come ‘sballo’ inalandone il gas o come veicolo suicidario. Già da tempo, come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe ha sollecitato i vertici del Dap per rivedere il regolamento penitenziario, al fine di organizzare diversamente l’uso e il possesso delle bombolette di gas". Lo scorso marzo, in una sola mattinata, due detenuti si erano tolti la vita in carcere a Monza. A decidere di suicidarsi era stato anche il cinquantaseienne che nel novembre scorso uccise la compagna a Seveso. Livorno: comunicato dell’Onorevole Paglia (Si) dopo la visita al carcere delle Sughere livornopress.it, 28 agosto 2017 Aree prive di docce da oltre due mesi, un disfacimento strutturale preoccupante, condizioni ambientali deficitarie, cucine manchevoli di requisiti minimi di sicurezza, personale insufficiente e, in particolare, la presenza nella struttura di 2 sole educatrici, a fronte di 246 detenuti, di cui 153 definitivi." Sono le principali problematiche riscontrate dall’On. Giovanni Paglia, di Sinistra Italiana (SI), e da Simona Ghinassi, Coordinatrice della Federazione provinciale di SI Livorno, nella loro ispezione presso il carcere Le Sughere avvenuta nei giorni scorsi, accompagnati da Marco Solimano Garante Detenuti di Livorno; la situazione riscontrata è stata definita preoccupante ed è perciò che l’On. Paglia ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Orlando chiedendo di intervenire sugli aspetti riportati. Chiediamo al ministro della Giustizia se sia a conoscenza della precaria situazione del carcere Le Sughere, se abbia ad esempio disposto un’indagine interna, e come intenda operare affinché siano realizzati interventi di manutenzione straordinaria urgente - osservano Paglia e Ghinassi - Non ci pare degno di un consesso civile infatti che un’ala del carcere destinata a oltre 60 detenuti sia da due mesi priva di docce né che gli ambienti di confezionamento pasti siano obsoleti e finanche pericolosi per l’incolumità del personale (come testimoniato da diversi incidenti capitati) pur in presenza della disponibilità di una nuova cucina perfettamente attrezzata e però inutilizzata per carenze nella realizzazione dei pilastri di sostegno. Insieme a ciò si registra una persistente insufficienza di personale - concludono Paglia e Ghinassi - e sarebbe auspicabile e necessario che quanto prima si provveda a sanare questo deficit per garantire un corretto funzionamento dei servizi interni". On. Giovanni Paglia - deputato Sinistra Italiana Simona Ghinassi - coordinatrice Sinistra Italiana Livorno Oristano: arriva la Carovana per la giustizia, promossa dal Partito Radicale La Nuova Sardegna, 28 agosto 2017 Farà tappa anche al carcere di Massama la Carovana per la Giustizia, promossa dal Partito radicale, che riparte oggi dalla Sardegna dopo le tappe calabrese e siciliana. La delegazione di militanti e dirigenti radicali è formata da Emiliano Altana Manca, Matteo Angioli, Antonio Cerrone, Flavio del Soldato, Franco Giacomelli, Emmanuele Somma, Irene Testa e Maurizio Turco. Giungeranno in serata ad Olbia e martedì saranno a Oristano per una iniziativa che coinvolgerà lo chef/scrittore Paolo Palumbo. "Gli obiettivi della #Carovana per la Giustizia - spiega una nota - sono ancora la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, l’amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta, il superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo, l’approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario e, non ultimo, quello del raggiungimento di 3.000 iscritti al Partito radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella". Durante la settimana gli esponenti del Partito faranno visita a tutti e dieci gli istituti di pena sardi, all’interno dei quali raccoglieranno le firme alla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane che ha già raccolto oltre 62.000 sottoscrizioni. Civitavecchia (Rm): al via il servizio di telemedicina e telecardiologia in carcere ilfaroonline.it, 28 agosto 2017 Gli elettrocardiogrammi effettuati presso le case circondariali verranno refertati dai cardiologi del S. Giovanni via intranet. Il Direttore Generale della Asl Giuseppe Quintavalle si dichiara orgoglioso di poter annunciare che dal 1 settembre partirà nel carcere di via Tarquinia il sevizio di telecardiologia per la refertazione di tracciati elettrocardiografici anche in regime di urgenza. Nel frattempo si stanno ultimando i lavori di cablaggio nel nuovo complesso circondariale per permettere al Servizio di Telemedicina di partire a Ottobre. Il collegamento è stato reso possibile grazie all’accordo tra la Asl Roma 4 e l’Ospedale S. Giovanni di Roma (leader dei servizi di Telemedicina nel Lazio diretto dal dr. Michelangelo Bartolo ) e con il sostegno del Garante dei Diritti dei Detenuti dr. Stefano Anastasia. Quindi da settembre prenderà il via questo servizio di telemedicina che funzionerà i primi due mesi H 12 per continuare poi H 24: i tracciati elettrocardiografici effettuati presso le Case Circondariali verranno refertati dai cardiologi del S. Giovanni attraverso connettività intranet grazie alla connessione Rupar della Regione Lazio. Brescia: Canton Mombello, la comunità islamica offre il pranzo a tutti i detenuti bsnews.it, 28 agosto 2017 L’associazione "Fiducia e libertà" guidata da Danila Biglino ha deciso di onorare la festa musulmana del Sacrificio regalando un pasto speciale a tutti coloro che sono reclusi nell’istituto di pena cittadino. Sabato 2 settembre a tutti i detenuti di Canton Mombello sarà servito un pranzo diverso, offerto dalla Comunità Islamica di Brescia. L’associazione Fiducia e libertà guidata da Danila Biglino, infatti, ha deciso di onorare la festa musulmana del Sacrificio regalando un pasto speciale a tutti coloro che sono reclusi nell’istituto di pena cittadino. Una giornata importante per il 70 per cento dei detenuti del carcere (tanti sono i detenuti di fede musulmana), ma anche un’occasione di scoperta per gli altri che vorranno fare questa esperienza. L’iniziativa vuole celebrare la totale sottomissione a Dio da parte di Abramo: pronto a sacrificare perfino il figlio, come ordinatogli a Dio, prima che l’angelo lo fermasse, facendo diventare un montone l’oggetto dell’offerta votiva. Nell’occasione, nella sala del teatro di Canton Mombello, si terranno anche canti e musica tradizionali. Un’opportunità di incontro, anche se si annunciano già le polemiche di Lega Nord e animalisti (contrari al rito dello sgozzamento degli animali). Vicenza: dal San Pio X "Caccia alla Luce" e sei detenuti diventano attori di Chiara Roverotto Giornale di Vicenza, 28 agosto 2017 Un passato criminale può trovare una forma di riscatto e una sorta di redenzione anche attraverso il teatro o la cultura scenica nel suo complesso? Da decenni si dice che il carcere non dev’essere solo punizione, ma anche recupero della persona che sta pagando per i propri reati. "Credo che la cultura ci renda liberi. Anche dietro le sbarre": a parlare è don Luigi Maistrello, cappellano della casa circondariale di San Pio X a Vicenza che, sebbene con un anno di ritardo rispetto ai programmi, è riuscito - non senza difficoltà - a mettere in scena lo spettacolo "Caccia alla luce", una sorta di rilettura della parabola del figliol prodigo con sei detenuti (tre albanesi, due africani e un italiano) all’interno della struttura di via della Scola, là dove la reclusione costringe lo sguardo in un luogo oscuro a partire proprio dal divieto di proiezione verso l’esterno. "Forse con il teatro - prosegue don Maistrello - siamo riusciti ad invertire questa tendenza, non senza problemi. Avevo scritto il testo pensando all’Anno della Misericordia voluto da Papa Francesco, ma non è stato possibile concludere in quei mesi". I tempi della burocrazia non vanno d’accordo con il volontariato, ma alla fine lo spettacolo è andato in scena con la collaborazione di due comunità: il "Lembo del Mantello" e "Progetto Jonathan" che si occupano della rieducazione dei detenuti e che utilizzano misure alternative al carcere. "Abbiamo messo in scena il testo - aggiunge don Maistrello - grazie al lavoro di Thierry Parmentier e di altri attori professionisti, un processo che potremmo chiamare di "riumanizzazione", capace di ricostituire il contenuto spirito nella forma corpo, per fornire momenti di riflessione e non solo". Ecco perché l’attività teatrale riconferma la propria essenza originaria di profondità, come "resuscitassero" nel fondo dell’animo umano quegli elementi che una volta fuori, messi in discussione perché rappresentati, possono diventare materiali con cui ricostruire l’edificio dell’uomo, minato dall’abbrutimento distruttivo in cui il disagio prima, il reato e la detenzione poi, hanno finito per comprimere. Una prima rappresentazione è già stata messa in scena alla fine di giugno con gli operatori di San Pio X, altre due serate sono in programma il 29 settembre nel piccolo Teatro di Ospedaletto e poi al San Marco. "Mi farebbe piacere - prosegue il sacerdote - che lo spettacolo venisse portato nelle scuole, credo che quello sia il punto di inizio per lavorare sul senso non solo del testo che ho scritto, ma sulla condizione carceraria dove spesso i diritti degli uomini non vengono sempre rispettati". "Il testo di don Luigi l’abbiamo messo in musica grazie all’aiuto del maestro Pierangelo Tamiozzo mentre io mi sono occupato di coreografie, delle scene realizzate con materiali di recupero, e dei costumi - spiega Thierry Parmentier. È stato un progetto vissuto come una sorta di sfida, infatti lavorare con persone che non hanno mai avuto esperienza di teatro, non è poi cosi ovvio. Inoltre le prove sono state poche, forse otto di due ore che poi non erano mai piene perché c’era sempre qualcuno che arriva in ritardo o doveva partire prima. Comunque, al di là dei problemi organizzativi sono soddisfatto del risultato; certo per motivi legati alla regia, ho dovuto considerare alcuni tagli per non appesantire il testo che nasceva come libro". La storia è quella conosciuta della parabola del figliol prodigo (da Luca, capitolo 15): "Si tratta di una lettura più laica una sorta di dialogo dove non solo chi parte ha importanza, ma anche i fratelli si devono misurare con il senso della vita con un Dio padre che deve rispettare tutte le religioni" conclude don Luigi. Teatro che, come un grimaldello, apre il futuro su persone che non rappresentano solo reati, ma esistenze con le quali si può ricostruire una vita. La loro vita. Migranti. Hotspot e fondi alle Comunità: così l’Ue si allinea alle richieste di Roma di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 28 agosto 2017 Il documento, che sarà discusso al vertice di Parigi, punta a migliorare la cooperazione economica sulle rotte migratorie. Centri di accoglienza sul modello "hotspot" da aprire in Libia, gestiti dall’Alto commissariato per i rifugiati e dall’Oim dove sia garantito "il rispetto dei diritti dei migranti che sono stati soccorsi dalla guardia costiera locale" e sostegno economico alla cittadinanza per renderla "indipendente dal traffico di essere umani". Sono soprattutto questi due impegni contenuti nel documento che sarà esaminato oggi nel vertice di Parigi, a far ben comprendere come la linea italiana sia stata recepita dai partner dell’Unione. Perché nel capitolo dedicato alle iniziative da prendere in Libia viene specificato come esse siano tutte "d’intesa tra Italia, Spagna, Francia, Germania e Ue", dunque sostenendo sia gli accordi stretti da Roma con i sindaci di 14 città libiche e con le tribù del sud, sia quelli con il governo guidato da Al Serraj. Ma anche coinvolgendo Ciad, Niger e Mali nelle trattative tanto che i rappresentanti dei primi due Stati siederanno oggi al tavolo del vertice. La strada è lunga, nessuno può illudersi che il problema legato ai flussi verso l’Europa sia risolto. Ma il calo drastico degli sbarchi registrato nel nostro Paese (ieri la percentuale era a meno 7) convince evidentemente i governi che la strada scelta dal premier Paolo Gentiloni e dal titolare dell’Interno Marco Minniti sia giusta e debba essere condivisa, anche nella parte che riguarda le Ong. Aiuti e rimpatri - Nel documento si parla di "migliorare la cooperazione economica con le comunità locali situati sulle rotte migratorie, in particolare nella regione di Agadez e la Libia per creare fonti di reddito alternative, aumentare la loro capacità di recupero e renderli indipendenti di traffico di esseri umani". E per questo si condivide "il progetto italiano di cooperare con 14 comunità locali sulle rotte migratorie verso la Libia, così come i progetti finanziati dal Fondo fiduciario Ue per l’Africa". In questo quadro rientrano "la cooperazione con i Paesi di origine al fine di indirizzare le cause alla radice, per evitare le partenze e migliorare la capacità di permettere il rimpatrio dei clandestini", ma anche i "nuovi strumenti per intensificare e facilitare il ritorno volontario e la reintegrazione, in aggiunta a quelle già esistenti a livello nazionale, europeo e internazionale, come il rafforzamento della integrazione socio-economica dei migranti di tornare alla loro comunità provenienza". È proprio in questo capitolo che si parla di "messa in strutture che soddisfano gli standard umanitari adeguati" e di "organizzare il reinsediamento di coloro che hanno bisogno di protezione". Sono i cosiddetti "rimpatri volontari assistiti" che l’Italia ha già avviato inserendoli proprio nei negoziati con gli Stati africani. Confini e codice Ong - Questa mattina Minniti incontrerà i colleghi di Ciad, Niger e Mali per mettere a punto la strategia di cooperazione. E sul tavolo della trattativa farà pesare certamente il sostegno ottenuto in Europa visto che nel testo di Parigi si ribadisce "la determinazione di Germania, Spagna, Francia e Italia e l’Ue a frenare l’immigrazione clandestina sia attraverso la maggiore presenza di strutture nel nord del Niger e Ciad per salvare chi è in pericolo nel deserto, sia rafforzando i programmi esistenti per migliorare il controllo del loro confine settentrionale con la Libia". Ed ecco il punto che Roma ritiene fondamentale: "I capi di Stato e di governo accolgono con favore gli sforzi del governo dell’unità nazionale per controllare le sue acque territoriali, migliorando così la protezione delle vite umane e minando il modello economico delle reti di tratta degli esseri umani. Riconoscono l’importanza di dotare e addestrare adeguatamente la guardia costiera libica, con particolare attenzione alla tutela dei diritti umani". E dunque, dopo aver sottolineato come "il salvataggio in mare rimane una priorità", si specifica che "il Codice di condotta per le operazioni di soccorso in mare è un passo positivo per migliorare il coordinamento e l’efficacia dei salvataggi e dunque si invitano tutte le Ong operanti nella zona a firmarlo e rispettarlo". Migranti. Campi, milizie e motovedette: la rotta dei 700mila migranti "bloccati" in Libia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 agosto 2017 Tra loro chi è stato catturato e riportato sulla costa con le motovedette, comprese le quattro consegnate dall’Italia in giugno alla Guardia costiera libica. Un gigantesco imbuto: questo sta diventando la Libia per i migranti in arrivo dall’Africa. Lo confermano i numeri sempre più risicati degli sbarchi in Italia, ne parlano le autorità di Tripoli, i media locali, i responsabili della guardia costiera che fa capo al governo di Fayez Sarraj. Ora imperativo è cercare di capire cosa avverrà dei respinti e di chi invece non riesce a partire. Tra loro chi è stato catturato e riportato sulla costa con le motovedette, comprese le quattro consegnate dall’Italia in giugno alla Guardia costiera libica. "Sono oltre 14.500 in tre mesi. Li abbiamo presi durante i nostri pattugliamenti notturni entro le dodici miglia delle acque territoriali. La grande maggioranza al largo dei porti di Sabratha, Zawia e Zuwara", spiega Massud Abdel Samat, ufficiale chiave tra gli operativi dei guardia coste di Tripoli. "Noi li prendiamo. Li consegniamo alla polizia che dalle spiagge li porta in una decina di campi di transito per il riconoscimento, poi vengono trasferiti in campi permanenti", precisa. A loro si aggiungono le decine di migliaia in attesa da mesi a ridosso delle spiagge della Libia occidentale nel tentativo di racimolare circa 1.000 euro a testa necessari a pagare gli scafisti. E qui sta la grande incognita: quanti sono veramente? "La cifra esatta resta un rebus", dicono al ministero degli Interni. Un mese e mezzo fa all’ufficio stampa di Tripoli che si occupa della gestione dei campi profughi ci avevano dato alcuni dati parziali per una decina di siti che si aggirava sulle 100 mila persone, per lo più uomini giovani provenienti da Ciad, Sudan, Niger, Nigeria, Mali, Eritrea. Ma il dato è incompleto. Per esempio non comprende la zona di Misurata e neppure Garabulli. Anche il quadro della regione di Sabratha, vero cuore pulsante del traffico e delle grandi bande criminali, resta complicato. Ci sono inoltre le lunghe colonne di disperati in marcia dai confini meridionali. Circa 1.000 chilometri di deserto che vengono percorsi in periodi che variano in media dalle tre settimane al mese. I servizi d’informazione e i circoli diplomatici occidentali due mesi fa parlavano di "circa un milione di migranti" presenti nel Paese. Adesso pare che la cifra sia scesa a 6-700 mila. Alcuni cercano di tornare ai luoghi di origine. Ma sono pochissimi. La grande maggioranza è bloccata. La novità rilevante sono però gli accordi e le intese raggiunte negli ultimi mesi tra il governo italiano, con il ruolo centrale del ministro degli Interni Marco Minniti, e quattordici tra sindaci e leader locali distribuiti lungo le rotte migratorie in Libia. Gli ultimi colloqui diretti a Roma e Tripoli hanno visto personaggi influenti quali i sindaci di Sabratha, Zuwara, Bani Walid, Sebha, Ghat. Si tratta di località fondamentali, sia sulla costa ma soprattutto nel cuore del deserto del Fezzan, dove lo stesso governo di Tripoli ha pochissima, se non nessuna, influenza. "Il fatto nuovo è che sulla costa arriva molta meno gente. Il deterrente funziona. È un grande successo: la Libia non è più appetibile come trampolino di partenza per l’Italia. Stiamo rilevando che la migrazione viene ora fermata già nel deserto. Il lavoro dunque si fa per mare. Ma anche tanto su terra", ci dice ancora Abdel Samat. Nell’entroterra e sulle spiagge nuove unità armate (la stampa parla per esempio della "Brigata 48" a Sabratha) oggi danno la caccia ai barconi pronti a partire. Una situazione che ha come conseguenza diretta la diminuzione degli scontri a fuoco tra scafisti e motovedette libiche. L’ultimo pare sia avvenuto al largo di Sabratha ai primi di luglio. Oggi tuttavia la marina di Tripoli chiede ancora all’Italia mitragliatrici pesanti modello Breda da montare sulle motovedette. Una richiesta che però contraddice le risoluzioni Onu che vietano di inviare armi in Libia. Il caso della Nord Corea e le minacce (reali) dei regimi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 28 agosto 2017 Le armi nucleari di un regime totalitario nel quale il dittatore è libero di fare quello che gli pare fanno paura. Ma molti europei non la pensano così. Si sa che lo Stato di Israele, anche se non lo ha mai ammesso ufficialmente, possiede l’arma atomica. Ma neppure i suoi più viscerali nemici pensano che Israele potrebbe lanciare "a freddo" un attacco nucleare contro gli Stati(come l’Iran) che ogni giorno ne invocano la distruzione. Invece, il possesso di missili intercontinentali armati di testate atomiche da parte della Corea del Nord terrorizza tutti: gli americani (Guam è un possibile bersaglio), il Giappone, la Corea del Sud. Come mai? Ovviamente, questa disparità di atteggiamenti e di aspettative ha una spiegazione semplice, dipende dalla diversa natura dei due regimi politici. L’uno è una democrazia sottoposta a vincoli interni e esterni: potrebbe ricorrere all’arma nucleare solo in presenza di una minaccia militare devastante, di un concreto rischio di annientamento da parte dei suoi nemici. Invece, le armi nucleari di un regime totalitario nel quale il dittatore è libero di fare quello che gli pare(i cinesi,almeno fino ad oggi,lo hanno permesso),fanno paura a prescindere. Questa spiegazione dovrebbe risultare ovvia, banale. Ma non lo è. Per lo meno, non lo è per tanti europei. Molti sembrano pensare che non esista alcun rapporto fra la natura di un regime politico e il suo modo di stare nella comunità internazionale. Osservano che anche le democrazie sono guidate dal loro interesse e spesso lo perseguono calpestando gli interessi altrui. Ciò è verissimo ma non toglie che le differenze ci siano e siano visibili. C’è, ad esempio, molta gente in Europa che, in odio agli americani, preferirebbe sostituire all’alleanza con gli Stati Uniti un’alleanza con la Russia, affidare la propria sicurezza ai russi. Fingono di non sapere (o non sanno ) che passare da una alleanza con una democrazia autentica - che resta tale persino nell’epoca di Trump - a una alleanza con un regime autoritario( o, se si preferisce, con una democrazia illiberale) significa accettare che, alla lunga, si verifichino cambiamenti nella qualità della propria vita pubblica, accettare che il nuovo alleato vi inietti veleni autoritari. Come la Russia, in versione zarista, sovietica, o post- comunista, ha sempre fatto per secoli. D’altra parte, non è forse un fatto che la Turchia laica forgiata da Ataturk (il fondatore della Turchia moderna) avesse una politica estera filoccidentale e che quella politica estera sia cambiata drasticamente a seguito della (ri)islamizzazione forzata e degli sviluppi autoritari imposti dal partito di Erdogan al Paese? Naturalmente, non sempre, nella sottovalutazione di queste differenze, gioca solo l’ignoranza. Talvolta, conta la malizia. Ci sono persone per le quali il regime più efferato, anche quello che, a prescindere dalla sua politica estera, fa tanto male ai propri sudditi (uccidendoli, condannandoli alla fame, facendoli vivere nella paura) è comunque meglio di una democrazia occidentale. È l’avversione per la civiltà liberale a guidarne i giudizi. Si pensi alle simpatie di cui gode, in certi ambienti occidentali, Hamas. È vero che non tutti i regimi illiberali sono aggressivi e pericolosi. Qualche volta la loro aggressività verso l’esterno è solo verbale. Ma ciò non significa che siano degni di rispetto, men che mai che possano essere indicati come un modello da imitare. Non c’era bisogno di aspettare le ultime mosse del presidente Maduro per capire che cosa fosse diventato il Venezuela, che cosa fosse già all’epoca di Chavez. Ma siccome i suddetti caudillos si opponevano al "capitale finanziario internazionale", ossia agli Stati Uniti, per alcuni erano comunque degni di applauso. È sempre stato sia tragico che ironico vedere tanti sedicenti "antifascisti" applaudire qualunque regime fascistoide purché nemico giurato delle "democrazie plutocratiche e reazionarie" (copyright di Benito Mussolini). Il suddetto applauso è sempre stato giustificato facendo riferimento a un presunto impegno del regime in favore della "giustizia sociale". Infatti, è assai frequente che gli autoritarismi, di destra o di sinistra, si facciano carico - con politiche populiste - dei "poveri", dei descamisados (tanto cari ai peronisti argentini ). Se vuoi distruggere impunemente le libertà civili e politiche devi per forza ridistribuire massicciamente risorse a favore del "popolo". Nel medio termine, ciò provocherà l’impoverimento generale (anche il popolo starà peggio di prima) ma nel breve periodo fornirà al regime il consenso di cui ha bisogno. Questo per quanto riguarda i regimi autoritari che pure non rappresentino una incombente minaccia per i loro vicini. Quando però, anche in politica estera, si passa dalle parole ai fatti (come la Corea del Nord che si è armata nel modo in cui si è visto), il regime in questione mette paura a tutti. Nessuno può sapere se il dittatore tirerà o no il grilletto. Né d’altra parte può essere una soluzione un attacco preventivo, cosiddetto "chirurgico", volto a distruggerne la capacità nucleare. Poiché è sempre possibile, in questi casi, che al dittatore e alla sua cricca resti ancora una possibilità di lanciare un attacco devastante contro la popolazione civile di qualche altro Paese. Per i cinesi la Corea del Nord ha sempre avuto un doppio significato strategico, difensivo e offensivo. È lo Stato-cuscinetto(e satellite) che impedisce alla Corea del Sud, alleata degli americani, di installarsi alla frontiera con la Cina. Ma è anche la spina che, dai tempi della guerra di Corea (1950-1953 ), essi tengono ben piantata nel fianco degli Stati Uniti. Adesso che la suddetta spina è entrata anche nel loro fianco si spera che trovino il modo per risolvere il problema. A noi, qui, mentre aspettiamo col fiato sospeso gli sviluppi di una crisi che corre il rischio di degenerare, prima o poi, in un confronto nucleare, non resta che meditare sulle differenze che corrono fra le democrazie e gli altri. Iran. Amnesty International chiede di consentire ispezioni a sorpresa nelle carceri ncr-iran.org, 28 agosto 2017 Amnesty International ha espresso preoccupazione per le condizioni dei prigionieri politici in sciopero della fame in Iran. Di seguito il testo completo pubblicato da Amnesty.org. Più di una dozzina di prigionieri politici, tra cui anche i prigionieri di coscienza, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le crudeli, disumane e degradanti condizioni che sono costretti a subire nel carcere di massima sicurezza di Karaj, nella provincia di Alborz, ha detto oggi Amnesty International. I prigionieri politici nel carcere di Rajài Shahr sono stati recentemente trasferiti in un’area appena aperta in cui le condizioni sono state descritte come soffocanti. Sono detenuti in celle con le finestre coperte da lastre metalliche e privati dell’accesso all’acqua potabile, al cibo e a letti in numero sufficiente. Inoltre vengono vietate loro le visite dei familiari e negato l’accesso ai telefoni, solitamente disponibili in altre parti del carcere. "Le autorità iraniane devono garantire con urgenza che cibo adeguato, acqua potabile, medicine, cure mediche e strutture igieniche siano disponibili per tutti i prigionieri del carcere di Rajài Shahr". Il 30 Luglio, circa 53 prigionieri politici sono stati trasferiti con violenza nella sezione 10 del carcere di Rajài Shahr. Tra questi anche prigionieri di coscienza, difensori dei diritti umani, sindacalisti, giornalisti, studenti, pacifici dissidenti politici e membri della comunità Bahài perseguitata in Iran. Almeno 17 prigionieri politici hanno iniziato lo sciopero della fame per protestare contro questo trasferimento. Il difensore dei diritti umani e sindacalista Reza Shahabi si è unito ai prigionieri in sciopero della fame il 16 Agosto, dopo essere stato arrestato e trasferito nella stessa sezione. Secondo alcune informazioni ottenute da Amnesty International, all’inizio di Agosto alcuni dei prigionieri in sciopero della fame sono stati messi in isolamento fino a 12 giorni per la loro protesta pacifica. "Rinchiudendo decine di prigionieri di coscienza dopo processi assolutamente ingiusti, le autorità iraniane stanno già vergognosamente trasgredendo ai loro obblighi nei confronti dei diritti umani. Prima di tutto queste sono persone che non dovrebbero neanche trovarsi dietro le sbarre, ma invece di essere rilasciate vengono ulteriormente punite venendo rinchiuse in condizioni scioccanti", ha detto Magdalena Mughrabi. Amnesty International ha appreso che le autorità carcerarie hanno coperto le finestre della Sezione 10 con lastre di metallo e sigillato tutte le porte e le aperture all’esterno, rendendo le stanze praticamente ermetiche. Questo ha provocato una limitata circolazione dell’aria e stanze umide, che minacciano la salute dei prigionieri, soprattutto di quelli che si trovano già in gravi condizioni di salute. I prigionieri hanno anche espresso la loro rabbia per un provvedimento senza precedenti: l’installazione di decine di telecamere di sicurezza e di apparecchi ricevitori in tutta questa parte del carcere, compresi i bagni e le docce, cosa che rappresenta una grave violazione del loro diritto alla privacy. Queste misure repressive, insieme al divieto di telefonare e di ricevere visite dei familiari, sembra far parte di un tentativo orchestrato dalle autorità iraniane per escludere i prigionieri politici dal mondo esterno e di limitare le fughe di notizie sul catalogo di violazioni dei diritti umani che subiscono costantemente nel carcere di Rajài Shahr. Negli ultimi giorni, diversi prigionieri sono stati trasferiti all’infermeria del carcere a causa dell’aggravarsi delle loro condizioni di salute. Tra questi i prigionieri Bahài Adel Naimi, Farhad Dahandaj, Peyman Koushak Baghi, lo studente specializzando Hamid Babaei, il giornalista e blogger Saeed Pour Heydar e il difensore dei diritti umani Jafar Eghdami. I medici del carcere hanno avvertito che alcuni di loro hanno urgente bisogno di cure mediche specialistiche fuori dal carcere, ma il direttore si rifiuta di autorizzare il loro ricovero in ospedale. I prigionieri detenuti nella Sezione 10 non hanno accesso ad acqua potabile, dato che gli apparecchi per la purificazione dell’acqua che avevano acquistato a loro spese non sono state portate dopo il loro trasferimento. Le autorità non sono neanche riuscite a trasferire il frigorifero, il cibo e la cucina che i prigionieri avevano comprato a poco a poco con i loro soldi nel corso degli anni, costringendoli a sopravvivere con il cibo del carcere, che si sa essere inadeguato e insufficiente. Alla fine, i prigionieri hanno sempre necessità di acquistare cibo nello spaccio del carcere e devono prepararsi i pasti a loro spese. "Le orribili condizioni nel carcere di Rajài Shahr dimostrano uno schema di trattamento crudele e disumano che ha ripetutamente caratterizzato il crudele atteggiamento dell’Iran verso i prigionieri in sua custodia", ha detto Magdalena Mughrabi. "Tutti i prigionieri devono essere trattati con dignità e umanità, in linea con gli standards internazionali sui diritti umani. Coloro che necessitano di cure mediche specialistiche devono essere ricoverati negli ospedali fuori dal carcere". Durante il trasferimento alla Sezione 10, i prigionieri hanno detto di essere stati picchiati dalle guardie e che gli è stato anche impedito di portare con loro medicine ed effetti personali come vestiti, libri e lettere. Alcuni beni personali, come notebooks, foto, lettere e altri ricordi che erano la loro unica fonte di conforto in una situazione altrimenti terribile, sono stati in seguito distrutti. I prigionieri in sciopero della fame hanno fatto una serie di richieste, come la restituzione dei loro effetti personali, il risarcimento dei danni provocati e che le autorità si occupino immediatamente delle orribili condizioni che stanno mettendo a grave rischio il loro benessere fisico e mentale. Amnesty International chiede alle autorità iraniane di consentire ad osservatori internazionali, come l’Inviato Speciale sulla Situazione dei Diritti Umani in Iran, di condurre ispezioni indipendenti e a sorpresa nel carcere di Rajài Shahr e nelle altre carceri di tutto il paese. Filippine. La "guerra alla droga" non risparmia i minorenni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 agosto 2017 Dopo migliaia di esecuzioni sommarie, nell’ambito della "guerra alla droga" proclamata dal presidente filippino Rodrigo Duterte nel giugno 2016, l’uccisione di un minorenne ha suscitato indignazione nel paese e proteste a livello internazionale. Kian Loyd Delos Santos, uno studente di 17 anni, è stato ucciso da tre agenti di polizia il 16 agosto a Caloocan. Sebbene i tre agenti abbiano sostenuto di aver agito per auto-difesa, una telecamera di sorveglianza e le testimonianze oculari hanno raccontato una storia diversa: quando è stato ucciso, Kian Loyd Delos Santos era inginocchiato, col volto rivolto in basso. Il 24 agosto, intervenendo al Senato, il ministro della Giustizia Vitaliano Aguirre II ha parlato di un "caso isolato" e ha dichiarato che i "danni collaterali" sono inevitabili nel contesto della "guerra alla droga". Anche se si fosse trattato di un "caso isolato", sarebbe stato un fatto grave. Ma le affermazioni del ministro Aguirre II non solo sono ciniche e vergognose, ma anche false: secondo il Centro per i diritti legali dei minori, nel primo anno della "guerra al terrore", sono stati uccisi almeno 31 minorenni. Kian Loyd Delos Santos, come minimo, è stato il trentaduesimo.