Un’estate di sofferenza in prigione di Ornella Favero* Il Dubbio, 26 agosto 2016 L’estate del nostro scontento: "nostro", di chi vive, come fa il Volontariato, una vicinanza forte con il carcere, che non si interrompe certo d’estate, e di chi in carcere ci passa una parte consistente della sua vita. E questa estate ne ha procurato tanto, di scontento: è stata torrida, piena di sofferenza, con numerosi suicidi, è stata soprattutto l’estate della perdita della speranza. La speranza che era nata con le sentenze dell’Europa contro il sovraffollamento, che avevano messo il nostro Paese brutalmente di fronte alle sue responsabilità, e quindi con le misure per porre fine a quella tortura, e poi con gli Stati Generali sull’esecuzione penale e l’idea che delle pene e del carcere si potesse parlare finalmente in modo "nuovo", o magari "saggiamente vecchio", se vogliamo ricordarci che le pene, secondo la nostra Costituzione, devono tendere alla rieducazione, quella è la loro funzione, e non certo la funzione di attuare una vendetta sociale nei confronti di chi commette reati. E ancora con la legge delega per la riforma della Giustizia, e in particolare dell’Ordinamento penitenziario. A tutt’oggi di quella delega non si sa se ce la farà a produrre qualcosa, o se la politica spazzerà via tutto con lo spettro delle elezioni. Nel frattempo, il ministro ha istituito tre commissioni di esperti che lavoreranno fino a dicembre proprio per predisporre i decreti attuativi della legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, come ricordano i radicali, che più di tutti si stanno battendo per accelerare i tempi, "era stato lo stesso ministro della Giustizia a dire a Radio Radicale il 19 giugno scorso che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Tempi e composizione delle Commissioni piacciono poco anche al Volontariato: la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ritiene infatti che in questo modo si corra il rischio di perdere questa opportunità, e che sarebbe stato meno rischioso usare per i decreti attuativi gli elaborati prodotti dai tavoli degli Stati Generali, e sottolinea anche, con "disincantato realismo", e non certo per vittimismo, che le Commissioni sono fatte solo di magistrati, avvocati, docenti universitari, mentre le competenze del Volontariato e del privato sociale sono considerate poco utili, come se per scrivere una buona legge bastasse essere degli stimati giuristi. Si tratta di tecnici che la nostra stima ce l’hanno senz’altro, ma evidentemente non sono più i tempi in cui Mario Gozzini, parlamentare, e Alessandro Margara, magistrato, andavano a bere il caffè con i detenuti proprio per discutere della riforma penitenziaria "sfruttando" la loro indiscutibile competenza. Ma questa estate ha messo a nudo anche un’altra verità: che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non ha saputo cogliere l’occasione di una sensibile diminuzione dei numeri del sovraffollamento per cambiare tutto quello che poteva essere positivamente cambiato senza necessità di introdurre modifiche legislative. Questa estate non sarebbe stata così disastrosa se il Dap avesse avuto il coraggio di ammettere che i numeri delle presenze stanno di nuovo pericolosamente crescendo, e intanto le condizioni della vita detentiva in molte carceri sono spesso desolanti, e si può e si deve agire subito. Prime fra tutte le cause di sofferenza, le temperature insopportabili dentro celle bollenti, fatiscenti, e con regolamenti che ancora non sanno permettere in modo inequivocabile neppure l’acquisto di un ventilatore da quattro soldi. Sì certo, ci sono circolari che aprono spiragli, ma le circolari non sono mai chiare e non parlano mai un linguaggio che non si presti a dubbi e interpretazioni restrittive. E così ogni carcere è una triste repubblica a sé in cui spesso Burocrazia batte Umanità dieci a zero. E i suicidi? Possibile che nessuno voglia ammettere che quello che potrebbe davvero prevenirli è "tendere al massimo" l’Ordinamento per consentire più spazio ai legami affettivi? Ha tentato di farlo una circolare firmata da Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento, che ha colto le pressanti richieste che gli venivano proprio da Padova, di dare più spazio possibile agli affetti, per invitare a fare ogni sforzo necessario per un "incremento delle occasioni di contatto con i famigliari" intese proprio come forma di contrasto ai tentativi di suicidio. Ma vorremmo, in proposito, capire quanti direttori hanno colto l’invito, e quanto in concreto è stato fatto e si intende fare nei circa duecento carceri del nostro Paese, perché un detenuto non può affidare il suo destino alla fortuna di essere in un carcere in cui questi inviti diventano iniziative precise, piuttosto che in un carcere, e ce ne sono troppi, in cui prevale la logica della chiusura e dell’immobilismo. Sono queste le risposte che vorremmo avere, perché questa estate cominciata così male si chiuda con qualcosa di più di una timida speranza di cambiamento. Si chiuda, per lo meno, con la certezza che in tutte le carceri l’invito ad ampliare al massimo gli spazi e i tempi per le relazioni affettive diventi un ineludibile "imperativo categorico". *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia "In carcere la burocrazia batte l’umanità 10 a zero" di Laura Pasotti Redattore Sociale, 26 agosto 2016 L’analisi della presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ornella Favero. Suicidi, celle bollenti, numeri in crescita. E poi ci sono le Commissioni di esperti per lavorare ai decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario. "Che piacciono poco al volontariato perché fatte solo di magistrati, avvocati, docenti". L’analisi della presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. "Ogni carcere è una triste repubblica a sé in cui spesso burocrazia batte umanità 10 a zero". A parlare è Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che analizza quella che definisce "l’estate del nostro scontento", una stagione torrida che ha visto numerosi suicidi nelle carceri italiane ma che, afferma, "è stata soprattutto l’estate della perdita della speranza". La speranza che, spiega, "era nata con le sentenze dell’Europa contro il sovraffollamento, che avevano messo il nostro Paese brutalmente di fronte alle sue responsabilità, e quindi con le misure per porre fine a quella tortura, e poi con gli Stati generali sull’esecuzione penale e l’idea che delle pene e del carcere si potesse parlare finalmente in modo nuovo o magari saggiamente vecchio, se vogliamo ricordarci che le pene, secondo la nostra Costituzione, devono tendere alla rieducazione, quella è la loro funzione, e non certo la funzione di attuare la vendetta sociale nei confronti di chi commette reati". E poi c’è la legge delega per la riforma della giustizia e dell’Ordinamento penitenziario. "A tutt’oggi di quella delega non si sa se ce la farà a produrre qualcosa o se la politica spazzerà via tutto con lo spettro delle elezioni", dice Favero. In più le commissioni di esperti che saranno al lavoro sui decreti attuativi della legge delega sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario non piacciono molto al volontariato: sia per i tempi che per la composizione. Favero ricorda, infatti, che "il ministro Orlando a Radio Radicale lo scorso 19 giugno aveva detto che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Invece, i tempi per i decreti attuativi si sono allungati fino a dicembre. "La Conferenza nazionale volontariato giustizia ritiene che in questo modo si corre il rischio di perdere questa opportunità e che sarebbe stato meno rischioso usare per i decreti attuativi gli elaborati prodotti dai tavoli degli Stati generali". Sulla composizione, poi, Favero fa notare come le Commissioni siano fatte "solo" di magistrati, avvocati, docenti universitari, "mentre le competenze del volontariato e del privato sociale sono considerate poco utili, come se per scrivere una buona legge bastasse essere degli stimati giuristi". E precisa: "Si tratta di tecnici che la nostra stima ce l’hanno senz’altro, ma evidentemente non sono più i tempi in cui Mario Gozzini, parlamentare, e Alessandro Margara, magistrato, andavano a bere il caffè con i detenuti per discutere della riforma penitenziaria sfruttando la loro indiscutibile competenza". Un’altra verità messa a nudo da questa estate, secondo Favero, è "che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria non ha saputo cogliere l’occasione di una sensibile diminuzione dei numeri del sovraffollamento per cambiare quello che poteva essere positivamente cambiato senza necessità modifiche legislative". Questa estate, "non sarebbe stata così disastrosa se il Dap avesse avuto il coraggio di ammettere che i numeri delle presenze stanno di nuovo pericolosamente crescendo e intanto le condizioni di vita detentiva in molte carceri sono spesso desolanti, e si può e si deve agire subito". Tra le prime cause di sofferenza c’è il caldo: celle bollenti, spesso fatiscenti e "con regolamenti che ancora non sanno permettere in modo inequivocabile neppure l’acquisto di un ventilatore da quattro soldi. Sì, ci sono circolari che aprono spiragli, ma le circolari non sono mai chiare e non parlano mai un linguaggio che non si presti a dubbi e interpretazioni restrittive". Per prevenire i suicidi, Favero sottolinea l’importanza di "tendere al massimo l’Ordinamento per consentire più spazio ai legami affettivi". Una circolare firmata da Roberto Piscitello, direttore della Direzione generale detenuti e trattamento, ha colto le richieste arrivate da Padova, di dare più spazio agli affetti, come forma di contrasto ai suicidi. "Ma - chiede Favero - vorremmo capire quanti direttori hanno colto l’invito, e quanto in concreto è stato fatto e si intende fare nei circa 200 carceri del nostro Paese perché un detenuto non può affidare il suo destino alla fortuna di essere in un carcere in cui questi inviti diventano iniziative precise, piuttosto che in un carcere, e ce ne sono troppi, in cui prevale la logica della chiusura e dell’immobilismo". Favero vuole risposte perché "questa estate cominciata così male si chiuda con qualcosa in più di una timida speranza di cambiamento. Si chiuda, per lo meno, con la certezza che in tutte le carceri l’invito ad ampliare al massimo gli spazi e i tempi per le relazioni affettive diventi un ineludibile imperativo categorico". La svolta di Consolo: "Possibilità di lavoro per tutti i detenuti" di Errico Novi Il Dubbio, 26 agosto 2016 Parla il capo del Dap "il recupero sociale è il primo passo". La dignità di chi commette reati è il primo punto. Realizzarla vuol dire attuare la Costituzione in parti "che non tutti conoscono", spiega Gherardo Colombo. L’ex pm di Mani pulite immagina un sistema penale in cui "soltanto chi è effettivamente pericoloso" debba restare in cella. "E io sono a mia volta dell’idea di evitare il più possibile l’esperienza detentiva, a condizione che le finalità di recupero sociale si coniughino con l’esigenza di sicurezza che ci arriva dalla collettività", commenta con il Dubbio Santi Consolo, magistrato che dirige il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. A un ricorso limitato, se non residuale, della reclusione si arriva se "il recupero avviene lungo la strada da tutti indicata come la più adeguata: il lavoro". Consolo non respinge la "rivoluzione". Vuole però prepararla. Servono risorse finanziarie - "perché il lavoro dei detenuti dev’essere equamente retribuito" - e "almeno 15mila braccialetti elettronici, con cui sarà possibile sia accrescere il lavoro esterno che quantità e durata dei permessi". La domanda è dunque di fatto una sola: "Siamo in grado di assicurare l’opportunità del lavoro a tutte le persone detenute che la chiedono?". È il sentiero, forse stretto e impervio, che il capo del Dap vede per realizzare l’ideale di Colombo, un carcere il meno popolato possibile. "Quello a cui tengo è che questa mia proposta credo sia davvero in grado di coniugare le esigenze deflattive del sistema penitenziario con le istanze delle componenti più securitarie della politica e dell’opinione pubblica. Far lavorare i reclusi, per fini di utilità sociale, con equa retribuzione, anche all’esterno con l’applicazione di braccialetti, renderebbe condivisibili alcune soluzioni: prevedere per esempio che a un recluso possa essere riconosciuto uno sconto di pena di un giorno ogni quattro prestati in attività lavorative". È questa la "vera rivoluzione", secondo Consolo: "Far lavorare tutte le persone ristrette che sinceramente lo vogliono". Un sogno? Non proprio. Sono al lavoro presso il ministero della Giustizia le commissioni chiamate a redigere i decreti attuativi della riforma penitenziaria. A coordinarle è il professor Glauco Giusta, che ha già guidato i lavori degli Stati generali. "E al professor Giostra", spiega Consolo, "ho già trasferito le proposte di cui le parlo: ho trovato in lui grande interesse e sensibilità". Sul piano normativo dunque le idee del direttore del Dap troveranno le cornici adatte alla loro realizzazione. Ma, è chiaro, si tratta anche di trovare le risorse. "Già oggi abbiamo insediamenti produttivi che impiegano detenuti, e progetti sul punto di avviarsi che daranno ulteriore concretezza al principio: si tratta di buone prassi, se vogliamo estenderle a tutti gli istituti vanno trovate soluzioni finanziarie nuove". Sono già attivi "i centri i cui si ripara la carrozzeria delle auto dell’amministrazione, come a Sant’Angelo dei Lombardi in Irpinia. A breve partirà il centro di produzione delle divise della polizia penitenziaria a Biella, grazie a un progetto con Zegna, in cui saranno impiegati detenuti selezionati e formati dalla stessa azienda, che metterà a disposizione anche i macchinari". Analoghe produzioni sono in fase di allestimento "con Marinella per le cravatte e Keaton per le camicie". Ma perché il lavoro non sia un privilegio per pochi e arrivi potenzialmente a ogni recluso "serve una grande opera di semplificazione delle procedure contabili: altrimenti i direttori non possono farsi carico di ulteriori e gravose responsabilità". Semplificazione, per Consolo, vuol dire anche "soluzioni originali come il lavoro agricolo e nelle serre basato sull’autoconsumo: il recluso può essere retribuito anche attraverso i beni da lui stesso prodotti, che potranno essere consumati anche dai suoi familiari. In ogni penitenziario è sicuramente possibile allestire delle serre. E io continuo a credere in un sogno: fare dell’amministrazione la più grande impresa nazionale". È una visione contrapposta a quella di Colombo? "Non mi pare. Il collega Colombo è ottimo interprete degli esiti degli Stati generali. Io vedo nel lavoro la strada per un effettivo recupero che consenta il realizzarsi di quell’ideale. E intanto, otterremmo una maggiore vivibilità anche tra reclusi e agenti: ci sono attività lavorative mirate a introdurre gli strumenti tecnici, come i cancelli ad apertura automatica e i sistemi di videoripresa, che riducono per esempio le criticità nella vigilanza attiva. Il lavoro in carcere aiuta davvero a migliorare tutto il sistema". Giustizia riparativa e "modello Brasile" per le nostre carceri di Umberto Folena Avvenire, 26 agosto 2016 Il carcere dovrebbe rieducare e indurre i condannati a non delinquere più, a cambiare vita, a riconciliarsi con la comunità. Eppure in Italia 69 detenuti su cento sono recidivi. Se le carceri fossero un’azienda, dovrebbero dichiarare fallimento. Non sono i primi a dimostrare, nude cifre alla mano, che le cose non funzionano. Ma ieri mattina il gesuita padre Francesco Occhetta e la vicepresidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia (e nel pomeriggio gli ex magistrati Elvio Fassone e Gherardo Colombo) da questa evidenza partono per compiere passi avanti. Passi che conducano dall’attuale giustizia retributiva alla giustizia riparativa. La giustizia riparativa è quella che in Brasile, nelle carceri Apac (Associazione protezione assistenza ai condannati) ha abbattuto la recidività, dal mostruoso 85 per cento delle carceri normali, a un incredibile 10 per cento. Al Meeting ne parla Valdeci Antonio Ferreira, direttore della Fbac (Fraternidade brasileira de assistencia aos condenados), che gestisce le 48 Apac. Se non le vedessimo nel video, sembrerebbe uno scherzo, qualcosa che letteralmente non può esistere: carceri senza guardie armate ma "sorvegliate" dai volontari dell’associazione, dove le chiavi le hanno gli stessi detenuti, si lavora, si studia e non esistono conflitti, violenza, sommosse. "Qui entra un uomo, il crimine resta fuori". Più che una detenzione, una terapia a cui ci si deve sottoporre volontariamente e a precise condizioni. "Una vera rivoluzione - mormora Ferreira - che segnerà il nostro secolo". Intanto deve fare i conti con chi la giustizia riparativa la vede come il fumo negli occhi. Ferreira è minacciato e denunciato: "Abbiamo amici, ma anche nemici. Tanti. Eppure non intendiamo sostituirci al carcere tradizionale, solo essere un’alternativa che funziona". Magia? Eccessi di fiducia? Oppure ragione, nient’altro che la ragione, ad abbracciare il trinomio evocato da Ferreira, amore-fiducia-disciplina? La giustizia retributiva (sbagli? Allora paghi. Fine) non funziona, è assodato. Il racconto di Elvio Fassone e del libro (Fine pena: ora) in cui raccoglie quasi 30 anni di carteggio con un criminale (15 omicidi di persona, e chissà quanti altri sulla coscienza) da lui condannato, dopo un processo con 241 imputati e lungo 20 mesi, è la prova provata che "nessun uomo può essere racchiuso tutto e soltanto nel gesto che compie". È una frase del Siddharta di Hermann Flesse che Fassone gli regala. "Dobbiamo restituire alla società- spiega l’ex magistrato e senatore - persone che abbiano compreso il male fatto e vogliano riparare, recuperando il tempo perduto e diventando, da distruttori, costruttori". Non è facile. Noi uomini, aggiunge Fassone, siamo inclini alla vendetta. Tutti abbiamo bisogno di tempo e conversione. Il delinquente. E la società, tutta intera, rimasta offesa. Cita Dostoevskij: il delitto grave determinato "scisma", una frattura grave con la società, a cui va data una risposta. Ma quale? Ieri, al "tempo del delitto", si reagiva con la vendetta. Poi sono intervenuti il giudice e il "tempo dell’espiazione", in cui tutti devono maturare: condannato e comunità. Come ricucire lo scisma? "Con la mediazione e il perdono: hai fatto il male, adesso fai il bene. In questa direzione deve volgersi la giustizia". E l’ex implacabile Colombo? Annuisce, ma il suo sorriso è amaro: "La giustizia riparativa è sforzo e fatica. Costa!". Compie un passo indietro, alla grande cesura del Novecento determinata da tre grandi eventi: la seconda guerra mondiale, la Shoah e la Bomba: "Abbiamo compreso che continuando così non avremmo avuto futuro alcuno. Così il mondo si è rifondato non più sulla discriminazione, ma sulla dignità di ogni essere umano. E l’amministrazione della giustizia si è adeguata. Peccato che il nostro Codice penale sia ancora quello del 1930". La giustizia riparativa, in parole semplici? "La applichiamo di continuo in famiglia. Consiste nel riparare i rapporti. Mio figlio combina uno sbaglio? Cerco di recuperare la relazione. Il criterio vecchio, opposto, dice invece: chi ha procurato il male deve subire altro male". Che sia una cosa buona, tutti d’accordo. Ma l’avvocato Paolo Tosoni, che ha condotto il pomeriggio, annuisce e aggiunge: "Ed è pure molto, molto più conveniente". Prevenzione dei suicidi nelle carceri. Il piano c’è, ma mancano gli operatori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 agosto 2016 E a Viterbo c’è stata un’altra morte. Sale a 35 il triste bilancio dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in Italia. Questa volta il suicidio c’è stato nel cuore della notte al carcere viterbese di Mammagialla. Si tratta di un detenuto straniero che si sarebbe messo una busta di plastica in testa. Continua ad aggiornarsi inesorabilmente la conta dei decessi in carcere. Siamo arrivati a 35 suicidi dall’inizio dell’anno per un totale di 73 morti. Poche ore prima, questa volta nel carcere di massima sicurezza di Parma, un giovane detenuto aveva tentato il suicidio nella sua cella ed è ora ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Maggiore. Sempre lì, ma a luglio, un detenuto aveva tentato di suicidarsi con la stessa modalità. Come fermare questa lunga scia di morti? Bastano i piani di prevenzione dei suicidi? Il nuovo piano nazionale per prevenire i suicidi approvato un mese fa dalla Conferenza Stato-Regioni come già riportato da Il Dubbio, aveva aggiornato gli interventi e la metodologia per riuscire a prevenire il più possibile i suicidi nelle carceri italiane, ma non prevede l’aumento del numero di operatori specializzati. Il piano impegna sia il Sistema sanitario nazionale, che dal 2008 ha la responsabilità della sanità carceraria, che l’amministrazione penitenziaria che resta comunque la titolare della funzione. Il monitoraggio avviene ottimizzando le risorse già esistenti, in parole povere non prevede l’assunzione di nuovi operatori. Eppure, come già denunciato dal rapporto sullo stato delle carceri redatto dell’associazione Antigone, in generale è stato rilevato un carente numero di operatori sanitari specializzati. In carcere mancano, cioè, psichiatri, psicologi, educatori, assistenti sociali e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Parliamo di figure importanti che lavorano solo per poche ore a settimana e, in alcuni istituti, non sono nemmeno presenti. Gli educatori hanno un ruolo determinante nella promozione e gestione dell’attività che il detenuto può svolgere e lo segue con costanti colloqui e osservazioni, ma il numero esiguo porta a volte a contatti sporadici con il detenuto. Gli assistenti sociali hanno una funzione di gestione delle relazioni con il mondo esterno al carcere (la famiglia, il lavoro, le misure alternative). Poi c’è la figura, importantissima, dello psicologo che attraverso i colloqui, raccoglie dati anamnestici, informazioni necessarie per formulare una psico-diagnosi e una valutazione clinica dello stato psichico della persona detenuta. Ha anche il compito di sostegno psicologico nei confronti dei detenuti in attesa di giudizio, la categoria più fragile e dove è alto l’indice dei suicidi. Ma la sua attività è ostacolata dal numero molto ridotto di ore: statisticamente si parla di un monte orario massimo di 64 ore mensili. Gherardo Colombo: a chi fa il male si può rispondere solo col bene di Federico Ferraù ilsussidiario.net, 26 agosto 2016 "Se vogliamo educare al bene, per farlo dobbiamo utilizzare il bene". Gherardo Colombo (ex pm di Mani pulite) spiega come (e perché) cambierebbe il sistema carcerario. La vendetta non può bastare. Eppure, il nostro sistema penale fa proprio questo. E stop. Garantisce nel migliore dei casi un risarcimento economico. Ma così il dolore della vittima, con il quale solidarizza il nostro senso di giustizia, non incontrerà mai il dolore del colpevole, anch’egli oggetto del nostro senso di giustizia ("deve pagare"). In questo modo crediamo di "fare giustizia", invece scaviamo un solco. Creiamo nuove lacerazioni. E aumentiamo la recidiva. Il perdono può diventare la base di un sistema penale? Secondo Gherardo Colombo, trent’anni in magistratura, uomo-simbolo di Mani Pulite, sì. L’ex pm non la pensava così. "Fino a un certo punto della mia vita sono stato convinto che il carcere fosse educativo". Poi ha cambiato idea. "Se vogliamo educare al bene, per farlo dobbiamo utilizzare il bene". Colombo parlerà oggi al Meeting di Rimini su "Fine pena e forme alternative della pena". Quando c’è un conflitto tra misure alternative e rimostranze da parte della vittima o dei familiari delle vittime, lei con chi sta? Nutro profondo rispetto ma per le vittime, e condivido con loro le terribili sofferenze che hanno spesso dovuto sopportare. Però credo che abbiano diritto a molto di più di quel che garantisce loro il processo penale (la soddisfazione del desiderio di vendetta, che è considerato un sentimento negativo), in particolare che abbiano diritto ad essere riparate da ciò che hanno subito; e credo che, per quel che riguarda il responsabile di quel dolore, chiunque abbia il diritto di non fermarsi, o vedersi fermare, ai delitti che ha commesso, ma di poter tornare nella società. Abbiamo una scarsa considerazione della nostra Costituzione, anche perché non tutti la conoscono. Si cita sempre l’articolo 27. "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Ma c’è anche l’articolo 13, dove si dice che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Due affermazioni che costituiscono una conseguenza del principio basilare, sancito dalla Costituzione, per il quale tutti i cittadini, termine usato qui come sinonimo di persona, hanno pari dignità. Tutte le persone sono degne e sono degne per il fatto di essere persone. Vada avanti. Siccome tutte le persone sono degne, le caratteristiche personali di ciascuno di noi - nelle "condizioni personali e sociali" di cui si parla all’articolo 3 c’è anche l’avere commesso un reato e il regime di restrizione - non possono essere causa di discriminazione. Quindi? Dunque ci si può attendere ragionevolmente che chi ha commesso un reato, se posto in determinate condizioni, possa arrivare a comprendere che ciò che ha fatto è male ed astenersi dal farlo in futuro. Perché, se tutto questo è vero, la giustizia riparativa sembra ancora una sorta di favore o peggio di amnistia? Perché siamo abituati a vedere la realtà come una fotografia, come il momento in cui il reato viene commesso. Ma la nostra vita non è una fotografia, è un film, in cui c’è sempre un prima e un dopo. Dobbiamo riuscire a vedere il film. Il nostro sistema penale? Mette in ultimo piano la vittima, che attualmente riceve solo la soddisfazione del proprio desiderio di vendetta. Questa soddisfazione è tutto ciò che le viene dal processo penale. Che cosa dovrebbe fare il processo penale? Il tema ci porterebbe troppo lontano. Una premessa: chi è pericoloso deve restare in un luogo dedicato, in modo che gli sia impedito di svolgere la sua pericolosità. Però dev’essere un luogo in cui tutti i suoi diritti fondamentali che non confliggono con la tutela della cittadinanza sono garantiti e rispettati. Premesso questo? Chi è in carcere dovrebbe essere accompagnato a rendersi conto che ha fatto male ad altri, in modo che non lo faccia più. Non solo. Anche la vittima ha il diritto di essere accompagnata in un percorso di riparazione. Questo oggi non accade. Lei ha dipinto una situazione in cui la giustizia retributiva in cui sono lasciati la vittima da un lato e il colpevole dall’altro è molto distante dalla giustizia riparativa contenuta nella Costituzione. Perché? Credo si tratti in primo luogo di una questione culturale. Ancora pensiamo che sia giusta la legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente, o qualche suo succedaneo in cui però il concetto non cambia. Siamo convinti che chi ha fatto soffrire debba essere costretto a soffrire. Perciò siamo rimasti indietro rispetto ai 40 anni di lavoro e di progressi sulla giustizia riparativa compiuti in varie parti del mondo. In Italia la giustizia riparativa non è sistemica, ma residuale. Nonostante l’Unione europea ci abbia chiesto di adeguarci. Torniamo all’incontro tra vittima e colpevole. In che cosa consiste questo percorso di avvicinamento? In un percorso attraverso il quale, accompagnati da persone professionalmente molto, molto preparate, il responsabile diventi consapevole del male fatto senza per questo essere travolto dai sensi di colpa. E la vittima si senta realmente riparata del male che ha subìto. L’incontro di due dolori diversi. Anche e soprattutto. È difficile da capire, perché nei nostri schemi il dolore lo prova soltanto la vittima. Può essere così soltanto quando, da parte del responsabile, manca la consapevolezza dell’altro e della relazione con lui. In ogni caso, questo percorso di avvicinamento può essere fatto soltanto con il consenso di vittima e responsabile, ovviamente con il supporto di un mediatore, ove possibile con l’interazione dei familiari o della comunità nella quale vivono entrambi. Oggi la percentuale di soddisfazione in chi intraprende questi percorsi è molto elevata. Dove interverrebbe nel nostro sistema se potesse farlo? Partirei da un’ampia modifica del processo penale. Nel frattempo le nostre carceri dovrebbero essere profondamente trasformate per garantire ai detenuti il diritto allo spazio vitale, all’istruzione, al lavoro, all’igiene, alla salute, all’affettività. Occorre che chi sta in quello che non sarebbe più chiamato carcere, data la differenza con le strutture attuali, venga sollecitato alla responsabilità nei confronti degli altri, perché la percezione del male compiuto deriva dall’educazione del proprio senso di responsabilità. Non solo da un punto di vista razionale ma anche emotivo. I nostri istituti penitenziari sono totalmente e assurdamente lontani da questa prospettiva. Lei oggi passa per essere un permissivista. In realtà la sua posizione è più sfumata. Quello della giustizia riparativa è un percorso di responsabilizzazione molto spesso più pesante della mera permanenza in carcere. Riserverei un trattamento inframurario soltanto a chi è effettivamente pericoloso. Oggi, non più di 20mila dei 55mila detenuti totali. Isolati i pericolosi, gli altri cosa fanno? Dovrebbero seguire un percorso esterno: affidamento in prova ai servizi sociali, messa in prova, lavori di pubblica utilità, detenzione domiciliare e via dicendo; misure, sottolineo, nelle quali sia centrale l’aspetto dell’accompagnamento all’assunzione di responsabilità. Chi esce dal carcere dopo avere scontato la pena, nel 70 per cento dei casi torna a delinquere, mentre con le pene alternative la recidiva scende al 19 per cento. Oltre ad essere stato protagonista di Mani pulite, il suo nome è legato ad altre importanti inchieste di questo paese. Quelle che ha espresso non sembrano le posizioni di un pm. Premetto che nella mia attività sono stato più giudice che pm, e che ho fatto il pm cercando di mantenere l’atteggiamento del giudice. Comunque, per quanto io non abbia mai amato mandare in prigione la gente, perché la prigione è sofferenza, fino a un certo punto della mia vita sono stato convinto che il carcere fosse educativo. Progressivamente ho cambiato idea e anche per questo mi sono dimesso dalla magistratura, dove sarei potuto rimanere per altri 14 anni. Perché ha cambiato idea? Di solito lo spiego con una metafora. Quella di un idraulico che viene chiamato una mattina da un signore perché il rubinetto della cucina non manda acqua. L’idraulico arriva, lavora, smonta, sostituisce, ma l’acqua non arriva. Allora si chiede se non si tratti di intervenire a monte, segue le tubature, arriva in cantina e si rimette a lavorare sul rubinetto centrale, quello che porta l’acqua a tutti i rubinetti del condominio. Si rimette a lavorare, e dopo aver molto faticato torna in cucina e l’acqua finalmente scorre. È come se per 33 anni (tanto sono rimasto in magistratura) mi fossi occupato del rubinetto della cucina. Per quanti sforzi facevate, la giustizia non c’era o funzionava male. Proprio così. Allora mi sono chiesto se il problema non stesse altrove, prima di tribunali, corti d’appello, giudici, avvocati, pm e condanne. E che cosa si è risposto? Che il rubinetto è la relazione che esiste tra i cittadini e le regole. Se noi non riusciamo a capire a cosa servono le regole, va a finire che tutte le volte che non ci piacciono non le rispettiamo. Per questo la giustizia non funziona. E adesso? Da quando mi sono dimesso, oltre 10 anni fa, dedico maggiormente il mio tempo a dialogare con i ragazzi dei temi delle regole, della giustizia e della Costituzione. Come si ferma il male? Si ferma non restituendolo. Se obbligo a soffrire chi ha subito il male, il male lo raddoppio. Se vogliamo educare al bene, dobbiamo usare lo strumento del rispetto della dignità altrui, in altre parole il bene. L’ex Pm Colombo: "Liberate trentacinquemila detenuti" di Errico Novi Il Dubbio, 26 agosto 2016 La clamorosa proposta dell’icona di "Mani Pulite": non sono pericolosi. Il meeting di Comunione e liberazione è un luogo di confronto sopravvissuto a un’altra era geologica. È l’occasione in cui tutta la politica guarda ai cattolici come riferimento, forse l’ultima del genere rimasta in giro. E in vista del suo intervento a Rimini, Gherardo Colombo ha pronunciato parole rivoluzionarie sul carcere nell’intervista, messa in rete giovedì, a sussidiario.net, giornale on line vicino a Cl. Da cattolico, il giornalista chiede se "il perdono" può diventare la base di un nuovo sistema penale. E Colombo risponde di sì. Solo un cattolico, e un ambiente di cattolici, poteva trovare la chiave per non respingere a colpi d’anatema le tesi dell’ex pm di Mani pulite, secondo cui negli istituti di pena dovrebbe essere trattenuto "soltanto chi è effettivamente pericoloso: oggi, non più di 20mila dei 55mila detenuti totali". Altrove (tranne che su questo e pochi altri giornali) le affermazioni dell’ex magistrato sarebbero state censurate. Al più, sarebbero trattate come un’eccentricità intellettuale. Al Meeting e sul giornale on line di riferimento Colombo trova ascolto. E la sua rivoluzione è talmente visionaria da anticipare i contenuti di una riforma sottovalutata, quella dell’ordinamento penitenziario, che, se i decreti attuativi in preparazione a via Arenula tenessero fede agli Stati generali, si avvierebbe a realizzare gradualmente il sogno di Colombo. Almeno in linea teorica. Colombo si occupa nella sua analisi di una categoria che sovrasta le norme penali: "La relazione che esiste tra i cittadini e le regole", la definisce. Ma non è un tema di diritto costituzionale. È questione filosofica. "Se vogliamo educare al bene, dobbiamo usare lo strumento del rispetto della dignità altrui, in altre parole il bene", è la frase con cui si chiude l’intervista. Evidente che la visione dell’ex pm si collochi su un piano elevato, lontano dallo squallore dei guaiti giustizialisti con cui si deve fare i conti in Parlamento. Questo contribuisce a spiegare perché le aspettative coltivate da Colombo sembrino comunque destinate a superare i possibili, effettivi esiti della riforma. La prevista estensione della giustizia riparativa; il più ampio ricorso alle misure alternative; la maggiore diffusione del lavoro in carcere e il superamento delle ostatività che precludono l’applicazione dei benefici agli ergastolani: tutti propositi chiaramente affermati dalla delega sull’ordinamento penitenziario. Una norma quadro che entro il 31 dicembre sarà tradotta in decreti attuativi, sui quali sono al lavoro le commissioni nominate dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ma quanti ostacoli troveranno questi decreti? Quante precisazioni saranno imposte nei pareri (si spera tempestivi) delle commissioni parlamentari? E soprattutto, quanto saranno capaci i magistrati di applicare fino in fondo le previsioni della riforma? Certo l’invito di Colombo a preservare, secondo Costituzione, anche la dignità di chi è colpevole, da cui viene l’appello per un ricorso prevalente alla giustizia ripartiva, pare chiudere il cerchio con l’innesco del giustizialismo, ossia Mani pulite. Ma è esattamente così? "Intanto ricordo che dieci anni fa fu l’allora capo del Dap ad affermare che i detenuti socialmente pericolosi, e per i quali l’unica soluzione era quella carceraria, non superavano le 10mila unità", osserva, interpellato dal Dubbio, Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani del Senato e tra i pochi parlamentari che possano comprendere i discorsi di Colombo. "Ecco perché quella di Gherardo non è un’eresia bensì una valutazione razionale delle concrete esigenze del ricorso alla cella chiusa". Ma sulla chiusura del cerchio con Mani pulite, dice Manconi, "ci andrei cauto: Colombo era uno dei componenti il Pool. Certamente il più liberale tra tutti. Dopodiché egli rappresenta magnificamente uno degli assunti di questa sua concezione, che presenta indubbi motivi di novità radicale ma che data almeno a 10 anni fa, e l’assunto è che tutti gli uomini possono cambiare. Lo dico senza la minima tonalità ironica", assicura il senatore, "Gherardo ha una grande fiducia nell’uomo e nella sua capacità di maturazione. Certo è che io condivido tutte le sue parole". Contro la radicalizzazione in carcere offrire motivazioni: scuola, lavoro, sport di Anna Lombardi La Repubblica, 26 agosto 2016 Intervista ad Alvise Sbraccia (Antigone): il ruolo degli imam, del parlare arabo e dei progetti. "La politica ha cominciato ad occuparsi di radicalizzazione in carcere solo di recente: ma negli istituti di pena se ne discute da tempo. Programmi specifici di de-radicalizzazione però, ancora non ce ne sono. Ci si limita a fare lavoro di intelligence e corsi di formazione per permettere a chi lavora in carcere di cogliere quanto meno i primi segnali. Col grande limite che quasi nessuno parla l’arabo". Alvise Sbraccia, criminologo del dipartimento di Scienze giuridiche dell’università di Bologna, coordina il comitato scientifico di Antigone, associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Come si riconoscono i detenuti a rischio? "Chi lavora in carcere sa riconoscere certi segnali. Non parlando arabo, però, riconosce soprattutto segnali esteriori: barbe che si allungano all’improvviso, cambiamento nel tipo di vestiario, atteggiamenti aggressivi. Ormai però i detenuti sanno di essere osservati. Onestamente credo che chi vuol fare proselitismo "cattivo" senza destare sospetti, sappia come fare". Perché gli imam accreditati dal ministero dell’Interno sono pochi? "Molti direttori raccontano di aver provato a chiamare gli imam "certificati": ma i detenuti li hanno considerati intrusi e la sala preghiera è rimasta vuota. E quindi hanno preferito tollerare imam scelti dagli stessi prigionieri: anche perché il leader, spesso, diventa quello con cui l’amministrazione carceraria dialoga". Il carcere favorisce la radicalizzazione? "Sicuramente pesca fra persone sbandate, impoverite e lontano dalle famiglie dunque più sensibili a narrative di riscatto e inclusione ma anche banalmente a forme di solidarietà materiale, tanto più all’interno di strutture sempre più povere come sono le carceri italiane. Non si incontrano insomma solo per pregare ma anche per dividersi il cibo, gli abiti. Per difendersi da aggressioni e molestie. Le cose sono complesse". In mancanza di programmi specifici, su cosa si può agire? "Offrire motivazioni è importanti: gli istituti dove ai detenuti stranieri non viene proposto sempre e solo lo stesso programma di alfabetizzazione ma hanno una scuola che funziona lavorano certamente nella direzione giusta. Lo stesso vale per il lavoro o lo sport". La "forza" del premier non è affatto inconsistente di Valerio Onida Corriere della Sera, 26 agosto 2016 Le elezioni, la scelta del presidente del Consiglio, il ruolo del parlamento nel sistema italiano. Caro Direttore, la tesi di fondo dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 21 agosto (Dare un governo al Paese) è che le elezioni "dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati". Quindi, si dovrebbe dire, non tanto a eleggere il Parlamento, ma ad eleggere direttamente il capo dell’esecutivo. Il Parlamento ci sarebbe ancora, ma in esso dovrebbe operare una maggioranza "monocolore", che si riconosca nella guida del Premier, e dunque sia ad esso sostanzialmente soggetta. Vorrebbe dire abbandonare il sistema di governo parlamentare previsto dalla nostra Costituzione, per sostituirlo con un sistema incentrato sull’elezione, per un tempo determinato, di un Premier "onnipotente"; di una "democrazia di investitura", in cui gli elettori sono chiamati solo a designare periodicamente il "capo". Non sarebbe "presidenzialismo". Quello vero, infatti - nato e tuttora vigente negli Usa - è un sistema di governo "diviso" fra un Presidente eletto direttamente e un Parlamento del tutto indipendente e anzi spesso in conflitto con lui, che delibera le leggi e il bilancio dello Stato. Invece le proposte "riformistiche" nostrane vorrebbero che anche l’attività legislativa (in cui si traduce in larga parte l’indirizzo del Governo) fosse determinata dal capo dell’esecutivo, attraverso una maggioranza parlamentare che ne assicuri il dominio pressoché assoluto e indiscusso fino a nuove elezioni (simul stabunt, simul cadent). Quando poi si invoca il "modello Westminster" come esempio di un sistema parlamentare in cui di fatto gli elettori scelgono il Premier, si dimentica semplicemente che il suo funzionamento è legato a due variabili essenziali. Da un lato i partiti, che realizzano la mediazione fra società e istituzioni, facendo sì che un’assemblea composta da centinaia di rappresentanti assuma comportamenti in qualche modo prevedibili. L’altra variabile è un sistema fondamentalmente bipartitico (il partito che prevale nelle elezioni governa, l’altro fa l’opposizione). Se invece si configura un quadro multipolare (come oggi in Italia); e se più in generale è in crisi, come oggi da noi, la capacità dei partiti di tradurre, attraverso il confronto nelle istituzioni, le istanze sociali, le tendenze "riformistiche" sfociano inevitabilmente in una visione di tipo "autocratico" (il famoso "uomo solo al comando"). Ciò premesso, la presentazione che del nostro sistema costituzionale fa Galli della Loggia appare alquanto deformata. Non è vero che il Premier eserciti il suo potere in sostanziale "condominio di fatto" con un Presidente della Repubblica che sarebbe "costituzionalmente molto più forte di lui", potendo anche autorizzare l’iniziativa governativa delle leggi. In realtà questa, nonché i poteri tipicamente esecutivi e amministrativi - e anche il potere di deliberare i decreti legge - spettano al Governo, sotto la direzione del Premier. Il Presidente della Repubblica può esercitare una funzione di "persuasione e di influenza", invitando se del caso il Governo a tener conto di dubbi o di obiezioni, ma chi decide alla fine è il Governo diretto dal Premier. Non è vero che il Presidente della Repubblica possa da solo sciogliere le Camere: l’atto di scioglimento, come tutti gli atti del Capo dello Stato, è soggetto alla controfirma ministeriale (art. 89), e pochissimi tra questi atti (non di governo) sono rimessi sostanzialmente alla volontà del Presidente. Lo scioglimento delle Camere è considerato da molti studiosi come un atto "duumvirale" (del Presidente e del Governo). In ogni caso sarebbe impensabile che il Presidente pretendesse di sciogliere anticipatamente le Camere in presenza di un Governo e di una maggioranza concordi e intenzionati a proseguire la legislatura. Non è vero che il Premier sia un debole primus inter pares nell’ambito di un governo collegiale. In realtà egli "dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile" davanti al Parlamento (art. 95), Non è nemmeno vero che il Premier non possa scegliere i Ministri né revocarli. È lui che li propone, anche se il Capo dello Stato può esercitare, e talora ha esercitato, un potere di influenza o di veto informale in proposito. E quanto alla revoca, se un Ministro dissente radicalmente dalla linea deliberata dal Consiglio di Ministri su proposta di un Premier sostenuto dalla maggioranza, le sue dimissioni sono inevitabili (il Ministro della giustizia Mancuso, nel 1995, non si dimise, e venne sostituito dopo un voto di sfiducia individuale da parte del Senato; la Corte costituzionale respinse il suo ricorso). In definitiva, la "forza" del Premier nel nostro sistema non è affatto inconsistente; e non è contraddetta dall’esistenza di un Capo dello Stato, organo non decidente, ma di equilibrio, di garanzia e di coordinamento fra i poteri. Di fatto, quella forza dipende, oltre che da qualità personali, da fattori politici collegati al sistema dei partiti: e quindi è vero che a lui si chiedono non solo doti di "decisione", ma anche di mediazione, e capacità di confrontarsi e creare convergenze. Ma la democrazia rappresentativa, e anzi la democrazia tout court, è fatta anche, e forse essenzialmente, di questo: non di decisioni solitarie e di guerre permanenti all’ultimo sangue. La nostra Costituzione si può migliorare di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 agosto 2016 L’ipocrisia di chi non vuole vedere la realtà impedirà qualsiasi riforma istituzionale. La lettera inviata dal presidente Onida in risposta al mio editoriale di qualche giorno fa mi conferma in quella che per me è diventata una certezza: in Italia non si farà mai nessuna riforma istituzionale. Tutto continuerà sempre come è continuato fino ad ora e come al Presidente Onida e al foltissimo ceto politico-giuridico-burocratico italiano che la pensa come lui in fondo non dispiace per nulla. Nessuna riforma importante si potrà mai fare della seconda parte della Costituzione principalmente per una ragione (il presidente Onida mi perdonerà se parlo, come talvolta mi capita, fuori dai denti): per l’ipocrisia che contraddistingue la posizione dei nemici di una qualunque di tali riforme. La sua lettera ne è un esempio significativo. È l’ipocrisia di chi non vuole vedere la realtà delle cose, la carne e il sangue della realtà storica, di chi chiude volontariamente gli occhi sul come effettivamente funziona, come da decenni sta funzionando il meccanismo istituzionale dei rapporti tra i poteri di vertici della Repubblica: e invece preferisce nascondersi ogni volta dietro la fredda lettera del testo costituzionale: a) credendo (o fingendo di credere) innanzi tutto che quel testo sia perfetto. Laddove, all’opposto, Onida sa bene che esiste una montagna di scritti di costituzionalisti che da anni proprio ciò mette in dubbio con molti e ragionevoli argomenti: che egli però si permette disinvoltamente di ignorare mostrando a mio avviso un sostanziale disinteresse per qualunque vera discussione informata; b) credendo (o fingendo di credere) che, come ho già detto, le cose stiano nella realtà come è scritto nel testo costituzionale. Da quando infatti leggo gli interventi giornalistici del presidente Onida non gli ho mai sentito ripetere che questo: che va tutto bene, che la seconda parte della Costituzione italiana è perfetta (della prima neppure a parlarne), che dunque non c’è bisogno di alcuna riforma, e che naturalmente chi ne vuole qualcuna è in sostanza un eversore pericoloso da tenere a bada. Io dunque potrei pure produrmi nella citazione delle decine e decine di casi in cui negli ultimi decenni il punto di vista del Presidente della Repubblica, muovendosi quasi sempre nell’ombra (evviva la trasparenza !) si è imposto su quello del governo e del Presidente del Consiglio - casi notissimi, che ormai sono perfino nei libri di storia - ma sono sicuro che sarebbe del tutto inutile: gli argomenti tratti dalla realtà non sono mai serviti a convincere i veri credenti a cambiare idea. Mi permetto solo un’osservazione : "una maggioranza monocolore che si riconosce nella guida del premier ed è dunque ad essa sostanzialmente soggetta" non è detto che, come scrive il presidente Onida, rappresenti il prototipo di un’ inquietante "democrazia di investitura in cui gli elettori sono chiamati solo a designare periodicamente un capo". È il ritratto del parlamento britannico. Io, e con me credo molti altri italiani, ci metteremmo la firma. I "cercatori d’odio" nel West del giornalismo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 agosto 2016 La battaglia di strada tra profughi eritrei e polizia, combattuta l’altro giorno in pieno centro di Roma, suggerisce molte riflessioni e molti spunti contraddittori. Sul comportamento della polizia, sul dovere della legalità, sull’immigrazione, sull’accoglienza, sulla violenza e sulla dolcezza. Purtroppo gran parte dei nostri politici, e dei giornalisti, hanno voluto evitare sia la riflessione sia le contraddizioni. Hanno preferito usare la clamorosità dei fatti per fare propaganda e attaccare i propri avversari. Fanno così quasi sempre. È una vecchia abitudine della politica e del giornalismo, non solo in Italia ma in Italia di più. Certe volte questa abitudine trascende, e arriva a creare volontariamente odio, odio per altri esseri umani. Perché c’è chi considera l’odio un elemento importante e insostituibile della battaglia politica. Succede così, in genere, quando le idee sono poche. Allora si preferisce rivolgersi al popolo, usando questa leva, che è potentissima. La rabbia, la rabbia che diventa ribellione, la ribellione che diventa odio, e divide l’umanità in buoni e cattive, fratelli e demoni. Quando sul terreno della battaglia si viene a trovare un problema complicato, come quello dell’emigrazione, che è un problema in carne e ossa e che riguarda gli stranieri, l’odio, molto facilmente, si trasforma in razzismo e in sentimenti violenti. È successo così anche stavolta. Però, stavolta, il razzismo non è rimasto padrone del campo: non solo perché sono apparse sulla scena le tradizionali figure di contrasto con il razzismo - come i preti, i vescovi, le suore - ma perché si è manifestata una figura inaspettata: il poliziotto. Un poliziotto in assetto di guerra che invece di bastonare accarezza una signora, una signora nera, una signora eritrea, una signora piangente e disperata. Quella foto, bellissima, ha mandato all’aria la macchina razzista, oliata e pronta a colpire. Proviamo a vedere con ordine le varie questioni sollevate dalla giornata di guerriglia di giovedì. Il comportamento della polizia - Non si può certo liquidare con un aggettivo. Della polizia fa parte quell’agente, o ufficiale, che si è fatto prendere dalla foga e ha gridato "spaccategli le braccia". Merita un aggettivo molto aspro. Della polizia fa parte anche il gigante in divisa antisommossa che consola la signora in lacrime. Merita un aggettivo dolcissimo. E della polizia fa parte il dottor Franco Gabrielli, il quale - tra tutti i rappresentanti dell’establishment - è stato forse l’unico ad averci offerto una analisi seria e pacata. Ha detto che la frase del suo agente è intollerabile, e si è lasciato sfuggire anche una critica velata all’uso esagerato degli idranti, poi però ha voluto indicare i veri colpevoli. E non ha detto, come hanno fatto vari giornali, che i responsabili sono gli eritrei, i negri. Ha detto chesono quelli che hanno lasciato una moltitudine di persone a vivere ammassate lì in condizioni sub umane. Ecco, Gabrielli non è certo nell’elenco dei cercatori d’odio. Ha anche lui delle responsabilità? Può darsi, ma comunque è una persona che le responsabilità se le assume. Non le nasconde alzando polveroni. La polizia doveva intervenire perché si era creata una situazione di illegalità? La polizia comunque doveva rispondere a ordini precisi. Il prefetto ha ordinato lo sgombero. Avrà avuto le sue ragioni. Forse però avrebbe fatto meglio a spiegarle queste ragioni, anziché parlare di infiltrati e provocatori tra gli eritrei. Francamente non si capisce chi avrebbe potuto infiltrarsi, e perché, e a che scopo. Del resto tutte le persone identificate sono risultate perfettamente in regola con le norme sull’immigrazione. Il comportamento del Comune - Non si può dire che sia stato ineccepibile. È vero che a volte i problemi sono molto complessi e difficili da risolvere. Anche in questo caso. Da una parte la necessità di liberare il palazzo e restituirlo ai legittimi proprietari, e fare rispettare la legge, e la Costituzione, che prevede la proprietà privata. Dall’altro la necessità di trovare una soluzione abitativa per queste persone. Che vivono qui a Roma, hanno i permessi, molti lavorano vicino alla stazione e mandano i figli a scuola. I problemi sono complessi, ma la politica dovrebbe servire proprio a questo: a trovare soluzione ai problemi complessi. La politica non è semplicemente l’arte di far polemica, non è la prosecuzione di un talk show. È un lavoro duro, che richiede esperienza, professionalità e molto, molto sacrificio. Detto questo, danno fastidio anche le polemiche fatte e rifatte sempre uguali. Urla contro l’assessora che ieri non era a Roma perché stava in vacanza. Urla contro la Raggi che non era sul posto. Canovacci di propaganda politica presi a prestito dai nonni e dai bisnonni. Cerchiamo di risolvere i problemi non di acchiappare voti. Il comportamento dei politici - Anche qui siamo, più o meno, al cliché. Quelli di sinistra si strappano i capelli per la mancanza di misure sociali. Quelli di destra per l’offesa alla legalità e le critiche alla polizia. Poi ci sono i Cinque stelle. I Cinque stelle che si preparano a governare. E allora Di Maio ricopia pari pari certi slogan della Lega, o della Meloni, e dice che vengono prima gli italiani, o i romani, e che il Comune deve preoccuparsi delle loro emergenze e non delle emergenze dei migranti. Può anche sembrare una frase di buon senso, ma invece è la culla del razzismo. Nessuno contesta la necessità di difendere la legalità (poi possiamo dividerci su quando e fino a che punto sia opportuno farlo in modo intransigente e quando invece sia meglio mediare) e nessuno contesta neppure la giustezza di individuare una scala delle priorità nelle emergenze. Ma sostenere che una emergenza non è emergenza perché non riguarda i nati a Roma ma riguarda gente con la pelle nera (è esattamente questa la sostanza della dichiarazione di Di Maio) vuol dire mettere dei mattoncini che servono a tirare su il muro del razzismo. Non lo dico come un anatema. Si tratta solo di ragionarci su, cosa che i nostri politici spesso non fanno. Se a determinate la scala della priorità non è l’oggettiva urgenza dei problemi ma è la nazionalità (e dunque la razza) delle persone coinvolte, si stabilisce, di fatto, una scala razziale, magari con ottime intenzioni ma il risultato è quello. Il comportamento della stampa - Trascrivo qualche titolo preso dai giornali di ieri. Per esempio: "Giustizia è fatta (a caratteri cubitali, maiuscoli, a tutta pagina). Casa occupata, liberata a colpi di manganello". Oppure: "Rubano agli anziani per dare agli stranieri". Non voglio annoiarvi citando altri titoli, o altri brani di articoli. Dico solo che questo atteggiamento verso la cronaca ha poco a che fare con l’informazione e molto a che fare con la propaganda razzista e violenta. Rubano agli anziani per dare agli stranieri (oltre ad essere un titolo che porta una notizia del tutto falsa) è un titolo che spinge a questa distinzione: noi e gli stranieri. Noi buoni e loro ladri. Noi con diritti, loro senza. E assomiglia moltissimo agli schemi della propaganda antisemita che era stata allestita nella seconda metà degli anni trenta dal regime fascista. Del resto, esultare per una giustizia che finalmente si fa largo a colpi di manganello, involontariamente (o forse, invece, volontariamente) è qualcosa che riecheggia le canzoncine sul "santo manganello" che sono anche quelle un’eredità (che credevo ormai dimenticata e superata) del mussolinismo. La macchina del razzismo - I giornali poi non restano soli. Dettano la linea. Ai politici, a qualche Tv, ai social. L’idea del contrattacco dello Stato che manganella i neri e li disperde, si diffonde in un baleno. Ogni tanto qualcuno mi chiede: ma secondo te viviamo in un paese razzista? Io non credo che un paese sia razzista. Tantomeno l’Italia. Il razzismo è qualcosa che ovviamente nasce da sentimenti popolari profondi, dalla paura, dal senso di debolezza, dalla ricerca disperata di identità, ma il razzismo vince e dilaga solo se è sostenuto dall’establishment. È stato così in Germania, in Italia, in Francia, quando Hitler lo impose. È stato così, per decenni, negli stati meridionali degli Usa. È stato così in Sudafrica. C’è una macchina del razzismo, che si mette in modo, e produce odio. L’odio è l’elemento fondante del razzismo. L’odio come sostituzione del senso civico, o del patriottismo, o degli ideali. Gli americani chiamano proprio così i reati razzisti: hate crimes, crimini dell’odio. Non sono il frutto di un fenomeno spontaneo. Sono costruiti da una macchina infernale, potente e sofisticata, della quale i principali manovratori sono i giornalisti. Il furore che la politica non governa più dietro il linciaggio del gip di Reggio Emilia di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 26 agosto 2016 Ci piacerebbe pensare che questa polemica emiliana di fine estate, costruita su di un caso giudiziario inesistente, sia dovuto ad un horror vacui della nostra vita politica, se non fosse che la ripetizione intermittente ma ossessiva di queste polemiche ci induce ad ipotizzare altre analisi meno contingenti. Da tempo, infatti, la politica ha perso la sua capacità di governare la realtà, di dare forma e contenuti ai processi di trasformazione sociale, di orientare il pensiero collettivo. Ha smarrito del tutto il suo compito principale e originario, quello, cioè, di elaborare scelte valoriali e strategie valutative: in altre parole, di indicare ai governati la strada da seguire. Le pulsioni emotive hanno preso il sopravvento e sembrano essere diventate l’unico strumento di conoscenza e di approccio ai problemi della società. Che un indagato confesso, in assenza di esigenze cautelari debba comunque restare in carcere è una ipotesi plausibile in un’ottica puramente autoritaria e retributiva. Se si sceglie, come ha fatto di recente il nostro legislatore, la via del minor sacrificio e del carcere come extrema ratio occorre tenere dritta la barra di questa scelta di campo fedele ai valori costituzionali. Assistiamo, al contrario, a continue oscillazioni di un inammissibile pendolo fra opzioni contrastanti ma prive di una razionale base valoriale: che si tratti di "svuota carceri" o di "tolleranza zero", le scelte inseguono "brand" graditi al grande pubblico oppure fanno lo slalom fra le minacce di sanzioni dell’Europa, ma in nessun caso procedono con intelligenza globale, legiferando intorno ad un nucleo forte di principi, ad una qualche idea riconoscibile, persuasiva e condivisa di processo e di giustizia penale. È per questa ragione che forse non vale più neppure la pena di protestare di fronte a questo continuo ripetersi di scenari già visti, di richieste di intervento del Csm e degli Ispettori, di social scatenati, di invettive tweettate contro giudici che hanno magari applicato le norme dettate dal Parlamento. Con i penalisti sostanzialmente soli a difendere autonomia e indipendenza della magistratura e le regole di uno Stato di diritto costituzionale. Ogni fine estate ha il suo pseudo-rapimento di bambini, il suo magistrato troppo buono, il suo crimine che resta impunito. Ne potremmo fare un intero zibaldone e prenderla con più leggerezza, se non fosse che questo diffuso malumore giudiziario, che ostinatamente e periodicamente attraversa la nostra società, può essere letto come sintomo di una crisi ben più profonda; se non fosse il segno evidente di una politica del tutto inadeguata rispetto ad uno dei suoi compiti più banali, incapace cioè di fare i conti con le antichissime tensioni che governano i rapporti fra ghenos e polis, fra le pulsioni vendicatrici della collettività ferita dal crimine e le istanze di razionalizzazione che una società democratica evoluta impone. Una operazione di bilanciamento, questa, che implica conoscenza dei fenomeni, analisi dei costi e dei benefici, dislocazione delle dinamiche che governano il processo penale al riparo dallo sciocchezzaio opportunista che spesso lo cavalca. Ma si tratta di una operazione che nel nostro Paese nessuna forza politica ha mai avuto il coraggio di compiere, pensando incoscientemente che fosse più opportuno mantenere il processo in una posizione servente di "ostaggio" di interessi altri. Strumento populistico di consenso, arnese estemporaneo ed umorale con il quale insufflare risentimento e frustrazione cinicamente utile al governo di un pubblico elettorale. Notava Platone come fosse difficile individuare lo strumento proprio del "politico". Se era infatti facile dire quali fossero gli arnesi propri dell’agricoltore, del fabbro o del soldato, molto più difficile risultava individuare l’invisibile arnese della politica. Ecco. Pare che la nostra politica l’abbia invece trovato. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Cassazione: no estradizione in paesi che violano i diritti Il Dubbio, 26 agosto 2016 Ribadito il principio già utilizzato in altri casi simili. Annullata la sentenza della Corte d’appello di Torino aveva dato il via libera alla consegna di un ventitreenne condannato in Romania a tre anni e due mesi. La Corte di Cassazione ribadisce un concetto già espresso in altre occasioni: prima di concedere l’estradizione di un europeo i giudici italiani devono informarsi sulla situazione delle carceri del suo Paese. La Suprema Corte, infatti, basandosi su questo principio ha annullato la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva dato il via libera alla consegna alle autorità di Bucarest di un ventitreenne condannato in Romania a tre anni e due mesi di carcere e arrestato dalla polizia nel capoluogo piemontese lo scorso 8 giugno. La difesa aveva obiettato che, in base a un rapporto (del 24 settembre 2015) del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, le carceri romene sono sovraffollate. La Corte d’appello avrebbe dovuto prendere informazioni adeguate. La questione riguarda solo le modalità con cui i giudici arrivano alla decisione di estradare un detenuto straniero. Infatti lo scorso febbraio la Cassazione confermò una sentenza della Corte torinese che, prima di pronunciarsi sull’estradizione di una condannata, chiese e ottenne dalla Romania una quantità di dati: l’ubicazione del penitenziario (Craiova), lo spazio riservato alla detenuta (due metri per tre), le condizioni igieniche e di sa- lubrità della cella, il regime di carcerazione (regime ‘ semiaperto’ con accesso a cortili di passeggio e possibilità di lavorare e dedicarsi ad attività sportive e ricreative), i programmi di assistenza. Ma la casistica sulla vicenda è vasta. A ottobre del 2016 la Corte di Cassazione Italiana ha impedito l’esecuzione di un mandato di arresto europeo, che prevedeva la consegna di un cittadino rumeno al suo paese, per le condizioni di detenzione del paese. Così come a giugno sempre dello scorso anno la Cassazione aveva già bloccato l’estradizione per via della mancanza di una valutazione del rischio di violazioni, da parte del paese richiedente, dell’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti Umani (Cedu), che vieta i trattamenti e le pene inumani e degradanti. La Corte di Appello di Catanzaro aveva quindi presentato richiesta di informazioni alle autorità rumene. Dopo aver ricevuto queste informazioni, la Corte di Appello aveva emesso una nuova ordinanza per dare attuazione al mandato di arresto europeo. Ma un attento esame delle informazioni fornite dalla Romania ha rivelato che esse erano incomplete e imprecise e per questo motivo la Suprema Corte ha bloccato nuovamente l’esecuzione del mandato. Viterbo: detenuto si suicida con una busta di plastica tusciaweb.eu, 26 agosto 2016 Tragedia al carcere di Mammagialla a Viterbo, dove, nella notte, un detenuto straniero si è ucciso legandosi una busta di plastica in testa. L’uomo era ristretto nel reparto giudiziario. È stato un agente della polizia penitenziaria a fare la scoperta durante un controllo. Solo ieri i poliziotti avevano trovato un cellulare in cella a un altro detenuto. Danilo Primi, consigliere nazionale Uspp, torna ad attaccare l’amministrazione. "Siamo allo sbando - dice Primi - è l’ennesimo episodio: ieri il cellulare e oggi una tragedia. Cosa bisogna attendere prima di intervenire? Questo dipende dal fatto di voler tenere detenuti con problemi psichici e di droga che sono ingestibili e per i quali il personale della polizia penitenziaria non è formato. È questo, però, il modo in cui l’amministrazione pensa di gestire gli istituti. Non abbiamo più parole per commentare situazioni spiacevoli che ormai da troppo tempo si ripetono nel nostro carcere. È indispensabile che tutte le forze sindacali, a livello nazionale, scendano in piazza contro l’amministrazione che ci ha abbandonato. Siamo stanchi anche di ripeterlo ogni giorno. Vogliamo rispetto e garanzie, pretendiamo soluzioni - conclude Primi - perché così, davvero, non se ne può più". Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere, detenuti senz’acqua per 6 ore al giorno di Marco Maffongelli Cronache di Caserta, 26 agosto 2016 La denuncia degli ospiti: rinchiusi tutto il tempo e stop alle visite mediche da inizio agosto. In più lamentano l’assenza di ventilatori per contrastare il caldo e la mancata sostituzione dei materassi. Lo stato dì emergenza all’interno della Casa circondariale non pare avere fine. Alcune settimane fa l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata sulla grave situazione che si registra nella struttura detentiva. Più volle i detenuti hanno evidenziato le gravi violazioni in materia di diritti umani e che tanno portato l’Italia, visto che la situazione è comune anche a gran parte degli istituti di pena, a subire sanzioni da parte della Corte di Strasburgo. Il problema maggiore riguarda la mancanza dell’allaccio alla condotta idrica pubblica. Questo impone alla struttura di utilizzare, per l’approvvigionamento idrico, pozzi e cisterne. Ai piani più ahi spesso l’acqua corrente non arriva e sono innumerevoli i disagi in questo periodo di gran caldo. Una soluzione sembrava essere stata trovata due anni fa, quando furono stanziati i fondi per consentire l’allaccio alla condotta comunale, ma da allora nulla è stato fatto. Ultimamente la situazione è tornata di stretta attualità, tanto da essere anche tema di incontri istituzionali e di scambi dì battute in consiglio comunale. Da Palazzo Lucarelli hanno assicurato che le procedure sono state attivale e l’iter va avanti sia per quel che concerne la progettazione dell’opera che la successiva esecuzione, anche se i tempi non saranno brevissimi. Dal canto loro però i detenuti lamentano condizioni quotidiane mollo difficili: per 6 ore al giorno, infatti, non è presente acqua corrente. Per diversi giorni è mancata l’acqua calda e non viene concesso di poter lasciare le celle dalle 9 alle 17, come invece sarebbe previsto secondo gli stessi detenuti. Il gran caldo, poi, complica la situazione anche perché nel carcere di Santa Maria Capua Volere non sono previsti ì ventilatori e non viene effettuata a scadenze regolari la prevista sostituzione dei materassi. Infine gli ospiti hanno evidenziato che dall’inizio di agosto sono state sospese le visite mediche a cui ogni detenuto ha diritto. Insomma, una situazione insopportabile. legata a doppio filo anche con il problema del sovraffollamento e che si riflette anche sugli agenti di Polizia penitenziaria, che non riescono a svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro, dovendo far fronte essi stessi a carenze di organico e a disagi. Castrovillari (Cs): visita dei Radicali Italiani alla Casa circondariale di Emilio Enzo Quintieri emilioquintieri.com, 26 agosto 2016 Nei giorni scorsi, unitamente all’amica Valentina Moretti, ho nuovamente visitato la Casa circondariale di Castrovillari "Rosetta Sisca". Nella circostanza siamo stati accolti e poi accompagnati nel giro ispettivo dal Capo dell’Area Giuridico Pedagogica Dott.ssa Maria Pia Patrizia Barbaro, dal Commissario Capo Dott.ssa Soccorsa Irianni, dal Commissario Capo Dott. Carmine Di Giacomo e dal Sovrintendente Antonio Armentano, rispettivamente Coordinatore del Nucleo Traduzioni e Piantonamenti e Responsabile del Settore Femminile, Vice Comandante di Reparto e Coordinatore della Sorveglianza Generale della Polizia Penitenziaria di Castrovillari. Nell Istituto diretto dal Dirigente Dott.ssa Maria Luisa Mendicino, al momento della visita, vi erano 146 detenuti (19 donne), 40 dei quali stranieri (3 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 122 posti (24 in esubero), con le seguenti posizioni giuridiche: 37 giudicabili, 11 appellanti, 9 ricorrenti, 81 definitivi di cui 2 ergastolani. Tutte le persone ristrette appartengono al Circuito Penitenziario della Media Sicurezza. 1 solo detenuto era in permesso premio ex Art. 30 ter O.P. e 3 i semiliberi fruitori di licenza premio ex Art. 52 O.P., benefici concessi dal Sig. Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Dott.ssa Silvana Ferriero. Per quanto riguarda il lavoro intramurario, 35 sono i detenuti assunti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria ed altri 2 assunti alle dipendenze dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Altri 18 detenuti lavorano all’esterno dell’Istituto secondo quanto previsto dall’Art. 21 O.P. (da maggio ad agosto vi è stato un incremento di 7 unità) e tra questi 6, previo corso di formazione professionale, sono impegnati come "Sentinelle Antincendio Boschivo" all’interno del Parco Nazionale del Pollino, attività che andrebbe potenziata e replicata in tutti i Penitenziari calabresi. Grazie alla Cassa delle Ammende è stato finanziato il progetto "Area Verde" che ha permesso di assumere, temporaneamente, altri 5 detenuti che, previo corso di formazione professionale tenuto da Federimpresa, si stanno occupando della realizzazione dell’opera, quasi ultimata e prossima all’apertura. Sono presenti 22 detenuti tossicodipendenti, 43 con problematiche psichiatriche ed 1 con disabilità motorie. Nel 2017, sino al momento della visita, si sono verificati i seguenti "eventi critici": 1 detenuto deceduto per cause naturali, 4 atti di autolesionismo e 2 tentati suicidi. Tutti i corsi istituiti nell’A.S. 2016/2017 sono stati regolarmente conclusi e la Casa Circondariale di Castrovillari, con il plauso del Ministero della Pubblica Istruzione per essere stata postazione di ricezione dei testi per le prove nazionali d’esame, scritte e online, è stata Sede d’Esami di Stato, ove si sono diplomati 5 detenuti di cui 3 dell’Istituto Alberghiero e 2 dell’Istituto Industriale. Numerose sono le attività culturali, ricreative e sportive realizzate nel primo semestre del 2017, anche in collaborazione con la Società Esterna come prevede la Legge Penitenziaria. Tra queste attività anche lo Sportello di Assistenza Fiscale e di Patronato della Confagricoltura di Cosenza per i detenuti e gli Operatori Penitenziari, avviato su proposta dei Radicali Italiani, subito positivamente accolta dall’Amministrazione Penitenziaria centrale e periferica. Il tutto è stato possibile nonostante la carenza del personale della professionalità giuridico pedagogica. Invero, nell’Istituto, sono presenti solo 2 Funzionari di cui 1 con funzioni di Capo Area e 1 presente solo per due giorni a settimana (18 ore). La terza unità, già da tempo assente, a seguito di nulla osta del Superiore Ufficio Dipartimentale, è stata trasferita ad altra Amministrazione. I 2 Funzionari Giuridico Pedagogici si avvalgono della collaborazione stabile di un Collaboratore Amministrativo con il ruolo di Responsabile della Segreteria Tecnica. Si sono svolte, con cadenza regolare, le riunioni del Gruppo di Valutazione Multidisciplinare, che ha contribuito ad una migliore conoscenza dell’utenza, creando rapporti sinergici tra i vari Operatori in un clima di distesa collaborazione. La Delegazione ha visitato tutti i Reparti detentivi (1, 2 e 3 A e B ed il Femminile) riscontrando che sono ancora in corso i lavori di rifacimento dei locali doccia in comune. Rispetto alle direttive sull’Emergenza Caldo varate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Direzione dell’Istituto, si è attivata nei limiti del possibile : sono stati implementati i frigoriferi mediante l’acquisto di un frigo anche nella Sezione Semilibertà, sono stati installati dei ventilatori nelle Sale Colloquio e sono state avviate le procedure per la installazione di punti idrici in tutte le aree passeggio, é stata concessa ai detenuti la possibilità di restare nella Saletta di Reparto invece di recarsi nel cortile passeggio nelle ore più calde della giornata e sono stati aperti i portoni blindati delle camere di pernottamento anche nelle ore notturne. Nel Femminile, alle detenute, con Ordine di Servizio del Direttore del 27 luglio, in via sperimentale ed in attesa dell’attivazione del modello operativo della "sorveglianza dinamica", grazie alla proposta dei Radicali Italiani, è stato concesso nelle giornate festive di poter consumare il pranzo collettivamente all’interno della Saletta ricreativa di Reparto. Inoltre, a tutta la popolazione detenuta, visto che nell’Istituto vi sono problemi di carenza idrica, la Direzione dell’Istituto ha donato gratuitamente 1 cassa d’acqua a settimana (6 bottiglie per ogni persona detenuta), a spese dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono state comunque rilevate delle criticità che saranno approfondite e portate a conoscenza delle Superiori Autorità Penitenziarie, della Magistratura di Sorveglianza e del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti. Martedì 29 p.v., nel pomeriggio, visiteremo la Casa di Reclusione di Rossano. Elba (Li): quel link solidale tra carcere modello e hotel extralusso di Martina Valentini valori.it, 26 agosto 2016 Ci sono tante belle storie di reinserimento sociale attraverso la continuità del rapporto di lavoro in giro per l’Italia: come quella che possono scoprire i visitatori dell’Elba e di Pianosa, due delle perle dell’Arcipelago Toscano. Nella Spiaggia della Biodola, la più famosa dell’Elba per le sue acque cristalline, si innalza l’Hotel Hermitage, dove in cucina lo chef Paolo Balestrazzi racconta di una collaborazione tutt’altro che casuale: pomodori, zucchine, insalata e fagiolini e tante altre verdure servite ogni giorno sono prodotti dalla cooperativa San Giacomo, composta da ex-detenuti che lavorano nell’Isola di Pianosa "Questa collaborazione ha un doppio valore: la certezza di prodotti di ottima qualità in cucina, coltivati senza l’uso di prodotti chimici e colti al momento giusto senza soste in celle frigorifere e senza conservanti, e la certezza di contribuire ad un progetto di reinserimento sociale" A fine 800 venne istituita dal Granducato di Toscana la colonia penale agricola di Pianosa e furono inviati sull’isola i condannati destinati ad occuparsi dei lavori nei campi. Il carcere - in attività durante l’epoca fascista - è stato poi trasformato in penitenziario di massima sicurezza attivo fino al 2011. Da quel momento in poi l’isola è stata aperta - seppure in forma ‘ridottà con delle regole speciali - ai turisti, che possono passare anche la notte nell’unico hotel dell’isola, diretto da una cooperativa di volontari e da detenuti in regime di semilibertà del carcere di Porto Azzurro. Un fiore all’occhiello del sistema carcerario italiano, che altrove mostra segni di logoramento preoccupanti: i dati aggiornati al 30 giugno 2016 - contenuti nel rapporto Antigone 2016 - parlano di 54.072 detenuti, a fronte dei 52.754 dello stesso mese del 2015 (incremento causato soprattutto dall’aumento delle custodie cautelari). E con i numeri assoluti sale anche il tasso di sovraffollamento che arriva a una media del 113,2% con alcuni penitenziari (Como con il 186,6% e Busto Arsizio con 174,2%) nei lo spazio minimo di 3 mq per detenuto è a rischio. L’obiettivo principale della cooperativa San Giacomo di Pianosa è favorire nuove opportunità di confronto e di lavoro, per permettere ai detenuti di continuare il loro impegno e costruire professionalità spendibili anche dopo il carcere. Attività edili, artigianali ma anche agricole, che hanno favorito la coltivazione in piccole aree dell’Isola di Pianosa, che garantiscono la produzione di ortaggi a km 0 biologici. Il tutto diretto dalla casa di reclusione di Porto Azzurro all’Elba e in collaborazione con il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e il Ministero della Giustizia. Teramo: D’Ascenzo al carcere di Castrogno, per un libro con le testimonianze dei reclusi Il Centro, 26 agosto 2016 Da un progetto dedicato alla letteratura e scrittura creativa rivolto ai detenuti della prima sezione del carcere di Castrogno è nato il romanzo dal titolo "I numeri dispari sono di troppo". Il lavoro è stato coordinato dallo scrittore giuliese Salvatore D’Ascenzo, in collaborazione con la casa editrice Evoé e l’area educativa della casa circondariale. Il volume si sviluppa in due parti, una romanzata ed una dedicata alle testimonianze vere. Protagonisti sono gli stessi detenuti che hanno preso parte al progetto. Ne vengono fuori ritratti di uomini consapevoli dei propri errori e per questo pronti a pagare, ma non a cedere la propria dignità, in una sorta di ricerca dell’unica forma di evasione possibile: il confronto col proprio passato e la scoperta del valore della fantasia. Il lettore si trova così davanti non più un collettivo da punire, la cui identità è affidata unicamente ad un numero di matricola, ma uomini col proprio carico di emozioni e speranze, che si sono trovati sulla via sbagliata. Uomini al posto dei quali potrebbe trovarsi ciascuno, poiché "il passo è breve". La scrittura di D’Ascenzo è sempre stata caratterizzata da un forte impegno sociale. Ha svolto attività umanitaria in Italia e all’estero ed è stato inviato per la casa editrice Evoé nel Nepal distrutto dal terremoto del 2015, dando alle stampe il reportage "Mattoncini rossi" che è stato tradotto e distribuito in Canada col titolo Red Bricks. I fondi raccolti dalla vendita del volume hanno contribuito alla ricostruzione di una scuola nel distretto di Dhading a Kathmandu. A ottobre i suoi due nuovi romanzi saranno editi dalla Infinito edizioni e dalla casa editrice "Il Ciliegio", con le quali sarà presente alla fiera di Roma e al salone del libro di Torino. Verbania: dal carcere al palcoscenico, detenuti in scena a Villa Olimpia verbanonews.it, 26 agosto 2016 Sabato 26 agosto, alle ore 20.30, a Villa Olimpia avrà luogo la pièce teatrale "Amunì - storia di figli in attesa dei loro padri", della compagnia teatrale della Casa di Reclusione di Saluzzo. Il laboratorio teatrale per i detenuti della Casa di Reclusione "R. Morandi" ha inizio nell’ottobre 2002. Il progetto nasce come percorso di formazione teatrale, luogo di espressione e possibilità di creazione artistica con il fine di allestire, ogni anno, uno spettacolo teatrale aperto al pubblico esterno. Da molti anni dunque, gli operatori di "Voci Erranti" sono attivi all’interno di questa realtà detentiva, dove lavorano con passione e dedizione insieme agli attori che nel tempo hanno restituito in maniera stupefacente una risposta positiva agli stimoli che il teatro offre loro. "Per Villa Olimpia e per la Cooperativa Divieto di Sosta, è motivo di grande gioia poter accogliere uno degli eventi più significativi tra quelli della rassegna Altri Mondi, per affinità di obiettivi e condivisione di storie ed esperienze. Voci Erranti ha ormai, come Divieto di Sosta, una tradizione riguardo al lavoro in carcere, che viene svolto con un approccio di fondamentale importanza e grande efficacia nell’elaborazione dell’esperienza detentiva delle persone coinvolte nei laboratori teatrali. Il carcere che incontra le persone fuori dalle mura dunque, e lo fa attraverso un’arte che racconta perché vuole raccontare, che avvicina e vuole avvicinare. Un’occasione insomma alla quale non rinunciare, quella di Partecipare ad un Incontro fuori dall’ordinario" spiegano gli organizzatori. Lo spettacolo inizierà alle 20.30 puntuali, si terrà anche in caso di pioggia e sarà preceduto dalla cena presso il Ristorante Sociale - per il quale è gradita la prenotazione -. La serata è realizzata con il contributo di Fondazione Comunitaria Vco, e Lions Club Verbania ed è patrocinata dal Comune di Verbania. Roma: "Altri Sguardi, Cinema e solidarietà in carcere", progetto per i detenuti di Rebibbia rbcasting.com, 26 agosto 2016 Sarà presentato alla 74esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia "Altri Sguardi - Cinema e solidarietà in carcere", con Ilaria Spada, Raffaella Mangini e Clementina Montezemolo, ideatrici e promotrici della rassegna. Un incontro per presentare questo speciale progetto destinato all’Istituto penitenziario di Rebibbia a Roma con la partecipazione di Laura Delli Colli, Presidente Sngci. Una rassegna cinematografica dedicata ai detenuti. Una loro Giuria assegnerà il Premio al Miglior Film tra i cinque titoli che saranno proposti. Primo film in concorso "Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni. Con un laboratorio di scrittura per l’area femminile. Promosso dall’Associazione Mètide. Il cinema in carcere per dedicare una serie di appuntamenti al confronto e alla discussione su temi sociali suggeriti da alcuni film dell’ultima stagione. Un progetto che nasce per condividere nuovi spunti di discussione e creare dibattito ed empatia sulla realtà sociale, aprendo simbolicamente le porte del carcere a un confronto che offra, oltre all’intrattenimento, nuove possibilità di crescita culturale ma anche un momento di riflessione e confronto tra i detenuti con autori e/o protagonisti dei film selezionati, giornalisti, operatori culturali e sociali, interni ed esterni alla struttura penitenziaria. La rassegna si svilupperà in sei giornate per cinque film in concorso. Il film di apertura sarà "Tutto quello che vuoi" di Francesco Bruni che sarà presente insieme ad Andrea Carpenzano e ad altri interpreti nel cast del film. Ogni giornata si aprirà con una proiezione, introdotta e seguita dal dibattito con autori, interpreti ed esperti. Ogni appuntamento sarà seguito da 100 detenuti (20 di loro, impegnati anche come giurati, saranno fissi, mentre gli altri 80 vedranno i film a rotazione). Appuntamento martedì 5 settembre, ore 15.00. Italian Pavilion - Hotel Excelsior - Sala Tropicana (Lungomare Guglielmo Marconi, 41). Roma, Carcere di Rebibbia 13 settembre-19 ottobre 2017. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. Per prevenire i delitti leggi chiare e semplici commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 26 agosto 2016 L’etimo di "suggestivo" ci dice che tale aggettivo proviene dal verbo "suggerire": ecco perché i nostri codici di procedura proibiscono di porre al testimone delle domande suggestive, vale a dire tali da indicare implicitamente, cioè da suggerire, la risposta che si attende di ricevere. Al tempo di Beccaria valeva la medesima regola, perfino ovvia allo scopo di non influenzare le deposizioni dei testimoni in un senso o nell’altro. Sia detto fra parentesi, tale divieto non vale solo per le parti - cioè il pubblico ministero e il difensore - ma vale anche per il giudice, il quale, nel porre una domanda al teste, non può certo suggerire implicitamente la risposta che da lui si attende: la nostra giurisprudenza sul punto arranca, stentando ad ammettere questa lampante verità, quasi che il giudice, per sue misteriose virtù, possa sottrarsi alle normali leggi della razionalità giuridica, e spingersi lecitamente a suggerire al teste la risposta alla propria domanda. Ma la cosa davvero interessante è che Beccaria trae spunto da questa regola procedurale, per tornare a scagliarsi contro la tortura con un argomento ineccepibile. Infatti, egli stigmatizza un ordinamento giuridico che da un lato proibisce le domande suggestive, mentre dall’altro autorizza la tortura: cosa più "suggestivo" del dolore fisico insopportabile? Ecco la stridente contraddizione degli ordinamenti del suo tempo, che egli non manca di rilevare e di censurare. Beccaria non giunge però ad ammettere che l’accusato possa rifiutarsi di rispondere, come invece garantito nei codici di procedura penale dei moderni Stati di diritto, con l’istituzione del "diritto al silenzio" dell’imputato, limitandosi egli a rilevare che nessuna pena ulteriore va all’accusato irrogata nel caso in cui le domande postegli siano inutili, in quanto certa la sua colpevolezza. Anche qui dunque, dominante, la prospettiva utilitaristica. Tace invece, e a ragione, Beccaria su delitti che davano luogo alla pena del rogo; e ne tace perché non di delitti si trattava, ma di peccati e, come è noto, egli distingue nettamente e separa i primi dai secondi, questi ultimi dovendosi lasciare alla competenza di altra autorità. Ma siccome abbiamo visto più volte che Beccaria non tradisce la propria ispirazione utilitarista, non poteva mancare un accenno a quelle che chiama "false idee di utilità". Tali sono le leggi che sacrificano vantaggi reali a favore di inconvenienti puramente immaginari, quelle che toglierebbero agli uomini "il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega". Con un pizzico di umorismo che non guasta, Beccaria rende benissimo la sua idea, che forse oggi potremmo definire, forzando un po’, antiproibizionista. Così, Beccaria si dichiara contrario alle leggi che proibiscono di portare armi, in quanto esse disarmeranno soltanto coloro che non sono "inclinati" a portarle, mentre i veri delinquenti che si avvalgono delle armi come normale strumento delle loro malefatte non si lasceranno certamente scoraggiare da una legge che punisce il porto dell’arma, se questa serve per commettere i ben più gravi delitti ai quali si son già preparati. Massima e certa utilità sta dunque, per Beccaria, più che nel punire i delitti, nel prevenirli. Il modo più sicuro per il giurista milanese sta nel fare leggi "chiare e semplici", tali da poter essere da tutti intese e seguite. Ora, a parte il limite del razionalismo illuminista, di cui anche Beccaria partecipava, in forza del quale basterebbe conoscere la verità delle cose, per seguirla (cosa che non è, perché non sempre la volontà segue la ragione: e basti citare in proposito un celebre distico di Terenzio: "video bona proboque, deteriora sequor"), rimane il fatto incontestabile che in un sistema di leggi scritte, quale il nostro, o esse sono chiare e comprensibili oppure sono inutili. Basti por mente alla situazione italiana di oggi, dove un esasperante ed intricatissimo groviglio di norme e precetti che si rincorrono, si sovrappongono, si escludono vicendevolmente, si presenta come un vero rompicapo per il giurista. E da qui naturalmente una pluralità di interpretazioni, di rimandi, di conflitti: insomma, la incertezza del diritto elevata a fisiologico canone interpretativo. Beccaria ne sarebbe inorridito, bollando buona parte delle nostre leggi vigenti con l’infamante marchio della inutilità. CAPITOLO XXXVIII. INTERROGAZIONI SUGGESTIVE, DEPOSIZIONI Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che chiamansi suggestive in un processo: quelle cioè secondo i dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere, nelle circostanze d’un delitto: quelle interrogazioni cioè che, avendo un’immediata connessione col delitto, suggeriscono al reo una immediata risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti devono per dir così inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una risposta che lo metta al coperto dell’accusa, o forse perché sembra contro la natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé. Qualunque sia di questi due motivi è rimarcabile la contradizione delle leggi che unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocché qual interrogazione più suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica nella tortura, perché il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole suggerirà la confessione onde liberarsi dal tormento presente più efficace per allora che non il dolore avvenire. Il secondo motivo è ad evidenza lo stesso, perché se una interrogazione speciale fa contro il diritto di natura confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto più facilmente: ma gli uomini più dalla differenza dè nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli altri abusi della grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari umani, è notabile quello che rende nulla ed inefficace la deposizione di un reo già condannato; egli è morto civilmente, dicono gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non è capace di alcuna azione. Per sostenere questa vana metafora molte vittime si sono sacrificate, e bene spesso si è disputato con seria riflessione se la verità dovesse cedere alle formule giudiciali. Purché le deposizioni di un reo condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia, perché non dovrassi concedere, anche dopo la condanna, e all’estrema miseria del reo e agl’interessi della verità uno spazio congruo, talché adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa giustificar sé od altrui con un nuovo giudizio? Le formalità e le ceremonie sono necessarie nell’amministrazione della giustizia, sì perché niente lasciano all’arbitrio dell’amministratore, sì perché danno idea al popolo di un giudizio non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare, sì perché sugli uomini imitatori e schiavi dell’abitudine fanno più efficace impressione le sensazioni che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge fissarsi in maniera che nuocano alla verità, la quale, per essere o troppo semplice o troppo composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii il popolo ignorante. Finalmente colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle più gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano così la necessità dell’esempio che devono al pubblico. Non è necessaria questa pena quando sia fuori di dubbio che un tal accusato abbia commesso un tal delitto, talché le interrogazioni siano inutili, nell’istessa maniera che è inutile la confessione del delitto quando altre prove ne giustificano la reità. Quest’ultimo caso è il più ordinario, perché la sperienza fa vedere che nella maggior parte dè processi i rei sono negativi. CAPITOLO XXXIX. DI UN GENERE PARTICOLARE DI DELITTI Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi che io ho ommesso un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand’era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca moltitudine l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell’ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno che il luogo, il secolo e la materia non mi permettono di esaminare la natura di un tal delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno stato, contro l’esempio di molte nazioni; come opinioni, che distano tra di loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo insieme si rischiarano, e soprannotando le vere, le false si sommergono nell’oblio, altre, mal sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autorità e di forza. Troppo lungo sarebbe il provare come, quantunque odioso sembri l’impero della forza sulle menti umane, del quale le sole conquiste sono la dissimulazione, indi l’avvilimento; quantunque sembri contrario allo spirito di mansuetudine e fraternità comandato dalla ragione e dall’autorità che più veneriamo, pure sia necessario ed indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con riconosciuta autorità lo esercita. Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, dè quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia. CAPITOLO XL. FALSE IDEE DI UTILITÀ Una sorgente di errori e d’ingiustizie sono le false idee d’utilità che si formano i legislatori. Falsa idea d’utilità è quella che antepone gl’inconvenienti particolari all’inconveniente generale, quella che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli, che dice alla logica: servi. Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale. Falsa idea d’utilità è quella che vorrebbe dare a una moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l’ordine che soffre la materia bruta e inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza e con forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, dè quali brevissima e debole è l’impressione, se una forza d’immaginazione, non ordinaria nella umanità, non supplisce coll’ingrandimento alla lontananza dell’oggetto. Finalmente è falsa idea d’utilità quella che, sacrificando la cosa al nome, divide il ben pubblico dal bene di tutt’i particolari. Vi è una differenza dallo stato di società allo stato di natura, che l’uomo selvaggio non fa danno altrui che quanto basta per far bene a sé stesso, ma l’uomo sociabile è qualche volta mosso dalle male leggi a offender altri senza far bene a sé. Il dispotico getta il timore e l’abbattimento nell’animo dè suoi schiavi, ma ripercosso ritorna con maggior forza a tormentare il di lui animo. Quanto il timore è più solitario e domestico tanto è meno pericoloso a chi ne fa lo stromento della sua felicità; ma quanto è più pubblico ed agita una moltitudine più grande di uomini tanto è più facile che vi sia o l’imprudente, o il disperato, o l’audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti più grati e tanto più seducenti quanto il rischio dell’intrapresa cade sopra un maggior numero, ed il valore che gl’infelici danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che soffrono. Questa è la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle nuove, che l’odio è un sentimento tanto più durevole dell’amore, quanto il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti, che indebolisce il secondo. CAPITOLO XLI. COME SI PREVENGANO I DELITTI È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi ed opposti al fine proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti così nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtù ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso dè suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto, ve ne son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle male leggi; e se la probabilità dei delitti è proporzionata al numero dei motivi, l’ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi. Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono più voluttuosi, più libertini, più crudeli degli uomini liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl’interessi della nazione, veggono grandi oggetti, e gl’imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dall’annientamento in cui si veggono; avvezzi all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito dè loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli determina. Se l’incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà. Migranti. Il Papa e "Civiltà Cattolica", non fanno sconti di Bia Sarasini Il Manifesto, 26 agosto 2016 Il Papa mette la sua autorità simbolica e la rete diplomatica del Vaticano a un’idea di convivenza umana che non è la più popolare oggi nel pianeta. E la rivista dei gesuiti mette all’indice Nixon, Bush, Trump e Bannon. Parla al mondo, il messaggio che il Papa ha rivolto alla giornata dei migranti e dei rifugiati del gennaio 2018. Con una nettezza a cui è impossibile sfuggire dice che le migrazioni sono il fatto epocale che cambierà il modo di vivere e di pensare. Non dà cifre, non elenca dati, il Papa. Ne ricordo uno, per comprendere di cosa si parla: nel 2016, i migranti, cioè tutti coloro che si spostano sulla superficie del pianeta, sono stati 244 milioni, circa il 41% in più del Duemila. Il messaggio di Bergoglio va dritto al cuore duro della politica e della convivenza contemporanea, con un linguaggio semplice e chiaro, e molto concreto. Questo è il punto di svolta: papa Francesco non si limita a esortare, a sollecitare, con notevole realismo indica nel dettaglio cosa è necessario e possibile fare. E questo è insostenibile, quasi per tutti i politici. Perché nel breve testo è contenuta una carta, scritta con consapevolezza del diritto internazionale, per affrontare senza isteria e strumentalizzazioni la trasformazione - o metamorfosi come forse è più preciso dire - del nostro mondo. I quattro "comandamenti" che sono alla base del messaggio, già enunciati in altre occasioni, ovvero "accogliere, proteggere, promuovere e integrare", vengono declinati in azioni concrete, limpide, come: "programmi di sponsorship privata e comunitaria", "corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili", "visti temporanei speciali" per chi fugge da zone di guerra. E naturalmente ciò che ha fatto più clamore: la cittadinanza sicura per chi nasce dovunque nasca, oltre che il diritto alla propria cultura. L’effetto è così sorprendente da essere spiazzante. E non penso alle diverse destre, in Italia e nel mondo, ai Salvini che gridano all’ingerenza, "se li prenda a casa propria", "bene, ha deciso di farli tutti cittadini del Vaticano". Le agenzie internazionali della paura come chiave del consenso elettorale, non possono che essere colpite nel vivo da chi ammonisce che i principi evangelici non sono buoni sentimenti, ma ispirazione per la vita pratica. Colpiscono le reazioni della sinistra. Di quella di governo non c’è da meravigliarsi. Il punto è che nessuno, certamente in Europa, è in grado di fare propria la carta ispirata ai quattro comandamenti di Francesco. E il fatto di averla stesa, messa nero su bianco senza possibilità di equivoci, è perlomeno imbarazzante. Ci sono poi le reazioni anti-clericali, quelle ostili a-prescindere, perché si tratta di un Papa e del Vaticano, quindi non bisogna fidarsi comunque. Eppure non si tratta di fidarsi, e neppure considerare "buono" tutto quello che fa e dice papa Francesco. Il punto è che lui, questo Papa e non altri, mette a disposizione la sua autorità simbolica e la considerevole terrena rete diplomatica del Vaticano a un’idea di convivenza umana che non è la più popolare oggi, nel pianeta. È un passaggio che va analizzato con tutta l’attenzione possibile, e non solo dai credenti che vengono sollecitati alle "opere". Un segnale forte è stato dato dall’editoriale dalla rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica dello scorso luglio, a firma del direttore Antonio Spataro e di Marcelo Figueroa, pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano. Una critica diretta e chiara del "sorprendente ecumenismo" che viene dall’alleanza negli Usa tra il fondamentalismo evangelico e il fondamentalismo cattolico del tutto inedito in un testo che comunque viene letto in Vaticano, è che vengono fatti dei nomi di politici ispirati a queste idee, da Steve Bannon e Trump, passando per Nixon e Bush. Ne sono nate controversie aspre e forti, anche se in Italia hanno curiosamente una scarsa risonanza. In ogni caso alle dimissioni di Bannon, qualcuno ha commentato. "Francesco ha vinto". E questo è il punto. È riduttivo pensare che papa Bergoglio intenda entrare nella vita politica corrente degli Stati, sia la piccola Italia o la grande potenza degli Stati Uniti. Il peso che Francesco mette in gioco è sugli orientamenti, le linee di fondo. E nel visibile smarrimento contemporaneo si pone come caposaldo di una controtendenza, rispetto sia alle scelte della politica e sia ai più diffusi sentimenti dei popoli. Tutto il resto, compreso il pensare che siano possibili accordi con politiche di respingimenti, è assurdo o pretestuoso. Basta leggere e ascoltare. Migranti. Gentiloni sposa la linea Minniti: "non si accoglie senza legalità" di Fabio Martini La Stampa, 26 agosto 2016 Il premier era stato informato dal Viminale del piano sugli sgomberi. Pd in fermento. Orfini: "Blitz inadeguato, non è un caso di ordine pubblico". Nelle ultime settimane il profilo del governo sta cambiando. Il principio della legalità - dalle Ong agli sgomberi degli abusivi a Roma - sta corroborando l’immagine di "forza tranquilla" espressa sinora dalla figura del presidente del Consiglio: Paolo Gentiloni sta assecondando questa correzione e il silenzio-assenso sugli scontri di piazza a Roma lo conferma. Nessuna dichiarazione pubblica su una vicenda che, alla resa dei conti si è conclusa con qualche contuso e molte polemiche, ma l’appoggio alla linea Minniti da parte di Paolo Gentiloni (espressa personalmente al ministro), si riassume in due sostantivi: "L’accoglienza non può essere disgiunta dalla legalità". In altre parole soltanto governando i flussi si può garantire un’accoglienza umana per i migranti. Sia alle frontiere che nelle città, dove va salvaguardato il principio della legalità. Per Gentiloni questa deve essere - e deve restare - la linea di una sinistra di governo e infatti in queste ore il presidente del Consiglio insiste su una espressione che riassume l’"ideologia" del governo nei prossimi mesi: "Serve una conclusione ordinata della legislatura" su tutti i dossier, dalla politica per i migranti alla legge di Stabilità. A Palazzo Chigi nei giorni scorsi sono stati informati sulla decisione delle forze di polizia di intervenire e nessuna obiezione è stata opposta alla attuazione della direttiva del Viminale che prevede il progressivo svuotamento di tutte le occupazioni abusive. Naturalmente la gestione concreta degli interventi spetta a prefetto, questore e forze sul campo e su questo aspetto eventuali obiezioni e critiche non cambiano - nell’ottica del governo - l’opportunità dell’intervento. Dunque, il silenzio di queste ore del presidente del Consiglio è da intendersi come un silenzio-assenso alla linea della legalità interpretata dal ministro dell’Interno. Una linea che, dal punto di vista comunicativo, si traduce in un approccio sobrio, riassunto nel concetto: "parlino i fatti". Un approccio molto evidente sulla vicenda degli sbarchi. Da metà luglio, come è noto, gli arrivi di migranti si sono drasticamente ridotti, con un calo del 72 per cento nel mese di agosto, ma Gentiloni e Minniti - con una differenza abissale rispetto al precedente governo - hanno omesso di sottolineare un dato così eclatante. Un omissis naturalmente a tempo, nella speranza che il dato si consolidi e diventi in modo inoppugnabile la conseguenza oggettiva delle scelte del governo. Una sordina che presidente del Consiglio e ministro dell’Interno hanno deciso di concerto. Una "coppia", quella Gentiloni-Minniti, che comincia a fare ombra alle altre "filiere" del Pd, quelle che si preparano a contendersi la gestione della campagna elettorale. Sotto questo punto di vista si può leggere la sortita fortemente critica da parte del presidente del Pd Matteo Orfini: "Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico". E ancora: "A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti". Una posizione fortemente critica con la quale Orfini, da una parte si candida a "leader" della sinistra Pd, in coppia col ministro Maurizio Martina e dall’altra "prenota" un posto al sole nella battaglia interna, che si preannuncia durissima, per la conquista di uno spazio politico in campagna elettorale al fianco del leader Matteo Renzi. In vista di quell’appuntamento le varie aree - Orfini-Martina, Franceschini, Delrio - contenderanno lo spazio di visibilità al tandem che finora ha mostrato qualità politica e crescente consenso tra l’opinione pubblica: la coppia Gentiloni-Minniti. Migranti. Minniti impone la svolta: stop a nuovi sgomberi se non ci sono case pronte di Fabio Tonaco La Repubblica, 26 agosto 2016 Nell’affannosa ricerca di un equilibrio politicamente accettabile tra il rispetto della legalità dei luoghi e la tutela di chi non ha un tetto sulla testa, il Viminale, dopo la guerriglia di piazza Indipendenza, fissa quello che sembra essere un punto di non ritorno. Mai più sgomberi così. Mai più rifugiati buttati fuori da palazzi occupati abusivamente se prima non è stata garantita loro una sistemazione alternativa. Due giorni dopo il getto degli idranti puntato in faccia ai migranti, gli scontri davanti alla sede del Consiglio superiore della magistratura, le immagini delle bombole a gas scaraventate in strada, il funzionario di polizia che ordina di spaccare delle braccia, una fonte qualificata del ministero dell’Interno parla così a Repubblica. "La prossima settimana scriveremo nuove linee guida per effettuare gli sgomberi ordinati dai giudici, e le invieremo a tutti i prefetti d’Italia. Tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove alloggiare chi ne ha diritto. È una regola di buon senso, e non sarà l’unica". La decisione è stata anticipata nel pomeriggio di ieri dal senatore del Pd e presidente della commissione Diritti umani Luigi Manconi, durante una trasmissione televisiva: "Non posso virgolettarlo, perché non sono stato autorizzato a farlo, ma posso dire che il ministro dell’Interno Minniti non autorizzerà altri sgomberi a Roma senza che vi siano pronte soluzioni abitative". Ora, tecnicamente, non spetta al ministro autorizzare o meno l’intervento in un immobile occupato per riconsegnarlo al legittimo proprietario: è un decreto prefettizio a disporlo, dopo aver acquisito il parere del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Però di prassi il Viminale viene sempre informato preventivamente. E può fare pressioni per una deroga dei termini o per dilazionare la procedure quando a richiederlo siano ragioni di sicurezza sociale. Quel che è accaduto nel pieno centro di Roma, cioè l’allontanamento di circa duecento rifugiati eritrei ed etiopi da un palazzo di via Curtatone occupato quattro anni fa e i tafferugli che ne sono seguiti per cacciarli dai giardini dove si erano accampati, non sembra essere figlio del decreto Minniti-Orlando sul decoro urbano, varato nel febbraio scorso e convertito in legge in aprile. L’articolo 11 ("Disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili") tratta sì del tema, ma richiamando una procedura già regolata da un’altra norma precedente. La novità sta piuttosto nell’inserimento esplicito di principi quali "la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale" e livelli assistenziali "che devono essere in ogni caso garantiti dalle Regioni e dagli enti locali". Esattamente quei principi fatti a pezzi due giorni fa. E che adesso provocano lo scaricabarile tra la sindaca Raggi e il governatore del Lazio Zingaretti. "Il decreto non c’entra niente, non c’è una stretta del Viminale sugli sgomberi né un calendario sui prossimi interventi", chiarisce la fonte ministeriale. Nessun piano preventivo, quindi. "Dobbiamo ancora emanare la direttiva per specificare e attuare i principi di quell’articolo". È un fatto, però, che il decreto faccia pendere l’ago della responsabilità della gestione dell’assistenza verso i municipi. Non fosse altro per quel comma alla fine dell’articolo 11 in cui si afferma che "il sindaco, in presenza di persone meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto a tutela delle condizioni igienico-sanitarie". Anche il capo della Polizia Franco Gabrielli, in un’intervista concessa a questo giornale, ha voluto ricordare la latitanza dell’attuale amministrazione Raggi nel dar seguito e concretezza alla "road map" sulle soluzioni alle occupazioni abusive della città, inaugurata proprio da Gabrielli quando era prefetto di Roma insieme all’allora commissario straordinario Tronca. Nelle settimane che hanno preceduto lo sgombero di via Curtatone, si sono tenuti almeno una decina di comitati in prefettura, e gli stessi proprietari dell’immobile si erano offerti di spostare una cinquantina di migranti in alcune case a Tivoli. Di fronte al loro rifiuto, nessuno è stato più in grado di trovare un modo valido per evitare che fossero lasciati senza un posto dove andare per quattro giorni. Al Viminale non hanno dubbi su chi avesse il compito di sbrogliare la matassa. "L’assistenza sociale è a carico al Comune". Migranti. Gli scontri di Roma, una sconfitta per la città e i rifugiati di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 26 agosto 2016 L’immagine di donne inermi investite dagli idranti antisommossa lascia un’inquietudine difficile da placare. Tuttavia è ancora più fuorviante fingere, come abbiamo fatto troppo a lungo, che nelle piazze e nelle strade delle nostre città siano normali e tollerabili i bivacchi. Negli scontri di piazza Indipendenza perdono, perdiamo, tutti. Lo Stato, i rifugiati, noi. Se c’era bisogno di mostrare al mondo le falle del nostro sistema d’accoglienza, beh, ci siamo riusciti. Se serviva conferma alle difficoltà di Virginia Raggi (del tutto assente in questa vicenda) nel gestire la drammatica complessità di Roma, l’abbiamo avuta. Ma fare dei poliziotti il capro espiatorio di tale disfatta aggiunge solo all’inadeguatezza della politica e delle istituzioni un carico di iniquità. Inutile nascondersi dietro un dito. L’immagine di donne inermi investite dagli idranti antisommossa lascia un’inquietudine difficile da placare. Sapere che alcune mamme, disperse coi loro bimbi dopo i tafferugli, dormono ora a terra, in qualche vicolo dietro le stazioni romane, è inaccettabile. E appare dunque mortificante il giubilo di certa destra sgangherata, sempre più dominata dalla xenofobia e dal culto del manganello. Tuttavia è ancora più fuorviante fingere, come abbiamo fatto troppo a lungo, che nelle piazze e nelle strade delle nostre città siano normali e tollerabili i bivacchi. O che siano da assumere come inevitabili occupazioni quali quella di via Curtatone (dove per ben quattro anni i migranti etiopi ed eritrei sono rimasti in attesa di sistemazione, prima d’essere sgomberati sabato scorso finendo per accamparsi in piazza Indipendenza) o come quella di piazza Santi Apostoli, prossimo probabile nodo di tensione e di scontro. Fa scandalo, sì, un funzionario che inciti a "spezzare le braccia" ai rifugiati in rivolta. Ma parliamo di una frase estrapolata nella mischia della piazza e duramente condannata dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, un servitore dello Stato davvero poco propenso a tollerare tra i suoi uomini derive "messicane". Piazza Indipendenza è il punto di ricaduta, tragico, di una lunga catena di omissioni politiche. Il palazzo di via Curtatone era diventato negli anni un hub dell’illegalità, con una minoranza di "regolari" che arrivava a affittare alloggi a chissà chi, chissà come. I rifugiati hanno rifiutato soluzioni alternative e il Comune non è mai riuscito a superare l’impasse. Di posti così a Roma ce ne sono decine, ma non è difficile capire come un luogo fuori controllo nel cuore della Capitale ponga, di questi tempi, anche questioni di sicurezza (alcuni eritrei venivano dal Belgio). Le responsabilità risalgono a ben prima della Raggi, tuttavia è lecito domandarsi dove fosse l’attuale sindaca in un pomeriggio drammatico come quello dell’altro ieri (a "occuparsi dei romani", ha detto, difendendola, Luigi Di Maio, come se piazza Indipendenza si trovasse invece su Marte). I migranti sono caduti in una trappola scavata da chi li usa e da chi li ignora fino al disastro; nell’illusione, alimentata da antagonisti e collettivi per la casa schierati accanto a loro, che l’assenza di regole potesse essere regola eterna essa stessa; nell’ignavia di chi, per anni, ha rimosso la questione. Mentre oggi i "collettivi" tornano in piazza, tutti i giochi politici sono aperti. La sinistra radicale si spinge a chiedere le dimissioni del ministro Minniti facendo da involontaria sponda alla destra salviniana. I Cinque Stelle si arroccano attorno alla sindaca. Di un piano per gestire e superare le occupazioni nessuno parla da un pezzo. Costa fatica e rende pochi voti. Migranti. Se la povertà è una colpa di Ezio Mauro La Repubblica, 26 agosto 2016 Il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Dai casi di cronaca, anche minimi, si ricava il segno dei tempi più che dai manifesti politici, proprio per la spontaneità degli eventi e la meccanica delle risposte da parte del potere pubblico e dell’opinione generale. In questo senso è difficile non trovare un collegamento emotivo, culturale e infine politico tra l’ultimo atteggiamento italiano nei confronti dei migranti sui barconi e le Ong di soccorso (criminalizzate in una vera e propria inversione morale) e lo sgombero degli abusivi dal palazzo nel centro di Roma, a colpi di idrante. La questione di fondo è che la povertà sta diventando una colpa, introiettata nella coscienza collettiva e nel codice politico dominante, così come il migrante si porta addosso il marchio dell’ultima mutazione del peccato originale: il peccato d’origine. Unite insieme dalla realtà dei fatti e dal gigantismo della sua proiezione fantasmatica, povertà e immigrazione, colpa e peccato recintano gli esclusi, nuovi "banditi" della modernità, perché noi - i garantiti, gli inclusi - non vogliamo vederli mentre agitano nelle nostre città la primordialità radicale della loro pretesa di vivere. Il fatto è che questi esseri umani ridotti a massa contabile, senza mai riuscire ad essere persone degne di una risposta umanitaria, e ancor meno cittadini portatori di diritti, sono improvvisamente diventati merce politica oltremodo appetibile, in un mercato dei partiti e dei leader stremato, asfittico, afasico. Impossibilitati a essere soggetto politico in proprio, si trovano di colpo trasformati in oggetto della politica altrui, che vede qui, sui loro corpi reali e simbolici, le sue scorciatoie alla ricerca del consenso perduto. Contro di loro si può agire con qualsiasi mezzo, meglio se esemplare. Senza terra e senza diritti, sono ormai senza diritto, i nuovi fuorilegge. Ci sono due elementi che hanno determinato questo cortocircuito: il primo è il sentimento di incertezza e di smarrimento identitario che è cresciuto nella fascia più fragile, più periferica, più isolata e più anziana della nostra popolazione di fronte all’aumento dell’immigrazione nel Paese. Un sentimento di solitudine a casa propria, di perdita del legame collettivo di un’esperienza condivisa, e quindi di indebolimento comunitario: che è ormai mutato in risentimento, annaffiato e concimato per anni da una predicazione politica selvaggia e irresponsabile, che trae le sue fortune dalla paura dei cittadini più deboli, puntando a infragilirli ancora invece che a emanciparli. Poi si è aggiunto il secondo elemento, psicopolitico. La sensazione che il mondo sia fuori controllo, che i fenomeni che ci sovrastano - crisi del lavoro, crisi economica, crisi internazionale con gli attacchi dell’Isis - non siano governabili, e che dunque il cittadino sia per la prima volta nella storia della modernità "scoperto" politicamente, non tutelato, nell’impossibilità di dare una forma collettiva alle sue angosce individuali, e nell’incapacità dei partiti, dei governi e degli Stati di trovare politiche che arrivino a toccare concretamente il modo di vivere degli individui che chiedono rappresentanza e non la trovano. Stiamo assistendo semplicemente - e tragicamente - al contatto e all’incontro tra la domanda politica più spaventata e meno autonoma degli ultimi anni e un’offerta politica gregaria del senso comune dominante, opportunistica, indifferenziata. La prima chiede tutela quasi soltanto attraverso l’esclusione, il respingimento, il "bando", accontentandosi di non vedere il fenomeno purché le città che abita siano ripulite e i banditi finiscano altrove, non importa dove. L’altra asseconda gli istinti e rinuncia ai ragionamenti, sceneggiando prove di forza con i più deboli, alla ricerca di un lucro politico a breve, che mette fuori gioco ideali, storie, tradizioni, identità politiche, e cioè quella civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri che si vorrebbe difendere. È chiaro che una risposta al sentimento-risentimento dei cittadini spaventati va data, ma la si può e la si deve cercare dentro un governo complessivo della globalizzazione, non privatizzando i diritti a nostro esclusivo vantaggio e usando la nostra libertà a danno degli altri, spinti sulle nostre sponde da un’angoscia di libertà estrema la cui posta è addirittura la sopravvivenza. Siamo ancora in tempo per cercare insieme un pensiero democratico di governo che tuteli la libertà di tutti, unica vera garanzia politica: liberando la povertà dalla moderna colpa per restituirla alla dinamica sociale e sgravando il migrante di quel peccato collettivo che gli abbiamo caricato addosso, facendolo bersaglio di azioni "esemplari" che riempiono cinicamente il malgoverno delle città, il nullismo della politica. Florida. Esecuzione con farmaco mai usato prima. Giudice: "Come una cavia di laboratorio" di Katia Riccardi La Repubblica, 26 agosto 2016 Mark Asay nel 1987 aveva ucciso un ispanico e un afroamericano in delitti considerati di natura razziale. È la prima condanna a morte eseguita in 18 mesi e la prima volta che lo Stato Usa utilizza l’Etomidate, anestetico inventato negli anni Sessanta dalla Janssen (Johnson & Johnson): "Non condividiamo l’uso dei nostri farmaci in iniezioni letali". La Florida ha giustiziato un uomo con un farmaco mai usato prima in un’iniezione letale. Per lo Stato americano si tratta della prima esecuzione in più di 18 mesi su un detenuto condannato per due omicidi razzisti. Mark Asay, 53 anni, primo uomo bianco condannato a morte in Florida per l’uccisione di un afroamericano, è stato dichiarato morto alle 18:22 (0:22 in Italia) nella prigione di Stato di Starke. Asay è stato ucciso con un’iniezione composta da tre farmaci, il primo di questi è un anestetico mai utilizzato finora per la pena capitale, l’etomitade. Un agente ipnotico intravenoso utilizzato in anestesia, con formula di struttura completamente diversa da quella di tutti gli altri agenti anestetici. L’etomitade è stato scelto in sostituzione del Midazolam la cui reperibilità è diventata sempre più difficile dopo il rifiuto della sua distribuzione da parte di diverse case farmaceutiche. Gli avvocati di Asay hanno cercato di bloccare l’esecuzione sostenendo che l’uso di un farmaco mai sperimentato, e che quindi potenzialmente potrebbe provocare sofferenze, viola l’emendamento della Costituzione che vieta punizioni crudeli ed inusuali. Ma la maggioranza dei giudici della Corte Suprema della Florida ha respinto il ricorso, nonostante l’opposizione di uno di loro, secondo il quale il condannato viene trattato come "una cavia di laboratorio dell’ultimo protocollo per le iniezioni letali". Ex membro di una gang suprematista, Asay era stato condannato a morte nel 1987 per l’uccisione a Jacksonville (capoluogo della contea di Duval) di Robert Lee Booker, afroamericano di 34 anni, e dell’ispanico Robert Mcdowell, 26 anni, in delitti considerati razzisti. Dopo 36 anni di prigione, in una recente intervista aveva affermato di "non essere più una persona violenta o una minaccia per la società". Due prima dell’esecuzione ha detto al prete che lo ha visitato, di essere stato ubriaco, e arrabbiato il giorno dell’omicidio, ma non razzista. Quando, prima dell’iniezione letale, gli è stato chiesto se volesse fare un’ultima dichiarazione, la sua risposta è stata: "No, signore, non la faccio. Grazie". Asay è il primo bianco ad essere stato condannato per omicidio a sfondo razzista. Secondo i dati del Death Penalty Information Center sono almeno 20 invece gli afroamericani giustiziati per aver ucciso bianchi dopo che la Florida ha ripristinato la pena di morte nel 1976. Il protocollo di esecuzione è cominciato alle 6:10. Michelle Glady, portavoce del carcere, ha confermato che "non ci sono state complicazioni durante la procedura e che Asay non ha parlato durante l’esecuzione". Secondo un testimone, Asay è morto in undici minuti. Dal 2014 alcuni Stati americani utilizzano per le esecuzioni capitali un controverso mix di droghe letali, prescelto dopo una fallita esecuzione in Oklahoma che fu definita "disumana" anche dalla Casa Bianca: quella di Clayton Lockett, morto dopo 43 minuti di agonia perché il farmaco non lo aveva sedato. Clayton fu visto annaspare, contorcersi e dire che si sentiva bruciare dentro. Dopo episodi simili accaduti in Ohio e Arizona, molti legali hanno fatto appello, opponendosi a questa composizione di sostanze. Anche il Midazolam, che nel caso di Mark Asay non è stato utilizzato, è un potente sedativo ma, secondo le autorità degli Stati che lo usano, funziona se somministrato in maniera corretta. I tre farmaci che hanno composto l’iniezione letale di Asay sono, oltre l’Emotidate, il bromuro di Rocuronio, un paralitico (il 27 luglio 2012 nello stato della Virginia ha sostituito il pancuronio) e, infine, l’acetato di potassio, che ferma il cuore e che in Florida non era ancora stato utilizzato. Nella polemica scoppiata nei giorni che hanno preceduto l’esecuzione di Asay, era entrata anche la Janssen Pharmaceuticals NV, azienda della Johnson & Johnson, tra le più grandi aziende farmaceutiche del mondo, che aveva dichiarato come un farmaco inventato dai propri scienziati negli anni Sessanta, "non dovrebbe essere usato per uccidere". "Janssen scopre e sviluppa innovazioni mediche per salvare e migliorare la vita" ha dichiarato Greg Panico, portavoce dell’azienda, "non condividiamo l’uso dei nostri farmaci in iniezioni letali per la pena capitale". Ma sono almeno otto le aziende che producono l’Etomidate e la Florida, come molti Stati, mantiene segreta l’identità dei suoi fornitori. Negli ultimi anni, oltre la Pfizer Inc, varie aziende - tra cui Baxter International Inc., McKesson Corp. e Roche Holding AG - si sono esposte pubblicamente opponendosi all’uso dei propri farmaci nelle esecuzioni. Maya Foa, direttore di Reprieve, associazione internazionale contro la pena capitale, ha dichiarato che l’opposizione di Johnson & Johnson è un passo fondamentale nella discussione per l’abolizione della condanna a morte. Texas. Coppia arrestata per pedofilia e satanismo, innocente dopo 21 anni di carcere di Rachele Grandinetti Il Gazzettino, 26 agosto 2016 Si è trattato di un errore giudiziario ma la consapevolezza è giunta quando la coppia aveva già trascorso 21 anni in carcere. È successo in Texas dove Frances e Daniel Keller sono stati arrestati nel lontano 1991 con l’accusa di pedofilia e satanismo e condannati a 48 anni. I due gestivano un asilo nido e sono finiti al centro di un caso di abusi sessuali su minori e di riti satanici durante i quali venivano torturati bambini e animali. I coniugi sono stati rilasciati nel 2013 quando le autorità hanno riconosciuto che gli interrogatori sui bambini non erano stati condotti correttamente e il dottore che aveva rilevato tracce di abusi sessuali ha affermato, sempre nel 2013, di aver giudicato male l’origine delle loro lesioni. I Keller furono scarcerati ma soltanto nel giugno 2017 sono stati dichiarati ufficialmente innocenti. La legge texana prevede che ricevano 80mila dollari a testa per ogni anno trascorso dietro le sbarre. L’Austin American-Statesman riporta che l’erogazione per il risarcimento pari a 3,4 milioni di dollari era stata fissata per mercoledì 23 agosto: "Significa - ha detto Fran Keller al giornale locale - che non dovremo contare i nostri soldi per pagare l’assicurazione sanitaria e le bollette in ritardo. Significa che possiamo essere veramente liberi. Niente più incubi: possiamo cominciare a vivere". La donna, che oggi ha 67 anni, ha raccontato che la coppia viveva in povertà dal momento che non riusciva a trovare lavoro a causa dell’età e della pendenza penale. Ma il loro non è un caso isolato: tra il 1991 e la metà del 2016, lo Stato del Texas ha risarcito 93,6 milioni di dollari alle vittime innocenti di errori di giustizia, secondo quanto riporta Texas Tribune. Mattanza messicana: ucciso il decimo giornalista da gennaio di Andrea Cegna Il Manifesto, 26 agosto 2016 Cándido Rìos Vázquez ammazzato con gli uomini della scorta. Un avvertimento ai candidati anti-narcos alle presidenziali 2017. Con sette politici su dieci collusi, la lotta alla droga è il modo per zittire le voci critiche. Un altro giornalista è stato ammazzato in Messico. Martedì 22 agosto è toccato a Cándido Rìos Vázquez, ucciso insieme alla sua scorta. In pieno pomeriggio un commando ha freddato, a colpi di pistola, tre persone a Juan Dìaz Covarrubias, nel municipio di Hueyapan de Ocampo nello Stato del Veracruz. L’omicidio è avvenuto davanti ad un supermercato. Rios era corrispondente del Diario de Acayucan, oltre che fondatore de La Voz de Hueyapan. Dall’inizio dell’anno è il decimo giornalista ucciso. L’ottantaquattresimo dal 2004. Una sottile linea rossa lega questi morti, accomunati dall’impegno nel racconto delle compromissioni tra poteri economici, legali e illegali, con lo Stato. È il secondo giornalista assassinato nello Stato di Veracruz, governato dal 2016 da Miguel Ángel Yunes Linares. Questo omicidio ha un sapore particolarmente aspro, perché Rios, dopo aver ricevuto diverse minacce di morte, viveva all’interno del sistema di "Protezione dei Difensori di Diritti Umani e Giornalisti", curato direttamente dalla Secreteria de Gobierno, ovvero il ministero dell’interno messicano. Hilda Martinez, moglie di Rios, ha dichiarato: "Bisogna sapere che Gaspar Gomez Jemenez (ex sindaco di Hueyapan de Ocampo, ndr) aveva più volte minacciato di morte mio marito. Voglio anch’io la protezione, affinché non uccidano anche me". In questo clima il grido di condanna di Jorge Morales Vázquez, titolare della commissione statale per la sorveglianza e protezione dei giornalisti (Ceapp) e la sua richiesta alle autorità preposte di realizzare indagini appropriate, per consegnare alla giustizia i colpevoli, paiono un gesto di dignità e coraggio più che una speranza. Da tempo si parla del Messico come di un narco-Stato in cui le promiscuità tra istituzioni, malavita e grandi imprese genera un sistema di spartizione dei territori. Capita che i poteri in campo si scontrino per il dominio di una zona, ma chi giornalmente subisce la guerra d’interessi è chi si oppone: attivisti, giornalisti non allineati, comunità indigene, parti della chiesa e dello Stato. Nel 2006 il presidente Calderon diede il via alla "guerra alla droga"; undici anni dopo il Messico è il secondo paese al mondo, dopo la Siria, per vittime civili. La guerra alla droga è diventata la scusa per eliminare avversari e militanti politici oltre alle voci critiche. Sette politici su dieci sono collusi con il mondo dell’economia illegale. I cartelli della droga fanno affari con le multinazionali. Polizia e militari sono parte della struttura corruttiva. Allo stesso tempo il Messico - però - è un paese sicuro per i turisti. Morti, desaparecidos e violenza non sono visibili nella fetta di paese vissuta da stranieri e viaggiatori. I turisti significano ricchezze da spartire, sostanze da vendere, oltre a costituire la giustificazione per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali e alberghiere. Però con l’omicidio di Candido Rìos viene alzato il livello dello scontro. Viene dato un segnale molto forte anche alla parte "sana" e non corrotta, sempre più minoritaria, dello Stato. L’omicidio del giornalista e quelli dell’ex ispettore di polizia Vìctor Acrelio Alegrìa e dell’autista designato per la scorta, significano che in quest’anno di campagna elettorale nessuna voce critica è al sicuro, a nessuno livello. Un avvertimento diretto anche a chi si candiderà come presidente del Messico nel luglio 2018 e che rifiuta e si oppone all’idea di narco-Stato. Ovvero Marìa de Jesùs Patricio Martìnez, candidata del Congresso Nazionale Indigeno e sostenuta dall’Ezln, e al netto delle contraddizioni Andres Manuel Lopez Obrador, candidato di Morena.