Cibo bio dietro le sbarre di Stefano Zurlo Il Giornale, 27 agosto 2017 La gara per fornire pasti "a ridotto impatto ambientale" si chiuderà nei prossimi giorni. Cibo bio dietro le sbarre. Pare incredibile: i detenuti sono stipati in celle troppo piccole, l’Europa condanna l’Italia con ritmi da catena di montaggio e la Corte di Strasburgo è letteralmente sommersa da almeno mille ricorsi in cui si contesta di tutto: dalla mancanza di acqua calda nelle docce all’assistenza sanitaria insufficiente, ma soprattutto il troppo poco spazio a disposizione. Non importa, l’importante è aggiornare i menu e dare agli abitanti dei penitenziari, ristretti in spazi claustrofobici, un’alimentazione più equilibrata. Il resto verrà, se verrà. Così il provveditore per il Nord Est, in sostanza il responsabile di tutte le prigioni di Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, ha indetto una gara del valore di quasi 14 milioni e mezzo di euro, per la precisione 14.473.119 euro, Iva esclusa, per "l’affidamento del servizio di mantenimento di detenuti e internati - cosi recita il faticoso burocratese del documento - attraverso l’approvvigionamento di derrate alimentari derivanti da processi di produzione a ridotto impatto ambientale per il confezionamento di pasti giornalieri completi (colazione, pranzo e cena) ai ristretti negli istituti penitenziari". Il messaggio è chiaro: in galera si sta scomodi e pure peggio, qualcuno anzi non regge quella situazione e si ammazza, ma in futuro si mangerà meglio. Almeno fra Verona e Trieste. Del resto una legge, la 221 del 28 dicembre 2015, impone la svolta nel segno della green economy. Certo, basta intendersi sulle priorità: nell’ormai lontano 1999 l’allora dominus del sistema carcerario tricolore Giancarlo Caselli presentò il nuovo regolamento, cosi avanzato da sembrare, anzi essere il libro dei sogni. L’acqua bollente, i bidet, le finestre più grandi e ben illuminate, i menu differenziati sulla base dell’appartenenza religiosa e poi, naturalmente, la sempre sbandierata e mai realizzata ora di affettività, ovvero sesso, con mogli e fidanzate. Qualcosa si è fatto, ma molto, moltissimo resta da fare e i detenuti hanno imboccato la strada di Strasburgo: c’è chi è rimasto per mesi incollato a una mattonella, potendo calpestare meno di tre metri quadri e per questo Roma è stata condannata a risarcire il malcapitato ma anche invitata a correre ai ripari. Vale a dire: anzitutto costruire nuovi padiglioni. Va detto che Strasburgo non indica uno spazio personale minimo, ancorando la sua valutazione ad una serie di parametri che oscillano: dalle condizioni di salute del detenuto alla lunghezza della pena fino alle possibilità di accesso al passeggio all’aria aperta; il Comitato europeo per la prevenzione della tortura è molto più rigido e pretende 7metri quadri a testa. Fantascienza per certe realtà del nostro Paese: strutture vecchie e malandate, con problemi cronici aggravati dal rimescolamento della popolazione negli ultimi anni; sempre più stranieri, a volte dalla nazionalità incerta, con rischi crescenti di forme estreme di lotta e di protesta. Suicidi, autolesionismo, radicalizzazione nel segno del jihadismo. Ormai, un giorno si e l’altro pure qualche documento ufficiale sottolinea la possibilità che l’Isis recluti adepti nei gironi delle carceri. Va bene lo stesso, anche se la coperta è corta e i soldi sempre meno. La pena deve avere un valore non solo afflittivo, come dicono gli esperti, ma anche rieducativo e per rimettere sula buona strada la pecorella smarrita servono tante cose: il lavoro anzitutto, che purtroppo latita, e poi lo svago, il cibo e tutto il resto. Attenzione: ci sono anche carceri modello, come Bollate, alle porte di Milano, dove alcuni galeotti hanno perfino la sala in cui suonare la chitarra e dove funziona un ristorante gestito dai detenuti, inGalera, con tempi di prenotazione lunghissimi e recensioni entusiastiche sui più importanti giornali del mondo. Ma ci sono anche realtà arretrate, con ambienti così piccoli e soffocanti che tutti gli inquilini non possono alzarsi contemporaneamente in piedi. Forse occorrerebbe riflettere ancora prima di dedicare quasi 15 milioni ad un capitolo meno urgente. E invece a giorni si chiuderà la gara. Viva il bio, anche se a tavola bisogna fare i turni. Emma Bonino: "Siamo diventati intolleranti. Salvini e Di Maio imprenditori della paura" di Giovanna Casadio La Repubblica, 27 agosto 2017 L’ex ministro e leader Radicale: "la colpa non è dell’Unione Europea". Nella guerriglia per gli sgomberi a Roma abbiamo perso tutti: la politica, il paese, i migranti stessi". Emma Bonino, ex ministro degli Esteri e leader radicale, soprattutto denuncia "gli imprenditori della paura, da Salvini a Di Maio e non solo". Bonino, la guerriglia a Roma per lo sgombero del palazzo occupato dai profughi si poteva evitare? "Mi pare di avere capito dalle dichiarazioni del ministro Minniti che si eviteranno d’ora in poi. E questo è di per sé un giudizio chiaro". Le sembra una autocritica? "Una ammissione netta che non è questa la strada. Penso che in quell’episodio dello sgombero a Roma, come in molti altri, anche se di diverso genere, stiamo perdendo tutti. La politica, il paese, i migranti stessi. Il senso dei diritti e dei doveri per tutti. Una politica rigorosa di integrazione può aiutare anche la sicurezza". Il parroco pistoiese minacciato da Forza Nuova per avere regalato una giornata di piscina a un gruppo di profughi. Barricate per non ospitare un gruppetto di minori non accompagnati. Gli italiani sono diventati razzisti? "In parte. Ma certamente sono intolleranti verso chiunque sia altro e diverso. In particolare se povero. Si veda il cartello contro l’handicappato nel centro commerciale di Carugate nel milanese, che nulla ha a che vedere con i colori della pelle, eppure coperto di insulti comunque". L’emergenza migranti provoca paura, amplificata dal timore che i terroristi islamici arrivino sui barconi? "Veramente abbiamo visto all’opera dei veri imprenditori della paura, da Salvini a Di Maio e non solo. Eppure se apriamo le pagine di cronaca abbiamo liste lunghissime di atti criminali e violenti, specie contro le donne, compiuti da italiani "bianchi". Per non aggiungere che la stragrande maggioranza di terroristi abitano e vivono da noi". Sono diminuiti gli sbarchi. La strategia di Minniti funziona? "È evidente che meno ne scappano più ne rimangono nei lager libici. L’avevo detto già alla convention di Renzi al Lingotto: attenti, più ne tappiamo in Libia più aumenterà il numero delle persone sottoposte a torture, ricatti, stupri, cosa che sta avvenendo, testimoniata da reportage non solo italiani, ma internazionali e dalle Nazioni Unite. Senza dimenticare che a parte i centri visitabili e gestiti dal Dipartimento del governo libico, ce ne sono decine, in particolare a sud della Libia, affidati alle milizie. Terribili e senza testimoni. Il ministro Minniti nella conferenza stampa di Ferragosto ha detto che questo è il suo "assillo", usando un eufemismo, perché tutti sono a conoscenza della situazione e bisogna ammetterlo per onestà intellettuale". La tregua dei flussi ha un prezzo? "Il prezzo è drammatico e lo pagano "loro", quelli tappati in Libia. Ma lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Noi continuiamo a fare finta di non sapere, magari nella speranza che arrivi l’Unhcr o le Ong umanitarie a tentare di alleviare questi drammi indicibili". Ong finite sotto inchiesta. C’è stato un eccesso di disinvoltura da parte di alcune? "Non so, c’è una sola inchiesta aperta dalla Procura di Trapani. Comunque in quelle stesse Ong così vituperate recentemente, si spera. Ma succede sempre così, quando la politica annaspa, si chiamano gli umanitari. Lo so bene per esperienza da commissaria europea. Ricordo che nella crisi dei Grandi Laghi a metà degli anni Novanta, con due milioni di profughi ruandesi, la comunità internazionale pretendeva che fossero gli umanitari, medici, infermieri a disarmare a mani nude i rifugiati armati. Ma lo stesso è successo in Afghanistan, Iraq, attualmente nello Yemen, per non dimenticare Srebrenica". L’ Europa è sempre la grande assente? "Sono gli stati membri ad essere non solo assenti ma decisamente contrari a una politica estera comune, oltre che a una politica di integrazione comune. Ognuno per sé. Quindi inutile e falso prendersela con Bruxelles. Che pure quando fa proposte - come la ricollocazione di 160 mila rifugiati in due anni - non le attua nessun paese". Cosa andrebbe fatto? "Nella campagna "Ero straniero" di Radicali, Arci, Acli, Centro Astalli e molti altri, abbiamo una serie di proposte nella legge di iniziativa popolare. Perché dipende solo da noi. Tanto più che il nostro declino demografico ha bisogno di nuovi arrivi ovviamente legali, impossibili con l’attuale legge Bossi-Fini. So perfettamente che non è facile, non ci sono soluzioni miracolose. Però osservo che centinaia di sindaci (pochi sugli 8 mila) e operatori del settore stanno attuando politiche di inserimento e integrazione. Ma serve ripartire dalla testa e non farsi governare solo dalla pancia". La mafia non brucia i boschi di Alberto Cisterna Il Dubbio, 27 agosto 2017 Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da po- co. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di micro-interessi e micro-bisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. È all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i "re della montagna". Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai "ragionamenti" degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, "La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari", figuriamoci ad altri. L’identità negata dei testimoni di giustizia di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 27 agosto 2017 Uomini, donne che hanno scelto di intraprendere una strada rischiosa, tutta in salita ma lontana da ogni subdolo compromesso. Oltrepassando l’omertà e rivestendo la propria vita di dignità su note di un silenzio assordante che accompagna la loro esistenza quotidiana, quelli dei testimoni di giustizia. Vicende che narrano di un coraggio attualmente non tutelato, a cominciare dai fraintendimenti che tutt’oggi animano l’opinione pubblica: tra i testimoni di giustizia e i collaboratori di giustizia. Un confine ben delineato il loro: la posizione dei testimoni di giustizia, solitamente si tratta di semplici cittadini, imprenditori vittime di racket, che forniscono un importante contributo alle indagini della magistratura e che per questo possono essere perseguitati da gruppi criminali, è da distinguere dalla figura dei collaboratori di giustizia, ovvero coloro che fanno parte di organizzazioni criminali e che proprio per questo sono in grado di fornire informazioni utili per lo svolgimento delle indagini, ottenendo in cambio benefici di varia natura. L’identità del testimone di giustizia a seguito della denuncia è caratterizzata da una condizione di pericolo concreta, grave e attuale da rendere inadeguate le misure di protezione ordinarie e richiederne necessarie di speciali. Ecco che dopo aver ottenuto l’approvazione della Camera, la proposta di legge 3500, dedicata a Rita Atria, che riforma il sistema tutorio dei testimoni di giustizia, di cui Davide Mattiello è relatore in Senato dedicata a questa ottantina di italiani invisibili, resta ferma alla dogana del Senato. I testimoni di giustizia stanno vivendo l’ennesima emarginazione, un dramma caratterizzato dall’incertezza del Governo. Uno status che imprigiona i loro diritti, la loro identità, la possibilità di rivendicare la loro posizione, i loro sogni, i loro progetti. Dopo 20 anni dalla entrata in vigore della legge 45/2001 che tanto ha danneggiato la figura del testimone di giustizia, spesso confuso con la figura del "pentito", una legge che molte volte ha distrutto le speranze e il futuro di chi da persona libera è stata esiliata lontano dalla propria terra nativa. Ed ecco che la proposta di legge 3500 garantirà a coloro che hanno denunciato e creduto alla giustizia, esponendo se stessi e le proprie famiglie a enormi rischi, le adeguate misure ordinarie di tutela, forme di sostegno sociale ed economico, in modo da non far pentire dei buoni cittadini per aver denunciato, facendoli sentire dalla parte giusta, quella nella quale sentirsi al sicuro e non essere confuso con un "collaboratore". Attualmente la legge in vigore tutela i testimoni di giustizia riconoscendo il danno biologico, il danno aziendale anche se non ci sono delle tempistiche certe, si tratta di un percorso tortuoso, e con la proposta di legge 3500 viene restituita un’identità, una funzione ben precisa, quella del testimone di giustizia è una figura talmente nuova da non essere nemmeno contemplata. Il cittadino che decide di denunciare si ritrova in una sospensione della vita, in attesa dei processi sperando nel risarcimento dei danni per ricominciare da dove avevi lasciato il suo progetto. Ma dalle ultime relazioni si evince che le denunce sono in diminuzione, abbiamo intervistato alcuni imprenditori ai quali è stato riconosciuto lo status di testimoni di giustizia e il denominatore comune del loro sfogo era l’amarezza nel vedere quanto la gente, vittima di mafia, stia indietreggiando "perché non ha fiducia, per timore di perdere la propria dignità, la proposta di legge 3500, invece, fotografa perfettamente la figura del testimone di giustizia e garantirebbe anche l’inserimento nel mondo del lavoro". Le loro sono vite in penombra fatte di momenti vissuti a metà. "Dopo la denuncia la vita cambia - continuano a dichiararci - diventi la prova in carne ed ossa dei fatti raccontati, delle loro azioni orribili, quindi eliminare la tua persona diventa il modo per evitare il processo. E improvvisamente si cade in un limbo, un limbo di emarginazione da parte degli amici, dei conoscenti, della famiglia, dei colleghi, perché nessuno vuole lasciarsi coinvolgere in situazioni ingestibili. Quando inizi questo percorso rinunci a tutto: a muoverti liberamente, alla pace in famiglia, al tuo lavoro. Inizia così la diffidenza verso gli altri e da parte loro avverti la paura che hanno di te. Ma non possiamo delegare ad altri questo compito, dobbiamo ribellarci alla mafia, nonostante tutto". Il loro coraggio va tutelato da un Governo che dovrebbe lottare contro ogni mafia e ingiustizia, garantendo la dignità di ogni singolo cittadino. La legge 3500 deve rappresentare la svolta concreta contro ogni sopruso. La madre in carcere con il figlio? Degno di un Paese incivile a cura di Maria Corbi La Stampa, 27 agosto 2017 Gentile Maria, chi le scrive è una madre che tra pochi mesi quasi sicuramente finirà dietro le sbarre. Spero sempre in una sentenza definitiva favorevole, ma non ci conto. Inutile in questa sede dirle che sono innocente. Non è per questo che le mando questa lettera ma per chiederle se ritiene giusto che a pagare per colpe non loro siano i bambini. Come sa seguono le madri in carcere a meno che non si decida diversamente e allora vengono affidati a un parente. Fino a tre anni. Poi la separazione definitiva. Mi rivolgo a lei perché l’ho vista sempre molto attenta ai diritti dei detenuti e delle persone più fragili. Già prevedo quali commenti scatenerà questo aggettivo, "fragili", e quanta rabbia aizzerà sui social visto che si sta parlando di detenuti. E quindi di persone che hanno sbagliato. Non crede che si debbano trovare forme di pena alternative per chi ha figli? Non crede che la maternità, anche se di una "colpevole" debba essere tutelata e rispettata? Che i bambini debbano essere lasciati con le loro mamme in luoghi consoni? E certo non lo sono le celle delle prigioni italiane che non sono "consone" per nessuno. Io guardo tutte le mattine la mia piccola e non posso pensare a separarmi da lei, ma soprattutto so quanto soffrirebbe. Ha poco più di due anni e quando mi abbraccia sento che prende da me la sua forza, il suo equilibrio. Mi dicono che i bambini si adeguano a tutto, che anche lei troverà nuovi punti di riferimento quando saremo divise. Perché io, anche se potessi portarla con me qualche mese, non voglio farla entrare in carcere. Non è giusto. I bambini sono innocenti. E hanno diritto alle loro mamme. Italia Carissima, hai ragione. I bambini non devono conoscere l’orrore del carcere e nemmeno il dolore della separazione dalla madre. Alla fine dello scorso anno erano circa 40 i minori rinchiusi. Alcuni dei quali negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Anche solo uno sarebbe troppo. Per una questione di umanità ma anche di civiltà. Perché rendere "umane" le pene, evitare che in qualsiasi modo assomiglino a una vendetta, a una resa dei conti, rende un Paese degno di essere definito "civiltà avanzata". Purtroppo noi, l’Italia, non lo siamo. Almeno secondo me. Per il problema che hai sollevato tu, ma prima ancora per la situazione delle nostre carceri. Sovraffollate e fatiscenti. In questa estate di caldo torrido i detenuti boccheggiano. E quando i ventilatori arrivano, come nel carcere fiorentino di Sollicciano, rimangono in deposito come hanno denunciato i radicali. In attesa di Babbo Natale e della neve? Non si sa. Quello che è certo è che per i detenuti non esiste pietà. Hanno sbagliato? Devono soffrire. E nemmeno per le madri esiste pietà. Non solo da parte delle istituzioni, ma anche (purtroppo) di una buona fetta dell’opinione pubblica per cui la pena viene ancora concepita come "restituzione del male fatto". La legge del taglione è dura a morire. Quindi ben venga una cella dove non c’è lo spazio per muoversi, umida, scalcinata. Ben vengano madri che tengono in pochi metri quadri i figli o separate da loro. Se lo sono meritato. Siamo un Paese cattolico dove però il concetto fondante del perdono viene ignorato. E invito tutti a leggere un libro di Luigi Manconi, "Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini" (Chiarelettere). Sono tante le storie che mostrano come quando si esce dal carcere, si è peggiori di quando si è entrati. La pena si mostra "in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta", sottolinea Manconi. "E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato". L’alternativa? Deve partire dall’idea, come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che "il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio". A iniziare dalle madri. Sardegna: il Partito radicale in tour in tutte le carceri dell’isola La Nuova Sardegna, 27 agosto 2017 Dal 28 agosto al 2 settembre il Partito radicale e l’Unione delle Camere Penali organizzano una "Carovana per la Giustizia" che attraverserà tutta la Sardegna. La Carovana partirà da Roma domenica. La prima tappa sarà lunedì a Tempio, seguita da Sassari e proseguirà fino al 2 settembre con tappe in diverse province e visita in tutte le carceri dell’isola: martedì Alghero e Oristano, mercoledì Arbus e Cagliari, giovedì Isili e Lanusei, venerdì e sabato Nuoro. Gli obiettivi della Carovana sono: raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati, amnistia e indulto, superamento di trattamenti come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento penitenziario, 3mila iscritti al Partito radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. Gli eventi e le iniziative consisteranno, ove possibile, in dibattiti con le Camere penali territoriali, assemblee, e visite nelle carceri con raccolta firme dei detenuti sulla proposta di legge. Bologna: carcere della Dozza, rapporto choc "un detenuto su tre è tossicodipendente" di Caterina Giusberti La Repubblica, 27 agosto 2017 Un detenuto su tre alla Dozza è tossicodipendente. Lo rileva l’ultimo rapporto dell’Ausl sulla struttura: dei 766 presenti al momento dell’ispezione di fine giugno, quelli segnalati al Sert come dipendenti da droga o alcol erano 238 - di cui 224 uomini e 14 donne - poco più del 30%. "Fondamentalmente - spiega il direttore del Sert, Daniele Gambini - si tratta di consumatori di eroina, ma negli ultimi dieci anni sono aumentati anche i consumatori di cocaina. Poi c’è l’alcol. In tutto il primo semestre 2017 abbiamo seguito 372 detenuti tossicodipendenti e 41 con problemi di alcol". I medici del Sert alla Dozza sono solo due, ma per il direttore "riescono a far fronte alla situazione, anche perché assistiti da tre psicologi, tre assistenti sociali e diversi infermieri". Per il presidente dell’associazione Antigone Emilia-Romagna, l’avvocato Elia De Caro, intervenire è urgente: "È importante che siano attivate misure alternative per i detenuti tossicodipendenti - spiega - o che vengano collocati in reparti a custodia attenuata, come quello del carcere di Rimini". A Bologna "di fatto esistono due reparti informali dove vengono sistemati i tossicodipendenti, oltre all’infermeria che è spesso sovraffollata". Il fatto che molti detenuti siano extracomunitari sta peggiorando la situazione, "perché spesso si tratta di persone sconosciute ai servizi, che non hanno parenti sul territorio, per i quali è più difficile attivare misure alternative". Cristina Grilli, che fino all’anno scorso frequentava il carcere come insegnante e da settembre ci tornerà come volontaria, sbotta: "C’è un braccio intero per i tossicodipendenti. Quello che ho pensato spesso negli ultimi sei anni è: perché li tengono lì? Io conosco bene il problema della droga e tutte le volte resto allibita. Stanno lì dentro parcheggiati come in un limbo, storditi dalle medicine, poi escono e rifanno la stessa rapina per tornare ad acquistare la droga". Per il nuovo garante dei detenuti di Bologna Antonio Ianniello, il dato del 30% di tossicodipendenti è tendenzialmente stabile: "Spesso in carcere ci sono persone con alle spalle una serie di fallimenti terapeutici, sulle quali i Sert hanno smesso di investire: purtroppo il detenuto tossicodipendente è quello a massimo rischio di recidiva". Dal rapporto dell’Ausl emerge una fotografia completa del carcere. Al momento dell’ispezione dell’Ausl, gli stranieri erano più della metà dell’intera popolazione della Dozza, 421; i detenuti sieropositivi erano 8. Il sovraffollamento visibile, anche se in calo: 766 presenze per 483 posti previsti. Per il direttore del dipartimento di sanità pubblica dell’Ausl, Paolo Pandolfi, "il sovraffollamento è un rischio, un punto critico per alcune patologie e malattie infettive, anche se finora in carcere non abbiamo mai avuto epidemie". Nella nota dell’Ausl si legge: "Molte celle, previste per un occupante, vengono utilizzate da due ospiti, con problemi evidenti di vivibilità, privacy e di natura igienico-sanitaria, dovuti anche all’utilizzo del bagno in cella come deposito degli alimenti". Migliora invece la situazione delle mamme con bambini: erano quattro a giugno, ma "due - spiega il garante sono state collocate in istituti a custodia attenuata per detenute madri nel nel resto di Italia. Stiamo cercando una soluzione anche per le altre due". Il cappellano: "Quando escono nessuno li aiuta" "Il carcere è patogeno di per sé, è una condizione che genera malattia. Non parlo solo di dipendenza da droghe, ma di salute in genere. Lì dentro aumentano le malattie, spesso psicosomatiche, c’è una grande situazione di malessere". Padre Marcello Matté, 61 anni, frate dehoniano, è stato nominato cappellano della Dozza dal vescovo Zuppi un anno fa, ma il carcere lo frequentava già dal 1995 come volontario. "I detenuti sono molto giovani e molti sono in carcere per reati legati allo spaccio. Il lavoro per loro sarebbe la prima delle soluzioni, la più importante delle medicine, ma quello che viene offerto nelle aziende nate dentro al carcere è ampiamente insufficiente". Per i tossicodipendenti, ragiona, "il problema vero non è l’astinenza, perché quello viene affrontato a livello sanitario. La difficoltà più grossa è il dopo: quando escono sono abbandonati, soli". Mancano i ponti tra il dentro del carcere e il mondo fuori. "Dalla Dozza - aggiunge - vengono messi in libertà circa una trentina di detenuti al mese, uno al giorno, e molti di loro escono senza avere davanti alcuna reale opportunità, quindi purtroppo si candidano a tornare lì dentro. Spesso non viene loro offerta una possibilità reale di inserirsi, i servizi sociali sono carenti, sopraffatti". Insomma, "tra il problema della tossicodipendenza e la fedina penale sporca queste persone fanno ancora più fatica". Ecco perché, con i dehoniani, padre Marcello ha aperto una piccola casa di accoglienza per detenuti in fine pena. "Seguiamo quattro persone, ci occupiamo del loro inserimento lavorativo e anche della loro autonomia abitativa. Sono piccoli numeri, è un inizio". Trovare casa è spesso il passaggio più difficile: "Bologna non è più chiusa di altre città, ma molti proprietari preferiscono affittare a studenti che ad ex detenuti, nonostante le case sfitte sotto le Due Torri - a quanto mi risulta - siano parecchie". Ancona: carcere di Montacuto, l’allarme del Garante dei detenuti Andrea Nobili Corriere Adriatico, 27 agosto 2017 A meno di un mese dall’ultimo sopralluogo, il garante dei diritti, Andrea Nobili, è tornato nell’istituto penitenziario di Montacuto. Al centro dell’attenzione le problematiche legate al sovraffollamento del carcere, che a fronte di una capienza regolamentare di 256 detenuti, a fine luglio ne ospitava 266, mentre adesso, dopo i trasferimenti degli ultimi giorni, accoglie circa 300 persone, tra cui moltissimi extracomunitari. "La situazione di sovraffollamento delle celle detentive - sottolinea Nobili - si sta sensibilmente aggravando a causa dei continui trasferimenti da altri istituti penitenziari, con il rischio che non vengano rispettati i parametri di vivibilità riconosciuti dalla Corte europea per i Diritti dell’Uomo". Porto Azzurro (Li): il carcere e la rivolta che sconvolse l’Italia di Stefano Tamburini Il Tirreno, 27 agosto 2017 25 agosto 1987: sei ergastolani si asserragliano in infermeria con 36 ostaggi. Otto giorni terribili: lo Stato sotto ricatto vince senza spargere sangue. Ci sono i mitra accanto ai bikini. Armi, uniformi e camionette nel paradiso delle vacanze che all’improvviso si specchia nell’inferno. Otto giorni di fine estate, da un martedì a quello dopo, tengono l’Italia con il fiato sospeso. Alla fine vincono i buoni, vince lo Stato senza spargere sangue e svendere dignità. Ma più volte si affaccia il rischio carneficina: la chiamiamo rivolta al carcere di Porto Azzurro, in realtà è la storia dell’evasione fallita di sei ergastolani poi asserragliati nell’infermeria con 36 ostaggi sotto tiro. E prigioniere diventano anche le paure di tutti. Anche di noi che siamo lì per raccontare, perché tg e quotidiani per i rivoltosi sono il solo strumento per capire cosa si muove là fuori. Si rischia il peggio, a più riprese, dal 25 agosto al 1° settembre 1987, a Forte San Giacomo, allora simbolo di redenzione per carcerati della peggior specie. Vivere questi otto giorni è come essere dentro a un film che si apre con la scena dell’assalto. IL BLITZ. Sono le 10,25: quattro detenuti immobilizzano due guardie al campo sportivo del carcere. Hanno due pistole, ricevute grazie a complicità interne mai del tutto chiarite. Due carcerati restano con le guardie, gli altri raggiungono il quinto e il sesto del commando nell’ufficio del direttore Cosimo Giordano. Il più incazzato maneggia un coltello. È Mario Tuti, fascista pluriassassino, esaltato con la passione delle armi e la fissa della rivoluzione: "Forza dottore si alzi, che adesso ce ne andiamo". L’EVASIONE FALLITA. Chiedono un’auto blindata, un maresciallo si offre di andarla a prendere, Tuti non lascia alternative: "Torna entro cinque minuti o lo uccido". Mentre parla infila la canna del revolver in bocca a un agente. Il maresciallo scappa e dà l’allarme, i rivoltosi capiscono che serve un ripiego, liberano una guardia che sta male e salgono al quarto piano, in infermeria. Chiunque sia là dentro diventa ostaggio. In tutto 36 persone, fra guardie, detenuti e personale civile: direttore, medico, psicologo, infermiere e assistente sociale, unica donna fra i prigionieri. IL COMMANDO. Sono pronti a tutto, i rivoltosi. Il più famoso, Tuti, fino al 24 gennaio del 1975, è solo un geometra del Comune di Empoli con la passione per le armi. Quando tre poliziotti bussano per un controllo del piccolo arsenale che è in casa, lui ne uccide due. Scappa in Francia, lo arrestano e lo rimandano in Italia dove nel frattempo s’è preso l’ergastolo e un’altra serie di accuse, compresa quella per la strage del treno Italicus. Per questo attentato viene assolto e poi condannato in appello prima della definitiva assoluzione. Quell’ultima imputazione non la manda giù, in carcere a Novara uccide un altro neofascista che aveva intenzione di parlare con i magistrati. Così, quando arriva a Porto Azzurro, un mese prima dell’evasione fallita, sono in tanti a chiedersi il perché del "soggiorno premio" in un carcere morbido. Anche lo stesso Tuti, dopo, dirà di non averla capita: "Ho addirittura pensato che fosse un risarcimento dopo la condanna ingiusta". Gli altri cinque non sono comunque meno pericolosi. Il numero due è Ubaldo Mario Rossi, gangster genovese in galera fra l’altro per aver rapito una bambina di dieci anni, figlia del titolare della "Geloso", la marca dei registratori a nastro che hanno invaso le case degli italiani. Il suo palmarès conta omicidi, rapine e un altro rapimento. Formalmente non è ergastolano, ma la somma delle condanne recita "fine pena 2094", quando avrebbe avuto 152 anni. Gli altri quattro sono tutti sardi: Mario Marrocu, Mario Cappai, Gaetano Manca e Mario Tolu. I primi tre legati da rapine violente e da un omicidio per vendetta in carcere, il quarto è un boss soprannominato "su macellaiu". Sei persone così che hanno da temere? Tuti lo spiega più volte al telefono, durante la trattativa: "Siamo uomini che non hanno niente da perdere se non le proprie catene". L’ITALIA DI ALLORA. Lo scenario è quello di un’Italia reduce dall’emergenza terrorismo e fresca di approvazione di una legge carceraria che comincia ad aprire alla redenzione. E questa rivolta, oltre che mettere a rischio le vite di molte persone, può essere una pietra tombale anche sul progresso civile. Nell’estate precedente il carcere ha ospitato i concerti di Francesco Guccini e Lucio Dalla. Quello di Dalla, con migliaia di elbani a fianco dei detenuti, viene presentato da Pietro Cavallero, capo della banda di rapinatori che ha terrorizzato Milano e il Torinese: "Per rendere possibile questo spettacolo sono stati abbattuti muri, si sono aperti portoni al mondo esterno". Fin da subito Cavallero e gli altri reclusi si dissociano apertamente, isolando ulteriormente i rivoltosi. Con Cavallero anche Lorenzo Bozano, "il biondino della Spider rossa", rapitore e assassino di Milena Sutter a Genova e Gianfranco Bertoli, l’anarchico della strage alla questura di Milano del 1973: con una bomba a mano provocò quattro morti e 52 feriti all’inaugurazione di un busto in memoria del commissario Luigi Calabresi. GLI ALTRI PROTAGONISTI. Questa storia avrà un lieto fine grazie soprattutto alla linea della fermezza, impersonata dal ministro della Giustizia, il socialista Giuliano Vassalli, ex partigiano torturato dalle Ss, uomo di grandi qualità del governo di pentapartito presieduto da Giovanni Goria (Dc). Al fianco di Vassalli lavorano il direttore generale degli Istituti di prevenzione e di pena, Niccolò Amato, un gruppo di magistrati e Umberto Improta, funzionario di polizia che nel gennaio 1982 aveva diretto il blitz per la liberazione del generale statunitense James Lee Dozier rapito dalle Brigate Rosse. È lui che stoppa sul nascere la maldestra idea di un blitz delle teste di cuoio già la notte del 25. DUE LINEE IN CONTRASTO. Vassalli è tassativo: l’unica strada è la fermezza, in sostanza non concedere niente e prendere tempo. E non è facile farla passare, perché i vertici delle forze dell’ordine spingono per menar le mani e far cantare le armi. Nei dintorni del carcere circolano spifferi di blitz già organizzati, con macchine speciali che "limano" i muri per assottigliarli, con bombe assordanti e teste di cuoio pronte a entrare di notte. Un collega particolarmente legato ai servizi segreti ha in mano anche uno schema, non si sa fino a che punto reale. Ma ci guardiamo bene dallo scriverle quelle cose, anche perché i primi a leggere i giornali al mattino sono proprio i rivoltosi. I familiari degli ostaggi vengono a ringraziarci ogni giorno nel bar trasformato in sala stampa fra il ticchettio delle macchine per scrivere e il tintinnio dei gettoni telefonici per dettare i pezzi. Solo un collega deraglia e fa titolare al suo giornale che una nave militare francese è in rada pronta ad appoggiare il blitz. La nave c’è ma porta cadetti in addestramento. Viene quasi preso a schiaffi da alcuni parenti di ostaggi. Per fortuna la cazzata è talmente grossa che a quei sei lassù nell’infermeria non fa alcun effetto. L’ELICOTTERO. A loro importa solo evadere. Il fallimento del piano iniziale non può certo fermarli e dopo l’auto blindata pensano a un motoscafo, poi scatta la richiesta intorno alla quale ruoterà tutto: un elicottero con un pilota e due ostaggi. Per dare maggiore forza alla richiesta consentono ai prigionieri di telefonare ai familiari o agli amici per esercitare pressioni. Comincia il medico del carcere, chiama un collega. La voce tradisce ansia, pianto: "Pronto, chiamo dall’inferno". Poi aggiunge: "Per favore, non tentate il blitz, altrimenti qui salta tutto per aria". I rivoltosi hanno fabbricato molotov con il materiale trovato in infermeria e appendono gli ostaggi a turni di due alle inferriate esterne dei corridoi. Una sorta di crocifissione: sono intrisi di alcol e prenderebbero fuoco al primo sparo. Il nervosismo dilaga ma non va oltre; gli ostaggi non vengono sottoposti ad altre "torture" ma sono terrorizzati. Struggente la telefonata dell’infermiere: "Non voglio morire, sto qui a un passo dalla morte per guadagnare quattro soldi maledetti. Ricordate a quelli di Roma che dei poveri innocenti rischiano di morire". Ci sono anche riguardi verso l’unica donna. Tuti si fa portare una rosa e gliela regala e Rossi dirà: "Non vedevamo una donna da anni, ma rispettarla era una questione d’onore". Momenti di distensione si alternano dunque a quelli in cui si teme il peggio. Tuti sbrocca quando in tv passa questo messaggio: "Mario sono la mamma, cerca di fare le cose perbene". La considera un’azione sleale, per cinque anni non aveva potuto neanche scriverle. GLI SPARI. Partono anche due colpi di pistola e il filo sottile della trattativa rischia di spezzarsi. Il primo - già al secondo giorno - sfiora l’alto magistrato Domenico Sica, che sta cercando di avvicinarsi per trattare ma lo fa senza avvertire. "La prossima volta che provate a giocare a rimpiattino, vi beccate la pallottola in faccia", grida Tuti. "Per sparare appoggiò il braccio sulla mia spalla", ricordò il direttore Giordano, aggiungendo: "Lì, ho temuto il peggio". Un altro colpo nei giorni successivi e sfiora il direttore. Sono pallottole che rischiano di incrinare il fronte della fermezza. La richiesta dell’elicottero è decisa: Vassalli e i suoi possono solo prendere tempo. Poche ore dopo il primo sparo c’è un atto distensivo: viene liberato un ostaggio. IL RUOLO DEL SINDACO PAPI. In questa fase irrompe una figura chiave, fuori dalla linea ufficiale, ma che è utile per tenere insieme quel mare di tensione che fa ondeggiare il paese. A Porto Azzurro tutti hanno un parente, un amico o un vicino di casa fra chi lavora in carcere. Quegli ostaggi sono gli ostaggi di tutti. Nasce così spontaneo quello che viene definito "il partito dell’elicottero", un vero e proprio comitato guidato dal sindaco Maurizio Papi, lo stesso che è in carica anche oggi, al quinto mandato. Si susseguono riunioni e raccolte di firme. Il modellino di un elicottero grande quasi come uno scooter campeggia nella piazza del paese. Si arriva a tremila firme e una sera tutta Porto Azzurro sfila con le fiaccole in mano. La disperazione che si legge negli occhi di quelle persone non può lasciare indifferenti. Vassalli incontra i familiari e racconterà poi di essere stato in grande difficoltà: "Mi dissero: "Ce li avete messi voi quelli lì, liberateli". Il sindaco finirà per pagarlo carissimo quel partito dell’elicottero, sarà sospeso dal prefetto e subirà più di un processo. È il capro espiatorio perfetto, pochi capiscono o fanno finta di non capire che senza quel "partito" sarebbe stato molto peggio, il mal di pancia degli abitanti non sarebbe stato contenuto in proteste rimaste sul piano della civiltà. LA PRIMA SVOLTA. Mentre il paese sfila e protesta, il lungo trattare ha comunque una prima svolta, quando il direttore del carcere fa balenare ai rivoltosi la possibilità di far valere anche per loro l’articolo 21 della legge Gozzini, la riforma carceraria che ha aperto alla rieducazione, quello per il lavoro esterno. C’è un cedimento, subito ricacciato indietro non nel merito ma dalla volontà che la soluzione arrivi dall’esterno. Giordano, al quale erano impedite telefonate istituzionali, chiama la moglie e a lei riserva parole strane, quasi in codice. Lei fa sentire il nastro ai magistrati ed è la svolta. I detenuti pretendono garanzie e una specie di "contratto" da sottoporre agli avvocati, Amato si attribuisce la proposta che in sostanza dice questo: arrendetevi e non ci saranno ritorsioni. La disfida cambia registro. Nessuno parla più dell’elicottero, siamo alla partita a scacchi e la mossa decisiva dello Stato sembra vicina. Si tratta con gli avvocati e a far da garante viene chiamato da Torino Ernesto Olivero, fondatore del Servizio missionario giovanile, una sorta di angelo laico che si occupa di assistenza nelle carceri. Arriva di domenica, meno di 48 ore prima della liberazione e regala solo una frase: "Spero che finisca tutto molto presto". Ma ha l’aria di uno che sa. LA RESA E LE CAMPANE A FESTA. La resa avviene di martedì, quasi alla stessa ora dell’inizio della rivolta, i sei consegnano le armi dopo averle distrutte. "Abbiamo spezzato le lame dei coltelli e messo fuori uso le pistole, le armi non sono passate al nemico", ci terrà a dire Mario Tuti, quasi a tener fede a una sorta di codice d’onore da guerrigliero. In paese suonano le campane, i parenti degli ostaggi corrono verso l’ingresso di Forte San Giacomo e sul ponte ci sono abbracci e lacrime che trent’anni dopo mettono ancora i brividi. Escono invece sgommando i furgoni delle teste di cuoio. C’è rabbia, la voglia di menar le mani non è passata. "Questo è l’unico esempio al mondo di una rivolta carceraria così consistente che non sia finita con un bagno di sangue", sono le parole soddisfatte di Amato. I TITOLI DI CODA. La sceneggiatura scritta dagli eventi non potrebbe fornire finale migliore. I rivoltosi vengono processati già il 3 dicembre. Tuti, Rossi e Marrocu prendono 14 anni, gli altri due in meno ma per tutti arriveranno più avanti qualche permesso e la semilibertà. Mario Tuti ne riparlò nel 2004: "Con la giustizia credo di aver saldato il mio conto. Il carcere cambia radicalmente le persone e, anche se non amo definirmi pentito, oggi non sono socialmente pericoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia. Con la mia coscienza, però, il conto è ancora aperto. Non ucciderei più, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabile per ciò che ho commesso". Migranti. "Siamo rifugiati, abbiamo diritto ad avere una casa" di Carlo Lania Il Manifesto, 27 agosto 2017 La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul presunto racket degli affitti nello stabile di via Curtatone sgomberato giovedì dalle forze dell’ordine. Un’ipotesi che i rifugiati eritrei che occupavano una parte dei sette piani dell’edificio che affaccia su piazza Indipendenza ieri hanno respinto con decisione. "Non pagavamo per poter dormire in una stanza, i soldi servivano per le ristrutturazioni e le pulizie", hanno spiegato in molti. Dopo le cariche indiscriminate di tre giorni fa, quando sono stati svegliati dalla polizia e sgomberati a colpi di potenti getti d’acqua dai giardini dove dormivano da alcuni giorni, ieri per i rifugiati eritrei è arrivato il momento per un piccolo riscatto. Sono stati loro ad aprire la manifestazione indetta dai movimenti della casa, e lo hanno fatto con un striscione con cui hanno voluto ricordare a tutti che loro sono "rifugiati e non terroristi". Più di cinquemila le persone che hanno partecipato al corteo che da piazza dell’Esquilino ha attraversato pacificamente il centro della città fino a piazza Madonna di Loreto dove i manifestanti hanno dato vita un sit in e chiesto l’apertura di un tavolo sull’emergenza abitativa tra Regione, Comune e prefetto. Ma al centro della manifestazione ieri sono stati i rifugiati di via Curtatone, diventati loro malgrado uno dei simboli delle molte occupazioni esistenti a Roma (secondo alcune stime oltre 90). "Vogliamo una casa, vogliamo un tetto, vogliamo la possibilità di poter mandare a scuola i nostri figli", hanno gridato lungo via Cavour. Tra di loro anche una delle donne colpite giovedì dal cannone ad acqua della polizia mentre cercava di recuperare vestiti e documenti in piazza Indipendenza. "Gli ultimi episodi avvenuti nella capitale dimostrano il pieno fallimento delle politiche dell’accoglienza in Italia, dove si ragiona solo per emergenze e in nome del profitto, generando mostri come quello di Mafia capitale", ha spiegato la "Coalizione internazionale dei sans-papier". Italiani e stranieri hanno sfilato insieme. Presenti tutte le principali realtà delle occupazioni capitoline, dai Blocchi precari metropolitani al Coordinamento cittadino lotta per la casa. Nel corteo anche una delegazione delle 60 famiglie accampate nella basilica dei santi Apostoli: "La nostra colpa è la povertà", è la protesta affidata a uno striscione. Dopo quello di via Curtatone in teoria nelle prossime settimane a Roma potrebbero esserci altri 15 sgomberi classificati come urgenti in una lista stilata sedici mesi fa dal prefetto Francesco Tronca, all’epoca commissario prefettizio della capitale, all’interno del "Piano di attuazione del programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma capitale". Sgomberi che, come indicò Tronca in una delibera, dovrebbero essere eseguiti solo "man mano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa". La stessa linea adottata ora dal Viminale che dopo gli scontri di giovedì invierà la prossima settimana ai prefetti una circolare con le nuove linee guida per gli sgomberi, indicando come prioritario il reperimento di abitazioni alternative prima di poter procedere con le forze dell’ordine. L’emergenza casa potrebbe però entrare anche nell’ordine del giorno dei lavori del Campidoglio. Stefano Fassina, deputato e consigliere comunale di Sinistra italiana, ha assicurato di voler chiedere alla conferenza dei capigruppo dell’assemblea capitolina di indire un consiglio comunale straordinario per il piano casa. "Qualcuno sta creando una politica della paura ma non è questa la soluzione", ha detto ieri una portavoce del movimento riferendosi a quanto accaduto nella capitale negli ultimi giorni. L’esito della manifestazione dimostra che però è una politica che si può sconfiggere. Gli immigrati e il piano Minniti: se dalla paura può nascere nuova energia di Eugenio Scalfari La Repubblica, 27 agosto 2017 Se i migranti che hanno diritto e restano in Italia fossero utilmente occupati, la loro domanda diventerebbe un dato positivo. Sul nostro giornale di ieri c’erano molti e ottimi articoli sui vari ma tutti attuali argomenti, a cominciare da quello di Ezio Mauro, su ciò che è accaduto giovedì in piazza Indipendenza, cioè al centro di Roma. Su questi argomenti tornerò, avendo parlato a lungo questa mattina (sabato) con il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ma prima debbo confessare ai lettori che il tema che più mi ha interessato è stato quello esaminato da Alberto Asor Rosa sul prolungamento della scuola media superiore. Tutte le materie, secondo lui, debbono estendere il loro insegnamento a quanto di nuovo è accaduto nella cultura italiana nel corso del Novecento; un secolo che la scuola attuale non tratta, fermandosi ai suoi inizi. Eppure i fatti scientifici, letterari, politici accaduti durante quel secolo che ci precede ormai da 17 anni sono di massima importanza. Ci fu una crisi politica ai suoi inizi, poi superata positivamente. Ci fu nel costume della borghesia altolocata la Belle Époque in tutta Europa. Ci fu la Prima e poi, dopo vent’anni, la Seconda guerra mondiale, con la nascita del Fascismo e del Nazismo che provocarono la guerra e poi la persero e caddero ideologicamente e fisicamente. Ci fu, esattamente un secolo fa la Rivoluzione bolscevica con tutto quello che comportò in Russia, in Cina, in Vietnam e in tutto il mondo. Durò settant’anni, poi cadde anche quella. Insomma lo chiamano, non so perché, il secolo breve, ma sbagliano: il Novecento è stato un secolo lunghissimo e va studiato con estrema attenzione per quanto riguarda l’Italia, l’Europa e le Americhe, cioè l’Occidente che più da vicino ci riguarda, anche se ora ci troviamo di fronte a una società globale che coinvolge il mondo intero, a cominciare da quello tecnologico e terminare con quello religioso. Ha quindi piena ragione Asor Rosa: i giovani debbono estendere a tutto il Novecento la loro cultura per poi specializzarsi, cercare lavoro e vivere in una società tutt’altro che tranquilla, anzi sconvolta da fenomeni emergenziali che turbano profondamente il mondo, le singole nazioni, i ceti sociali, e le singole persone. Asor Rosa, da buon docente e romanziere, guarda soprattutto alle sue materie che nel Novecento e in Italia sono rappresentate da molti nomi. Tuttavia non posso trattenermi oltre su questo aspetto del nostro Novecento: stanno avvenendo fenomeni sociali di estrema emergenza che richiedono di essere affrontati a causa del dolore che creano e diffondono in tutti i Paesi e nel nostro che più ci riguarda. Concludo: questa sorta di inquietudine è contenuta in un brano dantesco che descrive quanto sta avvenendo intorno a lui. È il canto VI del Purgatorio. Leggetelo e pensateci. "Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! E ora in te non stanno senza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra" Mi sembra che il Poeta di otto secoli fa sia maledettamente attuale. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, era reduce da un incontro assai complicato (diciamo così) con i sindaci delle città principali della Libia tripolitana, concluso bene, a quanto mi ha detto. Ma il tema con me era ovviamente del tutto diverso: gli scontri tra "rifugiati" e polizia di giovedì, tipici di una situazione emergenziale esistente in tutto il Paese ma con diversi gradi di intensità. Naturalmente la polizia dipende dal ministro dell’Interno per ragioni d’ordine pubblico ed è anche tenuta ad attuare le sentenza della magistratura, nel caso in questione la magistratura aveva disposto che un palazzo nei pressi di piazza Indipendenza, abitato da rifugiati da oltre quattro anni, fosse sgomberato e reso ai proprietari. Di qui l’operazione e gli scontri con la polizia. Chi sono i cosiddetti "rifugiati"? Provengono da ex colonie italiane: la Somalia, l’Eritrea, l’Etiopia, e hanno perciò un trattamento speciale: sono ospitati in spazi disponibili e vengono anche aiutati a trovar lavoro. Da chi? Dai sindaci di quelle città e anche - se si possono dislocare in comuni della stessa regione - dal governatore della medesima. Le cose tuttavia non sono andate così. Anzitutto i rifugiati sono aumentati di numero (più che raddoppiati) da altri immigrati ai quali i rifugiati hanno fatto spazio, guadagnandoci qualche euro giornaliero. Quei locali sono stati tempo fa requisiti per quattro anni, dopo i quali i proprietari hanno ottenuto apposita sentenza esecutiva del tribunale e la polizia ha avuto il compito istituzionale di farla eseguire. Nei suddetti quattro anni prima il commissario e poi il sindaco di Roma avrebbero dovuto trovare altri alloggi e aiutare i rifugiati a trovar lavoro e insomma a campare, ma non hanno fatto nulla. In particolare questo compito sarebbe spettato a Raggi, eletta sindaco oltre un anno fa e quindi in vista della scadenza contrattuale del palazzo in questione, ma Raggi non ha fatto assolutamente nulla. Questa è la tipica situazione di emergenza che incoraggia la malavita di ogni tipo, perfino quella che fa capo all’Isis. In Italia per fortuna la malavita religiosa dell’islamismo Isis non ha ancora operato: la sorveglianza del ministro dell’Interno è estremamente vigile e speriamo che continui così. Ma episodi apparentemente marginali come quello di giovedì scorso sono estremamente sgradevoli e aggiungono emergenza a emergenza e paura a paura. Fin qui le parole del ministro, il quale ovviamente è consapevole che le sue responsabilità vanno ben oltre le competenze fissate dalla legge. Vanno ben oltre perché Minniti è abituato ad accollarsi il bene pubblico al di là di quanto gli spetta. Ha già preparato un documento con norme appropriate per evitare che la paura si diffonda rendendo il Paese praticamente ingovernabile. Che cos’è la paura? L’ho chiesto al ministro. Ecco la sua risposta: di fronte a situazioni che rendono la vita pubblica e privata ingovernabile, si diffonde tra i cittadini e nell’opinione pubblica il timore che si vada di peggio in peggio. Ci sono movimenti populisti che alimentano quella paura spingendola verso posizioni antidemocratiche. Ma ci sono altri partiti che spingono invece i cittadini a utilizzare la paura per alimentare politiche positive e pacificative nei confronti dei rifugiati e di quanti chiedono asilo e aiuto. Il ministro sta formulando un programma generale che partirà dal Viminale come centro operativo, appoggiandosi ai governatori regionali e soprattutto ai sindaci, nonché a una politica europea nei confronti delle immigrazioni. La paura insomma deve diventare un elemento positivo trasformandosi in energie operative, pubbliche e private. Può perfino trasformarsi in un elemento che rafforzi l’economia dell’Europa e dell’Italia. A questo proposito Minniti ha avuto parole di consenso verso quanto ha detto Mario Draghi alla conferenza dei banchieri centrali a Jackson Hole: l’offerta di beni e servizi sta aumentando in tutto l’Occidente e in qualche modo in tutto il mondo. In Cina, più dell’offerta conta la domanda e quindi i consumi. Non sarebbe opportuno che anche in Italia l’aumento della domanda si affiancasse a quello dell’offerta? Se i migranti che hanno diritto e restano in Italia fossero utilmente occupati la loro domanda diventerebbe un dato positivo mentre resta in piedi l’attuazione del programma che prevede investimenti in Libia e in tutta l’Africa occidentale, con un reddito che rilanci una parte vitale di quel continente e anche uno sbarco di capitali europei pubblici e privati. Se tutti questi progetti andassero a buon fine e se la sinistra italiana ne fosse lo strumento politico più interessato, potremmo abolire per sempre i versi danteschi sul bordello italiano e sostituirli col sorriso fulgido di Beatrice nel cerchio più alto del Paradiso dantesco. Migranti. Intesa dell’Italia coi sindaci libici sul tavolo del vertice di Parigi di Melania Di Giacomo Corriere della Sera, 27 agosto 2017 Stop agli sbarchi, ieri incontro di Minniti con 14 primi cittadini. Domani Gentiloni all’Eliseo per un summit con Macron, Merkel, Rajoy e i leader di Ciad, Niger e Mali. Il perfezionamento dell’accordo negoziato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, con quattordici sindaci libici, che in cambio di aiuti si sono impegnati a frenare gli sbarchi è il bagaglio con cui il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni arriverà domani al vertice all’Eliseo con il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera Angela Merkel e il premier spagnolo Mariano Rajoy. Accordo che si è già tradotto nel crollo degli sbarchi, meno di tremila i migranti arrivati ad agosto, rispetto a oltre 21 mila di un anno fa. A Parigi saranno presenti anche i leader di Ciad, Niger e Mali e Gentiloni dovrà premere su quello che rappresenta lo step successivo delle richieste libiche: il coinvolgimento dell’Ue nel costruire un’alternativa ai viaggi, affrontata la questione della frontiera meridionale, per fare in modo che la Libia non si trasformi in un enorme campo di rifugiati. Una "relazione speciale", tale è stata definita quella tra Italia e Libia in una dichiarazione congiunta al termine della riunione al Viminale presieduta dal ministro Minniti, con le autorità locali libiche, presenti anche il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, l’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Perrone e un rappresentante della Commissione Ue. L’incontro è stato la conferma e ha segnato anche un passo avanti rispetto al "patto" contro i trafficanti di essere umani siglato lo scorso mese a Tripoli. È stata, infatti, definita la tempistica di quello che il nostro Paese potrà fare nel breve periodo per le comunità locali. Dall’altra parte l’Italia ha ricevuto rassicurazioni sull’impegno a frenare gli sbarchi e all’appoggio libico all’Oim e all’Unhcr sui rimpatri assisti. Il sostegno alle comunità locali libiche "più duramente colpite dall’immigrazione illegale, dal traffico di esseri umani e dal contrabbando, alternative di crescita e sviluppo" si traduce in forniture "rapide" di beni essenziali, come medicinali e testi scolastici. Nei prossimi giorni ogni sindaco presente ieri a Roma avanzerà una richiesta di aiuti materiali, cui l’Italia risponderà entro fine settembre. La riunione di ieri è stata giudicata importante dal nostro Paese perché conferma che regge quell’accordo basato su una delicata combinazione di interessi reciproci: da un lato l’Italia può intestarsi la riduzione del flusso di migranti e, sotto l’aspetto umanitario, del numero di morti in mare; dall’altro l’aver incassato gli aiuti italiani rafforza la sovranità del governo libico e l’autorità del premier Fayez al Serraj in zone che fino a pochi mesi fa erano terra di nessuno. Non a caso ad accompagnare a Roma le autorità locali ha delegato un suo ministro. Anche il fatto che la riunione di Roma si sia tenuta ieri, a poche ore dal vertice di Parigi, non è casuale: l’idea è che i leader europei possano avallarne i risultati. Roma ha già ricevuto il placet del commissario Ue per l’immigrazione, Dimitris Avramopoulos, che ha confermato il suo sostegno alle politiche migratorie dell’Italia e apprezzato lo sforzo di Minniti di cooperare con i libici. Migranti. L’Occidente ha l’occasione di poter fare la cosa giusta di Agnese Moro La Stampa, 27 agosto 2017 Commentando le terribili e vergognose immagini dello sgombero di piazza Indipendenza a Roma un amico mi ricordava giustamente ciò che da giovani avevamo visto nei viaggi fatti in Africa: lo sfruttamento bestiale dei lavoratori nelle miniere dell’attuale Repubblica del Congo a esclusivo vantaggio delle multinazionali; le ferite del colonialismo difficili da rimarginare e quelle ancora vive e visibili nell’isola di Gorée in Senegal, da cui uomini resi schiavi partivano carichi di catene per l’America per non tornare mai più. Tutti i debiti vanno pagati. Alcuni riguardano il denaro, e devono essere onorati con altrettanto denaro. Ci sono però debiti che riguardano i torti subiti o inferti: sono decisamente più difficili da ripagare. Nei secoli l’Occidente, Italia ampiamente inclusa, ha depredato, oppresso, distrutto le popolazioni del cosiddetto Sud del mondo, contraendo con quelle genti un debito di orrore e di ingiustizia che il tempo non ha annullato e che attende ancora di essere pagato. Tante ferite devono essere curate e, se possibile, guarite. E ciò che è stato tolto va, in un modo o nell’altro, ridato. Ora cominciamo ad avere l’occasione di farlo. Quelli che arrivano qui con i loro gommoni, stracciati e morti di freddo e di paura dopo viaggi inimmaginabili e pieni di violenze non sono oggetti o problemi. Sono persone, e non persone qualunque; sono coloro con cui abbiamo un debito di sangue. Un debito che dobbiamo pagare con buona grazia, con umiltà e con rispetto. Quando finanziamo qualcuna delle organizzazioni che si occupano in quei Paesi di bambini denutriti, poveri o malati non facciamo generosità: restituiamo qualcosa di quello che ci siamo presi. Quando accogliamo qui qualcuno di "loro" non facciamo niente di straordinario o di meritevole: paghiamo una cambiale. Trovare un luogo perché quelle persone sgomberate possano vivere non è un regalo o un gesto di bontà, ma semplicemente una cosa che abbiamo il dovere di fare perché gli abbiamo tolto tanto. La responsabilità di cercare di ricomporre i cocci di ciò che nel passato è stato rotto è tutta nostra. Così come l’impegno ad accogliere con calore, a chiedere scusa, ad avviare vere iniziative di pace e di sostegno a quei Paesi resi fragili dalla nostra avidità. È la nostra occasione per fare finalmente la cosa giusta. Terrorismo. Lezione spagnola: le emozioni non cambiano la legge di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 27 agosto 2017 Il provvedimento del magistrato Fernando Andreu esprime chiaramente un concetto: anche di fronte al terrorismo i principi dello stato di diritto vanno rispettati. I giudici spagnoli hanno scarcerato alcuni dei sospetti per l’attentato sulla Rambla. Indizi insufficienti. In questo modo ci offrono una lezione di diritto. Ci dicono che non è legittima quella inversione dei principi per cui più grave è il reato meno prove sono richieste. Salh El Karib, uno dei quattro arrestati dopo gli attentati di Barcellona e Cambrils, è stato rimesso in libertà. Si tratta del titolare dell’internet cafè nel quale vennero acquistati i biglietti per il viaggio in Marocco di due terroristi, tra cui l’imam Abdelbaki Es Satty. Per di più, i biglietti sono stati acquistati con la sua carta di credito. Elementi sufficienti per sospettare che sia stato partecipe della cellula terroristica che ha commesso la strage della Rambla o quantomeno un favoreggiatore. Eppure è il secondo sospettato a lasciare il carcere dopo Mohamed Aallaa, rilasciato al termine dell’udienza davanti all’Audiencia Nacional dello scorso martedì. Salh El Karib è stato rimesso in libertà dal magistrato spagnolo che svolge un ruolo equivalente a quello del Gip italiano: il controllo sulla legalità delle indagini e le decisioni in ordine alla libertà personale. La rimessione in libertà, sia pure con la limitazione dell’obbligo di dimora e con il divieto di lasciare il territorio nazionale, è stata decisa dal magistrato Fernando Andreu, il quale ha osservato che le prove raccolte "non rappresentano un quadro indiziario sufficientemente circostanziato per adottare un provvedimento di gravità ed eccezionalità come la detenzione preventiva". Non occorre molta fatica per comprendere appieno la portata del provvedimento. L’attentato di Barcellona ha lasciato, accanto al lutto ed al dolore, una profonda traccia emotiva in tutta l’opinione pubblica internazionale e, a maggior ragione, in Spagna, il paese direttamente colpito. È facilmente immaginale, perciò, quanto forte e profonda sia la richiesta di giustizia e di punizione dei responsabili. A questo si deve aggiungere che a carico di Salh El Karib sono emersi dei riscontri oggettivi: l’acquisto nel suo internet cafè e con la sua carta di credito di biglietti aerei per alcuni componenti della cellula. Ciononostante il Giudice spagnolo ha ritenuto tali elementi non sufficienti per adottare un provvedimento di "gravità ed eccezionalità" come la detenzione preventiva. Le lezioni che se ne possono trarre sono innanzitutto due. La prima è che non è legittima quella inversione del senso delle proporzioni, che purtroppo di frequente si registra nei provvedimenti giudiziari, per cui più grave è il reato meno prove sono richieste per la detenzione prima e la condanna poi. Come se la gravità del reato, con la conseguente forte richiesta di punizione, divenga un esonero da un rigoroso rispetto delle regole che disciplinano l’affermazione di responsabilità. Più grave è il reato, più labile diventa l’applicazione della regola secondo cui la responsabilità può essere affermata solo quando sia provata "al di là di ogni ragionevole dubbio". Ebbene, il Giudice spagnolo ci ricorda che in un paese civile e democratico non è così: anche quando il reato è grave e l’intera pubblica opinione preme per la punizione dei responsabili, prove ed indizi devono essere sottoposti ad un vaglio rigoroso. La seconda lezione è che la libertà personale è un bene supremo. La sua compressione, attraverso la detenzione preventiva, è un evento grave ed eccezionale. Non è perciò ammissibile una detenzione che non sia fondata su elementi assolutamente solidi, e ciò anche se il reato per cui si procede sia di enorme gravità. Ed il pensiero non può non andare alle decine di migliaia di detenuti in attesa di giudizio che affollano le carceri italiane. Ma vi è un’ultima lezione, forse ancora più rilevante. All’indomani della strage sono rimbalzate, dette con minore o maggiore convinzione, le solite parole d’ordine: "non abbiamo paura", "non rinunceremo ai nostri valori", "non cambieremo il nostro stile di vita", etc. Spesso solo chiacchiere, che si accompagnano alla richiesta di provvedimenti capaci di segnare una involuzione dei caratteri essenziali delle società occidentali, attraverso una riduzione dell’apertura e degli spazi di libertà. Il provvedimento di Fernando Andreu, senza fanfare e vuoti sproloqui, dice che anche di fronte al terrorismo i principi dello stato di diritto vanno rispettati. E, così, dà un contenuto concreto, togliendolo dal vaniloquio di molti, alla affermazione "non rinunceremo ai nostri valori". Privacy. Corte Suprema Usa decide anche per l’Europa di Jean-Pierre Darnis affarinternazionali.it, 27 agosto 2017 È prevista per ottobre 2017 la decisione della Corte Suprema di Giustizia degli Stati Uniti sull’accogliere o respingere il ricorso del governo statunitense sul caso "New York Warrant Case", conosciuto anche come "caso Irlanda", che lo oppone a Microsoft sulla validità di un mandato, nell’ambito dell’indagine giudiziaria, richiedente dati in un contesto internazionale. Questo processo parte da una richiesta effettuata nel 2013 da parte della giustizia US di ottenere dati depositati in un centro di stoccaggio situato in Irlanda e dal successivo rifiuto da parte dell’azienda di fornire al governo statunitense dati che non siano detenuti sul territorio nazionale. Fino ad oggi le varie istanze di giustizia statunitense si sono pronunciate a favore di Microsoft tutelando la nazionalità dei dati, da ultimo con la sentenza rilasciata lo scorso gennaio dalla Corte d’Appello. Si tratta di un argomento piuttosto tecnico, quello della trasmissione di dati all’interno di procedimenti penali internazionali, ma apre una serie di questioni fondamentali. La privacy e la protezione dei dati rivestono un ruolo sempre più centrale nel dibattito pubblico, anche per la crescita dell’uso delle tecnologie dell’informazione da parte degli individui ben illustrata dalla diffusione degli smartphone. Gli Stati Uniti sono i principali esportatori di tecnologie dell’informazione, con i colossi industriali del settore basati sulla costa ovest che allo stesso tempo adoperano operazioni sull’insieme del pianeta, concepita in qualche modo come un mercato unico se non integrato da un punto di vista tecnologico. L’immediatezza universale della tecnologia si scontra con i regimi di protezione degli individui che tutt’ora poggiano in larga misura su sistemi nazionali. Nello stesso tempo in Europa la Commissione, su mandato del Consiglio dell’Unione, ha lanciato uno sforzo di approfondimento della tematica della trasmissione di prove digitali nell’ambito di procedure giudiziarie trans-nazionali, seguendo la comunicazione sull’agenda europea della sicurezza del 2015, oggetto anche di uno studio che lo Iai ha dedicato alla materia. Un "non paper" è stato presentato nel giugno 2017 per definire ulteriori passi da compiere, ma va rilevato che la materia europea sembra tutt’altro che statica, anche dopo l’adozione nel 2014 della direttiva sull’ordine europeo di indagine penale (Oei). A giugno scorso, dopo il Consiglio UE sulla giustizia, il commissario europeo Vera Jourova ha annunciato di voler presentare una proposta legislativa per migliorare ulteriormente il regime della trasmissione delle prove digitali all’inizio del 2018. L’iter di riforma legislativa della materia è in corso anche da parte statunitense. Nel congresso americano, si sta discutendo del progetto di legge Icpa (International Communication Privacy Act), volto a creare un regime legislativo appropriato e bilanciato che migliori gli scambi di dati internazionali. Una tutela che sarebbe auspicabile per gli individui, per l’industria (providers) ma anche per gli stati in modo tale da facilitare la cooperazione di giustizia in materia digitale che passa tutt’ora tramite meccanismi bilaterali spesso superati (Mlat). L’evoluzione della politica americana rappresenta una posta in gioco importante in materia. Una convergenza di regime è auspicabile se non necessaria, per assicurare non soltanto una protezione adeguata, ma anche la reciprocità che appare come una condizione fondamentale per l’apertura dei mercati da entrambe le sponde dell’atlantico. Quando è iniziata la procedura contro Microsoft per il "caso Irlanda", pochi in Europa si erano dedicati a queste problematiche. Negli ultimi anni però le questioni relative alla privacy e all’intrusione nei dati personali hanno acquisito un’importante rilievo, come lo hanno dimostrato i casi Snowden o Wikileaks. Se negli Usa trionfasse una linea rigida e nazionalista che non assicura la protezione dei dati detenuti in Irlanda, lo stesso varrebbe per qualunque altro paese al mondo in cui risiedono i dati in data centers dedicati, la questione verrebbe poi portata al livello dell’intera Unione Europea e susciterebbe reazioni opposte di chiusura, con ad esempio un parlamento europeo molto sensibile in materia di rapporti transatlantici. La Corte Suprema in questa fase non è un organo chiuso, ma può accogliere anche memorandum da parte di stati che possono esprimere considerazioni sul caso in corso. Si tratta di una procedura che può sembrare originale per l’ordine giuridico europeo ma che offre anche possibilità di influenzare in modo costruttivo la decisione dell’organo statunitense, per l’insieme dei paesi europei e quindi anche per l’Italia. Il contesto di una presidenza Trump spesso presentata come ieratica lascia pianare parecchi dubbi sulla linea strategica dell’amministrazione statunitense. Il problema dell’accesso e della trasmissione di dati digitali per indagini internazionali rappresenta un punto tecnico ma che si pone al crocevia di una serie di questioni politiche fondamentali. Si tratta anche di un’opportunità politica per dialogare con lo stato americano, ovvero sia quell’insieme di strutture politiche e tecnocratiche che hanno sempre rappresentato il fulcro della cooperazione transatlantica. Vale quindi la pena soffermarsi sui tecnicismi e trattarli con la dovuta considerazione politica. Stati Uniti: Trump grazia lo sceriffo anti immigrati di Roberto Festa Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2017 Arresti senza prove e lavori forzati per detenuti: ecco chi è Joe Arpaio. Accusato di abuso di potere, mancate indagini su crimini sessuali, favori, Arpaio era stato condannato per aver ignorato l’ordine di un giudice federale che gli chiedeva di smettere di arrestare le persone esclusivamente sulla base del sospetto di immigrazione clandestina. È stato tra i primi e più entusiasti sostenitori del presidente che gli ha concesso il perdono nelle stesse ore ha firmato la misura che proibisce ai transgender di servire nell’esercito. "Ho il piacere di informarvi che ho appena dato il mio pieno perdono allo sceriffo Joe Arpaio, patriota americano di 85 anni. Ha mantenuto sicuro l’Arizona!" Dopo averlo annunciato nel corso di un rally a Phoenix, Donald Trump l’ha fatto. Ha perdonato Joe Arpaio, il vecchio sceriffo, e suo strenuo sostenitore, che lo scorso luglio era stato condannato per disprezzo della corte. Arpaio aveva infatti ignorato l’ordine di un giudice federale che gli chiedeva di smettere di arrestare le persone esclusivamente sulla base del sospetto di immigrazione clandestina. Nelle stesse ore, Trump ha firmato anche la misura che proibisce ai transgender di servire nell’esercito. Due provvedimenti che hanno soprattutto un obiettivo: cementare la base bianca e conservatrice di Trump. Il perdono per Arpaio era atteso ma comunque molto contestato. Il presidente degli Stati Uniti ha infatti un potere di perdono illimitato e già nel passato molti presidenti l’hanno usato in modo sconsiderato e con motivazioni puramente politiche. In questo caso però - come spesso succede con Trump - c’era qualcosa di più e di diverso. È infatti consuetudine del Dipartimento alla Giustizia di prendere in considerazione richieste di perdono dopo cinque anni dalla sentenza - e dopo che il condannato abbia manifestato una qualche forma di rimorso per il suo reato. Nel caso di Arpaio, queste circostanze non si hanno. Lo sceriffo doveva ricevere la sua sentenza il prossimo 5 ottobre e ha sempre rivendicato con orgoglio quanto fatto. "Se possono farla pagare a me, possono farla pagare a chiunque in questo Paese", aveva detto Arpaio a Fox News mercoledì scorso. Il fatto è che il bromance tra "lo sceriffo più duro d’America" e il presidente è ormai saldo e antico; e Trump ha sempre dimostrato di saper premiare gli amici - almeno sino a quando questi non esprimano dubbi e riserve. Arpaio è stato tra i primi e più entusiasti sostenitori di Trump. Ha partecipato a molti eventi elettorali dell’allora candidato alla presidenza. Lo ha definito "un gran patriota", appoggiando le sue proposte sull’immigrazione, anzitutto la costruzione del Muro, e alimentando critiche e sospetti sugli avversari democratici. Arpaio è stato, tra le altre cose, un divulgatore della teoria secondo cui Barack Obama non è nato negli Stati Uniti e quindi non avrebbe potuto servire come presidente. Non è stata dunque una sorpresa ritrovare Arpaio alla Convention repubblicana che lo scorso luglio ha incoronato Trump candidato alla presidenza. Dal podio, con il favore del prime time televisivo, Arpaio rilanciò la sua ricetta del law and order. È comunque da anni, ben prima dell’ascesa politica di Trump, che Arpaio occupa le cronache americane. Nato in Massachusetts da genitori provenienti dalla provincia di Avellino, Arpaio ha trovato fama e fortuna in Arizona con l’elezione a sceriffo della contea di Maricopa (dal 1993 fino al 2016). I suoi metodi piuttosto sbrigativi e la gestione personalistica del ruolo di sceriffo gli hanno conquistato critiche e nemici. Negli anni, Arpaio è stato accusato di abuso di potere, mancate indagini su crimini sessuali, favori, chiusura arbitraria di inchieste, violazioni delle leggi elettorali. La vera notorietà nazionale - e per certi versi anche internazionale - gli è venuta però con la questione immigrazione, su cui a partire dal 2005 Arpaio ha assunto posizioni sempre più restrittive. Sono rimaste famose le retate nei quartieri a prevalenza di residenti latini e nei posti di lavoro che impiegavano molti ispanici. Gli uomini di Arpaio arrivavano con l’ordine di radunare le persone con la pelle scura, arrestarle sulla base della sola presunzione di essere clandestini e solo in un secondo tempo controllarne la posizione. Altre misure di Arpaio sono state più folkloristiche, ma non meno dolorose da sopportare per chi è caduto nella rete. Lo sceriffo ha reintrodotto i lavori forzati per i suoi detenuti. A questi sono stati serviti solo due pasti al giorno, spesso con cibo proveniente da associazioni anti-povertà. Gli stessi detenuti sono stati costretti a indossare biancheria intima rosa: un modo, secondo Arpaio, perché i capi di abbigliamenti non venissero poi rubati (lo sceriffo ne ha poi fatto anche un piccolo business, vendendo mutande rosa con il logo della Maricopa County e la frase "Go Joe", salvo poi rifiutare di dichiarare come venivano spesi i fondi così raccolti). Altra iniziativa di Arpaio è stata la creazione di una tent city, descritta dallo stesso uomo di legge come un "campo di concentramento". Si trattava di una grande tenda, estensione dei locali tradizionali della prigione di contea, riempita di migranti clandestini in condizioni spesso estreme. Di fronte alle proteste di detenuti e gruppi per i diritti civili (nella tenda, d’estate, si arrivava anche a 63 gradi), Arpaio rispose che "in Iraq ci sono 50 gradi e i nostri soldati vivono in tende e non hanno commesso alcun crimine quindi chiudete la bocca"). Era piuttosto ovvio che un soggetto di questo tipo sollevasse critiche, polemiche e molte denunce, soprattutto per abusi, violenze e comportamento anti-costituzionale. Ed era altrettanto ovvio che Arpaio trovasse in Trump (che all’inizio della sua parabola politica definiva "ladri e stupratori" i messicani che passavano la frontiera con gli Stati Uniti) un fratello d’elezione, simile nei modi sbrigativi, nel parlare chiaro, nel predicare legge e ordine. Quei modi e le continue polemiche sono costate ad Arpaio la rielezione a sceriffo della contea (è stato battuto dal democratico Paul Penzone, nel 2016, dopo 23 anni di regno ininterrotto), ma non gli hanno alienato l’affetto e la riconoscenza di Trump, che è intervenuto e lo ha salvato da una sentenza di condanna per le continue retate di ispanici, al di fuori di qualsiasi garanzia costituzionale ed effettiva pericolosità delle sue vittime. Il perdono ad Arpaio è destinato con ogni probabilità ad acutizzare tensioni e contrasti esplosi dopo Charlottsville. Trump continua per la strada che gli ha guadagnato le critiche dei democratici e della sinistra ma anche l’invito di molti repubblicani a moderare i toni. Il presidente probabilmente pensa che spingere sulla retorica dell’ordine e dei vecchi valori gli conquisti i consensi non soltanto della sua base più conservatrice ma anche della maggioranza degli americani. In questo senso va la firma del provvedimento che blocca l’entrata nell’esercito ai transgender. Trump ha chiesto ai suoi militari di interrompere il processo di progressiva integrazione avviato nell’era Obama e di smettere di utilizzare "risorse del Dipartimento alla Difesa per offrire trattamento medico ai singoli transgender che servono attualmente nell’esercito". La misura di Trump avrà con ogni probabilità ripercussioni proprio sui transgender che sono già parte delle forze militari Usa e che da ora in poi vivranno in uno spiacevole limbo personale e legislativo. Birmania. Spari su civili Rohingya in fuga verso il Bangladesh di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 agosto 2017 Centinaia di civili terrorizzati in fuga dai villaggi abitati dalla minoranza musulmana dei Rohingya sono stati attaccati con mortai e mitragliatrici dall’esercito birmano al confine di Ghundhum. Lo ha riferito un giornalista della France Presse. "Hanno sparato su donne e bambini che avevano trovato riparo dietro le colline vicino alla linea di confine, e lo hanno fatto improvvisamente con mortai e mitragliatrici senza avvisare nemmeno noi", ha dichiarato alla France Presse il responsabile locale delle Guardie di Frontiera del Bangladesh, Manzurul Hassan. Circa duemila persone sono ammassate da venerdì 25 agosto al confine con il Bangladesh a causa dei combattimenti in corso nello stato di Rakhine, nel nord del paese, dove attacchi coordinati a 24 postazioni della polizia di frontiera da parte di militanti Rohingya armati hanno causato finora 92 morti. È la più grave esplosione di violenza dallo scorso ottobre nell’area, quando un simile attacco su scala più ridotta portò l’esercito birmano a lanciare operazioni di rastrellamento nell’area. Proprio venerdì 25 agosto, una commissione nominata dal governo e guidata dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan aveva pubblicato il suo rapporto sul Rakhine, raccomandando misure di sviluppo economico e di giustizia sociale per ridurre l’animosità tra la comunità buddista e quella musulmana. L’esercito birmano è accusato di violazioni dei diritti umani su larga scala, con decine di morti, oltre mille case date alle fiamme e 87 mila Rohingya fuggiti in Bangladesh dallo scorso ottobre, come menzionato in un rapporto Onu, realizzato intervistando tali profughi. La Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata pesantemente criticata dalla comunità internazionale per i suoi silenzi su tali abusi. Considerati come stranieri nello loro stessa patria, al 90% buddista, i Rohingya vivono come dei paria. Non hanno accesso al mercato del lavoro, alle scuole, agli ospedali e il crescente nazionalismo buddista ne ha peggiorato le condizioni di vita. Pakistan. Indrias Masih lasciato morire dai carcerieri perché cristiano di Shafique Khokhar asianews.it, 27 agosto 2017 Il detenuto è morto per "la negligenza e l’insensibilità" della polizia e delle autorità nella prigione di Lahore. Era agli arresti per il presunto linciaggio di due sospetti terroristi. Poteva aver salva la vita abiurando, ma non ha rinnegato il cristianesimo. Le precarie condizioni igienico-sanitarie del carcere e la negligenza delle autorità carcerarie, che hanno mostrato "insensibilità" verso un detenuto povero e indifeso: sono le motivazioni che hanno portato al decesso di Indrias Masih (alias Ghulam), il cristiano di 38 anni morto il 13 agosto scorso nella casa circondariale di Lahore. Lo sostiene la Commissione nazionale Giustizia e pace, che interviene sulla vicenda e denuncia che l’uomo è stato lasciato morire perché cristiano. Per questo, affermano i vertici della Commissione, il suo deve essere "trattato come un caso di omicidio". La dichiarazione è stata rilasciata il 22 agosto. Sebbene dal punto di vista strettamente medico il decesso di Masih sia da attribuire ad una tubercolosi gastrointestinale, la Chiesa pakistana la pensa in maniera diversa. "La morte di Indrias Masih - si legge nel testo - è il risultato della negligenza delle autorità carcerarie, delle precarie condizioni della prigione, del consumo di cibo e acqua contaminati". L’uomo era detenuto dal 2015 con l’accusa di aver linciato due presunti terroristi dopo l’attacco kamikaze dei talebani alle chiese di Youhanabad (Lahore) nel marzo dello stesso anno, che ha provocato la morte di 19 persone e il ferimento di altre 70. Il cristiano era tra i 42 prigionieri cristiani che il procuratore Syed Anees Shah aveva tentato di corrompere, promettendo loro la scarcerazione se avessero rinnegato Cristo. Indrias avrebbe potuto aver salva la vita, ma aveva deciso di testimoniare fino alla morte la propria fede. Masih era padre di tre figli e il più giovane di sei fratelli. Prima dell’arresto, il suo lavoro sosteneva l’intera famiglia. Per dare speranze di un futuro migliore ai figli, cinque anni fa si era trasferito da Bahawalpur a Lahore, dove guadagnava appena 7mila rupie al mese [56 euro, ndr]. I parenti riferiscono che prima dell’arresto egli ha sempre goduto di ottima salute e non aveva mai presentato sintomi di malattie. Cecil Shane Chaudhry, direttore esecutivo della Ncjp, lamenta: "È sconvolgente che un uomo vittima di false accuse debba morire per la negligenza dei carcerieri. Ciò evidenzia le condizioni disumane cui sono sottoposti i detenuti dietro le sbarre. L’appartenenza ad una comunità di minoranza, non ha fatto altro che accrescere la sua miseria. L’atteggiamento [delle guardie] nei confronti di simili persone è ancora più fazioso e discriminatorio". Secondo p. Emmanuel Yousaf Mani, direttore nazionale della Commissione, "il tribunale dovrebbe mostrare misericordia verso questi poveri". Il sacerdote riporta che spesso la lunga permanenza in prigione crea "fratture all’interno del matrimonio, con i figli che attendono con ansia il ritorno dei padri". Egli riporta anche che durante l’ultima udienza del 2 giugno scorso, aveva fatto notare le condizioni di salute di Masih, già compromesse, ma i giudici non hanno ritenuto opportuno il ricovero in una struttura ospedaliera adeguata. Perciò chiede "al governo e al sistema giudiziario di adottare azioni dirette contro le autorità del carcere per i maltrattamenti e i comportamenti inumani verso i prigionieri". Da parte sua, mons. Joseph Arshad, presidente della Ncjp, prega "per l’anima del defunto. Possa Dio Onnipotente dare alla famiglia la speranza e la forza di sopportare questa terribile perdita". Il vescovo di Faisalabad aggiunge che "spesso la polizia ha un atteggiamento avventato verso il malato e il bisognoso. Invece tutti gli esseri umani sono uguali e meritano di essere trattati con uguaglianza e dignità". La dichiarazione congiunta termina con richieste ben precise a governo e sistema giudiziario: "Le autorità carcerarie devono essere ritenute responsabili delle condizioni al di sotto degli standard in cui è morto il cristiano, della mancanza di strutture mediche e dell’insensibilità verso i prigionieri; il tribunale deve fare attenzione alle strutture mediche e alle condizioni igieniche nelle prigioni; date le condizioni in cui sono detenuti i carcerati, il tribunale dovrebbe provare compassione e consentire il rilascio su cauzione, così vite preziose potrebbero essere salvate; la corte deve assicurare una giustizia veloce alle vittime arrestate per il linciaggio di Youhanabad; la morte di Indrias Masih è stata il risultato della negligenza della polizia e delle autorità carcerarie, perciò la sua famiglia (moglie e figli) devono ottenere il giusto risarcimento.