Carceri: l’estate del nostro scontento di Ornella Favero Vita, 25 agosto 2017 Il duro giudizio della presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia sugli ultimi mesi che sono stati non solo torridi, ma anche pieni "di sofferenza, con numerosi suicidi, è stata soprattutto l’estate della perdita della speranza" che era nata "con le sentenze dell’Europa contro il sovraffollamento". L’estate del nostro scontento: "nostro", di chi vive, come fa il Volontariato, una vicinanza forte con il carcere, che non si interrompe certo d’estate, e di chi in carcere ci passa una parte consistente della sua vita. E questa estate ne ha procurato tanto, di scontento: è stata torrida, piena di sofferenza, con numerosi suicidi, è stata soprattutto l’estate della perdita della speranza. La speranza che era nata con le sentenze dell’Europa contro il sovraffollamento, che avevano messo il nostro Paese brutalmente di fronte alle sue responsabilità, e quindi con le misure per porre fine a quella tortura, e poi con gli Stati Generali sull’esecuzione penale e l’idea che delle pene e del carcere si potesse parlare finalmente in modo "nuovo", o magari "saggiamente vecchio", se vogliamo ricordarci che le pene, secondo la nostra Costituzione, devono tendere alla rieducazione, quella è la loro funzione, e non certo la funzione di attuare una vendetta sociale nei confronti di chi commette reati. E ancora con la legge delega per la riforma della Giustizia, e in particolare dell’Ordinamento penitenziario. A tutt’oggi di quella delega non si sa se ce la farà a produrre qualcosa, o se la politica spazzerà via tutto con lo spettro delle elezioni. Nel frattempo, il ministro ha istituito tre commissioni di esperti che lavoreranno fino a dicembre proprio per predisporre i decreti attuativi della legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, come ricordano i radicali, che più di tutti si stanno battendo per accelerare i tempi, "era stato lo stesso ministro della Giustizia a dire a Radio Radicale il 19 giugno scorso che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Tempi e composizione delle Commissioni piacciono poco anche al Volontariato: la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ritiene infatti che in questo modo si corra il rischio di perdere questa opportunità, e che sarebbe stato meno rischioso usare per i decreti attuativi gli elaborati prodotti dai tavoli degli Stati Generali, e sottolinea anche, con "disincantato realismo", e non certo per vittimismo, che le Commissioni sono fatte solo di magistrati, avvocati, docenti universitari, mentre le competenze del Volontariato e del privato sociale sono considerate poco utili, come se per scrivere una buona legge bastasse essere degli stimati giuristi. Si tratta di tecnici che la nostra stima ce l’hanno senz’altro, ma evidentemente non sono più i tempi in cui Mario Gozzini, parlamentare, e Alessandro Margara, magistrato, andavano a bere il caffè con i detenuti proprio per discutere della riforma penitenziaria "sfruttando" la loro indiscutibile competenza. Ma questa estate ha messo a nudo anche un’altra verità: che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non ha saputo cogliere l’occasione di una sensibile diminuzione dei numeri del sovraffollamento per cambiare tutto quello che poteva essere positivamente cambiato senza necessità di introdurre modifiche legislative. Questa estate non sarebbe stata così disastrosa se il Dap avesse avuto il coraggio di ammettere che i numeri delle presenze stanno di nuovo pericolosamente crescendo, e intanto le condizioni della vita detentiva in molte carceri sono spesso desolanti, e si può e si deve agire subito. Prime fra tutte le cause di sofferenza, le temperature insopportabili dentro celle bollenti, fatiscenti, e con regolamenti che ancora non sanno permettere in modo inequivocabile neppure l’acquisto di un ventilatore da quattro soldi. Sì certo, ci sono circolari che aprono spiragli, ma le circolari non sono mai chiare e non parlano mai un linguaggio che non si presti a dubbi e interpretazioni restrittive. E così ogni carcere è una triste repubblica a sé in cui spesso Burocrazia batte Umanità dieci a zero. E i suicidi? Possibile che nessuno voglia ammettere che quello che potrebbe davvero prevenirli è "tendere al massimo" l’Ordinamento per consentire più spazio ai legami affettivi? Ha tentato di farlo una circolare firmata da Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento, che ha colto le pressanti richieste che gli venivano proprio da Padova, di dare più spazio possibile agli affetti, per invitare a fare ogni sforzo necessario per un "incremento delle occasioni di contatto con i famigliari" intese proprio come forma di contrasto ai tentativi di suicidio. Ma vorremmo, in proposito, capire quanti direttori hanno colto l’invito, e quanto in concreto è stato fatto e si intende fare nei circa duecento carceri del nostro Paese, perché un detenuto non può affidare il suo destino alla fortuna di essere in un carcere in cui questi inviti diventano iniziative precise, piuttosto che in un carcere, e ce ne sono troppi, in cui prevale la logica della chiusura e dell’immobilismo. Sono queste le risposte che vorremmo avere, perché questa estate cominciata così male si chiuda con qualcosa di più di una timida speranza di cambiamento. Si chiuda, per lo meno, con la certezza che in tutte le carceri l’invito ad ampliare al massimo gli spazi e i tempi per le relazioni affettive diventi un ineludibile "imperativo categorico". *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Il Papa ai carcerati: la pena deve avere un orizzonte di speranza di Andrea Tornielli Il Secolo XIX, 25 agosto 2017 "Non dimentichiamo la pena, per essere feconda, deve avere un orizzonte di speranza, altrimenti resta rinchiusa in se stessa ed è soltanto uno strumento di tortura, non è feconda". Lo dice Francesco nel videomessaggio inviato nel pomeriggio di giovedì 24 agosto al Centro di Studenti universitari del Complesso penitenziario federale di Ezeiza, in Argentina. Un carcere con quale il Papa ha un rapporto costante e particolare: due volte al mese, la domenica pomeriggio, Bergoglio trascorre un’ora al telefono con chi sta dietro le sbarre. L’occasione del videomessaggio è l’apertura del corso di musica. "Amici miei che fate parte del Centro di studenti universitari di Ezeiza - afferma Francesco - un cordiale saluto, un saluto che evoca quelle telefonate domenicali che faccio al Penale. Sono al corrente di tutte le vostre attività e mi suscita tanta gioia l’esistenza di questo spazio, uno spazio di lavoro, di cultura, di progresso, è un segno di umanità. E non sarebbe potuto esistere se non ci fossero state persone di tanta sensibilità umana tra gli interni, gli agenti del servizio penitenziario, direttori, giudici, membri dell’Università di Buenos Aires e gli studenti. Grazie". "Adesso un passo avanti. Hanno dato impulso all’apertura del corso di musica - aggiunge Bergoglio, citando per nome alcuni protagonisti. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno collaborato a questa iniziativa: il capo signor Claudio Segura, il direttore signor Alejandro Gonzalez, il sostegno e l’avallo dell’Università di Buenos Aires e del potere giudiziario e soprattutto i segretari di Cassazione, Luis e Victor, e gli interni incaricati del Centro di studenti - Marcelino, Guille, Edo - che conosco per telefono. Grazie per tutto ciò che avete fatto. È un alito di vita ciò che sta succedendo nel Penale, tra di voi. E la vita - voi lo sapete - è un regalo, ma un regalo che bisogna conquistare ogni giorno. Ce lo regalano, ma dobbiamo conquistarlo ogni giorno. Dobbiamo conquistarlo in ogni passo della vita. Un regalo che non è facile conservare. Coraggio ogni giorno". "Un sacco di difficoltà, tutti ne abbiamo - ha detto ancora il Pontefice - però abbiamo cura di questo regalo e lo facciamo crescere, ne abbiamo cura e lo facciamo fiorire. G li interni stanno scontando una pena, una pena per un errore commesso. Ma non dimentichiamo che, affinché la pena sia feconda, deve avere un orizzonte di speranza, altrimenti resta rinchiusa in se stessa ed è soltanto uno strumento di tortura, non è feconda. Pena con speranza, allora è feconda. Speranza di reinserimento sociale, e per questo, formazione sociale, guardando al futuro, e questo è quello che state facendo voi". "Con questo nuovo corso di musica - ha concluso Francesco - state guardando al reinserimento sociale, già adesso vi state reinserendo con gli studi, con l’Università di Buenos Aires, state guardando al reinserimento sociale. È una pena con speranza, una pena con orizzonte. Torno a dire, i problemi ci sono e ci saranno, ma l’orizzonte è più grande dei problemi, la speranza supera tutti i problemi. Cari amici, prego per voi, vi tengo vicini al cuore, vi chiedo di non dimenticare di farlo per me. Che Dio vi benedica e avanti, sempre con un sorriso. Alla prossima chiamata!". Occhetta (Civiltà Cattolica): giustizialisti? fino a quando il tema non tocca la nostra carne ancoraonline.it, 25 agosto 2017 "Tutti noi in genere ci dividiamo tra giustizialisti e permissivisti sul tema della giustizia, fino a quando questo tema non tocca la nostra carne". È partito da questa considerazione Padre Francesco Occhetta, gesuita e scrittore de "La Civiltà Cattolica", per parlare questa mattina della giustizia riparativa all’incontro tematico svoltosi al Meeting di Rimini. Occhetta ha osservato come "in Italia, il grande dimenticato dell’ordinamento sono le vittime e il loro dolore" e ha ricordato alcuni dati relativi ai detenuti italiani, soprattutto quelli riguardanti il sovraffollamento delle carceri (quasi 57mila detenuti a fronte di una capienza massima di 50mila) e il tasso di recidiva che "è del 69%". "È un modello che non funziona", ha ammonito il gesuita, rilevando che "se la recidiva calasse anche solo dell’1% ci sarebbero migliaia di euro di risparmi". In Italia, ha aggiunto "23mila le persone sottoposte a misure alternative al carcere, che stanno funzionando perché la recidiva è quasi del 18%". Occhetta ha poi spiegato che oltre al modello di "giustizia retributiva con certezza pena e proporzionalità della pena" e a quello della "giustizia rieducativa" si sta affacciando un "modello integrativo, quello della giustizia riparativa con al centro il dolore della vittima". "La pena - ha aggiunto - viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre?, qual è la sua sofferenza? e chi ha bisogno di essere guarito?". Il percorso si articola in cinque passaggi: "il riconoscimento per il reo delle propria responsabilità davanti alla vittima e alla società; l’incontro del reo con la vittima; l’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e l’intervento del mediatore; l’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore; l’individuazione della riparazione". Prima di aver ricordato le radici bibliche del modello, il gesuita ha affermato che il "modello di giustizia riparativa c’è in Europa e in America. In Italia dovremmo aiutare la politica a farlo diventare sistema". Occhetta ha poi ammonito che "siamo chiamati a fare verità", a "non giudicare ma a rieducare il colpevole". E, ricordando i suoi studi di giurisprudenza, ha rilevato che "rischiamo di vivere un diritto troppo positivizzato. Ai miei compagni di studi a fine degli anni 80 dico: tutti sognavamo questo modello che ci poteva cambiare la vita nella giustizia. Ma dove siete andati a finire?. Si sono positivizzati". "Il diritto - ha concluso - è la distruzione di una relazione e la possibilità di far reincontrare le persone, non aumentare ed esasperare i conflitti e la tensione sociale". Gherardo Colombo: 33mila detenuti dovrebbero uscire dalle carceri Askanews, 25 agosto 2017 In carcere dovrebbe stare "solo chi è effettivamente pericoloso: circa 20 mila dei 55 mila detenuti totali". Quelli meno pericolosi "dovrebbero seguire un percorso esterno" tanto "nel 70% dei casi" una volta uscito dalla prigione uno "torna a delinquere, mentre con le pene alternative la recidiva scende al 19%". Del perdono che può diventare la base di un sistema penale ha parlato Gherardo Colombo, trent’anni in magistratura, uomo-simbolo di Mani Pulite, in un’intervista a "Ilsussidiario.net". Sul tema ritornerà durante un convegno al Meeting di Cl su "Fine pena e forme alternative della pena". "Per quanto io non abbia mai amato mandare in prigione la gente, perché la prigione è sofferenza - ha spiegato Colombo - fino a un certo punto della mia vita sono stato convinto che il carcere fosse educativo. Progressivamente ho cambiato idea e anche per questo mi sono dimesso dalla magistratura, dove sarei potuto rimanere per altri 14 anni". Chi è in carcere, secondo Gherardo Colombo, dovrebbe essere "accompagnato a rendersi conto che ha fatto male ad altri, in modo che non lo faccia più". Ma anche la vittima dovrebbe essere "accompagnata da persone professionalmente molto, molto preparate, in un percorso di riparazione", mentre il sistema penale italiano, al massimo gli consente di "ottenere un risarcimento economico". Ma in questo modo "l’incontro tra colpevole e vittima non avviene". Secondo l’ex pm "siamo rimasti indietro rispetto ai 40 anni di lavoro e di progressi nella giustizia riparativa compiuti in tutto il mondo. In Italia la giustizia riparativa non è sistemica, ma residuale. Nonostante l’Unione europea ci abbia chiesto di adeguarci". Occorre nel nostro Paese "un’ampia modifica del processo penale". Nel frattempo "le nostre carceri dovrebbero essere profondamente trasformate per garantire ai detenuti il diritto allo spazio vitale, all’istruzione, al lavoro, all’igiene, alla salute, all’affettività. Occorre che chi sta in carcere venga sollecitato alla responsabilità nei confronti degli altri, perché la percezione del male compiuto deriva dall’educazione del proprio senso di responsabilità. Non solo da un punto di vista razionale ma anche emotivo. I nostri istituti penitenziari sono totalmente e assurdamente lontani da questa prospettiva". Nelle carceri l’altra missione contro la jihad di Renzo Guolo La Repubblica, 25 agosto 2017 Dietro alle sbarre la religione può diventare un elemento di sopravvivenza: perché garantisce riscatto ma dà la possibilità di inserirsi in un gruppo. Capire quando sfocia in una deriva estremista non è semplice, ma è la sfida da vincere per prevenire. La prevenzione culturale si fa anche sul fronte del carcere. Sono circa undicimila i detenuti musulmani: non tutti professano, ma la domanda di Islam dietro alle sbarre è crescente. Per alcuni la riscoperta della fede risponde al bisogno di riscattare le scelte di vita e superare il senso di fallimento. Per alcuni la riscoperta della fede risponde al bisogno di riscattare scelte di vita sfociate in uno scacco biografico e di superare il senso di fallimento amplificato dalla reclusione. Per altri l’Islam è, essenzialmente, una forma di identità collettiva, tanto più nel carcere divenuto multietnico e multi-religioso, dove l’appartenenza a uno specifico gruppo comunitario può rivelarsi funzionale sotto molteplici aspetti. Un’ulteriore differenza è quella tra osservanti rigorosi, interessati al rispetto dei precetti, e quanti fanno del bricolage religioso, mescolando selettivamente aspetti della pratica religiosa e rispetto di questa o quella norma. Quanto ai già radicalizzati sono essenzialmente intenzionati, specie se devono scontare pene lunghe, a fare delle prigioni un luogo di proselitismo. In ogni caso, l’Islam in carcere si dilata. Apparendo a molti la sola risorsa di senso capace di rispondere a condizioni di particolare difficoltà. Per i detenuti musulmani, in larga parte de-islamizzati prima del loro ingresso nel circuito penitenziario, l’Islam consente di ristrutturare un’identità personale dentro a codici comunque rassicuranti, anche perché noti. Ma quest’identità ritrovata può prendere il volto del semplice ritorno alla fede, divenendo un fattore d’ordine interiore e nelle celle; o quello dell’adesione al messaggio radicale come forma di rivolta verso il Paese, o il mondo, che ha dato forma al sistema giuridico e carcerario che ha condannato o recluso il detenuto. È quello che è accaduto a molti giovani nelle prigioni francesi, britanniche, belghe. Come anche all’attentatore di Berlino, Anis Amri, recluso per anni in Italia. Il carcere si sta adeguando anche organizzativamente alla mutata composizione della sua popolazione. Ma la presenza dell’Islam negli istituti penitenziari si scontra con molte difficoltà: spazi, orari della preghiera, problematiche connesse al Ramadan e all’alimentazione lecita, cronica mancanza di imam che possano rispondere alle richieste di assistenza spirituale. Carenza, questa, che induce taluni gruppi di detenuti a affidare la funzione a uno di loro, talvolta non all’altezza del compito, oppure, sin troppo influente: problema serio, quando il suo orientamento politico e religioso è radicaleggiante. O a respingere imam provenienti dall’esterno, ritenuti troppo legati alle esigenze delle istituzioni carcerarie. Nei nostri penitenziari il monitoraggio dei processi di radicalizzazione è continuo. I detenuti sotto osservazione sono oltre trecento. Tra questi circa la metà, compresi gli accusati di reati di terrorismo sottoposti al regime di Alta Sicurezza, sono classificati a alto rischio. Ma i regimi di detenzione speciale non sono sufficienti a arginare il fenomeno. Per contenere la deriva ideologica nelle celle è necessario non consegnare la maggioranza dei detenuti al messaggio radicale, spesso veicolato come ideologia del riscatto nei confronti di una fetta di popolazione carceraria che si sente anche culturalmente straniera. Per conseguire questo fine, il rispetto del diritto di culto diventa decisivo. Negarlo non fa che dilagare l’idea, cara ai radicali, dell’islam come "religione degli oppressi". Ai correligionari quest’ultimi presentano le difficoltà nell’esercizio del culto nelle prigioni come prova deliberata dell’ostilità discriminatoria nei loro confronti. La libertà di culto in carcere diventa, così, non solo l’esercizio di un diritto costituzionale ma un fattore essenziale per la sicurezza nazionale. Perché riduce il terreno nel quale prosperano quanti presentano l’islam radicale come il solo "autentico islam". Un rischio diffuso anche nei reparti che non sono nel circuito di Alta Sicurezza, nei quali i "radicali nascosti", detenuti comuni che occultano le loro simpatie ideologiche per timore di essere trasferiti in alti reparti o istituti, possono influenzare personalità fragili o in giovane età. La formazione di personale penitenziario capace di distinguere i segnali della radicalizzazione dalle prescrizioni del culto ma anche di coglierne i processi di dissimulazione è essenziale per una strategia fondata sul duplice pilastro sicurezza- diritti. Ed è anche a quel personale che sono rivolti i percorsi di formazione previsti dalla legge Dambruoso-Manciulli. Anche se già da tempo il Dap, l’amministrazione penitenziaria, ha iniziato un suo autonomo percorso in materia. Contro l’ergastolo ostativo, intervista a Carmelo Musumeci di Simone Delicati socialnews.it, 25 agosto 2017 Carmelo Musumeci nasce ad Aci Sant’Antonio, in provincia di Catania, nel 1955. Trasferitosi in Liguria, la sua carriera criminale ha inizio all’età di 16 anni quando diviene socio di una bisca clandestina a Massa. Di lì a pochi anni diventa capo di un’organizzazione criminale dedita a rapine, traffico di droga, racket, tangenti e bische clandestine - guadagnandosi l’appellativo di "Boss della Versilia". Il Clan Musumeci, attivo da La Spezia a Montecatini, si rende protagonista, lungo tutti gli anni 80, di una sanguinosa guerra contro il Clan Tancredi. Musumeci viene arrestato il 22 ottobre 1991 con l’accusa dell’omicidio di Alessio Gozzani, ex portiere della Carrarese, affiliato al clan rivale. Si rifiuta di collaborare e viene quindi condannato, l’anno successivo, all’ergastolo ostativo - previsto per i reati più gravi e differente da quello normale perché, appunto, ‘ostà all’ottenimento di determinati benefici (libertà condizionale, semi-libertà, permessi) comportando, effettivamente, una pena senza termine o, come l’ha definita Musumeci, una "pena di morte viva". Dopo 25 anni di carcere, trascorsi con la certezza di non uscirne più, Carmelo ottiene su istanza la semilibertà e, con essa, il ritorno alla vita reale. Nel frattempo è cambiato: ha conseguito 3 lauree ed ha scritto 8 libri. Conduce, ormai da anni, una battaglia per l’abolizione dell’ergastolo cercando di aprire un dibattito sulle ragioni e sul senso di una pena senza fine che in Italia è la storia di altre 1500 persone - ergastolani ostativi. Carmelo, cosa significa vivere da ergastolano ostativo? Muori, senza vivere, un po’ tutti i giorni e tutte le notti. Purtroppo questa terribile pena ti fa sentire perduto per sempre. E non puoi fare altro che vedere la tua vita scorrere senza di te. Quando al mattino ti svegli nella tua cella, pensi subito che anche oggi non andrai da nessuna parte. E sarà così per sempre. Fino all’ultimo battito del tuo cuore. Alla lunga questa terribile pena ti ruba tutti i tuoi pensieri. E non pensi più alla libertà. Neppure alla vita. Pensi solo a fare sera. E subito dopo a fare mattina. Credimi, è difficile per tutti vivere e stare in carcere, ma quasi impossibile vivere se sai che non uscirai mai. Dopo 25 anni di carcere, quanto è stato difficile ritornare alla vita reale? È difficile, ma bello. Sto imparando di nuovo a vivere perché è incredibile come il mondo che ho lasciato 26 anni fa sia cambiato. È bellissimo camminare senza fare avanti ed indietro dopo pochi passi e non trovare nessun muro davanti o di dietro. Le persone camminano parlando o muovendo il dito a testa bassa sui loro telefonini. Per fortuna i bambini non sono cambiati e i loro sorrisi mi ricordano che sono tornato nel mondo dei vivi. Quando al mattino esco dal carcere è bellissimo vedere nascere la prima luce del giorno, senza sbarre e muri di cinta intorno. Gli spazi aperti mi fanno girare la testa, forse perché sono stato circondato da quattro mura per troppi anni. E il mondo mi sembra troppo grande per i miei occhi e probabilmente anche per il mio cuore. Al mattino quando esco dal carcere, e prima di rientrare alla sera, parlo o mando dei messaggini ai miei nipotini. Poi penso con tristezza ai miei compagni in carcere, che hanno una sola telefonata a settimana, della durata di dieci minuti. Non capirò mai perché il carcere oltre alla libertà ti vuole togliere anche l’amore delle persone cui vuoi bene. Cosa è cambiato con la semilibertà? Come trascorri le tue giornate? Il primo giorno mi sono sentito come un morto che usciva da una tomba. Dopo un quarto di secolo scontato in carcere, conosco tutto delle nostre Patrie Galere, ma ben poco del mondo di fuori. E giorno dopo giorno mi sto accorgendo che non è facile ritornare a vivere, mi sento come un profugo in un paese straniero. Nella Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, dove faccio volontariato, ci sono alcuni bambini disabili e quando mi occupo di loro penso che questo sia il modo migliore per continuare a scontare la pena, per rimediare un po’ il male fatto, facendo del bene. I sorrisi di questi bambini mi fanno uscire il senso di colpa e mi fanno pensare a quanto nella mia vita sono stato cattivo. Ti confido che mi sembra di vivere due vite diverse, una di giorno e l’altra di notte. E ogni mattina quando esco dal carcere sento il profumo della libertà, mentre alla sera sento l’odore dell’Assassino dei Sogni (è così che Musumeci chiama il sistema penitenziario, ndr). La scienza ci dice che le persone sono il prodotto dei contesti sociali in cui vivono, dei valori alle quali vengono socializzate (tu stesso hai partecipato ad un lavoro sociologico sul tema, portando la tua testimonianza). Ti senti vittima del posto in cui sei nato? Credo di essere nato già colpevole, ma poi ho fatto di tutto per diventarlo. Sei entrato in carcere con la licenza elementare. Ora, oltre al diploma, hai scritto diversi libri e hai ottenuto due lauree in giurisprudenza ed una in filosofia. Immagino che, studiando certi testi, tu abbia avuto modo di ragionare profondamente sulla tua vita. È lo studio che ti ha cambiato? Fin dall’inizio della carcerazione avevo smesso di sperare di tornare un giorno un uomo libero e forse per questo ce l’ho fatta. Sono stati anni difficili perché non mi è mai interessato solo sopravvivere. Volevo anche vivere, forse anche per questo ho sofferto così tanto. Il sapere tante cose non serve a molto, rischi solo di diventare un’enciclopedia che cammina se non puoi vivere quello che studi. Quello che mi ha cambiato, ma forse sarebbe meglio dire migliorato, sono state le relazioni sociali che dal carcere mi sono creato, insieme all’amore della mia famiglia. L’Italia e l’Inghilterra sono gli unici stati europei ad avere l’ergastolo ostativo. Perché a livello politico non si trova la forza per abolire il carcere a vita? La pena dell’ergastolo ostativo fa comodo un po’ a tutti, ai politici per non perdere consenso elettorale e ai colletti bianchi (mafiosi) per non perdere la "manovalanza", perché molti ergastolani con una speranza potrebbero uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni. Penso anche che la legalità, prima di pretenderla, sia necessario darla. Credo pure che certi fenomeni non potrebbero esistere senza una certa complicità politica. Hai detto più volte che il carcere ti ha peggiorato, privandoti della libertà e dell’amore, facendoti sentire vittima senza mai perdonarti. Anche alla luce dell’obiettivo rieducativo della pena (previsto dall’Articolo 27 della Costituzione) come si può, se si può, passare da un carcere che punisce ad uno che perdona e rieduca? Quando penso alla nostra Costituzione mi viene in mente che molti dei nostri padri costituenti erano ex-galeotti e che ormai la nostra Carta è diventata carta straccia. A mio parere il carcere per funzionare dovrebbe fare bene, invece fa male, tanto male, sia ai prigionieri, sia a chi ci lavora e soprattutto ai cittadini, perché molti prigionieri quando usciranno saranno diventati più cattivi di quando sono entrati. L’opinione pubblica, culturalmente, sembra sostenere la giustizia come vendetta. Avrai sicuramente seguito il dibattito sulla possibile scarcerazione di Totò Riina, come spiegheresti agli italiani che anche una persona così grandemente incriminata avrebbe diritto, trascorsa la pena, ad uscire dal carcere? La società non è né cattiva né forcaiola, è solo informata male, perché tutti i detenuti sono recuperabili con un carcere e una pena umana. Paradossalmente non sono "recuperabili" solo le persone di fuori che pensano che ci sia qualcuno che non si possa in qualche modo recuperare. In noi c’è sia il bene che il male, sta anche a chi ci sta intorno tirarci fuori l’uno o l’altro. Riina, sotto un certo punto di vista, sarà fortunato perché morirà da criminale in carcere, senza alcun rimorso di coscienza del male che ha fatto, perché lo Stato non ha fatto nulla perché accadesse questo. Sia Umberto Veronesi che Margherita Hack hanno sostenuto la tua battaglia. Oggi loro non ci sono più, ma per la scienza l’ergastolo è una pena sbagliata: l’evidenza scientifica ha largamente smentito gli argomenti a favore del "fine pena mai". Quanto ha significato, per te, l’appoggio di questo mondo? Moltissimo. Da solo non ce l’avrei mai fatta. E sono loro molto grato, perché non è facile schierarsi con un condannato a essere cattivo, maledetto e colpevole per sempre. Più volte hai raccontato come lo scrivere ti abbia permesso di vivere una vita immaginaria, parallela a quella obbligata dai confini della cella. Nel tuo ultimo libro - Angelo Senzadio - Lorenzo è un ergastolano che riesce a diventare migliore creandosi un angelo, grazie alla propria immaginazione, non grazie al carcere. Lorenzo e Carmelo sono la stessa persona? Sì. Il tuo angelo ha un nome? Nadia Bizzotto, della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da Don Oreste Benzi. L’aveva creata la mia mente quando scontavo un anno e sei mesi d’isolamento mentre ero sottoposto al regime del 41 bis all’isola dell’Asinara. Gli angeli prima si sognano e poi s’incontrano. Anche per questo continuo a sognare che tutti i prigionieri possano aver scritto nel loro certificato di detenzione l’inizio e la fine della loro pena. Csm, la vera riforma che nessuno vuole di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2017 L’attuale Csm è (finalmente) entrato nel quarto e ultimo anno di attività e nulla lascia intravedere un intervento normativo che elimini o riduca la oramai acclarata degenerazione correntizia e la politicizzazione dell’organo che ha assunto nell’attuale Consiglio dimensioni sempre più allarmanti. Già il precedente Consiglio si era caratterizzato per una vicepresidenza "politica" per essere l’on. Michele Vietti deputato di lungo corso (quattro legislature dal 1994), vicesegretario nazionale dell’Udc, vice-capogruppo alla Camera e, per anni, sottosegretario. Anche l’attuale Csm vede alla sua guida un senatore (del Pd) di vecchia data (già sindaco per oltre 10 anni), sottosegretario di Stato: l’on. Legnini. È stata la prima volta nella storia repubblicana che un membro del governo in carica sia stato eletto nell’organo di autogoverno della magistratura. Unitamente al Legnini è stato eletto anche l’on. Fanfani (sempre del Pd), già deputato e, per circa 8 anni, sindaco di Arezzo. La tendenza appare, quindi, quella di privilegiare - più che la qualità professionale (di avvocato o professore universitario) - criteri di appartenenza e di affidabilità partitica. Il poco "onorevole" spettacolo di un Parlamento costretto a riunirsi diecine e diecine di volte per nominare i membri laici ne è la prova più eloquente. Accanto alla progressiva politicizzazione dei laici, si pone il persistente processo di immedesimazione dei membri togati con gli interessi della corrente di appartenenza, processo idoneo a portare alla elezione, nella maggior parte dei casi, di magistrati poco conosciuti dall’opinione pubblica ma molto attivi nella vita associativa e nelle segreterie delle correnti. Questo sistema dà spesso adito al sospetto che molte decisioni adottate dal Plenum siano frutto di valutazioni basate su criteri non proprio oggettivi, tant’è che un numero davvero rilevante di esse, (in particolare quelle sugli incarichi direttivi e semi direttivi) viene sistematicamente annullato dai giudici amministrativi, (con pervicace tendenza del Csm a riconfermare i provvedimenti annullati). Ed è sempre conseguente a un siffatto sistema che decisioni che riguardano magistrati con incarichi, per così dire, "politici" suscitino dubbi e aspre polemiche. Tale è il caso del procuratore della Repubblica di Arezzo Roberto Rossi - già consulente giuridico presso la presidenza del Consiglio - avendo il Plenum "edulcorato" una relazione della Prima Commissione piuttosto critica nei confronti del Rossi circa la gestione dell’inchiesta da lui condotta su Banca Etruria e che coinvolgeva il padre della ministra Boschi. Ciò ha determinato l’increscioso episodio del ritiro da parte del presidente della commissione Balduzzi e del relatore Morosini della loro firma in calce alla relazione. Né, a distanza di oltre un anno, l’opinione pubblica ha avuto modo di conoscere che fine abbiano fatto gli atti che, comunque, il Csm era stato costretto a inviare al Pg della Cassazione: sull’esercizio dell’azione disciplinare è, da allora, sceso un assordante silenzio. Ha dato origine a polemiche anche la nomina del nuovo procuratore della Repubblica di Napoli, incarico per il quale il Csm ha preferito Giovanni Melillo, per alcuni anni capo-gabinetto del ministro di Giustizia, ad altro magistrato che, in quegli stessi anni, svolgeva funzioni giurisdizionali ed era già titolare dell’ufficio direttivo della Procura di Reggio Calabria. Determinanti sono stati i voti di 6 membri laici, (si sono astenuti Legnini e Zaccaria), e del 1° Presidente e del Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Canzio e Pasquale Ciccola, i quali si trovano ancora ai vertici della magistratura giudicante e requirente nonché del Csm grazie a un provvedimento governativo (poi ratificato dal Parlamento), di proroga in servizio, privilegio che rimarrà impresso, ad imperitura memoria, nella storia della magistratura italiana. Questa situazione imporrebbe urgenti, drastiche soluzioni: estrazione a sorte dei togati; divieto di eleggere laici che hanno ricoperto cariche politiche; esclusione dal Csm del Primo Presidente e del Pg che, in ragione delle loro funzioni, cumulano un potere enorme incompatibile, o, quanto meno, gravemente inopportuno, con la loro presenza ai vertici del Csm; divieto assoluto per i magistrati di assumere incarichi extragiudiziari. Ma nulla di tutto ciò è previsto nei lavori delle due commissioni (una di forma dell’ordinamento giudiziario l’altra di riforma del Csm), nominate dal ministro Orlando e composte, per la maggioranza, proprio da chi sarebbe stato forse opportuno non ne facesse parte e, cioè, gli ex componenti togati e laici del Csm; e chi, se non il politico on. Vietti - già all’epoca promotore della legge che depenalizzò il falso in bilancio, sostenitore del "legittimo sospetto" e, soprattutto, detentore, tra i laici, del record di permanenza al Csm (8 anni) - poteva assumere la presidenza di una delle due commissioni di riforma? La Procura europea, uno strumento contro il terrorismo di Ricardo Franco Levi Corriere della Sera, 25 agosto 2017 L’Italia ha fatto bene a proporre che il nuovo Ufficio estenda le proprie competenze sinora limitate alle sola difesa degli interessi finanziari dell’Unione. Tra i tanti, tantissimi messaggi inviati al governo spagnolo dopo l’attentato di Barcellona, è passato quasi inosservato quello del ministro della Giustizia Andrea Orlando al suo omologo spagnolo Rafael Català. Quel messaggio avrebbe, invece, meritato un’attenzione particolare. "Sono sempre più convinto - affermava il Guardasigilli - che la collaborazione tra i sistemi di giustizia e law enforcement dei vari Paesi sia la chiave per contrastare e sconfiggere il terrorismo. È per questo, caro Rafael, che ritengo sia opportuno insistere su una proposta che da tempo l’Italia ha avanzato riguardo alla nascente Procura europea. I Trattati ci consentono di dare ad essa competenze anche nel contrasto al terrorismo". Passate neppure cento ore, con una lettera alla commissaria europea alla Giustizia e al ministro della Giustizia dell’Estonia, Paese che regge la presidenza di turno del Consiglio della Ue, Andrea Orlando ha confermato e sottoposto in forma ufficiale all’Unione Europea la proposta fatta al collega spagnolo. L’Ufficio del pubblico ministero europeo (in inglese European public prosecutor’s office, da cui Eppo), era stato previsto sin dal 2007 con il Trattato di Lisbona al fine di contrastare le truffe al bilancio dell’Unione, tra cui particolarmente rilevanti quelle transnazionali sull’Iva. Nel corso di lunghi negoziati tesi a definire nei dettagli il campo di azione, gli obiettivi, l’organizzazione della Procura europea, l’ambizione originale di farne un’istituzione autenticamente europea e sovranazionale si era scontrata con l’opposizione di molti Paesi membri, gelosi della propria sovranità nazionale in campo giudiziario. Non più, quindi, un Ufficio europeo capace di agire direttamente in tutto il territorio dell’Unione, ma un "collegio" di pubblici ministeri designati dai governi nazionali preposto al coordinamento delle attività di indagine e di accusa condotte nei e dai singoli Stati membri. Il governo italiano si era opposto a questo oggettivo annacquamento del progetto originario. Tanto che, quando, in aprile, preso atto che mancavano le condizioni per un’approvazione unanime da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione Europa, sedici Paesi, determinati a procedere comunque verso una collaborazione giudiziaria più stretta, ancorché tuttora imperfetta, decisero di dare vita alla nuova Procura europea sfruttando il meccanismo delle cosiddette "cooperazioni rafforzate", l’Italia scelse di non partecipare. Sedici - tra i quali Germania, Francia, Spagna, Belgio - furono i Paesi che firmarono e fecero un passo avanti. L’Italia rifiutò la propria firma e rimase indietro. Pur condividendo le critiche alla "debolezza" del nuovo istituto personalmente espresse dal ministro Orlando, avevamo giudicato sbagliata ("Parte l’Ue a due velocità, ma noi restiamo indietro", Corriere della Sera del 27 aprile 2017) la strada imboccata dal governo italiano per far valere le proprie ragioni. Sbagliata, "perché pensare di essere più forti e di far meglio sentire la propria voce restando fermi sulla banchina mentre gli altri si allontanano sul treno che va è un’illusione". Trascorse poche settimane, all’indomani di un incontro con Francia e Germania, il no italiano si è felicemente trasformato in un sì. E ora sono arrivati a venti gli Stati che parteciperanno alla costituzione della Procura europea. E ora, l’Italia rilancia, proponendo che il nuovo Ufficio estenda al terrorismo le proprie competenze sinora limitate alla sola difesa degli interessi finanziari dell’Unione Europea. Bene. Due volte bene. Bene nel merito. Perché il terrorismo costituisce con tragica evidenza una sfida mortale che nessun Paese da solo può affrontare con efficacia e che richiede una risposta unitaria e coordinata, almeno su scala europea. E noi italiani in questo campo possiamo offrire una competenza dolorosamente conquistata e preziosa. E bene nel metodo. Perché si è compreso e preso atto che solo stando dentro le istituzioni comuni le si può condizionare e spingere ad operare meglio. Un’ultima osservazione. Dopo l’approvazione del Consiglio europeo dello scorso 8 giugno, servirà il sì del Parlamento europeo. Dopo di che potrà partire una fase di preparazione che si prevede possa durare da due o tre anni, così da consentire alla nuova Procura europea di essere operativa tra il 2020 e il 2021. Ma questi sono i tempi che, se già si potevano a stento giustificare se si trattava di difendere soltanto gli interessi finanziari dell’Unione Europea, sono del tutto inaccettabili ora che si parla di difenderci dal terrorismo. Avanti sì, ma in fretta. Se un Gip scarcera, lo linciano di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 agosto 2017 Dopo la gogna arriva la solidarietà. Sono giorni caldi per Giovanni Ghini, il gip di Reggio Emilia che ha "osato" scarcerare un 23enne accusato di aver abusato di un 13enne e sul quale si è abbattuta la rabbia di mezza politica. L’ordine degli avvocati di Reggio lo difende: "È un galantuomo serio e preparato". L’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia ha preso ieri posizione sul "caso Giovanni Ghini", il gip del Tribunale della città del Tricolore che nei giorni scorsi aveva disposto la scarcerazione del pakistano reo confesso di aver violentato un 13enne disabile. Il provvedimento, si ricorderà, aveva suscitato aspre polemiche a livello nazionale. "Il dott. Giovanni Ghini è un giudice serio ed equilibrato, rigoroso e preparato, certamente un galantuomo", si legge nel comunicato diramato dal Coa di Reggio Emilia, secondo cui "ogni provvedimento giurisdizionale può essere criticato, senza trascendere nell’insulto e nella minaccia, ed è sottoposto sempre ad una possibile revisione". In caso contrario, per gli avvocati reggiani, ci sarebbe il rischio di "assecondare un pericoloso clima di confusione e ostilità che non può non condurre ad una sfiducia nella giustizia con reazioni pericolose nei confronti di magistrati ed avvocati che esercitano le loro funzioni nel rispetto e per la tutela della legalità". Anche la Camera penale di Reggio Emilia era intervenuta in precedenza per esprimere solidarietà a Ghini, stigmatizzando i toni utilizzati, soprattutto sui social, per criticarne la decisione di sottoporre il pakistano al solo obbligo di firma presso i Carabinieri, con il divieto di avvicinarsi a meno di 200 metri dalla sua vittima. La decisione di Ghini era stata oggetto di critiche da parte di tutte le forze politiche. Per il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi (Pd), e anche per 30 sindaci dem della zona, si è trattato di un provvedimento "incomprensibile ed inaccettabile". "Scelta di una gravità inaudita" per l’onorevole reggiana del M5S Maria Elena Spadoni. Il coordinatore regionale forzista dell’Emilia Romagna Massimo Palmizio ha annunciato per la riapertura della Camera la presentazione di una interrogazione al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Voglio ricordare - ha detto l’onorevole Palmizio - che io non sono una persona favorevole al carcere sempre e comunque. Il mio garantismo è noto. Il problema è che in questo caso ci troviamo di fronte ad un reato particolarmente odioso, un atto di pedofilia commesso su un minore disabile da parte di un cittadino extracomunitario al quale era stato pure concesso il diritto di asilo in Italia per motivi umanitari. I giudici, credo, dovrebbero tenere in considerazione queste situazioni senza lasciarsi andare ad interpretazioni della legge". Il pm Maria Rita Pantani ha già impugnato il provvedimento del gip. Il competente Tribunale del riesame di Bologna non ha al momento fissato l’udienza. È stata invece fissata per il prossimo 30 agosto la riunione del Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura per decidere sulla richiesta di apertura pratica per il trasferimento per incompatibilità ambientale del giudice Ghini. La richiesta era stata presentata dal consigliere del Csm l’avvocato Pierantonio Zanettin, secondo il quale il clamore mediatico che si è sollevato intorno a questa vicenda potrebbe condizionare la serenità di giudizio del magistrato emiliano. Quando ad odiare sono loro: gli eleganti intellettuali di Francesco Damato Il Dubbio, 25 agosto 2017 La ferocia sul web nasce da lontano. È figlia dell’intellighenzia. La tolleranza è ormai sinonimo di resa, di vigliaccheria. La riflessione e il ripensamento equivalgono spesso nel confronto politico al tradimento. Il confronto è diventato pleonastico, perché è più di moda lo scontro, fino alle estreme conseguenze, che nella vita dei partiti sono le scissioni. Si attribuì una volta alle ideologie la tendenza all’intolleranza, al fanatismo e persino all’odio. Ma non mi sembra francamente che il quadro sia cambiato con la fine delle ideologie. Se fosse solo una questione di linguaggio, pur con la diffusione moltiplicata dalla tv, dove la ricerca dell’audience è esasperata, e da quelli che Enrico Mentana ha brillantemente definito una volta "webeti", potremmo anche fare spallucce all’odio che pervade la comunicazione e intossica i rapporti sociali e persino personali. Sì, lo so. Le parole possono ferire come pietre. "L’intera società - ha scritto sul Corriere della Sera Claudio Magris - è culturalmente e umanamente una plebe volgare e pretenziosa". Ma siamo pur sempre alla lapidazione come metafora. Il guaio è che l’odio è diventato anche una componente della politica, dove la tolleranza sembra a volte scambiata per una parolaccia, come una volta si disse a sinistra del riformismo. La tolleranza è ormai sinonimo di resa, di vigliaccheria. La riflessione e il ripensamento che ne può conseguire equivalgono spesso nel confronto politico al tradimento. E anche il confronto è diventato pleonastico, perché è più di moda lo scontro, fino alle estreme conseguenze, che nella vita dei partiti sono le scissioni, comuni ormai a tutte le forze: grandi, medie, piccole e persino piccolissime. Si attribuì una volta alle ideologie la tendenza all’intolleranza, al fanatismo e persino all’odio. Ma non mi sembra francamente che il quadro sia cambiato con la fine delle ideologie. Tutt’altro: dai calci nel sedere di Alcide De Gasperi promessi nel 1948 da Palmiro Togliatti, uomo di grandissima cultura ma smanioso di vincere le elezioni col suo fronte popolare destinato invece ad essere sconfitto, si è passati l’anno scorso alle pur folcloristiche parole del governatore della Campania Vincenzo De Luca contro la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi, peraltro sua compagna di partito. "L’ucciderei", si lasciò sfuggire il personaggio meglio imitato da Maurizio Crozza, non perdonando alla Bindi di avergli fatto rischiare la sconfitta nelle elezioni regionali del 2015 con la decisione di inserirlo quasi sulla soglia delle urne in una lista di "impresentabili" per pendenze giudiziarie. Si, lo so, anche a Roma si grida per strada "t’ammazzerei" e "li mortacci tua" più a vanvera che seriamente, ma un dirigente politico dovrebbe darsi un altro linguaggio. E non irrompere con un cappio nell’aula di Montecitorio, come fece il legista Luca Leoni Orsenigo a suo tempo, o spettacolizzare la loro opposizione, sempre in Parlamento, come fanno i grillini scimmiottando i vecchi comunisti alla Giancarlo Pajetta. Che avevano però ben altre credenziali per esasperare l’opposizione, per esempio quando contrastarono animatamente, diciamo così, la cosiddetta legge elettorale truffa, essendosi fatta molte volte la galera per restituire al Paese una democrazia che non c’era. Non parliamo poi dell’odio planetario, senza frontiere, diffuso e praticato nel mondo dal terrorismo islamista, rispetto al quale l’odio di casa nostra diventa una bazzecola. Intervenute nel dibattito aperto dal Dubbio appunto sul linguaggio dell’odio e persino sull’azione che in Italia n’è conseguita, e può ancora conseguire, prima Tiziana Maiolo e poi Stefania Craxi si sono richiamate alla stagione per niente gloriosa delle cosiddette mani pulite: la prima ricordando i cortei di quanti a Milano incitavano i vari Antonio Di Pietro a farli sognare con le manette e la seconda denunciando il linciaggio del padre Bettino la sera del 30 aprile 1993, dopo che la Camera aveva osato rifiutare alcune delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui per il diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale della politica, e per la corruzione che poteva averlo accompagnato. Ma che non sempre l’accompagnò, come dimostrarono tante sentenze destinate a non fare notizia né in pri- ma pagina né all’interno dei giornali. Certo, quello contro l’allora già ex segretario socialista, dimessosi spontaneamente dopo l’arrivo degli avvisi di garanzia, e quando già le voci di un suo coinvolgimento nelle indagini gli avevano procurato al Quirinale il rifiuto dell’incarico di presidente del Consiglio, fu uno spettacolo ignobile. Fu un’ostentazione d’odio allo stato puro, si fa per dire: qualcosa che grida ancora vendetta, e non solo perché Craxi poi sarebbe morto anche di quello spettacolo, in un esilio contestato dai magistrati in quanto considerato latitanza, nonostante Bettino fosse espatriato sei anni prima con un regolare passaporto. E non fosse andato a nascondersi in qualche caverna, trovandosi a casa sua, in Tunisia. Tiziana e Stefania hanno ragione. Ma una volta fu proprio Bettino, ad Hammamet, a consolarsi di quell’orrendo linciaggio subìto davanti all’albergo dove risiedeva a Roma dicendomi che ad altri era capitato di peggio. E sapete a chi si richiamò? Al povero commissario di polizia Luigi Calabresi. Che era morto ammazzato a Milano come un cane sotto casa il 17 maggio 1972, meno di un anno dopo che più di settecento intellettuali - ripeto, intellettuali avevano firmato un manifesto pubblicato a più riprese sull’ Espresso per attribuirgli praticamente la responsabilità della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato in Questura per la strage del 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana, sempre a Milano. Un magistrato che sarebbe poi diventato senatore della sinistra, Gerardo D’Ambrosio, e fra i protagonisti delle indagini su "Mani pulite", era stato scambiato per un fascista avendo scagionato Calabresi dall’accusa di avere lasciato buttare giù il povero Pinelli da una finestra durante gli interrogatori. Eletto alla Camera nel 1968, Craxi all’epoca dell’assassinio del commissario papà dell’attuale direttore di Repubblica, era con Giovanni Mosca uno dei due vice segretari del Psi guidato da Francesco De Martino. Ne sarebbe diventato il successore nel 1976 per sollevare il partito dal minimo storico al quale era ridotto. Già allora Bettino maturò la diffidenza, a dir poco, verso gli intellettuali che, prima ancora dei partiti e dei magistrati, o di certi magistrati, si erano arrogati il diritto di dividere insindacabilmente l’Italia fra buoni e cattivi e di fomentare contro quest’ultimi campagne di discredito e di odio anche a costo di armare i fanatici di turno: tanti piccoli Robespierre in esercizio permanente effettivo, di cui - mi disse Bettino - non sapeva se impressionarsi più per il numero che per la qualifica. Quando divenne capo del Psi Craxi cercò di invertire anche quella rotta sbottando una volta contro "gli intellettuali dei miei stivali". I meno giovani o più anziani lo ricorderanno. E ricorderanno anche gli insulti che si rimediò e contribuirono ad affilare la matita del non ancora pentito Sergio Forattini, che nelle sue vignette su Repubblica gli infilò gli stivaloni neri alla Benito Mussolini e - ahimè - lo appese con la testa in giù. Era satira, mi direte. Ma non fu satira la scopiazzatura di Piazzale Loreto quella sera del 30 aprile 1993, quando su Craxi si rovesciarono sputi, insulti, monetine, accendini, ombrelli e quant’altro. Gli scalmanati non riuscirono tuttavia a intimidirlo e a farlo rinunciare ad uscire dal portone principale dell’albergo Raphael, come invece gli consigliavano gli addetti alla sicurezza: non so se più la loro, di sicurezza, o quella del "cinghialone", come Craxi veniva definito anche nella Procura di Milano, oltre che sui giornali ostili. Fermiamo la ferocia del web di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 25 agosto 2017 Non esistono ancora strumenti adeguati per punire chi insulta e minaccia sui social. Cosa possiamo fare? "Bandita la giustizia, che cosa sono i grandi imperi se non bande di briganti che hanno avuto successo? E che cosa sono le bande di briganti se non imperi in embrione?". La riflessione di Sant’Agostino nel De Civitate Dei, suggeritagli dall’aneddoto ciceroniano su Alessandro Magno alle prese con il pirata catturato ("Con che diritto infesti i mari?", "Con lo stesso diritto tuo: solo che io lo faccio con una nave e sono chiamato pirata, tu lo fai con una flotta e sei chiamato re"), non è poi così estranea alla frustrazione quotidiana dell’arsenale giudiziario contro chi diffama e sparge violenza usando le piattaforme di Facebook, Google, YouTube, Apple, Twitter, Whatsapp, Microsoft. Tanto da far sembrare ben poco balzana la recente scelta della Danimarca di nominare (primo Paese al mondo) un "ambasciatore" presso i colossi del web, cioè un diplomatico destinato a trattare "con queste aziende della tecnologia che, per il loro peso nel quotidiano, hanno sulla nostra vita la stessa influenza di nazioni intere". Nell’esperienza concreta - non nelle dichiarazioni d’intenti dei colossi del web o nelle eccezioni fatte per vip capaci di farsi "sentire" - la combinazione tra extraterritorialità tecnologica (server sparsi in ogni angolo del mondo) e sovra-nazionalità di fatto dei social network produce il rifiuto di fornire all’autorità giudiziaria l’indirizzo Ip del computer del diffamatore online: dati che, per poter essere utilizzabili processualmente, devono essere acquisiti in questo modo formale dai pm, quand’anche il reo non si ripari dietro l’anonimato. Accanto ormai a una autonoma "politica estera" per tenersi buone le dittature in latitudini commerciali redditizie, e a una propria "politica fiscale" per decidere dove non pagare abitualmente le tasse, i nuovi "web-Stati" si arrogano anche una personale "politica di sicurezza" che auto-fabbrica zone franche dietro l’imperscrutabile paravento di "policy" aziendali per decidere come (non) rispondere ai pm. Già non è scontato che collaborino nell’antiterrorismo (leggendario due anni fa lo scontro epistolare tra una Procura e Whatsapp alla vigilia di un temuto attentato), ma in tema di diffamazione è del tutto abituale che le compagnie del web (proprio loro che da mattina a sera commercializzano i dati personali degli utenti) si trincerino dietro la privacy dei clienti, e si facciano scudo di una interpretazione strumentale (ma avallata pure dal Dipartimento di Giustizia, si veda la lettera che pubblichiamo a pag. 27) del primo emendamento della Costituzione americana a tutela della libertà di parola: e ciò benché il tenore letterale dell’articolo 1.3 del trattato tra Stati Uniti e Italia imponga la mutua cooperazione giudiziaria "anche quando i fatti per i quali si procede non costituiscono reato nello Stato richiesto". E l’indirizzo Ip è peraltro solo un primo passo, a volte non risolutivo per le indagini perché schermato da banali escamotage come l’aggancio alla rete "wifi" dell’ingenuo vicino di casa privo di password o come l’utilizzo di internet point. Senza sinora arrivare alla controversa (e per taluni versi rischiosa) equiparazione del provider ai direttore e editore di giornale sulla base della legge sulla stampa, la giurisprudenza sta comunque stabilizzando l’orientamento che responsabilizza penalmente l’host-provider (cioè chi eroga un servizio di memorizzazione di informazioni fornite da un altro soggetto) qualora non rispetti l’obbligo di "notice and take down": cioè di informare l’autorità competente ("notice") del carattere illecito del contenuto ospitato, e di rimuovere il dato ("take down") una volta che gliene ne sia segnalata l’illiceità (ma pure qui i giganti del web praticano lo slalom, interpretando che la richiesta debba essere "qualificata" e cioè provenire dall’autorità giudiziaria). A fine 2016, una sentenza della Cassazione ha poi ammesso che il titolare di un sito web possa concorrere nel reato di diffamazione qualora non si attivi Una sala server di Facebook. Il social network distribuisce i suoi dati in sei data center (quattro negli Usa, uno in Svezia, uno in Irlanda) per impedire che un contenuto diffamatorio, pubblicato da un soggetto terzo, permanga online. Ma la casistica mostra quanto vi sia poco da confidare nel corpo a corpo giudiziario: a Udine dopo ben due opposizioni all’archiviazione ci sono voluti due anni solo per ottenere da Twitter il titolare del profilo autore di insulti omofobi, mentre a Napoli è tutto da vedere che esito avrà il fascicolo nel quale il gip ha ordinato al pm di indagare il legale rappresentante di Facebook in Italia per "illecito trattamento dei dati personali" della donna uccisasi nel 2016 dopo non aver ottenuto dalla piattaforma la rimozione di alcuni filmini sessuali. Auspicare tutta la manutenzione possibile delle norme presenti e future, insomma, non esime dal fare i conti con la strutturale incapacità dello strumento penale di risolvere alla radice una devianza che sia già lievitata in fenomeno di massa. Il penale è un obice non tarato per cannoneggiare le zanzare-tigre, e rammentarlo non significa rassegnarsi al martirio ma razionalizzare la comprensibile invocazione della panacea penale, che su scala di massa finisce per essere mai medicina che curi la malattia ma sempre e solo placebo della frustrazione delle vittime. È invece una consapevolezza critica dei consumatori, se non addirittura una sorta di boicottaggio civile dei giganti della Rete più refrattari a farsi carico delle responsabilità connesse al crescere della loro potenza, a poter esercitare su essi quell’unica pressione, reputazionale, capace di spingerli a modificare (per convenienza commerciale e persino quasi per fattore concorrenziale) le proprie prassi nella cooperazione contro le diffamazioni online. Certo bisognerebbe, per coerenza, iniziare magari da qualche photo-opportunity in meno tra il politico di turno e il web-tycoon di moda, o da qualche elegia in meno nelle pagine e nei tg sulla "filosofia" dei nuovi servizi sfornati sul mercato. Il data center di Facebook a Luleå, nel nord della Svezia. Il social network conta due miliardi di utenti attivi al mese E, magari, anche chiarirsi le idee sulla sanzione che si vagheggia dal penale nelle volte in cui abbia senso investirvi: il carcere? Improponibile. La chiusura del sito o del profilo social? Troppo pericolosa per le potenziali conseguenze indirette sulla libertà di espressione nel web. Multe? Velleitarie, un po’ come oggi le condanne alle spese di giustizia di cui lo Stato riesce a riscuotere il tre per cento. Forse, invece, proprio con i diffamatori online potrebbe aver senso sperimentare briciole di "giustizia riparativa": che nulla c’entra con banali risarcimenti tendenti a monetizzare l’estinzione del reato, ma invece responsabilizza il reo mettendolo di fronte alla persona offesa in un percorso guidato di mediazione e comprensione del torto arrecato. Misure di prevenzione: la violazione del "vivere onestamente" non è reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione Feriale - Sentenza 24 agosto 2017 n. 39427. La violazione della prescrizione del "vivere onestamente", imposta con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza dal codice antimafia non è un reato. La Corte di cassazione, con la sentenza 39427 applica la decisione presa dalle Sezioni unite il 27 aprile scorso le cui motivazioni non sono state ancora depositate. La risposta fornita dal consesso di giudici è utile ad accogliere la richiesta di annullamento della condanna inflitta al ricorrente dal Tribunale. All’imputato - sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno - era stata, infatti applicata, in sede di patteggiamento, la pena di un anno di reclusione per un concorso di reati: resistenza a pubblico ufficiale, lesioni aggravate e violazione dell’honeste vivere. Quest’ultima prescrizione è contenuta nel codice antimafia (Dlgs 159/2011) che, con l’articolo 75, comma 2 "sanziona" la mancata osservanza degli obblighi relativi alla sorveglianza speciale, tra i quali c’è anche quello di "vivere onestamente" e "rispettare le leggi" (articolo 8 comma 4). I giudici della sezione feriale, annullano la condanna visto che nel "pacchetto" era finito anche il precetto dell’honeste vivere la cui violazione non può più essere "punita" come reato. I giudici ricordano che le sezioni unite hanno dato una risposta negativa al quesito sulla portata della norma incriminatrice, escludendo che possa rientrare tra il mancato rispetto degli gli obblighi e delle prescrizioni imposte dall’articolo 75 anche le prescrizioni del vivere onestamente e rispettare le leggi. Due precetti la cui violazione non può essere considerata reato, a causa della natura troppo vaga della prescrizione, ma può tuttavia essere rilevante in sede di esecuzione del provvedimento, al fine di un eventuale aggravamento della misura. La Cassazione sottolinea che la sentenza ha reso così efficace la decisione della Grande camera della Corte europea dei diritti dell’Uomo del 27 febbraio scorso (De Tommaso contro Italia), nella parte in cui aveva evidenziato la scarsa chiarezza e precisione delle due prescrizioni alle quali è stata tolta efficacia. In quell’occasione i giudici di Strasburgo avevano precisato l’inopportunità di fondare una responsabilità su una norma penale di fatto "in bianco". Ed è stata proprio la lettura critica della norma da parte della Cedu che ha indotto il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio a sottoporre la questione - sollevata dalla prima sezione - alle Sezioni unite, per prevenire eventuali contrasti nella giurisprudenza di legittimità, in marito a valutazioni di condotte che possono pesare sul giudizio di pericolosità sociale di un individuo. Processo penale: i presupposti per l’applicazione della recidiva facoltativa Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2017 Recidiva (art. 99 c.p.)- Recidiva facoltativa - Applicazione - Obbligo motivazionale del giudice - Possibilità di adempimento implicito. L’applicazione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 11 luglio 2017 n. 33714. Recidiva - Recidiva facoltativa - Richiesta di rigetto - Motivazione implicita del giudice. Il rigetto della richiesta di esclusione della recidiva facoltativa, pur richiedendo l’assolvimento di un onere motivazionale, non impone al giudice un obbligo di motivazione espressa, ben potendo quest’ultima essere anche implicita. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 1 ottobre 2015 n. 39743. Recidiva - Recidiva facoltativa - Esclusione dell’aumento di pena - Obbligo di motivazione - Accertamento di una maggiore capacità delinquenziale - Sussistenza. In presenza della rituale contestazione a opera del Pm della recidiva, ai sensi di uno dei primi quattro commi dell’articolo 99 c.p., il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. Nell’ipotesi in cui il giudice, in applicazione dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale (sent. n. 192 del 2007 e n. 92 del 2008) ritenga di escludere che la contestata recidiva sia, di per sé, sintomo di una maggiore capacità delinquenziale, deve adeguatamente motivare al fine di escludere il previsto aggravamento di pena. • Corte di cassazione, sezione Feriale penale, sentenza 27 agosto 2013 n. 35526. Recidiva - Recidiva facoltativa - Obbligo di accertamento del giudice - Della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo. Esclusi i casi di recidiva c.d. obbligatoria, di cui all’articolo 99 c.p., comma 5, il giudice del merito può attribuire effetti alla recidiva unicamente quando la ritenga effettivamente idonea a influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; ed è quindi, tenuto a verificare se il nuovo episodio criminoso sia concretamente significativo in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti reati e avuto riguardo ai parametri indicati dall’articolo 133 c.p. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo: infatti è precipuo compito del giudice del merito verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 15 febbraio 2012 n. 5859. Santa Maria Capua Vetere (Ce): emergenza sanitaria e psichiatrica nel carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2017 Visita ispettiva degli attivisti del Partito Radicale nell’istituto dove da mesi c’è una grave crisi idrica. Mancanza d’acqua potabile e con presenza della ruggine, personale medico assente e attrezzature sanitarie quasi del tutto inesistenti, reclusi con patologie psichiatriche che dovrebbero essere ospiti delle Rems (residenze per l’esecuzione misure di sicurezza sanitaria), poca presenza del magistrato di sorveglianza, carenza di organico della polizia penitenziaria. Sono queste le criticità riscontrate, presso la casa circondariale campana di Santa Maria Capua Vetere, dagli attivisti Domenico Letizia e Fortunato Materazzo. La loro è stata una visita ispettiva autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, svolta in occasione della mobilitazione nazionale promossa dal Partito Radicale. Per quanto riguarda il problema dei pazienti psichiatrici - rimasta irrisolta in diversi istituti penitenziari, viene denunciata la presenza di circa 20 detenuti provenienti dall’ex ospedale giudiziario psichiatrico di Aversa. "Tali detenuti, che non dovrebbero essere presenti all’interno di un istituto penitenziario - spiega a Il Dubbio Domenico Letizia del consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino e della Lega italiana dei diritti dell’uomo, che segue la situazione penitenziaria della struttura sammaritana anche con il gruppo di lavoro "carcere e diritti umani" del forum nazionale dei giovani, sono costretti a restare in carcere a causa della mancanza delle Rems adeguate sul territorio. I detenuti sono già in sovrannumero e la presenza di casi clinici non aiuta la comunità penitenziaria alla diffusione di un clima sereno". Continua sempre Letizia: "Gli agenti della penitenziaria hanno dichiarato che loro compito è divenuto anche quello di far comprendere come tali detenuti meritino particolari attenzioni e comprensione, tentando di far capire la problematica ai detenuti della struttura, e a tutta la comunità penitenziaria, per evitare sia problematiche di ordine interno sia prese in giro umiliazioni tra i detenuti stessi. Nonostante il grande lavoro della psichiatria e delle educatrici presenti nella struttura, mancano gli operatori specializzati che possiamo ritrovare all’interno di una Rems. Tale problematica non potrà che accentuarsi con il tempo e merita un’attenzione particolare". Dalla visita ispettiva è emerso che i detenuti si lamentano di una vera e propria emergenza sanitaria vista la mancanza del personale medico a cui potersi rivolgere. Molti detenuti, tra cui anche un settantenne con un cancro e un sessantenne con un tumore allo stomaco e su sedia a rotelle, non ricevono cure adeguate e sono abbandonati al loro stato di incertezza salutare, nonostante le molteplici sollecitazioni che essi, a loro spese, han- no inoltrato, non solo al personale della struttura penitenziaria. Poi c’è il problema del sovraffollamento. Secondo i dati del commissario della polizia penitenziaria, i detenuti nella struttura sono attualmente circa 950, il 35 per cento in più della capacità di ricezione del carcere. Anche la situazione legata al personale della polizia penitenziaria risulta essere drammatica, come ammesso dallo stesso commissario: a fronte di una presenza totale di circa 400 agenti, tuttavia solo 300 risultano essere quelli impiegati in pianta stabile nella struttura penitenziaria (mentre un’ulteriore unità di circa 90 persone opera tra vari istituti della provincia), con il risultato che assai frequentemente essi risultano esposti a turni massacranti. A tutto questo si aggiungono casi di aggressione, anche se isolate, agli agenti: problematiche in parte esacerbate anche dalle croniche mancanze dei servizi per i detenuti, in un contesto eccezionale di caldo intenso che sta caratterizzando in questo periodo tutto il territorio casertano. Nota positiva è il fatto che risultano essere numerosi i progetti in corso nella struttura penitenziaria per la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti, tra cui laboratori di carta, teatro e arte presepiale, attivamente incoraggiati e sostenuti dall’intera comunità penitenziaria. Ma il dramma della mancanza d’acqua persiste, un problema mai risolto. Vari detenuti hanno lamentato la non potabilità dell’acqua loro fornita, evidenziando la presenza di ruggine ed altri elementi pericolosi per la loro salute. Come già denunciato da Il Dubbio, il carcere di Santa Maria Capua Vetere, attivo dal 1996 e ampliato con l’apertura ad ottobre del 2013 di un nuovo padiglione, è stato costruito senza una condotta idrica. Questo è il motivo della poca disponibilità di acqua. Per ovviare a tale anomala situazione, che, soprattutto nei mesi estivi, crea una vera e propria emergenza all’interno dell’istituto penitenziario, la regione Campania, con delibera della G. R. N. 142 del 5.4.2016, aveva approvato lo "schema di Protocollo di Intesa per la costruzione di una condotta idrica a servizio della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e delle aule Bunker", istituendo un apposito capitolo di spesa nel bilancio di previsione della regione Campania per l’esercizio finanziario 2016, per € 2.190.000,00, cofinanziati dall’unione europea. Ma l’iter della procedura è ancora in alto mare. Milano: carcere di San Vittore, le vite ferme nel girone dei rinchiusi di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 25 agosto 2017 Le scale sono strette, malconce. Non ci sono detenuti che salgono o scendono, per varie incombenze, come negli altri raggi. I corridoi al piano deserti, qualcuno ti scruta aggrappato alle sbarre, qualcuno urla da lontano. C’è una parte di San Vittore che si conosce poco, il girone dei rinchiusi. Quelli che in cella ci stanno 23 ore su 24, che non possono uscire nel corridoio a scambiare due chiacchiere, che non hanno una doccia. Quelli per cui la sicurezza (loro e dei loro compagni) prevale sull’umanità del trattamento: agitati, sex-offenders, transgender, a rischio di suicidio o di autolesionismo, membri delle forze dell’ordine. L’ispettore Agostino Gianpaolo (45 anni, abruzzese di Sulmona, una lunga esperienza a Cuneo, Fossano, Fermo, a San Vittore da 10 anni) ammette che il lavoro della polizia penitenziaria in questi reparti del 5° e 6° raggio "è più semplice, perché i detenuti si controllano meglio". Ma è anche, allo stesso modo, più difficile: "Servono maggiori cautele, perché qui ci sono scontri e colluttazioni. Non succede spesso, perché San Vittore è un carcere tranquillo, ma succede". Nei raggi diciamo così "normali", cioè il primo e il terzo (il secondo e il quarto sono chiusi per annose ristrutturazioni), le celle sono aperte dalle 8 del mattino alle 8 di sera. "Dopo Strasburgo", come si dice nel gergo carcerario, cioè dopo che l’anno scorso una sentenza della Corte europea dei diritti umani ha stabilito che ogni detenuto ha diritto a 3 metri quadri di spazio calpestabile. Una regola che vale per tutti i paesi d’Europa. Ma l’ennesima condanna per la disumanità del trattamento carcerario in Italia, e per il sovraffollamento. L’apertura delle celle limita il tempo della coabitazione forzata, e rende meno pesante la carenza di spazio. Questa regola però non vale per le sezioni di sicurezza, quelle dei rinchiusi. "Al primo piano del sesto raggio - spiega l’ispettore Gianpaolo - ci sono celle a regime ordinario, cioè non si tratta di un reparto punitivo. E infatti i detenuti possono seguire attività e corsi. Ma sono chiusi, perché in qualche modo hanno creato problemi. Può succedere che ci siano scontri fra nazionalità diverse, anche se succede di rado e di solito per futili motivi. Il vero motivo di queste risse è la povertà, la lotta per la sopravvivenza. E in questo senso è molto utile il contributo che danno i volontari e le associazioni". In fondo al corridoio ci sono quattro celle destinate all’isolamento sanitario, per malattie contagiose, o a quello disciplinare oppure ordinato dalla magistratura. Al secondo piano del sesto raggio ci sono i cosiddetti "protetti", quelli che non possono stare in mezzo agli altri: sex-offenders, cioè accusati di molestie o violenze sessuali, poi transgender e esponenti delle forze dell’ordine. Queste protezione significa, per loro, un’ulteriore punizione, cioè restare chiusi. Anche se è vero che, a piccoli gruppi, possono seguire lezioni scolastiche, andare in palestra o frequentare dei corsi. "Il quinto raggio - spiega ancora Gianpaolo - è un reparto comune. Però al primo piano ci sono tre celle cosiddette di accoglienza per i nuovi giunti, in attesa che venga disposta una loro collocazione. Poi c’è l’infermeria, e ci sono sei celle per i detenuti a rischio. Sono quelli che hanno tentato il suicidio, o hanno compiuto atti di autolesionismo. Succede che detenuti, di solito nordafricani, si taglino per protesta o per disperazione, perché non sono riusciti a telefonare alla famiglia, o problemi di questo genere. Esiste uno staff solo per questa sezione, con uno psichiatra e una psicologa. E c’è un collega che sorveglia 24 ore su 24, sulla base della classificazione del rischio: basso, medio, alto". Questo girone dei rinchiusi è un’area, per come prevede l’ordinamento, dove le perquisizioni si fanno tutti i giorni, compresa la "battitura" di muri e pavimenti: "Ma sempre nel rispetto della dignità delle persone, anche perché su questo è intervenuta una sentenza della Corte costituzionale. E non è vero che si distruggono gli oggetti dei detenuti". Ma è anche un’area dove la violenza non è infrequente: "A volte è necessario l’uso della forza. Ma l’ordinamento penitenziario mette dei paletti all’uso della forza, che deve essere autorizzata dal direttore e dal comandante. Salvo nei casi in cui qualcuno stia facendo del male, a sé o agli altri, e sia da contenere". Secondo l’ispettore non capita spesso: "Può succedere magari una volta al mese, perché San Vittore è un carcere tranquillo". Firenze: ventilatori per Sollicciano, ma non troppi perché il sistema elettrico non regge di Carlo Giorni Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2017 Nell’istituto di Firenze sono ospitati circa 700 detenuti, ma non ci sono aria condizionata né ventilatori. E il Dap non ha soldi. Così ci pensa l’assessorato alla Sanità. L’attore Hendel: "Più che un nuovo stadio servirebbe un nuovo penitenziario". Arriva Caronte, settima ondata di caldo africano, annunciano i meteorologi, e nelle 380 celle del carcere fiorentino di Sollicciano, che ospitano circa 700 detenuti, l’afa fa paura. Perché nel penitenziario di Firenze, costruito nel 1983 non ci sono né aria condizionata e neppure ventilatori. Al punto che l’assessore alla Sanità della Regione Toscana Stefania Saccardi ha deciso di comprare e inviare al carcere più caldo d’Italia - è esposto tutto il giorno al sole - una novantina di ventilatori (26 euro più Iva ciascuno). La decisione è stata presa ai primi di agosto, dopo due mesi di caldo insopportabile: "Le celle sono larghe 14 metri quadrati e ci stanno in media 4 detenuti: insomma una specie di forni microonde", denuncia l’ex consigliere regionale Enzo Brogi, Pd, esperto di carceri. "Avevamo promesso l’invio di 100 ventilatori - spiega la Saccardi. Poi era sorto il problema dell’eccessivo carico energetico, che l’impianto di Sollicciano non avrebbe retto. Così ne abbiamo mandati 60, che la direzione del carcere ci aveva detto essere sostenibili per l’impianto del penitenziario. Poi qualche giorno fa altri 30 per Solliccianino, il primo istituto penitenziario a custodia attenuata di tutto il territorio italiano". È sicuro che i ventilatori entreranno in funzione? L’amministrazione penitenziaria sostiene di non aver soldi, la Regione non era tenuta a comprarli, ma li ha comprati e consegnati. Il problema è ora nelle mani dell’Asl che deve dire quali sono i detenuti che ne hanno più bisogno (anziani, malati e così via) e dei dirigenti del carcere che li devono installare. "Speriamo che non glieli diano a dicembre, altrimenti prendono il raffreddore", ha scherzato il comico Paolo Hendel, che il 17 agosto scorso ha fatto visita al carcere fiorentino assieme ad una delegazione di Radicali, guidata da Rita Bernardini, al cappellano del carcere don Vincenzo Russo e al consigliere comunale Tommaso Grassi, di Firenze riparte a sinistra. "La verità - dice Grassi - è che il carcere si trova in condizioni fatiscenti. Come ha detto Hendel a Firenze ne andrebbe costruito uno nuovo, altro che stadio". E pensare che quando fu inaugurato - 40 miliardi il costo - politici e media inneggiarono alla costruzione di "un carcere modello". Ma subito fu chiaro, tra crolli e infiltrazioni d’acqua, che di modello a Sollicciano non c’era nulla. Gli Ottanta furono gli anni delle carceri d’oro, e anche su Sollicciano fu aperta un’inchiesta nel 1985 dall’allora sostituto procuratore Ubaldo Nannucci per presunte irregolarità nella costruzione dell’istituto penitenziario. Tre anni dopo tutti gli inquisiti, compreso il conte Callisto Flavio Pontello, titolare dell’impresa costruttrice e proprietario della Fiorentina calcio, furono assolti. Resta il fatto che oggi Sollicciano non regge neppure il carico elettrico di più di novanta ventilatori. Parma: "due tentati suicidi in due giorni", l’allarme del Garante dei detenuti di Francesca Devincenzi parmapress24.it, 25 agosto 2017 È allarme suicidi in Via Burla: dopo la morte di Samuele Turco, accusato di aver ucciso la notte di Natale "la Kelly" e Gabriela Altamirano, che si è tolto la vita il 25 luglio, e per la cui morte è stato aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, tra mercoledì e giovedì 23-24 agosto si sono registrati due nuovi allarmi. Mercoledì pomeriggio un giovane ha cercato di togliersi la vita nella propria cella: soccorso in extremis dai secondini prima, dal 118 poi, è stato ricoverato al Maggiore in gravi condizioni. Secondo allarme, giovedì mattina: un altro giovane è stato trovato a terra, privo di sensi. Anch’egli ricoverato al Maggiore, le sue condizioni non sarebbero gravi. Ma si ripresenta l’allarme lanciato da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti: "In Via Burla ci sono quattro carceri in uno, 41 Bis, AS1 (Altissima sicurezza), Media sicurezza (AS2) e ordinaria detenzione, più i malati, i disabili, gli anziani. Mancano almeno 100 secondini, servirebbe un presidio costante, una direzione designata e non suddivisa con altre carceri (Carlo Berdini, direttore del carcere, riveste lo stesso ruolo in quello di Sollicciano ndr), e con l’estate, tra ferie e permessi è sempre peggio. C’è caldo, solitudine, abbandono. In Emilia Romagna su 3200 detenuti si registrano due suicidi a settimana, basta fare una proporzione, sarebbe come se a Parma, che ha poco più di 180mila abitanti se ne suicidassero 60 ogni sette giorni" (in realtà si registra una media di 2/3 suicidi a settimana tra i non detenuti ndr). Numeri che rendono l’immagine di una vita carceraria dura, alla spasimo, che porta a scegliere di morire piuttosto che espiare. "Non dico che il suicidio di Turco fosse evitabile o meno, o che sia colpa di qualcuno" - chiude Cavalieri - "ma dico che urge una riforma, e servono misure, progetti alternativi. Sennò parleremo sempre più di tragedie". Parma: dal 2005 in Via Burla nove suicidi, tre morti sospette, sette decessi per malattia di Francesca Devincenzi parmapress24.it, 25 agosto 2017 Il primo maggio, C.N., italiano, 76 anni, malato e stanco, aveva messo fine alle proprie sofferenze. Pochi mesi dopo, lo ha seguito Samuele Turco, in una lunghissima scia di sangue e domande. Nove suicidi e tre morti sospette nel carcere di Via Burla dal 2005 ad oggi, su diciannove decessi totali nel locale penitenziario. Numeri anche "bassi", confrontati con quelli italiani: dal 2000, al 10 luglio 2017, in Italia si sono registrati 2.762 morti in carcere di cui 960 per suicidio. Numeri cui si aggiunge quello di Samuele Turco, che si è impiccato nel luglio scorso nella cella in cui era rinchiuso, in isolamento. A un cittadino tunisino, dal nome sconosciuto, 42enne, morto il 28 ottobre del 2005, ha fatto seguito il 27 ottobre 2009 quello di Francesco Gozzi, 52 anni, ritenuto affiliato al clan ‘ndranghetistico Latella di Reggio Calabria, che si è impiccato mentre scontava una condanna all’ergastolo in regime di 41 bis. L’uomo, si è tolto la vita intrecciando alcuni fogli di giornale in modo da formare una specie di corda. Pochi mesi prima, era toccato a Camillo Bavero, 49 anni: sulla sua morte la Procura aprì un’inchiesta per istigazione al suicidio. Bavero infatti prima del suicidio aveva ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e stava per uscire dal carcere. L’uomo, che era affetto da problemi psicotici gravi, aveva tentato il suicidio già altre volte. I familiari sostengono che, proprio sulla base di questi ripetuti tentativi di suicidio, Bavero non avrebbe dovuto essere in isolamento. "Impiccamento atipico e incompleto, cioè con gli arti inferiori poggianti sul pavimento": così recitava la perizia medico-legale chiesta dalla procura di Parma. Il 6 novembre dello stesso anno un’altra morte sospetta, quella di Giuseppe Saladino, 32 anni: si parlò forse di violenze subite in carcere dal ragazzo, appena rientrato da un permesso premio, o di un abuso di farmaci. Non proprio un suicidio, ma una morte indecifrabile. Il 15 marzo 2011 aveva optato per il suicidio un 25enne albanese, mentre il 22 agosto dell’anno prima si era tolto la vita impiccandosi Matteo Carbognani, parmigiano, 34 anni. Su otto di pena, arrestato insieme alla moglie e ad altre sei persone per spaccio di cocaina, ne aveva ancora poco meno di due da scontare. Indecifrabile invece la causa della morte di un cittadino italiano senza nome, sessanta anni, morto il 27 dicembre 2012. Da accertare anche i perché della morte di Giuseppe Del Monaco, 33 anni, avvenuta il due giugno dello stesso anno. Nessun dubbio invece su cosa portò alla morte di Stefano Rossi, 25 anni, il 22 marzo del 2012. Lui il 28 marzo del 2006, aveva ucciso Maria Virginia Fereoli, 17 anni, massacrandola a coltellate. 470 fendenti, da parte dell’ex che si era portato una pistola, un coltello e un nunchako (due bastoni collegati alle estremità con una catena di ferro) per incontrarla. Rossi l’aveva strangolata, uccisa con una stilettata al cuore poi le aveva ricoperto il viso di sputi, sfilandole le scarpe e infilandole i calzini sulle mani. Nella fuga poi, aveva sparato in testa al tassista Andrea Salvarani. Si suicidò, mentre scontava l’ergastolo, soffocandosi con la bomboletta del gas concesso per cucinare, in isolamento. Ancora in attesa di giudizio, si tolse la vita il 17 gennaio 2014 Gianpiero Locicero, 39 anni, mentre Amedeo Rey, dieci anni di più, l’11 dicembre 2015 decise di "togliere il disturbo" dal centro diagnostico terapeutico dove era recluso per l’assassinio di Fabio De Pandi, il bambino di soli 11 anni ucciso da una pallottola vagante il 21 luglio del 1991 a Napoli nel Rione Traiano durante un conflitto a fuoco tra clan camorristici rivali, da una parte i Puccinelli, a cui apparteneva Rey, dall’altro i Perrella. Napoli: detenuto pestato al Cardarelli, scatta la denuncia di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 25 agosto 2017 Il detenuto V.C. ha avuto un ictus ed un infarto il 29 luglio scorso. Da Poggioreale è stato trasferito al Loreto Mare, per poi finire al Cardarelli nel reparto detentivo denominato "Palermo". V.C. è stato messo nella cella "Ischia" insieme ad altri due detenuti, di cui uno albanese e oggetto di offese razziste da parte di una guardia che prestava servizio. Poi è iniziato il pessimo trattamento sanitario di tutti e 3 i detenuti. Poi è cominciata la disavventura di V.C., riportata da un lettera consegnata all’attivista per i detenuti Pietro Ioia, che ha partecipato ad una delle tante visite fatte nelle carceri dai radicali insieme al Senatore Orellana. Il testo è stato poi ripreso e pubblicato da Vincenzo Ferrante su Internapoli. Tutto ha avuto inizio il 2 agosto, 5 giorni dopo V.C. è stato accompagnato nella sezione "Colloqui" del reparto "Palermo". Prima di lasciarlo nella stanza, gli è stato ordinato di firmare alcuni documenti inerenti ai fatti accaduti il primo giorno di ricovero. Il detenuto si è rifiutato ed al quel punto è scattata la violenta aggressione: "Nel momento in cui mi alzo dalla sedia vengo bloccato, ammanettato e picchiato da quattro agenti in quel momento di turno", ha dichiarato V.C. "Pugni, calci, mi hanno colpito al corpo, all’addome e alla testa. Hanno smesso quando è iniziato ad uscire il sangue dalla bocca". V.C. ha ricordato di trovarsi in stato di paresi alla parte sinistra del corpo a seguito dell’ictus per il quale erano in corso accertamenti, così come per una cisti al cervello segnatamente al lobo frontale sinistro. Alla fine, contro il parere del medico, V.C. ha preferito tornare in carcere a Poggioreale. "Chiedo e ottengo contro il parere dello stesso primario di firmare in cartella e scappare via dal Cardarelli prima che mi accadesse qualche altra cosa. Ho paura e ho rifiutato altri ricoveri al Cardarelli per la mia stessa incolumità", ha concluso V.C. il protagonista di questa brutta storia. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. Il pentitismo è manifesta debolezza della legge commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 25 agosto 2017 Dove Beccaria si mostra davvero innovatore è nel campo dei reati che oggi chiameremmo di tipo fallimentare, derivanti cioè dall’attività commerciale di un certo soggetto. Beccaria infatti distingue fra il fallito colpevole e quello innocente, vale a dire fra quello che dolosamente abbia frodato i creditori nell’ambito della propria attività e quello che invece sia stato vittima incolpevole di circostanze avverse che ne hanno cagionato l’insolvenza. Il primo va punito in modo proporzionato alla gravità dei fatti commessi, mentre il secondo va invece perfino aiutato dallo Stato, proprio in quanto del tutto incolpevole. Oggi ci sembra la scoperta dell’acqua calda, ma se si pensa che Beccaria scriveva queste cose e diffondeva queste idee oltre due secoli e mezzo fa - quando ancora il debitore veniva incarcerato - allora non sarà difficile comprendere la portata davvero rivoluzionaria delle sue pagine. Del tutto contrario è poi Beccaria alla imposizione di taglie, che oggi stranamente tornano a far capolino di tanto in tanto per iniziativa di qualche associazione privata, allo scopo di scoprire i colpevoli di reati commessi contro un qualche socio. Il giurista milanese osserva che tale tipo di iniziativa è sommamente inutile, in quanto "in vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento", poiché induce al tradimento, armando la mano dei cittadini contro altri cittadini e mentre punisce un reato, un altro ne propizia. Insomma, una prassi nefasta che produce più danni di quanti vorrebbe evitarne. E finalmente Beccaria tocca il tema della impunità che alcuni Tribunali offrono al complice di un grave delitto che farà il nome dei suoi sodali: oggi diremmo il tema del pentitismo. Ora, pur in presenza di indubitabili vantaggi (scoprire gli autori di gravi reati e prevenirne altri), Beccaria sostiene che gli svantaggi siano di gran lunga più significativi: infatti, sollecitare la delazione, pur fra scellerati, significa da un lato autorizzare il tradimento e, dall’altro, manifestare la debolezza della legge, "che implora l’aiuto di chi l’offende". Questa posizione dovrebbe essere meditata da quanti - ed oggi non sono pochi - con eccessiva superficialità e spregiudicatezza intendono sempre e comunque far ricorso allo strumento della delazione legalizzata, come si trattasse di una innocente strategia di politica criminale. Beccaria non riesce proprio a tollerare questa impostazione, nonostante sembri quasi che faccia di tutto per autoconvincersi in senso contrario. Ecco perché così egli conclude sul punto: "Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento e alla dissimulazione". Beccaria si pone qui degli interrogativi che non sono esclusivamente di carattere etico, ma anche di carattere giuridico, interrogativi che invece i giuristi di oggi in Italia fingono di non conoscere neppure e per i quali non mostrano comunque alcuna sensibilità. Di fatto oggi in Italia nessuno si pone queste domande. Eppure, qualcuno dovrebbe porsele, se non altro perché esse hanno un senso compiuto. Il pentitismo viene di solito difeso con il tipico ragionamento del fine che giustifica i mezzi, di sapore machiavellico. Ora, a parte che un tale concetto non fu mai espresso dal segretario fiorentino, rimane che si tratta di un ragionamento assurdo: si sa quanto lo criticasse Hegel, il quale chiariva che il fine non giustifica mai i mezzi, ma li specifica soltanto. Si prega perciò i Soloni di casa nostra di non usare più questo argomento che è semplicemente inesistente. CAPITOLO XXXIV. DEI DEBITORI La buona fede dei contratti, la sicurezza del commercio costringono il legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei debitori falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll’istessa pena che è assegnata ai falsificatori delle monete, poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni dè cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi à suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per qual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione, privo dell’unico e tristo bene che gli avanza di una nuda libertà, a provare le angosce dei colpevoli, e colla disperazione della probità oppressa a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la tutela di quelle leggi che non era in sua balìa di non offendere, leggi dettate dai potenti per avidità, e dai deboli sofferte per quella speranza che per lo più scintilla nell’animo umano, la quale ci fa credere gli avvenimenti sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi per noi? Gli uomini abbandonati ai loro sentimenti i più obvii amano le leggi crudeli, quantunque, soggetti alle medesime, sarebbe dell’interesse di ciascuno che fossero moderate, perché è più grande il timore di essere offesi che la voglia di offendere. Ritornando all’innocente fallito, dico che se inestinguibile dovrà essere la di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso di sottrarvisi senza il consenso delle parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui industria, la quale dovrebb’esser costretta sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di soddisfare proporzionalmente ai progressi, qual sarà il pretesto legittimo, come la sicurezza del commercio, come la sacra proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono così necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono così necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. Con quale facilità il provido legislatore potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti colpevoli, e rimediare alle disgrazie dell’innocente industrioso! La pubblica e manifesta registrazione di tutt’i contratti, e la libertà a tutt’i cittadini di consultarne i documenti bene ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti tributi sulla felice mercatura e destinato a soccorrere colle somme opportune l’infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le semplici, le grandi leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d’inni immortali di riconoscenza di generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute. Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle novità s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali. CAPITOLO XXXV. ASILI Mi restano ancora due questioni da esaminare: l’una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di rendersi fra le nazioni reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non dev’esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve ogni cittadino, come l’ombra segue il corpo. L’impunità e l’asilo non differiscono che di più e meno, e come l’impressione della pena consiste più nella sicurezza d’incontrarla che nella forza di essa, gli asili invitano più ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili è il formare tante piccole sovranità, perché dove non sono leggi che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società. Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fra le nazioni, io non ardirei decidere questa questione finché le leggi più conformi ai bisogni dell’umanità, le pene più dolci, ed estinta la dipendenza dall’arbitrio e dall’opinione, non rendano sicura l’innocenza oppressa e la detestata virtù; finché la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre più unisce gl’interessi del trono e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure dell’Asia, quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli. CAPITOLO XXXVI. DELLA TAGLIA L’altra questione è se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando il braccio di ciascun cittadino farne un carnefice. O il reo è fuori dè confini, o al di dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplicio, facendo così un’ingiuria ed una usurpazione d’autorità negli altrui dominii, ed autorizza in questa maniera le altre nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di parentela, di amicizia, e coll’altra premia chi gli rompe e chi gli spezza; sempre contradittorio a se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutt’i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre più tendono a confondersi colla vera politica. Gli artifici, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo più prevedute, e la sensibilità di tutti rintuzza la sensibilità di ciascuno in particolare. I secoli d’ignoranza medesimi, nei quali la morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono d’istruzione e di esperienza ai secoli illuminati. Ma le leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa così necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicità, le nazioni la pace, e l’universo qualche più lungo intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra. CAPITOLO XXXVII. ATTENTATI, COMPLICI, IMPUNITÀ Perché le leggi non puniscono l’intenzione, non è però che un delitto che cominci con qualche azione che ne manifesti la volontà di eseguirlo non meriti una pena, benché minore all’esecuzione medesima del delitto. L’importanza di prevenire un attentato autorizza una pena; ma siccome tra l’attentato e l’esecuzione vi può essere un intervallo, così la pena maggiore riserbata al delitto consumato può dar luogo al pentimento. Lo stesso dicasi quando siano più complici di un delitto, e non tutti esecutori immediati, ma per una diversa ragione. Quando più uomini si uniscono in un rischio, quant’egli sarà più grande tanto più cercano che sia uguale per tutti; sarà dunque più difficile trovare chi si contenti d’esserne l’esecutore, correndo un rischio maggiore degli altri complici. La sola eccezione sarebbe nel caso che all’esecutore fosse fissato un premio; avendo egli allora un compenso per il maggior rischio la pena dovrebbe esser eguale. Tali riflessioni sembreran troppo metafisiche a chi non rifletterà essere utilissimo che le leggi procurino meno motivi di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto. Alcuni tribunali offrono l’impunità a quel complice di grave delitto che paleserà i suoi compagni. Un tale spediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl’inconvenienti sono che la nazione autorizza il tradimento, detestabile ancora fra gli scellerati, perché sono meno fatali ad una nazione i delitti di coraggio che quegli di viltà: perché il primo non è frequente, perché non aspetta che una forza benefica e direttrice che lo faccia conspirare al ben pubblico, e la seconda è più comune e contagiosa, e sempre più si concentra in se stessa. Di più, il tribunale fa vedere la propria incertezza, la debolezza della legge, che implora l’aiuto di chi l’offende. I vantaggi sono il prevenire delitti importanti, e che essendone palesi gli effetti ed occulti gli autori intimoriscono il popolo; di più, si contribuisce a mostrare che chi manca di fede alle leggi, cioè al pubblico, è probabile che manchi al privato. Sembrerebbemi che una legge generale che promettesse la impunità al complice palesatore di qualunque delitto fosse preferibile ad una speciale dichiarazione in un caso particolare, perché così preverrebbe le unioni col reciproco timore che ciascun complice avrebbe di non espor che se medesimo; il tribunale non renderebbe audaci gli scellerati che veggono in un caso particolare chiesto il loro soccorso. Una tal legge però dovrebbe accompagnare l’impunità col bando del delatore... Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento ed alla dissimulazione. Qual esempio alla nazione sarebbe poi se si mancasse all’impunità promessa, e che per dotte cavillazioni si strascinasse al supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all’invito delle leggi! Non sono rari nelle nazioni tali esempi, e perciò rari non sono coloro che non hanno di una nazione altra idea che di una macchina complicata, di cui il più destro e il più potente ne muovono a lor talento gli ordigni; freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime tenere e sublimi, eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti più cari e le passioni più violente, sì tosto che le veggono utili al loro fine, tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti. Quando Cechov divenne cronista dell’orrore di Corrado Stajano Corriere della Sera, 25 agosto 2017 Il viaggio dello scrittore in Siberia e il resoconto fedele delle atroci condizioni dei prigionieri sotto lo zar. Come mai Anton Cechov decise nel 1890 di partire per l’isola di Sachalin, in Siberia, dove gli zar avevano istituito la mortale colonia penale, la Katorga? Vi rimase nove mesi, dall’aprile al dicembre, vide tutto quanto poté vedere con una minuzia, spesso ossessiva, testimone di un altro mondo, il mondo colto e civile. Nato trent’anni prima, laureato in Medicina, fu forse spinto al viaggio dalla polemica sull’indifferenza degli intellettuali nei confronti dei problemi sociali che inquietavano la Russia. O il suo fu un tentativo di scrivere un saggio utile per tentar di entrare come docente nella facoltà di Medicina dell’università? Era già noto come autore di raccontini umoristici che piacevano molto e di operine teatrali. La medicina, diceva, era la sua moglie legittima, la letteratura l’amante. Per fortuna ebbe partita vinta l’amante, i suoi racconti, le sue commedie sono classici i cui temi, la vita, la morte, la delusione, la malinconia, la speranza di un’età migliore, il dolore, la guerra, l’angoscia, il taedium vitae appartengono anche al nostro tempo. Cechov non urla moralisticamente il suo sdegno, vuol solo rendersi conto delle sopraffazioni e delle nequizie di una falsa giustizia, racconta e il suo giudizio nasce solo dai fatti. Stringono il cuore le sue pagine, anche le più fredde e controllate. Non trascura nulla, il libro è una mescolanza di generi - narrazione soprattutto, inchiesta, diario - nutrito di fonti inusuali, cronache giudiziarie, referti medici, statistiche, ordinanze governative, bollettini meteorologici. È ben cosciente, Cechov, di quel che vede. In una lettera al suo editore Aleksej Suvorin, riportata da Valentina Parisi, scrive: "Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia (...). Abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; abbiamo obbligato la gente a percorrere migliaia di verste al freddo, in catene, l’abbiamo corrotta, abbiamo moltiplicato i delinquenti". (E pensare che il grande scrittore spesso non ebbe consapevolezza dell’essenza e dei significati delle sue opere. Quando - raccontò il suo regista, Konstantin Stanislavskij - alla fine della lettura delle Tre sorelle (1900) gli attori, turbati, inquieti, piansero commossi, Cechov si arrabbiò moltissimo: pensava di aver scritto un vaudeville e gli attori lo prendevano per un dramma). Nei mesi prima della partenza per Sachalin studiò come un dannato non soltanto la questione carceraria e le pratiche dell’amministrazione, ma raccolse dati sulla geografia, le scienze naturali, il suolo, il mare, i venti, e sulle condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano i deportati. Un’attrice dei teatri imperiali, Kleopatra Karatygina, che conosceva bene la Siberia dove si era a lungo esibita, gli diede molte informazioni sugli usi e costumi dell’isola e sui suoi non comuni abitanti, gli consigliò anche un itinerario. Lo scrittore ne scelse un altro: da Mosca a Nikolaevsk passando per Kazan, Ekaterinburg, Tomsk, Irkutsk e Chabarovsk, imbarcandosi al ritorno sul piroscafo "Bajkal" che da Vladivostok arriverà a Odessa. Non era gradito alle autorità, non gli furono concessi permessi scritti, i funzionari della Direzione penitenziaria avevano l’ordine di impedirgli ogni contatto con i prigionieri politici confinati sull’isola. Non si sa se sia accaduto. Ma i suoi occhi acuti e la sua intelligenza riuscirono a sopperire a intralci e divieti. Le stazioni di posta, il paesaggio e la sua grandiosità, la foresta - la taiga -, i fiumi, gli animali, gli orsi, i lupi, gli zibellini, i cervi, le capre selvatiche popolano le pagine del viaggio che è anche un racconto, un romanzo d’avventura. Gli uomini, poi. Cechov parla con tutti, i vetturini, i cosacchi, i servi della gleba, i coloni, i contadini, gli ex esiliati, i medici, i galeotti: "Sotto le finestre aperte affacciate sulla strada sfilavano a passo cadenzato e senza fretta i deportati con i ceppi ai piedi; nella caserma di fronte la banda militare provava e riprovava le sue marce in previsione della visita del governatore generale". Gira di villaggio in villaggio, tra curiosità e dovere della ricerca, entra nelle izbe, rozzi parallelepipedi di legno col tetto di paglia: una stanza sola, una stufa alla russa, un tavolo, un letto o un semplice bivacco per terra. Manca ogni traccia del passato, manca l’angolo delle icone. I detenuti della prigione di Aleksandrovsk non sono incatenati ai ceppi, di giorno possono stare fuori dal carcere, vestono come vogliono. Ma poi c’è la "baracca degli incatenati", laceri, sporchi, con i ceppi ai piedi, le manette ai polsi. La terribile povertà è difficile da nascondere. La miseria fa fiorire ogni nefandezza, l’usura, il ricatto, la violenza, il gioco d’azzardo, la corruzione. Cechov consulta i registri locali e parrocchiali, fa indigestione di numeri, il suo libro è una summa di varia umanità: "Per la strada s’incontrano contadine che per ripararsi dalla pioggia si sono legate intorno al capo grosse foglie di bardana e sembrano scarabei verdi". Qualche volta non si trattiene, si indigna, nella prigione di Voevodsk, per esempio, scandalosa, esterrefatto nel vedere i detenuti legati mani e piedi a carriole da catene che impediscono ogni movimento. Le frustate e la carriola salvano qualche volta i derelitti dalla pena di morte. "Al colpevole si infliggono quasi sempre trenta o cento bastonate. Il numero non dipende dal reato, bensì da chi ha disposto la punizione, se il capo circondario o il direttore della prigione: il primo ha il potere di affibbiare cento colpi, il secondo può arrivare solo a trenta". La giustizia degli zar. Gli ultimi capitoli del libro, vietati dalla censura dell’epoca, sono neri come la pece. Cechov descrive una fustigazione, tra le grida del compiaciuto direttore del carcere: "Quarantadue! Quarantatré! A novanta manca un bel po’ (...). La parte colpita dalle frustate è blu e scarlatta per le ecchimosi e sanguina". Cechov racconta anche come avviene la cerimonia dell’impiccagione, il lenzuolo funebre fatto indossare al condannato, la preghiera dei moribondi. Qualcuno, teatralmente, viene graziato all’ultimo minuto lasciando scontento il boia. Cechov non si risparmia nulla. E per contrasto, leggendo questo libro senza tempo, vengono in mente - la morte e la vita, la ferocia e la dolcezza - le Tre sorelle, con Olga che nell’ultima scena abbraccia Irina e Maša. "Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo... Poterlo sapere, poterlo sapere!". Migranti. L’Austria lo respinge in Italia e lui si uccide di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 agosto 2017 Un afghano di 34 anni, in attesa dell’asilo politico, si è tolto la vita nell’ex Cie di Milano. Durissimo l’assessore al welfare del Comune, Pierfrancesco Majorino: "questo ragazzo è una vittima delle ignobili regole europee". Dramma nell’ex Cie di via Corelli a Milano, ora gestito dalla Casa della carità che ospita i richiedenti asilo politico. Un immigrato di 34 anni, di origini afghane, è stato trovato senza vita ieri mattina dopo essersi impiccato in un locale della struttura. Poco dopo le 8 è scattato l’allarme, con l’intervento immediato di un’automedica, un’ambulanza del 118 e la polizia, ma non c’era più nulla da fare. L’uomo era giunto in Italia i primi di agosto, con l’intenzione di raggiungere l’Austria. Ma arrivato al confine le autorità austriache lo hanno respinto, perché, come prevede il regolamento di Dublino, i migranti sono obbligati a richiedere l’asilo politico nel Paese dove vengono identificati. L’uomo soffriva di problemi psichici patologie che emergono a causa delle condizioni che un migrante è costretto a subire durante le traversate - ed era depresso da tempo. Probabilmente il fattore scatenante del suicidio è da ricondurre al respingimento dell’Austria. Alla notizia della morte del 34enne, don Virginio Colmegna, presidente della fondazione Casa della carità che gestisce il centro di accoglienza, commenta: "Purtroppo abbiamo sempre più segnalazioni di persone che arrivano da noi con situazioni di disagio psichico e che cerchiamo di seguire con i nostri psicologi, ma è un’emergenza e un problema che temo aumenterà". Oggi, da quanto si è saputo dal Comune, l’immigrato afghano avrebbe avuto il primo colloquio con uno psicologo della struttura: troppo tardi, purtroppo. E non è la prima volta che si verificano episodi del genere nei centri di accoglienza dei richiedenti asilo a Milano. Lo scorso anno, non solo un ragazzo angolano di 28 anni si era tolto la vita impiccandosi in un bagno della struttura di via Fratelli Zoia, ma un altro giovane 30enne si era ucciso gettandosi da una finestra nel centro di via Aldini. Nel frattempo aumentano le polemiche nei confronti del trattato di Dublino che impone l’immigrato a richiedere l’asilo politico nella terra dove mette piede. Ed è proprio l’assessore al Welfare del comune di Milano, Pierfrancesco Majorino, ad attaccare: "In attesa di comprendere di più e meglio la dinamica dell’episodio, non possiamo che constatare come questo ragazzo sia una vittima delle ignobili regole europee. Non voleva rimanere in Italia, ma in Italia era costretto a restare". Migranti. Chi soffia sul fuoco della paura di Norma Rangeri Il Manifesto, 25 agosto 2017 Una donna anziana ferita, bambini terrorizzati, immigrati finiti in ospedale, poliziotti con scudi e manganelli all’inseguimento tra le persone ferme ad aspettare l’autobus. È in sintesi il bilancio dello sgombero avvenuto ieri a Roma, in un luogo centrale della città come piazza Indipendenza. La cronaca dei mezzi della polizia che arrivano all’alba e scatenano gli scontri usando gli idranti è un pessimo segnale. Purtroppo questo ennesimo episodio di ostilità verso persone costrette a dormire accampate nei giardini, e tutte con il permesso di soggiorno, è lo specchio di un clima alimentato da mesi. Iniziato con quella che potremmo definire la "politica dei respingimenti" del ministro degli interni verso le Ong. Un clima segnato da episodi di ordinario razzismo nella quotidianità del Belpaese, registrati ogni giorno ovunque, con esempi di sindaci, compresi quelli del Pd, protagonisti di comportamenti di ordinario leghismo. Come è avvenuto anche ieri in provincia di Piacenza con la scritta "no ai neri, no all’invasione" con cui sono stati accolti i minori non accompagnati provenienti da molti paesi africani. Se è necessario ricorrere alla polizia contro migranti regolari a cui la prefettura ha tolto il palazzo che occupavano da anni, con famiglie e bambini iscritti alle scuole del quartiere, vuol dire che si passa alle maniere forti con i più deboli, con i più poveri. Il ministro Minniti che ieri ha assistito alla messa per le vittime del terremoto, a Pescara del Tronto, non ha niente da dire? Non che le dichiarazioni e gli annunci servano a molto, in genere finiscono nel sacco stracolmo delle promesse governative che proprio oggi, anniversario del terremoto di Amatrice, tutti possono vedere quale valore abbiano e di che razza di impegni si tratti. Ma oltre alla responsabilità del ministero degli interni c’è anche quella di chi governa oggi la Capitale. La giunta Raggi, che alle prime piogge autunnali vedremo galleggiare sulle pozzanghere di Roma, è alle prese con troppe patate bollenti. Troppi scontri di potere per avere il tempo di occuparsi (lo sfratto del palazzo era in essere da molti mesi) del problema. Al Campidoglio tiene banco la girandola degli assessori, la sindaca Raggi ce ne ha appena regalato uno di Livorno per mettere le mani nel bilancio della capitale, mentre per gli immigrati di piazza Indipendenza la soluzione offerta dal comune si dovrebbe tradurre nello smembramento delle famiglie in due centri di accoglienza alla periferia della città. Naturalmente la situazione generale è complicata dal fatto che seppure i somali e gli eritrei di piazza Indipendenza volessero andarsene in un altro paese non potrebbero farlo perché glielo impedisce il Regolamento di Dublino. Tuttavia il modo in cui il governo e il comune rispondono ai muri europei non può, non dovrebbe e essere quello dell’emergenza. A meno che non sia strumento di una politica cinica quanto miope, la politica della paura con il suo vasto, frequentato, ambito mercato politico. Condivisa da pentastellati, leghisti, berlusconiani, piddini senza troppe distinzioni tra governo e opposizione. Le elezioni sono ancora lontane ma si cerca la migliore posizione ai nastri di partenza. E l’immigrazione corrisponde al colpo di inizio corsa. Ci sono quelli che bastonano gli ambulanti sulle spiagge, e ci sono gli idranti di chi pensa di governare l’ordine pubblico scatenando lo scontro di piazza contro gli invasori. manganelli, idranti contro sassi, con una bombola lanciata da una finestra. È una violenza sconsiderata che non promette niente di buono. Oltretutto contro persone che fuggono da guerre e siccità, sarebbe da sconsigliare un così insensato spreco di acqua, proprio in una città coperta da sterpaglie, con le risorse idriche in rosso e le fontane a secco. Migranti. L’Eritrea e la rimozione del passato coloniale italiano di Alessandro Leogrande Il Manifesto, 25 agosto 2017 La fuga disperata dal "paese caserma" dove i nomi delle torture sono italiani. Il violento sgombero degli eritrei in Piazza Indipendenza non mette in luce solo l’incapacità della giunta Raggi di affrontare una seria e organica politica di accoglienza dei rifugiati, anche quando questi sono donne e bambini residenti in città da molti anni. Pone in risalto l’evidente rimozione del passato prossimo e meno prossimo che si riproduce ogni qualvolta ci si trova di fronte alle migrazioni dal Corno d’Africa. Ancora una volta, si finisce per definire genericamente africani, quando non "invasori", profughi che provengono specificamente dalle ex colonie italiane. Una tale rimozione si produsse, ad esempio, anche in occasione del terribile naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando a morire furono 360 eritrei su 368 vittime complessive. Da cosa scappavano gli eritrei morti a Lampedusa? Da cosa scappano gli eritrei di piazza Indipendenza? E perché, soprattutto in questi anni, gli eritrei scappano in massa? Sono queste le domande che dovrebbero precedere ogni seria riflessione sulle politiche di accoglienza nei confronti di rifugiati che si sono lasciati alle spalle una delle dittature più feroci al mondo. Ma tali domande raramente trovano una risposta. Gli eritrei (che continuano a essere da anni uno dei principali gruppi nazionali che raggiungono l’Italia dalla Libia) fuggono da un regime che ha privato il suo popolo di ogni libertà civile e politica, che ha imposto il servizio militare obbligatorio, e a tempo indeterminato, per ogni eritreo - uomo o donna che sia - che abbia compiuto 18 anni. In pratica, il paese si è trasformato in una immensa caserma-prigione da cui (non solo) ragazzi e ragazze provano a fuggire. Sfidano la morte probabile durante il Grande Viaggio pur di lasciarsi alle spalle la certezza di una intera vita governata dal regime Chi viene riacciuffato e rispedito indietro, in quanto disertore, finisce direttamente nei gulag nel deserto. Sono almeno diecimila i prigionieri politici vecchi e nuovi. Che tutto questo poi sia stato edificato da Isaias Afewerki, il leader di quello che fu il Fronte popolare per la liberazione dell’Eritrea, un’organizzazione laica e socialista, è doppiamente grave. Come raccontato da molti esuli, ex militanti del Fronte popolare, l’attuale caserma-prigione è stata generata dal fallimento di una lunga lotta di liberazione. La frattura si è prodotta nella seconda metà degli anni novanta, allorquando gli oppressi di ieri, dopo aver ottenuto l’indipendenza, hanno adottato gli stessi metodi dei precedenti oppressori (quelli dell’occupazione etiopica e, per certi versi, ancor prima, quelli dell’occupazione italiana terminata nel 1943). Oggi nei gulag eritrei, come accertato da una Commissione d’inchiesta dell’Onu, si pratica sistematicamente la tortura. Qualche anno fa, mi è capitato di incontrare un rifugiato eritreo che era stato detenuto in un campo alle porte di Asmara e di ascoltare dalla sua viva voce il racconto delle violenze subite. Le torture subite avevano nomi italiani: Ferro, Otto, Gesù Cristo. Improvvisamente ho capito che quei nomignoli si erano tramandati di dominazione in dominazione, dai carcerieri di ieri a quelli di oggi. Per giunta, ho appreso poco dopo, alcuni degli attuali campi di internamento sorgono esattamente laddove sorgevano i vecchi campi coloniali. Così, quando si parla dell’esodo dal Corno d’Africa si produce una doppia rimozione, del presente e del passato. Tale doppia rimozione produce quel misto di indifferenza e fastidio che è alla base di uno sgombero privo di reali soluzioni alternative come quello di piazza Indipendenza. Ieri pomeriggio, intorno alle 15,00, la piazza era presidiata dai blindati della polizia mentre dal palazzo ormai vuoto, che aveva ospitato negli ultimi anni gli eritrei, sventolava un tricolore lacero e stinto. Chissà da quanto stava lì, al primo piano del palazzo. Che tutto questo sia avvenuto a meno di cento metri da Piazza dei Cinquecento, il piazzale che fronteggia la stazione Termini, intitolato ai soldati italiani caduti nella battaglia di Dogali (in Eritrea, nel 1887), una delle pagine nere del nostro colonialismo, reinterpretata negli anni successivi come una sorta di italica Little Big Horn, è una coincidenza che ha il sapore del cortocircuito. Ius soli. Alfano: "Nessuna obiezione di merito ma non è opportuno" La Repubblica, 25 agosto 2017 Il ministro degli Esteri dal Meeting di Cl: "Chiediamo una valutazione di opportunità. Avremo emendamenti". E sulle regionali in Sicilia attacca il centrodestra: "Da Salvini e Meloni più veti che voti". "Sullo Ius soli non abbiamo obiezioni di merito ma di opportunità". Il ministro degli Esteri Angelino Alfano, a margine del Meeting di Rimini di Comunione e liberazione, chiarisce la sua posizione sulla riforma della cittadinanza che dovrebbe riprendere il suo iter al Senato dopo la pausa estiva. Ricordando che il suo partito, Alternativa popolare, ha "già votato a favore dello ius soli alla Camera", Alfano ribadisce di non avere "una obiezione di merito" sul provvedimento, "se non in alcuni emendamenti molto importanti che presenteremo". Ma al tempo stesso ritiene sia necessaria una "valutazione di opportunità, perché le cose giuste fatte al momento sbagliato rischiano di diventare sbagliate". Parlando poi delle elezioni regionali in Sicilia del prossimo novembre, il leader di Ap, forte del suo accordo con il Pd sul candidato (il prescelto per la corsa alla presidenza della Regione è Fabrizio Micari, rettore dell’Università di Palermo), attacca il centrodestra sul piano delle coalizioni: "In Sicilia sembra sempre più emergere a destra una prevalenza più dei veti che dei voti di Salvini e Meloni - afferma Alfano - e questo è oggettivamente un problema per i moderati. Se anche in Sicilia che è una classica terra di moderati comandano gli estremisti, diventa tutto più complicato". Sull’alleanza con i democratici nell’Isola il ministro preferisce non sbilanciarsi: "Stiamo ancora lavorando sul programma", risponde a chi gli chiede se il Pd possa essere un interlocutore per il suo partito. E tra gli obiettivi del programma ne cita due: "Una zona franca fiscale per la Sicilia ed una candidatura dell’Isola alle Olimpiadi". Psichiatria. In Italia si usa ancora l’elettroshock, su 300 persone di Gianna Milano L’Espresso, 25 agosto 2017 Nel nostro paese si applicano ancora le scariche elettriche per casi gravi di schizofrenia. Ma nel resto d’Europa il ricorso a questi sistemi sta crescendo sempre di più. Anche se il mondo accademico è diviso sul tema. Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell’anno, all’ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettro convulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta. Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere". Questa è la storia di Giampietro Ferrari, "utente esperto" che oggi con l’associazione Aitec-Etica cerca di informare "su quello che erroneamente si chiama elettroshock". Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni 40 e usata fino a metà degli anni 60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell’elettroshock in America, venne poi soppiantata dall’avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni ‘80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa. La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all’annullamento dell’individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall’opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "La fossa dei serpenti". "L’elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell’immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all’altro", spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l’Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia. In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l’anno. "Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all’elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l’ospedale per questi trattamenti" continua Fàzzari. Era il 2005. "Negli Stati Uniti questa tecnica è tornata di moda perché remunerativa per le assicurazioni. Ma non ci sono evidenze scientifiche che la giustificano". La denuncia dello psichiatra Peppe Dell’Acqua I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall’elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L’esperienza clinica ne ha poi dimostrato l’efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l’acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era "probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione". "Di solito all’elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All’università non se ne parla e non lo si insegna", dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell’Università di Brescia. A riconoscerne l’efficacia sono l’American Psychiatric Association, l’American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei. Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un’indagine eseguita da Fazzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta. "Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all’estero", sostiene Fazzari. "Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C’è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l’apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico". Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano "motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica". E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: "Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell’opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica". Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: "La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale". Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell’elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d’azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all’approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: "È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché". Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: "Vari studi avvalorano l’ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L’effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci". Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. "Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l’opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un’unica ricetta" spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell’Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello "smemorizzato", che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. "Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l’ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?", conclude Ferrari. Siria. La popolazione civile di Raqqa in trappola di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 agosto 2017 Come a Mosul, così a Raqqa. Come mesi fa nella città irachena, ora che la battaglia per la riconquista della "capitale" e principale roccaforte dello Stato islamico in Siria entra nella fase decisiva, i civili finiscono in trappola. Da giugno - si legge in un rapporto diffuso oggi da Amnesty International - quando è iniziata l’offensiva per riprendere Raqqa, centinaia di civili sono stati feriti o uccisi. Non è chiaro quanti siano i civili intrappolati nel centro storico di Raqqa. Secondo le Nazioni Unite, sarebbero da 10.000 a 50.000. Il 6 giugno, le Forze democratiche siriane e la coalizione a guida Usa hanno avviato la fase finale delle operazioni per strappare Raqqa allo Stato islamico. Sopravvissuti e testimoni hanno riferito ad Amnesty International della presenza di trappole esplosive e di cecchini dello Stato islamico che prendono di mira chiunque cerchi di fuggire e di civili usati come scudi umani, così come dei costanti colpi d’artiglieria e bombardamenti della coalizione a guida Usa, sulla base di coordinate e indicazioni fornite dalle Forze democratiche siriane. I sopravvissuti incontrati da Amnesty International hanno denunciato che le forze della coalizione a guida Usa hanno preso di mira imbarcazioni lungo il fiume Eufrate. Il 2 luglio il comandante delle forze della coalizione, il generale statunitense Stephen J. Townsend, aveva dichiarato al New York Times: "Spariamo a ogni imbarcazione che individuiamo". A marzo le forze della coalizione avevano lanciato volantini in cui c’era scritto: "Daesh sta usando barche e traghetti per trasportare armi e combattenti: non li usate, stanno per essere attaccati". Ma attraversare l’Eufrate era e resta una delle principali possibilità per i civili di fuggire da Raqqa. Colpire ogni imbarcazione sulla base dell’errata presunzione che ciascuna di esse avesse a bordo armi o combattenti dello Stato islamico, è risultato così un attacco indiscriminato e dunque vietato dalle leggi di guerra. Se da un lato la popolazione civile di Raqqa sta subendo le conseguenze peggiori dei combattimenti, nelle zone controllate dallo Stato islamico a sud dell’Eufrate è in corso un altro assalto violento contro i civili, ad opera delle forze governative siriane spalleggiate dalla Russia. Nella seconda metà di luglio i loro attacchi indiscriminati hanno ucciso almeno 18 civili e ferito un numero assai più alto. Dai dettagli forniti dai sopravvissuti, Amnesty International ritiene che le forze governative siriane abbiamo intenzionalmente sganciato bombe a grappolo e altre bombe prive di guida su aree, lungo i canali d’irrigazione dell’Eufrate, dove gli sfollati dal conflitto avevano trovato improvvisati ripari. Numerosi testimoni hanno riferito di quattro bombe a grappolo sganciate dalle forze russe, il 23 luglio, contro il campo per sfollati di Sabkha, causando almeno 18 morti (tra cui un bambino di un anno e mezzo) e 30 feriti. Il giorno dopo, altre bombe a grappolo sono piovute sul campo di Shurayda, due chilometri a est di Sabkha. Amnesty International ha incontrato i sopravvissuti in un ospedale locale, tra cui Usama, 14 anni, gravemente ferito all’addome e agli arti e che nell’attacco ha perso sette familiari. Non c’è alcun dubbio - conclude Amnesty International - che i civili assediati a Raqqa stiano subendo l’orribile brutalità dello Stato islamico. Ma le violazioni commesse dallo Stato islamico non riducono gli obblighi legali delle altre parti in conflitto di proteggere i civili attraverso la selezione dei bersagli legittimi, la rinuncia ad attacchi sproporzionati e indiscriminati e l’adozione di tutte le misure possibili per ridurre al minimo i danni ai civili. Così non è successo a Mosul e così pare non stia succedendo a Raqqa. Venezuela. La procuratrice anti-Maduro ai giudici: "il presidente è corrotto, vi do le prove" di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 25 agosto 2017 J’accuse di Luisa Ortega Dìaz la procuratrice generale di Caracas destituita il 5 agosto nel suo intervento a Brasilia, alla riunione giuridico-forense dei paesi latino-americani dopo una rocambolesca fuga. Consegnerà il materiale probatorio ai magistrati dei diversi paesi coinvolti. Il regime: "Va arrestata, era il suo ufficio a essere corrotto". "Le prove sono qui. Ne ho fatto una copia e le conservo in un posto sicuro". Mostrando una chiavetta usb, Luisa Ortega Dìaz, la procuratrice generale del Venezuela destituita d’autorità il 5 agosto scorso, apre il suo intervento alla riunione giuridico-forense dell’America latina a cui è stata invitata a Brasilia e spiega cosa sta allarmando tanto il governo di Nicolàs Maduro. Secondo l’alto magistrato, il presidente venezuelano e i papaveri del regime avrebbero usato delle imprese in Messico e Spagna per stornare dei soldi ricevuti come tangenti. Oltre allo stesso Capo dello Stato, in questo giro di corruzione sarebbero coinvolti il numero due del governo Diosdado Cabello e il sindaco dell’area centrale di Caracas, Jorge Rodrìguez. Maduro, sempre secondo il procuratore, ha partecipazioni nella Grand Group Limited, una delle società che fornisce cibo al governo venezuelano. L’impresa ha sede in Messico ed è legata a tre persone vicine al presidente: Rodolfo Reyes, Àlvaro Pulido Vargas e Alex Saab. L’ex presidente dell’Assemblea nazionale (il Parlamento) Diosdado Cabello avrebbe ricevuto dalla Odebrecht, la holding delle costruzioni brasiliana al centro della mega inchiesta "Lava Jato", 100 milioni di dollari come tangente. Il denaro, stando al procuratore Dìaz, venne versato tramite una società che ha sede in Spagna, la TSE Arietis. I rappresentanti legali sono due cugini di Cabello: Luis Alfredo Campos Cabello e Jerson Jesùs Campos Cabello. Secondo le confessioni di Marcelo Odebrecht, ex ceo della holding, la somma faceva parte di un contributo di oltre 200 milioni di dollari che l’allora presidente brasiliano Lula avrebbe fatto dirottare verso Caracas per sostenere la candidatura di Maduro alle ultime elezioni presidenziali. In cambio, Odebrecht avrebbe ottenuto l’assegnazione degli appalti per la realizzazione di 11 importanti opere in Venezuela per il momento sospese. Giunta in aereo dalla Colombia dove era arrivata dopo una rocambolesca fuga via mare fino all’isola di Aruba (Antille olandesi), il magistrato ha spiegato di voler consegnare il materiale probatorio ai diversi paesi coinvolti ""in modo che possano svolgere le indagini di loro competenza". Accompagnata dal marito e da altri due magistrati del suo staff, Luisa Ortega Dìaz ha spiegato che "in Venezuela non c’è giustizia. In Venezuela è impossibile indagare su qualsiasi caso di corruzione o narcotraffico. È la comunità internazionale che deve farlo". Poi ha avvertito i colleghi riuniti per la prevista riunione giuridica del Mercosur: "Non trasmettete alcun documento delle vostre indagini all’ufficio del Procuratore a Caracas. È compiacente al regime e distruggerebbe ogni prova". In una conferenza stampa, il giudice ha sostenuto che l’attuale organo legislativo, la neonata Assemblea costituzionale, si è trasformato in un tribunale dell’Inquisizione. "È stato creato come strumento di diritto penale del nemico. Serve soltanto a perseguitare gli avversari politici. Anzi: a distruggerli. Io ne sono una vittima". "Il processo per la mia destituzione è durato 32 secondi", ha spiegato ancora il magistrato. "Il mio sostituto Tarek William Saab è accusato di sei casi di corruzione. Il suo primo atto, appena insediato, è stato distruggere tutti i documenti legati a queste inchieste". La Dìaz era stata invitata all’incontro dal procuratore generale brasiliano, Rodrigo Janot. Al suo arrivo all’aeroporto di Brasilia è stata accolta dal ministro degli Esteri Aloysio Nunes che le ha poi offerto, a nome del governo, asilo politico. "Se lei vuole, la accoglieremo a braccia aperte". L’ex procuratore ha detto di volerci pensare. Non sa bene ancora cosa vuole fare. Domani dovrebbe rientrare in Colombia, dove anche il presidente Manuel Santos le aveva offerto asilo, e poi volare negli Usa per un’altra riunione con i magistrati americani. La doppia offerta ha provocato le ire di Maduro (Santos è stato definito "Caino", Temer "golpista"); i rapporti tra il Venezuela e i paesi confinanti sono al limite della rottura diplomatica. La reazione del regime non si è fatta attendere. Maduro ha convocato una conferenza stampa con i media internazionali e, fatto insolito, con gran parte degli ambasciatori venezuelani. Ha annunciato di aver chiesto all’Interpol l’emissione di un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti per corruzione. "Negli ultimi due anni", ha detto, "non ha svolto alcuna indagine sulla rete di corrotti che aveva nel suo ufficio. Proprio lei che adesso lancia accuse senza avere alcuna prova". Diosdado Cabello ha voluto chiedere scusa alla platea di giornalisti e diplomatici. "Sono stato io a voler confermare l’incarico alla Ortega quando si trovava in difficoltà per le indagini che ruotavano attorno al suo lavoro. Ho voluto darle fiducia". Stati Uniti: i cani greyhound che danno un senso alla vita dei detenuti di Vera Lawlor petlevrieri.it, 25 agosto 2017 Oltre a scrivere di animali domestici, ho il piacere di lavorare come dog sitter. Tra i miei clienti c’è Spring, che è stato adottato attraverso Greyhound Friends of New Jersey (Gfnj), e ha fatto parte del Programma Foster del carcere. Questo programma, adottato presso il riformatorio Mountainside ad Annandale, in New Jersey, ha festeggiato il 15° anno di attività nel maggio 2017, durante i quali si sono "diplomati" ben 822 greyhound. Nel 2011 il Gfnj è stato inserito nel New Jersey Animal Hall of Fame per l’effetto positivo che il Programma Foster del carcere ha avuto sui greyhound ex racer e i detenuti che vi hanno partecipato. "È una grande iniziativa che rappresenta una vittoria sia per i cani che per i detenuti" ha detto Susan Smith, sergente in pensione che opera come coordinatrice volontaria del programma foster da quasi 10 anni. "Ci permette di avere più cani e consente ai detenuti di avere l’opportunità di prendersi cura di loro e sviluppare nuove competenze". Il programma foster è iniziato con solo tre cani ed attualmente ne accoglie fino a 15. Come ha scritto la presidente di GFNJ sulla newsletter nella primavera/estate 2017, con un po’ di fiducia ed una relazione aperta il gruppo rescue, il sovrintendente del carcere e il commissario della struttura hanno unito le forze per lanciare insieme il programma che ha rappresentato un’opportunità sia per lo staff del carcere che per i detenuti di prendersi cura e educare i cani in cerca di casa, migliorando al tempo stesso le vite dei detenuti in previsione del loro futuro. Grazie all’esperienza maturata con questa iniziativa, alcuni detenuti hanno intrapreso lavori che hanno a che fare con gli animali, come ad esempio assistenti veterinari o di canile. Al programma foster sono iscritti fino a 30 detenuti e ogni cane viene assegnato a due addestratori. Gli altri partecipanti si fanno le ossa per diventare addestratori assistendo i titolari in compiti come la pulizia delle gabbie, le passeggiate all’aperto o fare il bagno ai cani. I partecipanti sono scelti in base alle raccomandazioni degli agenti penitenziari e dopo un colloquio con Susan Smith. Di notte i cani dormono in cella con i detenuti e durante il giorno partecipano agli addestramenti o escono all’aperto a sgambare un po’. Lavorare con i cani ha un effetto calmante sui detenuti e insegna loro l’auto controllo e il senso di responsabilità, sostiene la Smith. "Molti detenuti non hanno mai provato affetto verso i cani ed essere nel programma foster dà loro l’opportunità di avere un contatto diretto questi animali" afferma la coordinatrice. "Questi ragazzi adorano i cani ed hanno davvero a cuore la loro sorte". Il greyhound della Smith, Bitel, è diplomato al programma foster e viene portato spesso in visita alla prigione. "La prima volta che l’ho riportato qui è corso dritto verso il detenuto che aveva lavorato con lui, i cani non dimenticano mai i loro addestratori" ha detto la Smith. "È stato divertente vederli giocare assieme a terra. Bitel cercava di sedersi sulle gambe del suo addestratore, per stargli il più vicino possibile". Anche i cani con necessità particolari possono beneficiare del programma. Il programma foster è stato utile soprattutto con cani con arti fratturati in fase di riabilitazione che necessitavano di fare passeggiate al guinzaglio una volta usciti dalle loro gabbie. È una situazione fantastica anche per cani con necessità particolari che hanno bisogno di attenzioni extra. Per esempio ad Hannity, salvato da un cinodromo in Florida con un problema agli occhi, deve essere somministrato un collirio tre volte al giorno. "La maggior parte delle famiglie foster non sarebbe in grado di gestire queste cure programmate a causa degli impegni di lavoro, per cui quale soluzione migliore per lui del programma foster?" ha aggiunto la Smith. "Non ho dovuto neppure chiedere se ci fossero volontari disponibili a prestargli cure extra perché tutti i partecipanti al programma stavano male per Hannity e volevano aiutarlo a guarire". La maggior parte dei greyhound salvati dal Gfnj provengono da cinodromi della Florida e solo pochi da allevamenti. A parte forse una notte in rifugio, i cani vengono quasi sempre affidati subito a famiglie foster o entrano nel programma del penitenziario. Tutte le famiglie foster, compresi i detenuti, sono tenute ad insegnare ai cani a dormire nelle loro cucce perché molti potenziali adottanti non vogliono i cani nel proprio letto. Ma a causa del legame speciale che si sviluppa tra i detenuti e i loro cani, questa regola non viene applicata rigidamente in carcere. "Ho avuto agenti che mi hanno detto che alcuni dei detenuti facevano dormire i cani sulla branda con loro" ha detto la Smith. "Qualche volta perché i cani non stavano bene e a volte perché il detenuto si sentiva solo. Ho risposto loro che se è questa la cosa peggiore fatta dai detenuti va più che bene". L’associazione rescue Gfnj ha costantemente bisogno di donazioni e di approvvigionamenti per sostenere il Programma Foster del carcere.