Carceri: l’estate del nostro scontento di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2017 L’estate del nostro scontento: "nostro", di chi vive, come fa il Volontariato, una vicinanza forte con il carcere, che non si interrompe certo d’estate, e di chi in carcere ci passa una parte consistente della sua vita. E questa estate ne ha procurato tanto, di scontento: è stata torrida, piena di sofferenza, con numerosi suicidi, è stata soprattutto l’estate della perdita della speranza. La speranza che era nata con le sentenze dell’Europa contro il sovraffollamento, che avevano messo il nostro Paese brutalmente di fronte alle sue responsabilità, e quindi con le misure per porre fine a quella tortura, e poi con gli Stati Generali sull’esecuzione penale e l’idea che delle pene e del carcere si potesse parlare finalmente in modo "nuovo", o magari "saggiamente vecchio", se vogliamo ricordarci che le pene, secondo la nostra Costituzione, devono tendere alla rieducazione, quella è la loro funzione, e non certo la funzione di attuare una vendetta sociale nei confronti di chi commette reati. E ancora con la legge delega per la riforma della Giustizia, e in particolare dell’Ordinamento penitenziario. A tutt’oggi di quella delega non si sa se ce la farà a produrre qualcosa, o se la politica spazzerà via tutto con lo spettro delle elezioni. Nel frattempo, il Ministro ha istituito tre commissioni di esperti che lavoreranno fino a dicembre proprio per predisporre i decreti attuativi della legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma, come ricordano i radicali, che più di tutti si stanno battendo per accelerare i tempi, "era stato lo stesso ministro della Giustizia a dire a Radio Radicale il 19 giugno scorso che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Tempi e composizione delle Commissioni piacciono poco anche al Volontariato: la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ritiene infatti che in questo modo si corra il rischio di perdere questa opportunità, e che sarebbe stato meno rischioso usare per i decreti attuativi gli elaborati prodotti dai tavoli degli Stati Generali, e sottolinea anche, con "disincantato realismo", e non certo per vittimismo, che le Commissioni sono fatte solo di magistrati, avvocati, docenti universitari, mentre le competenze del Volontariato e del privato sociale sono considerate poco utili, come se per scrivere una buona legge bastasse essere degli stimati giuristi. Si tratta di tecnici che la nostra stima ce l’hanno senz’altro, ma evidentemente non sono più i tempi in cui Mario Gozzini, parlamentare, e Alessandro Margara, magistrato, andavano a bere il caffè con i detenuti proprio per discutere della riforma penitenziaria "sfruttando" la loro indiscutibile competenza.. Ma questa estate ha messo a nudo anche un’altra verità: che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non ha saputo cogliere l’occasione di una sensibile diminuzione dei numeri del sovraffollamento per cambiare tutto quello che poteva essere positivamente cambiato senza necessità di introdurre modifiche legislative. Questa estate non sarebbe stata così disastrosa se il Dap avesse avuto il coraggio di ammettere che i numeri delle presenze stanno di nuovo pericolosamente crescendo, e intanto le condizioni della vita detentiva in molte carceri sono spesso desolanti, e si può e si deve agire subito. Prime fra tutte le cause di sofferenza, le temperature insopportabili dentro celle bollenti, fatiscenti, e con regolamenti che ancora non sanno permettere in modo inequivocabile neppure l’acquisto di un ventilatore da quattro soldi. Sì certo, ci sono circolari che aprono spiragli, ma le circolari non sono mai chiare e non parlano mai un linguaggio che non si presti a dubbi e interpretazioni restrittive. E così ogni carcere è una triste repubblica a sé in cui spesso Burocrazia batte Umanità dieci a zero. E i suicidi? Possibile che nessuno voglia ammettere che quello che potrebbe davvero prevenirli è "tendere al massimo" l’Ordinamento per consentire più spazio ai legami affettivi? Ha tentato di farlo una circolare firmata da Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento, che ha colto le pressanti richieste che gli venivano proprio da Padova, di dare più spazio possibile agli affetti, per invitare a fare ogni sforzo necessario per un "incremento delle occasioni di contatto con i famigliari" intese proprio come forma di contrasto ai tentativi di suicidio. Ma vorremmo, in proposito, capire quanti direttori hanno colto l’invito, e quanto in concreto è stato fatto e si intende fare nei circa duecento carceri del nostro Paese, perché un detenuto non può affidare il suo destino alla fortuna di essere in un carcere in cui questi inviti diventano iniziative precise, piuttosto che in un carcere, e ce ne sono troppi, in cui prevale la logica della chiusura e dell’immobilismo. Sono queste le risposte che vorremmo avere, perché questa estate cominciata così male si chiuda con qualcosa di più di una timida speranza di cambiamento. Si chiuda, per lo meno, con la certezza che in tutte le carceri l’invito ad ampliare al massimo gli spazi e i tempi per le relazioni affettive diventi un ineludibile "imperativo categorico". *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Quattromila detenuti partecipano al Satyagraha del Partito Radicale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2017 Rita Bernardini: "il sovraffollamento è in rapida ripresa, con punte che in alcune strutture toccano il 200%. Condizioni inumane, già condannate in passato dalla corte dei diritti europea". Continuano ad arrivare da tutti gli istituti penitenziari italiani le adesioni dei detenuti al Satyagraha promosso dal Partito Radicale. Un’iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello per richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Rita Bernardini spiega: "Il sovraffollamento è in rapida ripresa. Condizioni inumane, già condannate dalla Corte europea dei diritti. Per questo i detenuti lanciano, assieme a noi, la loro richiesta di ascolto". Quasi 4.000 detenuti in sciopero della fame. Continuano ad arrivare nuove adesioni da parte dei reclusi dei vari istituti penitenziari al Grande Satyagraha promosso dal Partito Radicale. Si tratta di una iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, lo sciopero della spesa e il rifiuto del carrello. Un metodo che non solo è utile a creare un varco nel mondo esterno per dialogare con le istituzioni, ma riesce anche a contenere delle potenziali rivolte da parte dei detenuti esasperati dalle criticità del sistema penitenziario e l’inevitabile disagio della polizia penitenziaria costretta a fronteggiarla. In Italia, grazie all’intervento del Partito Radicale, i detenuti hanno imparato a utilizzare l’arma non violenta: quella di rivendicare i propri diritti attraverso lo sciopero della fame e, non da ultimo, i ricorsi alla Corte europea. "Il sovraffollamento - spiega Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale - è in rapida ripresa, con punte che in alcune strutture toccano il 200%. Condizioni inumane, già condannate in passato dalla Corte dei diritti europea. Per questo i detenuti lanciano, assieme a noi, la loro richiesta di ascolto. La scelta è quella del dialogo. Servono una maggiore possibilità di accesso alle pene alternative, più rapporti tra detenuti e familiari, più lavoro e studio in carcere, più cure". Proprio per questo l’iniziativa non violenta è finalizzata nel richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario che va incontro a tutte queste problematiche. I decreti attuativi della riforma - in via di elaborazione tramite le commissioni istituite dal ministro della Giustizia Orlando e già, in realtà, elaborati dagli stati generali per l’esecuzione penale - vertono proprio sulla semplificazione delle procedure davanti al magistrato di sorveglianza, la facilitazione del ricorso alle misure alternative, alla eliminazione delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, l’ incentivazione della giustizia riparativa, del lavoro intra- murario ed esterno, la valorizzazione del volontariato, il riconoscimento del diritto all’affettività e gli altri diritti di rilevanza costituzionale. Tutti elementi che servono a rendere effettiva la funzione rieducativa della pena, il che vuol dire anche più sicurezza visto che ciò abbatterebbe il numero altissimo della recidiva. Come già detto, per concretizzare la riforma, ci voglio i decreti attuativi. Lo scorso 19 luglio il ministero della Giustizia ha annunciato la costituzione presso l’Ufficio Legislativo di tre Commissioni per la loro elaborazione. Le tre Commissioni, che lavoreranno fino al 31 dicembre 2017, si occuperanno delle modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria, della riforma dell’ordinamento penitenziario minorile e della riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso. I radicali, tramite il Satyagraha, intendono anche dialogare con il lavoro di scrittura dei decreti legislativi e propongono la norma di portare da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre per i detenuti che abbiano un buon comportamento, e che - così come accade in Germania - i giorni di liberazione anticipata siano direttamente computati senza l’intervento del giudice di sorveglianza, il quale sarà chiamato ad agire solo nel caso in cui il detenuto abbia avuto rapporti disciplinari o si sia rifiutato di aderire alle attività trattamentali, laddove previste. Terrorismo. Dap: "Agenti siano armati anche fuori servizio" La Repubblica, 24 agosto 2017 È quanto emerge dal documento che il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha diramato dopo la riunione del Casa alle carceri e alle diramazioni del sistema penitenziario: "Un intervento tempestivo potrebbe contribuire alla limitazione del danno". Un richiamo al personale delle forze di polizia perché "porti con sé l’arma di ordinanza anche fuori dal servizio" è stato espresso nel Casa, il Comitato di analisi stratetica antiterrorismo, convocato il giorno dopo l’attentato di Barcellona e la successiva riunione del Comitato di analisi strategica antiterrorismo. È quanto emerge dal documento che il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha diramato dopo la riunione del Casa alle carceri e alle diramazioni del sistema penitenziario. "Un intervento tempestivo potrebbe contribuire alla limitazione del danno" si legge nel testo. Proprio in relazione alle carceri, ambiente esposto più di altri al rischio radicalizzazione, il documento del Dap invita le direzioni degli istituti "a sollecitare il personale a proseguire nell’attività di osservazione per individuare eventuali segni di radicalizzazione e proselitismo, comunicandoli tempestivamente ai competenti organi dipartimentali nonché a effettuare con ogni possibile attenzione i servizi istituzionali, specialmente quelli di vigilanza armata". In Italia il livello della minaccia non cambia. Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha chiesto di tenere alto il livello di vigilanza, rafforzando sul territorio le misure di sicurezza a protezione degli obiettivi ritenuti più a rischio e verso i luoghi che registrano particolare affluenza di persone. A questo scopo verrà inviata a tutti i prefetti una circolare di pubblica sicurezza perché dispongano un attento monitoraggio degli eventi pubblici già in programma in Italia, come concerti, raduni pubblici, sagre. Per citarne soltanto due: il Festival del Cinema di Venezia che si terrà in laguna dal 30 agosto al 9 settembre e la Notte della Taranta il 26 agosto a Melendugno in Puglia. I prefetti agiranno di concerto con i comitati provinciali per l’ordine e sicurezza pubblica che saranno convocati con la partecipazione dei sindaci e con le polizie locali. Sotto i riflettori anche zone pedonali, alberghi e agenzie di noleggio auto e furgoni. Terrorismo. Minniti arma i poliziotti penitenziari anche fuori servizio di Ilaria Pedrali Libero, 24 agosto 2017 Gli agenti siano sempre armati, anche quando sono fuori servizio. È questa, in sintesi, la nuova disposizione per la polizia penitenziaria, in seguito ai fatti di Barcellona. Subito dopo l’attentato sulla Rambla, infatti, il ministro dell’interno Minniti aveva convocato un vertice straordinario del Casa, il Comitato di analisi Strategica Antiterrorismo. Dalla riunione, alla quale hanno partecipato i vertici nazionali delle Forze di polizia, dei Servizi di Intelligence e i rappresentanti della sicurezza di Spagna a Roma, è emerso che i poliziotti dovranno sempre portare con s l’arma di ordinanza, anche quando non sono in servizio. Questo perché "un intervento tempestivo potrebbe contribuire alla limitazione del danno" in caso di attentato, si legge nella circolare diramata dal Dipartimento amministrazione penitenziaria alle direzioni delle carceri italiane. Più o meno, nel documento rivolto agli agenti di polizia penitenziaria si rievoca quello che è successo a Cambrils, dove un agente ha fatto fuori da solo quattro dei terroristi che stavano per lanciarsi sulla folla. Il quinto è stato ucciso da un "mosso de esquadra" in borghese, fuori servizio. Anche in Finlandia sono stati i poliziotti, armati, a sparare alle gambe all’accoltellatore di Turku. Quello che emerge dal documento del Casa è che in particolare gli agenti di polizia penitenziaria italiana dovranno fare particolare attenzione ai detenuti nordafricani o provenienti dalle aree di conflitto dove c’è la presenza dell’Isis, affinché vengano impediti "episodi di proselitismo o di radicalizzazione". Perché sono proprio le carceri uno dei luoghi a maggiore rischio. Quindi i poliziotti sono invitati a osservare i vari comportamenti dei detenuti sospetti e a comunicarli "ai competenti organi dipartimentali nonché a effettuare con ogni possibile attenzione i servizi istituzionali, specialmente quelli di vigilanza armata". A oggi i detenuti considerati a rischio in Italia, e quindi tenuti sotto stretta osservazione, sono 420, e tra questi sono 45 quelli detenuti in regime di massima sicurezza per reati di terrorismo. Il problema delle armi di ordinanza in dotazione agli agenti solleva, però, auna questione già evidenziata tempo fa, all’epoca dei fatti di Nizza, dai sindacati di polizia. A quel tempo l’allora ministro degli Interno Angelino Alfano chiese che gli agenti fossero sempre armati, ma i sindacati fecero notare che nonostante il rischio attentati sia assai da tempo concreto, agli agenti fuori servizio viene negato il porto d’armi. O meglio, viene negato loro il porto d’armi per difesa personale e quindi non possono detenere un’arma propria, solo quella di ordinanza, che è una Beretta 92, pesante più di un chilo e lunga 21 centimetri. Un’arma che in caso di attacco terroristico di sicuro sarebbe efficace, ma che è difficilmente mimetizzabile e scomoda da portare addosso e da maneggiare per un agente in borghese e non in servizio. Ma non sempre è stato così. Per anni i poliziotti erano autorizzati ad avere il porto d’armi per difesa personale e detenere un’arma più maneggevole, ma proprio in concomitanza dell’innalzamento della minaccia terroristica è stato loro tolto questo diritto. Riforme in attesa: il Palazzo scommette sul flop di Carlo Bertini e Ugo Magri La Stampa, 24 agosto 2017 Solo la manovra ha buone possibilità di passare. Pochi politici investono su tutte le altre leggi rimaste al palo. Manca il tempo per approvarle e non c’è una maggioranza solida sui grandi temi che dividono il Paese. La legislatura è agli sgoccioli. Nelle alte sfere della Repubblica si sta ragionando se calare il sipario il più presto possibile, subito dopo la manovra (come vorrebbe Matteo Renzi), oppure insistere fino all’ultimo giorno utile (è la preferenza del premier). Ben che vada, il Parlamento avrà una cinquantina di giorni effettivi se si considera che tornerà al lavoro il 12 settembre si fermerà di nuovo per le elezioni siciliane. Gran parte del poco tempo residuo sarà destinato all’unico vero adempimento obbligato: il varo della manovra finanziaria. È la sola legge con percentuali di approvazione molto elevate perché se non dovesse passare sarebbero guai con l’Europa e con i mercati. Tutte le altre riforme in bilico hanno "quote" parecchio più basse. Al netto della propaganda, non c’è personalità di rango dei partiti che neghi gli ostacoli. Pressoché insuperabili quelli sul testamento biologico, dove gli steccati culturali frenano le intese. Mentre a impedirle sul sistema elettorale sono calcoli di altra natura. Scontro assicurato sui vitalizi con scarse possibilità di successo. Qualcuna in più per il nodo intricato dello Ius soli dove nei Palazzi c’è chi ci punta. Poco, comunque, per rimpiangere questo Parlamento. Per salvare lo Ius soli serve il miracolo di Papa Francesco - Papa Francesco potrà fare la differenza riportando all’ovile quei centristi che recalcitrano sullo Ius soli? Se non ci riesce lui, l’unica chance di trovare al Senato i numeri sulla cittadinanza è legata alle trattative in corso tra il Pd e Ap. Per ragioni che con i diritti dei figli degli immigrati non hanno molto a che fare. Il via libera arriverebbe in cambio di una prospettiva per il partito di Angelino Alfano che lotta per non essere spazzato via alle prossime elezioni. Al momento, Ap è divisa e i senatori disposti a sostenere la riforma sanno che, votandola, si taglierebbero i ponti alle spalle: un ritorno alla casa berlusconiana diventerebbe a quel punto impossibile. Per questo motivo, ai verti Dem c’è chi sta studiando un’uscita di emergenza: rinviare la discussione dello Ius soli alla vigilia dello scioglimento, e tentare di approvare la legge con i voti della sinistra. Mdp ne fa una questione dirimente pure per votare la manovra. Uno studio certifica: si può andare al voto con le norme esistenti - L’ultimo tentativo sarà ai primi di settembre: partirà una consultazione tra i maggiori partiti, che però rischia di produrre un altro buco nell’acqua. Questa è la convinzione degli addetti ai lavori quando si parla di legge elettorale. In commissione al Senato c’è un disegno di legge a firma Andrea Marcucci, fedelissimo di Renzi, che vuole riportare in vita il Mattarellum. Ma sembra soprattutto una pistola messa lì per spaventare chi, come M5S e berlusconiani, teme le sfide all’ultimo sangue nei collegi. Difficile che la Lega convinca il Cav a percorrere quella strada. Altrettanto improbabile che si riparta dal sistema tedesco: un eventuale accordo tra Pd e Alfano in Sicilia comporterebbe l’addio definitivo allo sbarramento del 5 per cento. Circola in alto loco la voce di uno studio del Viminale, dove si certifica che niente impedisce di votare con la normativa attuale: per cui alla fine non servirà nemmeno un decreto. Se cambia una virgola tutti gli ex onorevoli conservano i privilegi - È la grana più spinosa per il Pd: sui vitalizi dovrà superare le fortissime critiche dei propri senatori al testo che applica il metodo contributivo a tutte le pensioni passate, presenti e future. Ma nello stesso tempo non potrà permettersi di dare spazio ai Cinque Stelle, che sugli introiti della Casta faranno fuoco e fiamme. Già pregusta la campagna elettorale il grillino Danilo Toninelli: "Se non passa la legge, passerà il cadavere del Pd". Nel cui pancione non ci sono solo le riserve sui rischi di incostituzionalità legati al taglio degli assegni in essere. Esistono anche obiezioni molto radicali espresse dal vecchio tesoriere Ds, Ugo Sposetti, il quale guida una fronda interna della minoranza orlandiana. Per non dire dell’ostilità strisciante dei tanti senatori di lungo corso che già si sentono ex. Basta una sola modifica al testo per rispedire tutto alla Camera. Certificando di fatto il "game over". Le crisi di coscienza frenano il passo avanti sul biotestamento - Lasciare a metà la riforma vorrebbe dire che in Italia resterebbe vietato rifiutare le terapie mediche, e che l’accanimento terapeutico verrebbe praticato pure in futuro, né ci sarebbe una regola per i Dat (disposizioni anticipate di trattamento): tutte questioni di alto spessore civile ma con un grave difetto politico, quello di dividere le coscienze. Rendendo così complicato l’ultimo passaggio a Palazzo Madama della legge sul testamento biologico. Il testo era stato approvato a Montecitorio in aprile, con il voto dell’intera sinistra e dei Cinque Stelle, ma poi nell’altro ramo del Parlamento si è arenato dinanzi all’ostilità manifestata dai centristi. Il testo sarebbe dovuto andare in aula prima delle ferie, ma davanti ai 3mila emendamenti da discutere la maggioranza ha preferito non correre rischi, rinviando all’autunno. Col risultato che le percentuali di successo sono scarse. Intervista a Marco Boato: "l’odio di oggi è il giustizialismo e si combatte con i diritti" di Giulia Merlo Il Dubbio, 24 agosto 2017 "Questa ondata forcaiola viene da lontano ed è stata il frutto delle logiche "emergenziali": prima nella lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia e infine contro la corruzione politica". "L’odio si combatte con la cultura delle garanzie e dello Stato di diritto". Marco Boato ha attraversato gli anni caldi della storia d’Italia, dal 68 alla facoltà di Sociologia di Trento dove fondò Lotta Continua insieme ad Adriano Sofri e Mauro Rostagno, sino alle lotte garantiste in Parlamento con i radicali di Marco Pannella. Di quegli anni, che ha raccontato nel libro "Il 68 è morto, viva il 68!" (e un altro è in uscita per il cinquantesimo anniversario), analizza il clima, i sogni e gli errori. Lei è stato protagonista, a Trento, della stagione del 1968. Fu un anno d’odio, quello, e soprattutto di odio di classe? Per come l’ho vissuto io, insieme a molti altri, è stato tutt’altro che un anno d’odio. Anzi, in quel movimento c’è stata una grande gioia di vivere, la riscoperta della solidarietà, sia tra gli studenti che con gli operai, un impegno per l’uguaglianza contro ogni forma di autoritarismo. Il Sessantotto fu soprattutto un movimento caratterizzato dall’antiautoritarismo in tutte le sue forme: nell’università, nella fabbrica e in quelle che venivano definite le istituzioni totali: carceri, caserme e ospedali psichiatrici. Nessuna estremizzazione, quindi? Le estremizzazioni e gli errori ideologici ci furono dopo, quando finì la prima fase del cosiddetto "stato nascente". Io, però, non credo che siano stati errori dettati dall’odio. Semmai da un eccesso di utopia, tipica delle giovani generazioni quando si affacciano sulla scena sociale e vogliono cambiare il mondo. Lei fu tra i fondatori di Lotta Continua, nel 1969. Nel movimento teorizzaste il cosiddetto "scontro generale" con la borghesia e lo Stato. Che cosa significava? Quello fu un tipico esempio di estremismo ideologico, che a dire il vero durò meno di un anno, a cavallo tra il1971 e il 1972. Poi venne corretto da una riflessione autocritica, fatta pubblicamente sulle pagine di Lotta continua. Comunque, dopo il cosiddetto "biennio rosso 68-69", gli anni Settanta furono certamente attraversati da momenti drammatici e tragici, che cominciarono a partire dalla strage fascista di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. Non a caso si è detto e scritto che quel trauma rappresentò la perdita dell’innocenza per una intera generazione. L’odio che lei fa iniziare dopo la strage di Piazza Fontana e che ha attraversato l’Italia in quegli anni ha segnato la storia del Paese. Che cosa lo ha generato? Quella che non a caso fu definita la "strage di Stato" - e poi si vide che vi furono effettivamente complicità istituzionali in una strage fascista che si era cercato di attribuire agli anarchici - cambiò completamente lo scenario italiano. La strategia della tensione e delle stragi, il terrorismo di destra e di sinistra soffocarono le istanze di giustizia e li- bertà che avevano caratterizzato il biennio 68- 69 e scatenarono reazioni molto violente, anche cariche di odio. Paradossalmente, gli anni Settanta furono anche anni di grandi riforme, ma quel decennio si concluse nel 1978 con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Da quel momento nulla fu più come prima. Oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, che eredità rimane di quegli anni? Con riguardo alla stagione del 68, io da tempo invito ad evitare sia le mitologie reducistiche sia le ridicole demonizzazioni. Il 68 è stato, non solo in Italia ma anche sul piano internazionale, un anno di svolta ma anche di frattura, non solo generazionale. I cambiamenti hanno investito la società e le istituzioni, la cultura e i rapporti interpersonali, sia familiari che sessuali. In ambito ecclesiale, ci furono il cosiddetto "dissenso cattolico" e la "contestazione ecclesiale". Ecco, gli schemi ideologici di allora sono caduti, ma i cambiamenti sociali e culturali sono rimasti. Lei, da oppositore in piazza negli anni delle contestazioni, divenne oppositore in Parlamento negli anni Ottanta insieme ai radicali. Famoso è stato il suo discorso di 18 ore, come forma di ostruzionismo. Come mai questo cambiamento? Sono entrato in Parlamento nel 1979 accettando una proposta di candidatura, insieme a Leonardo Sciascia e altri, da parte di Marco Pannella. L’ingresso alla Camera fu per me decisivo per imparare a vivere dentro le istituzioni rappresentative. Ho maturato l’importanza della cultura delle garanzie e dello Stato di diritto, di rapporti corretti tra maggioranza e opposizione. Sono poi stato anche nella maggioranza e ho fatto parte delle due Bicamerali per le riforme istituzionali, De Mita-Iotti e D’Alema, e in quest’ultima sono stato relatore per i temi della giustizia. Lei era in Parlamento anche negli anni di Tangentopoli, una stagione feroce nello spazzare via un’intera classe politica. Lei come l’ha vissuta? In modo drammatico. Certamente il sistema della corruzione andava perseguito, e del resto non mi pare che oggi sia diminuito. Ma il modo in cui è avvenuto, però, mi ha trovato molto critico e credo abbia lasciato guasti profondi, che durano tuttora. L’odio di classe degli anni Settanta è diventato oggi odio per i politici? Il paradosso è che l’odio per i politici, indiscriminato, è alimentato anche da chi della politica fa parte a pieno titolo. Persino la campagna sul referendum costituzionale è stata alimentata da una fortissima dose di antipolitica, sia da chi si opponeva sia da chi lo sosteneva. E la questione referendaria ne è rimasta travolta. Anche la politica è cambiata, quindi? Io credo che oggi siamo di fronte ad una degenerazione delle istituzioni rappresentative, dove troppo spesso prevalgono appunto l’odio, il disprezzo e l’antipolitica. Lei si è sempre distinto per le sue posizioni garantiste. Ritiene che oggi, l’Italia, prevalga il giustizialismo? Non c’è dubbio, purtroppo. Ma questa ondata di giustizialismo viene da lontano ed è stata il frutto delle logiche "emergenziali": dapprima nella lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia e quindi contro la corruzione politica. E chi si opponeva a queste logiche emergenziali in nome dello Stato diritto veniva accusato di volta in volta di essere complice dei terroristi, dei mafiosi o dei corrotti. Il giustizialismo di oggi è sempre più carico di odio e di disprezzo. E come si combatte questo odio? L’unico antidoto è proprio quella cultura politica che oggi è venuta sempre più meno. La cultura in generale, ma soprattutto la cultura delle garanzie dello Stato di diritto. Quando manca, la democrazia è compromessa e lo Stato delegittima se stesso. Il condannato all’estero non dev’essere consegnato allo Stato richiedente… di Giovanni D’Agata ilmetropolitano.it, 24 agosto 2017 … nel caso rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. La corte territoriale che deve eseguire il mandato d’arresto europeo, deve preventivamente accertare le condizioni che rischia di subire il condannato una volta consegnato alle autorità dello Stato richiedente. Accolto il ricorso di un cittadino rumeno che rispondeva di furto aggravato Il cittadino straniero che si trova in Italia e che è stato condannato nel Paese d’origine al carcere, non dev’essere consegnato all’autorità giudiziaria del proprio Stato che ne ha fatto richiesta tramite mandato di arresto europeo, senza che sia stato preventivamente accertato di poter escludere il pericolo di sottoposizione dello stesso a trattamenti inumani e degradanti, come quelli derivanti dal sovraffollamento. È quanto stabilito dalla sezione feriale della Corte di cassazione in data odierna con la sentenza n. 39400 che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno condannato per furto aggravato e continuato. I giudici di legittimità ritengono violata dalla Corte d’appello di Torino, che aveva assecondato la richiesta delle autorità rumene, la normativa in materia in quanto è noto il generale problema del sovraffollamento delle carceri di quel paese come risultante fra l’altro da un rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del 24 settembre 2015. Peraltro, la giurisprudenza della cassazione in materia di mandato d’arresto europeo, cosiddetto esecutivo, è univoca nel ritenere che la "condizione di rischio connessa a problemi di tipo strutturale che possono tradursi nella sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti, evidenziata dalla sentenza Vasilescu c. Belgio del 25/11/2014 della Corte europea dei diritti dell’uomo, impone all’autorità giudiziaria richiesta della consegna di verificare in concreto la sussistenza di tale rischio, correlata alla condizione degli istituti carcerari dello Stato di emissione, attraverso la richiesta di informazioni individualizzate allo Stato richiedente relative al tipo di trattamento carcerario cui sarebbe, specificamente, sottoposto il soggetto interessato". Ciò impone che la Corte d’appello del capoluogo piemontese dovrà assumere adeguate informazioni di interesse dello stato di emissione, dandone conto nell’eventuale provvedimento di consegna. Non vi è dubbio, per Giovanni D’Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", che una decisione del genere possa scatenare polemiche tra gli xenofobi e coloro che fomentano il razzismo nel Nostro Paese e che vorrebbero immediatamente espulso chiunque, non italiano, si trova sul territorio nazionale, ma per coloro che invece hanno a cuore i diritti umani o comunque rispettano la dignità della persona - e, siamo convinti, siano la maggioranza dei nostri concittadini- si tratta di un significativo precedente che nell’applicare alla lettera la norma, potremmo definire ineccepibile, in quanto la legge italiana in materia non fa altro che recepire il dovere di assicurare il rispetto della persona in quanto tale a tutti i livelli e, quindi, anche nei confronti di tutti quei condannati che una volta rimpatriati nella nazione d’origine rischiano di vedersi annichiliti dal sistema penitenziario del proprio paese. Uno fra questi è la Romania dove permane, nonostante le condanne in sede di Cedu e i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, una situazione di generale sovraffollamento che rende quasi inevitabile la sottoposizione dei detenuti a trattamenti inumani e degradanti per la violazione degli elementari standard minimi in termini di spazi (si è parlato in passato di celle con venti, trenta detenuti in 30 mq), d’igiene (massimo 3 docce la settimana), cibo e di cure mediche adeguate Confisca, tutelato il nuovo creditore di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2017 Corte di Cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 39368/17 del 23 agosto. Il creditore subentrato attraverso la cartolarizzazione nei diritti su un bene confiscato alla mafia deve vedersi riconosciuta la tutela del terzo di buona fede. L’acquisto in blocco del credito, come accade nelle cartolarizzazioni (Dlgs 385/1993) rende di fatto inesigibile un controllo diligente su tutti i beni interessati dall’operazione, e pertanto se il credito è - ovviamente - di data anteriore rispetto alla procedura, il diritto del cessionario deve essere considerato salvo - quantomeno sotto la prospettiva risarcitoria prevista dalla legge di Bilancio del 2013 (n° 228 del 2012). Con una lunga e articolata motivazione la Sesta penale (sentenza 39368/17, depositata ieri) ha restituito al tribunale di Palermo la controversia su un immobile negoziato nel 1991 - con relativo mutuo fondiario, oggetto della cartolarizzazione molti anni più tardi - e confiscato definitivamente nel settembre del 1995. Il contenzioso avviato dalla società milanese acquirente del credito era stato risolto nel marzo dello scorso anno dai giudici siciliani, competenti per la localizzazione dell’immobile, con un decreto che respingeva il riconoscimento del diritto (importo risarcibile pari a 175 mila euro). Per il tribunale di Palermo sarebbe dirimente la circostanza che la negoziazione del credito era avvenuta ben 11 anni dopo il provvedimento di confisca e della relativa trascrizione del titolo, posizionando l’acquirente in una situazione "oggettiva" di mala fede "sia esso creditore originario o a questo succeduto". Per la Cassazione, invece, il riconoscimento di una situazione di affidamento incolpevole del creditore assistito da garanzia non è necessariamente precluso dall’acquisto del titolo in epoca successiva al sequestro (confisca) "quando ciò è avvenuto mediante cessione di rapporti giuridici in blocco ai sensi dell’articolo 58 del Dlgs 385/1993, poiché tale modalità di trasferimento di posizioni giuridiche potrebbe rendere concretamente inesigibile, per l’entità dell’operazione, l’onere in capo al cessionario della previa verifica di tutti i beni sottoposti ad originaria garanzia ipotecaria e correlati crediti ceduti". Resta però a carico del giudice di merito, ovviamente, verificare sempre l’eventuale strumentalità del credito vantato nei confronti dell’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego. Questa situazione rappresenta, per principio generale, un ostacolo insormontabile (condicio sine qua non) al riconoscimento della tutela del terzo. In sostanza, la cartolarizzazione deve comunque passare il vaglio critico del rischio di "riappropriazione" interposta a beneficio del confiscato. Troppo stress: il Tar concede il permesso di soggiorno allo studente straniero di Federico Callegaro La Stampa, 24 agosto 2017 La questura di Torino aveva negato il rinnovo a un giovane pachistano che non era in regola con gli esami. Un ambiente culturale profondamente diverso in cui è complesso adattarsi, una situazione economica diventata difficile che l’ha costretto a cercarsi un lavoro, l’ansia dovuta alle alte aspettative dei genitori sul suo rendimento, sono tutti fattori da tenere in considerazione per decidere se rinnovare o meno un permesso di soggiorno per studio. E questo, anche se lo studente in questione non ha soddisfatto tutti gli obiettivi che la legge richiedeva lui per concederglielo. Lo ha deciso il Tar del Piemonte, che ha accolto la richiesta di uno studente pakistano del Politecnico che si era visto negare il permesso di soggiorno dalla Questura perché aveva sostenuto solo sei dei sette esami che avrebbe dovuto aver conseguito per rimanere in Italia. Questa è la storia di M.I., aspirante ingegnere pakistano che, per il momento, potrà rimanere nel nostro Paese a studiare perché il tribunale ha sospeso la decisione della Questura e ha invitato l’ufficio immigrazione a tenere conto di vari fattori (e non solo quelli prettamente burocratici) prima di decidere nuovamente in merito al suo destino accademico. La famiglia di M.I. non è particolarmente facoltosa. Ha dato dei soldi al figlio per andare a studiare in Italia e su di lui ha investito numerose aspettative. A metà del suo percorso di studi, però, i soldi su cui il giovane studente poteva fare affidamento diminuiscono. Problemi a casa rendono difficile mandarne altri e il ragazzo è costretto a cercarsi un lavoro part time per potersi mantenere in Italia. È in questo periodo che il percorso accademico subisce una frenata. Nonostante tutto, però, lo studente torna sui libri e ricomincia i corsi, recuperando parte del tempo perduto. L’impegno, a livello burocratico, non è però sufficiente e quando M.I. va in Questura per chiedere il rinnovo del permesso ma se lo vede negato. Ricorre contro la decisione e il Tar, dandogli ragione, invita le autorità a tenere in considerazione anche le problematiche psicologiche connesse al suo status di straniero che deve mantenersi. Documenti in regola, assicurazione, certificati che attestino i corsi che si andranno a seguire nell’ateneo ospitante. Sono tante le carte che gli studenti non comunitari devono consegnare per riuscire a ottenere un permesso di soggiorno per motivi di studio nel nostro Paese. Tanti, poi, sono anche i paletti che le matricole devono rispettare per vedersi rinnovato, di anno in anno, il permesso. Prima fra tutte il fatto che il permesso di soggiorno per studio autorizza lo svolgimento di attività lavorativa part-time per un massimo di 20 ore settimanali e un limite annuale di 1040 ore. Il permesso di soggiorno per studio, poi, non può essere in ogni caso rinnovato per più di tre anni oltre la durata del corso di studi pluriennale. E a questo punto si allaccia anche la necessità di completare il percorso in tempi contenuti: la normativa prevede il superamento di un numero minimo di esami, cioè uno nel corso del primo anno e due durante quelli successivi. Processo penale: i presupposti per l’applicazione della recidiva facoltativa Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2017 Recidiva (art. 99 c.p.)- Recidiva facoltativa - Applicazione - Obbligo motivazionale del giudice - Possibilità di adempimento implicito. L’applicazione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 11 luglio 2017 n. 33714. Recidiva - Recidiva facoltativa - Richiesta di rigetto - Motivazione implicita del giudice. Il rigetto della richiesta di esclusione della recidiva facoltativa, pur richiedendo l’assolvimento di un onere motivazionale, non impone al giudice un obbligo di motivazione espressa, ben potendo quest’ultima essere anche implicita. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 1 ottobre 2015 n. 39743. Recidiva - Recidiva facoltativa - Esclusione dell’aumento di pena - Obbligo di motivazione - Accertamento di una maggiore capacità delinquenziale - Sussistenza. In presenza della rituale contestazione a opera del Pm della recidiva, ai sensi di uno dei primi quattro commi dell’articolo 99 c.p., il giudice è tenuto a verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. Nell’ipotesi in cui il giudice, in applicazione dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale (sent. n. 192 del 2007 e n. 92 del 2008) ritenga di escludere che la contestata recidiva sia, di per sé, sintomo di una maggiore capacità delinquenziale, deve adeguatamente motivare al fine di escludere il previsto aggravamento di pena. • Corte di cassazione, sezione Feriale penale, sentenza 27 agosto 2013 n. 35526. Recidiva - Recidiva facoltativa - Obbligo di accertamento del giudice - Della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo. Esclusi i casi di recidiva c.d. obbligatoria, di cui all’articolo 99 c.p., comma 5, il giudice del merito può attribuire effetti alla recidiva unicamente quando la ritenga effettivamente idonea a influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; ed è quindi, tenuto a verificare se il nuovo episodio criminoso sia concretamente significativo in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti reati e avuto riguardo ai parametri indicati dall’articolo 133 c.p. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo: infatti è precipuo compito del giudice del merito verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 15 febbraio 2012 n. 5859. Le carceri non sono un inferno per tutti mattinopadova.gelocal.it, 24 agosto 2017 Leggo spesso (ad esempio sul Mattino di Padova del 18 agosto) che detenuti in carcere per crimini orrendi, conducono una vita invidiabile. Oggi si tratta di Gian Luca Cappuzzo, condannato a 26 anni per l’omicidio della moglie, il quale collabora con una rivista e cura l’orto del carcere, ha lavorato nel call center dell’azienda ospedaliera, frequenta la biblioteca universitaria, e ora si sta per laureare in Diritto costituzionale. Qualcuno mi sa spiegare come funziona la cosa? Sento dire che le carceri sono un inferno... ma non in questo caso, mi pare. Ci sono allora carceri o/e carcerati di serie A e di serie B? Vorrei inoltre capire con quale criterio il lavoro al call center viene offerto al carcerato e non a un disoccupato qualsiasi. Forse perché questi non potrebbe vantare nel suo curriculum un omicidio? Remunerato, immagino, il lavoro al call center: il lavoro "forzato" non è infatti previsto da nostro ordinamento. O sbaglio? Trascuro di commentare le uscite per biblioteca e lezioni universitarie, e passo a ciò che più mi infastidisce, ossia le valutazioni di educatori e magistrati. Secondo loro, il Cappuzzo è un detenuto "modello". Prova ne sarebbe la sua condotta esemplare. Non ne dubito: è un assassino, non un cretino. Un giovane di buona famiglia, colto, non può che approfittare dei benefici che gli vengono offerti dall’ordinamento carcerario e giudiziario. Lettera firmata La rieducazione è l’obiettivo della pena mattinopadova.gelocal.it, 24 agosto 2017 Con riferimento alla lettera intitolata "Le carceri non sono un inferno per tutti". La vita invidiabile nelle carceri italiane, la farei vivere a questo "signore" che non ha neanche il coraggio di firmare la lettera con la quale si riferisce alla scarcerazione del dottor Luca Capuzzo, giudicato e condannato per l’omicidio di sua moglie. Desidero innanzi tutto precisare che un omicidio di questo tipo rappresenta un delitto considerato dai giuristi come "occasionale" e quindi non può essere considerato alla stregua di altri tipi di reato considerati delinquenziali anche per la loro recidività (truffe, furti, rapine o spaccio di stupefacenti). Ricordo a questo "signore" che l’art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti degradanti e contrari al principio di umanità, e devono tendere alla rieducazione e risocializzazione del condannato. Principio al quale si ispira l’ordinamento penitenziario (legge 354/75), come ogni altro ordinamento giudiziario in Europa. In sintesi da detenuto lavorare per una rivista, curare l’orto del carcere o lavorare al call center dell’azienda ospedaliera, frequentare l’università o accedere alla biblioteca universitaria, fa parte di un programma rieducativo predisposto dagli educatori e dal personale penitenziario, programma peraltro approvato dal Magistrato di sorveglianza. Questo "signore" si chiede se ci sono dei carceri di serie A e quelli di serie B: la mia risposta è che purtroppo ci sono, anche se in violazione della legge: accanto a carceri come quello di Padova e Bollate ci sono carceri e sezioni dove il concetto di risocializzazione e rieducazione attraverso la pena viene del tutto dimenticato per disposizione dell’esecutivo (non di un magistrato) e un detenuto viene sottoposto al regime del 41 bis consistente nella negazione di ogni diritto e la sottoposizione a un vero e proprio isolamento per 22 ore al giorno, chiuso in pochi metri quadrati in cella. Rispetto alla domanda specifica sul motivo per il quale il lavoro al call center viene offerto ai carcerati e non a giovani liberi ed incensurati, la risposta è molto semplice e s’inserisce nella logica del profitto: la legge 354/75 prevede per i condannati una retribuzione pari ai 2/3 delle tariffe sindacali. Di conseguenza risulta più profittevole dare del lavoro ai carcerati rispetto a lavoratori liberi, ottenendo peraltro anche la gratificazione da parte dello Stato di aver contribuito alla rieducazione dei condannati. Ne sanno certamente qualcosa "illustri" concittadini, quali Rizzato (biciclette) e Valle (Vallesport - articoli sportivi) che sulla pelle e sul sangue dei detenuti hanno costruito fortune e profitti, pagando i detenuti lavoratori circa 13. 000 lire al mese sino al marzo 1976. Infine per quanto concerne il "lavoro forzato" è vero che non è previsto dal nostro ordinamento, ma con vera e propria filosofia con la legge si è aggirato il problema, prevedendo con l’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario che "il lavoro fosse obbligatorio per i condannati", disposizione che rende il lavoro "forzato" Concludo chiedendole di farsene una ragione: la valutazione degli esperti e dei magistrati non va considerata come "buonista", ma vengono semplicemente applicate le norme rispetto a rieducazione e risocializzazione del condannato. Gianfranco Caselli Catania: carcere di Caltagirone senz’acqua, la protesta dei 200 detenuti La Sicilia, 24 agosto 2017 La denuncia dell’Osapp: "Carenza anche di personale e di sanitari". Circa 200 detenuti del Carcere di Caltagirone hanno protestato ieri contro la mancanza di acqua e l’assenza di sufficiente assistenza sanitaria e di personale penitenziario necessari per lo svolgimento dei programmi di trattamento (educatori, psichiatri, etc.). A rendere nota la protesta è stato il segretario generale aggiunto dell’OSAPP Domenico Nicotra, secondo cui i detenuti, dopo aver lasciato le celle per recarsi nei locali passeggi, alle 10.30 si sono rifiutati di farvi rientro. La protesta è rientrata alle 15.30. Nicotra sottolinea come "il competente e proficuo operato del personale di Polizia Penitenziaria ha evitato che la protesta sfociasse in atti di violenza" e che l’accaduto "pone l’attenzione sulle problematiche che sono a monte di una così eclatante protesta causata principalmente dalla lamentata assenza di acqua". "È evidente - conclude Nicotra - che con l’attuale carenza di organico di circa 50 unità di Polizia Penitenziaria e l’assenza di graduati di riferimento in questa occasione si è scongiurato un epilogo peggiore solo perché nelle intenzioni dei 200 detenuti vi era quella di dare solo un segnale concreto senza per altro arrecare pregiudizi alla sicurezza. Ma se un giorno le intenzioni fossero diverse?". Pavia: le celle "esplodono", e mancano cinquanta agenti di Stefano Zanette Il Giorno, 24 agosto 2017 "La situazione è migliorata, ma restano ancora non poche criticità". Il consigliere regionale Giuseppe Villani (Pd) e l’assessore alle Politiche sociali di Pavia, Alice Moggi, ieri mattina hanno visitato la casa circondariale di Torre del Gallo. "Abbiamo fatto una visita ispettiva - spiega Villani - che si inserisce nel contesto più ampio dell’attività, non solo in provincia ma in tutta la regione, per avere una fotografia il più possibile aggiornata sulle condizioni in cui versano le carceri lombarde, con particolare attenzione ai diritti sia del lavoratori che dei detenuti. Rispetto alla mia precedente visita, che risale a pochi mesi fa, ho trovato una situazione decisamente migliorata, in particolare nel nuovo padiglione, mentre in quello vecchio rimangono problemi strutturali. Nel Polo psichiatrico, che attualmente ospita 10 detenuti, abbiamo parlato col medico, apprezzando la copertura del servizio h24, con la presenza di 4 infermieri su turni dalla mattina alla sera. Abbiamo invece riscontrato che non è ancora utilizzato il nuovo laboratorio di radiologia, allestito di recente e gestito dall’Asst, per la mancanza di un tecnico radiologo. Chiederemo un incontro con l’Asst, valutando la possibilità di chiedere dei bandi specifici che possano incentivare la disponibilità di tecnici radiologi". "Non utilizzare il laboratorio - aggiunge l’assessore Moggi - comporta anche un ulteriore aggravio di costi e di utilizzo di personale per il trasporto dei detenuti che necessitano di fare radiografie". "Tra le criticità riscontrate - conferma Villani - c’è quella del sovraffollamento: ad oggi i detenuti sono 658 (la capienza regolamentare sarebbe di 528 posti, ndr) e abbiamo visto che nelle celle a 2 posti è stato aggiunto un terzo letto e in quelle a 3 posti ne è stato aggiunto un quarto. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 251 agenti, a fronte di un organico previsto di 301, quindi con una cinquantina in meno". "C’è sempre il problema degli educatori - aggiunge Moggi, solo 4 (ne sarebbero previsti 8, ndr). Non riescono ad attuare efficaci programmi per il reinserimento, sociale e lavorativo, a scapito poi di una recidiva che si registra molto elevata". Aosta: rissa tra detenuti di Brissogne. Il Garante: "una nuova spia del disagio" La Stampa, 24 agosto 2017 "È una nuova spia che si accende sul disagio che a Brissogne vivono sia i detenuti che gli operatori dovuto in gran parte all’assenza da tempo delle figure apicali, Direttore e Comandante. Assenza che determina gravi scompensi nel governo del carcere". Lo scrive il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Enrico Formento Dojot, intervenendo sulla rissa tra detenuti scoppiata nella casa circondariale di Brissogne. "Mancano i riferimenti, circostanza che, tra l’altro, ostacola l’attività del Garante; da quasi tre mesi sono in attesa di chiarimenti da parte della Direzione su alcune questioni, e nessuno si fa parte diligente. Quella del governo del carcere è una carenza che ho più volte segnalato, per le vie brevi e ufficialmente. Il buon senso, prima ancora delle norme, suggerisce che è meglio prevenire che intervenire a posteriori" conclude il garante. Fossano: la replica del Garante dei detenuti dopo le dichiarazioni dell’Osapp di Rosanna Degiovanni* targatocn.it, 24 agosto 2017 In qualità di Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale presso la Casa di reclusione di Fossano, mi corre l’obbligo di replicare al comunicato stampa reso pubblico il 15 agosto dal segretario generale dell’Osapp, in merito ad una rissa avvenuta la sera precedente. Ho potuto accertare che l’episodio non è stato affatto della gravità e complessità descritta. In condizioni di convivenza forzata e a lungo di molti individui in spazi ristretti, succedono spesso litigi e diverbi di banale entità. E peraltro a Fossano è molto raro che questo avvenga. Attribuire poi la responsabilità dell’episodio ad una "gestione ormai allo sbando della sorveglianza" dovuta alla carenza del personale e al fallimento della sorveglianza cosiddetta dinamica, contiene in sé una contraddizione. Infatti uno dei motivi per cui è stata introdotta da alcuni anni in molti istituti penitenziari la sorveglianza dinamica, è proprio quello di affrontare la "cronica carenza" di personale. Peccato che a Fossano la sorveglianza dinamica non sia stata mai introdotta, non sono infatti mai state installate tutte le telecamere per il controllo a distanza. Sembra che questo dato il sindacato lo ignori. A sostegno della tesi di una gestione fallimentare viene riportato anche il fatto che ai detenuti sarebbe permesso di circolare liberamente nelle sezioni fino alle 22. Magari così fosse! Invece ciò succede in via del tutto eccezionale durante le festività (Natale, Capodanno, Ferragosto) in cui viene concessa una chiusura ritardata nelle celle, ma di norma i detenuti vengono chiusi alle 19.00 per uscirne solo la mattina dopo alle 08.00. Contravvenendo palesemente alle raccomandazioni del Ministero della Giustizia che stabilisce che il pernottamento non superi le otto ore. Francamente non si capisce quale nesso ci sarebbe tra la rissa, avvenuta alle 18.00 e la chiusura nelle celle del tutto eccezionale avvenuta alle 22.00. Sembra che si sia colta questa occasione per avvalorare la tesi che esiste un problema nella sicurezza dovuto a "l’eccessivo permissivismo - buonismo imperante". È vero proprio il contrario, là dove infatti gli orari di libera circolazione nelle sezioni come nei cortili o negli spazi comuni sono ampliati, il tasso di disagio ed aggressività si abbassa sensibilmente a beneficio di tutti, detenuti ed agenti. Se davvero si vogliono affrontare i nodi o le reali questioni riguardanti la Casa di Reclusione di Fossano dopo questi comunicati allarmistici sarebbe più utile e costruttivo per tutti contestualizzare meglio problemi e difficoltà per trovare soluzioni adeguate e tempestive anche attraverso un’occasione di confronto diretto. *Garante comunale per le persone private della libertà personale presso la Casa di Reclusione di Fossano Bologna: alla Dozza detenuti a confronto su diritti e doveri di Marina Amaduzzi Corriere di Bologna, 24 agosto 2017 All’interno del carcere della Dozza si è tenuto un percorso educativo sui diritti e i doveri che è raccontato dal film "Dustur" e da due libri. Il mercoledì in biblioteca, alla Dozza, divenuto laboratorio di interculturalità. Luogo di confronto sui diritti, i doveri, la Costituzione italiana e le Carte fondanti dei paesi che hanno dato vita alla Primavera araba. Un incontro tra docenti, un monaco dossettiano, un rappresentante della comunità islamica e i detenuti, alcuni italiani, la maggior parte di religione islamica. In un carcere quindi, proprio in quel luogo dove diversi futuri terroristi hanno iniziato, o approfondito, il loro percorso di radicalizzazione. Questa originale esperienza di dialogo è raccontata nel libro "Diritto, Doveri, Solidarietà", curato dall’ideatore del progetto, Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata di Monte Sole, per le edizioni della Regione Emilia Romagna. Il volume ripercorre il secondo anno del percorso educativo, voluto dal Garante dei detenuti e dal Cpia, il Centro provinciale per l’istruzione adulti con il patrocinio dell’Assemblea legislativa, approdato in Europa nei programmi di Erasmus Plus, che ha messo in dialogo quattro Costituzioni (Italia, Marocco, Tunisia, Egitto) e toccato temi quali le libertà fondamentali, tra cui quella religiosa, il lavoro, la salute, la famiglia. Questo secondo volume (il primo è del 2015) include la Carta dei diritti e dei doveri scritta dai detenuti partecipanti, una sorta di "Costituzione ideale" redatta da chi la legge l’ha violata. È proprio questo elaborato il frutto più interessante del lavoro di confronto tra i detenuti su diritti e doveri "che bisogna rispettare per vivere in armonia con la comunità". Doveri, a cominciare da quelli in carcere: "Rispettare le regole e farsi rispettare dagli altri detenuti della propria sezione senza usare violenza (malgrado ogni tanto si usi la violenza... anche non da parte dei detenuti) - scrivono i detenuti -. Tutti devono rispettare le regole...anche coloro che devono farle rispettare". E doveri anche nella libertà religiosa: "Ogni volta che ti viene voglia di criticare qualcuno, ricorda che non tutti nel mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu. "C’è una crepa in ogni cosa; è da lì che entra la luce". Se si vuole cambiare vita, bisogna tacere e imparare ad ascoltare per apprendere, studiare senza saziarsi, istruire senza stancarsi". L’esperienza del corso è raccontata in una sorta di "diario di bordo", che dà conto dei diversi incontri tra i detenuti. Momenti che sono stati ripresi anche nel docu-film di Marco Santarelli Dustur, che ha girato l’Italia e l’Europa ed è stato premiato in importanti festival. Decretando il successo di questa piccola esperienza bolognese che ora fa scuola anche all’estero. Bologna: Frate Ignazio "così parlo di sharia ai detenuti, per prevenire la jihad" La Repubblica, 24 agosto 2017 Frate Ignazio De Francesco, da anni lavora nelle carceri con i detenuti musulmani (corano alla mano). Frate Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata ed esperto di Islam, da anni segue i detenuti, sin particolare quelli musulmani, della casa circondariale di Bologna Dozza: la sua esperienza è diventata un documentario, "Dustur", per la regia di Marco Santarelli, che da un anno gira l’Italia per raccontare come avviene la radicalizzazione all’interno delle carceri. Nessuno come lui può spiegare quella trasformazione da "ragazzo normale" a "terrorista" che sembra essere il marchio di fabbrica degli uomini che hanno colpito in Europa negli ultimi mesi. "Le voglio raccontare di un ragazzo tunisino arrivato qui quando aveva 7 o 8 anni: ottenne la cittadinanza, quindi sulla carta era italiano - dice - Aveva vissuto un’adolescenza conflittuale con la famiglia, che lo aveva portato alla droga: consumo prima, spaccio poi. Quando finì in carcere per lui fu uno shock: reagì con una conversione radicale. Nel giro di una notte l’identità latente che aveva sepolto dentro di sé, quel suo essere nato musulmano in un Paese arabo, divenne prevalente. Ma non sapeva di cosa parlasse: non aveva mai letto il Corano, non parlava arabo. Scelse, la cosa più facile, il Califfato di cui parla la televisione e si legge su Internet. Si radicalizzò nel corso di una notte". Che cosa fare di fronte a questi casi? "Non ho una risposta univoca. Serve senza dubbio una componente di intelligence per tenere d’occhio i radicalizzati: ma non basta. Questi ragazzi non sono stupidi: sanno che li si controlla in base alla lunghezza della barba, o dei pantaloni. E allora si radono e allungano gli orli, in cella stanno incollati al Grande Fratello e non si fanno certo sorprendere a leggere il Corano. Bestemmiano in corridoio, magari: ma restano radicali. Occorre sfidarli sul loro stesso terreno: parlare di sharia, di fatwa. L’ho fatto io con lui, nel corso sulla Costituzione che da anni tengo in carcere per spiegare ai detenuti le leggi italiane. Ma lo ha fatto meglio di me un imam che invitai in carcere a parlare con lui e con gli altri. Davanti alle sue risposte su quello che è lecito o meno nell’Islam i ragazzi restavano a bocca aperta. Perché non immaginavano cosa diceva davvero la loro religione. Il ragazzo tunisino ad esempio credeva che esistesse una fatwa secondo cui è lecito vendere droga agli infedeli, perché li si avvelena. Una sorta di jihad della droga. Non so chi abbia messa in giro questa storia, ma nelle carceri è molto popolare. L’imam la smentì categoricamente: e per lui fu una sorpresa". Una storia fra le tante che frate Ignazio ha raccolto, che gli ha insegnato una lezione universale. "Per fermare il radicalismo occorre entrare nel suo territorio culturale. Parlare di Corano e sharia. Non chiudere le porte". Cagliari: carcere di Uta, i detenuti trascorrono quattro giorni in compagnia dei cani di Marcello Cocco L’Unione Sarda, 24 agosto 2017 Hanno trascorso quattro giorni nel carcere di Uta: un’esperienza interessante per i due educatori cinofili che hanno passato il tempo insieme ai detenuti. Ma, soprattutto, un’esperienza fondamentale per i reclusi. Perché, in quei quattro giorni, hanno avuto modo di rendersi conto che i comportamenti degli animali non sono, poi, così diversi da quelli degli esseri umani. "Una tra le cose più emozionanti", racconta Alessandro, un ex detenuto coinvolto l’anno scorso nel progetto, "è stato rendersi conto del fatto che ogni cane, anche il più aggressivo, può essere recuperato". Quasi una pet therapy psicologica per i detenuti. "Tra l’altro, questa esperienza serve a sentire un po’ di affettività: questa è una delle cose che manca maggiormente in un carcere". Ma l’esperienza è stata importante anche dal punto di vista professionale. "La nostra professione", racconta Andrea Cristofori, uno degli educatori cinofili, "ultimamente è molto richiesta: i proprietari di cani non cercano più gli addestratori che insegnano agli animali a compiere determinati gesti. Ma vogliono qualcuno che li aiuti a capire il linguaggio dei cani". Un’idea, messa in pratica dal Cpia, la scuola interna al carcere, che potrebbe diventare permanente. La consigliera regionale Anna Maria Busia presenterà il mese prossimo un progetto per portare definitivamente i cani all’interno del carcere". Un’iniziativa", spiega, "che ha costi bassissimi e che ha, invece, benefici enormi". Alghero: "Lettere dal carcere", nuovo evento a Casa Gioiosa algheroeco.com, 24 agosto 2017 Sabato 26 agosto si va alla scoperta del passato carcerario dell’ex colonia penale oggi sede del Parco naturale regionale di Porto Conte e del museo della memoria carceraria "G. Tomasiello" Sabato prossimo 26 agosto Casa Gioiosa si trasformerà in un palcoscenico in cui i protagonisti saranno i pensieri, le emozioni e le parole degli stessi detenuti della colonia penale di Tramariglio, riportati alla luce attraverso le lettere e documenti recuperati dall’archivio della colonia penale. Com’è noto oggi la prestigiosa sede del Parco naturale regionale di Porto Conte ospita un museo della memoria realizzato grazie al fattivo lavoro di recupero archivistico realizzato con il contributo di detenuti in regime di art. 21 e la straordinaria opera dell’archivista Stefano Tedde. "Lettere dal carcere", questo il titolo dell’evento vuole dare l’opportunità ai visitatori di assaporare in una serata l’atmosfera di una giornata da detenuto attraverso la lettura di episodi e storie realmente vissute dagli oltre cinquemila detenuti che passarono parte della loro vita a Tramariglio. Le letture saranno introdotte dall’archivista Stefano Tedde, interpretate dalle voci di Alessandro Pala e Chiara Murru ed accompagnate dalle note del pianoforte del maestro Raimondo Dore. La serata sarà allietata da un aperitivo a base di prodotti del marchio di qualità del Parco, e da un brindisi finale. Una serata emozionante nella speciale cornice di Casa Gioiosa. Scrivere, tracciare lettere e segni sulla carta, lasciare memoria del proprio passaggio ha rappresentato per i detenuti della colonia un tentativo efficace di comunicazione con l’esterno. Scrivevano a mogli, figli, parenti e amici, per ricevere informazioni e informare al contempo i propri congiunti sulle loro condizioni di vita nella colonia. Scrivevano a vari rappresentanti istituzionali, per invocare diritti e benefici specifici. Scrivevano al direttore, spesso per vedersi assegnate determinate mansioni, o per discolparsi di eventuali accuse, o ottenere determinati favori. Alcuni chiedevano il permesso di scrivere a parenti lontani (quasi sempre in America del sud), altri invece abbisognavano di sufficienti quantità di carta per raccontare della propria vita. Secondo il regolamento del 1931 i detenuti non potevano ricevere o inviare notizie ai familiari senza che prima gli scritti non fossero letti e vistati dalle autorità dirigenti. Quando la lettera poteva veicolare una comunicazione pericolosa, con eventuali indicazioni in codice o ambigue richieste, veniva immediatamente censurata. Anche il cappellano della colonia poteva spesso censurare le missive, quando si potevano leggere tra le righe ammiccamenti amorosi o esplicite affermazioni affettive. La corrispondenza fra detenuti era sottoposta a misure di sicurezza: era permessa solo quando essi erano parenti entro il secondo grado o se si trattava di due coniugi. Le lettere erano compilate in genere nel locale detto "di scritturazione", e imbucate in un’apposita cassetta chiusa a chiave e custodita nello stesso locale. I detenuti potevano scrivere solo in determinati giorni della settimana e in genere le penne venivano consegnate dal personale al momento della stesura. In ogni altro momento della giornata era vietato scrivere: le missive venivano sequestrate e incluse nei rapporti disciplinari, come prova dell’infrazione commessa. Tornando alla serata, dalle 19 alle 23 sarà possibile visitare le aree museali di Casa Gioiosa e quindi immergersi all’interno di quelle che furono le vecchie celle carcerarie e rivivere la giornata tipo di un detenuto nell’area museale interattiva mentre dalle 20:30 inizieranno le letture con l’accompagnamento musicale. Il costo è di 20 € a persona. Per chi fosse interessato è necessaria la prenotazione. Per informazioni e prenotazioni chiamare il numero 3313400862 - 079942111 (dalle 9 alle 18) o inviare una mail a info@exploralghero.it. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. L’inutilità di fare dello Stato una prigione commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 24 agosto 2017 Non sembri strano che Beccaria si soffermi anche sul tema del suicidio. Infatti, esso ha sempre interrogato in modo sottile e inquietante la coscienza del giurista, fino a propiziare una vera congerie di opinioni spesso in contrasto fra di loro. E ciò anche dal punto di vista sanzionatorio, cosa che può appunto apparire strana ai nostri occhi, se si pensa che Platone già proponeva che al cadavere di suicida fosse tagliata la mano e che questa fosse seppellita lontano dal corpo (tipo di sanzione simbolica). Invece, per San Tommaso, chi si toglie la vita uccide pur sempre un uomo e perciò merita una sanzione di un qualche tipo. Ovviamente, si pone un problema ulteriore per il tentato suicidio: qui, in astratto, si potrebbe sottoporre a pena il soggetto che abbia tentato di suicidarsi - senza riuscirvi - ma rimane il fatto che l’astratta comminatoria di una sanzione avrebbe l’esito di indurre il soggetto a meglio predisporre i comportamenti autolesionisti, per timore di incorrere nella sanzione in caso di insuccesso. Nessuno in realtà ha mai dubitato - nella storia dell’Occidente - che il suicidio sia un atto illecito, tranne qualche corrente della filosofia stoica o del libertarismo anglosassone; si tratta di capire se e come possa essere sanzionato. In certi casi la sanzione cadeva sui familiari sopravvissuti, attraverso sanzioni civili che incidevano sulla capacità di accedere all’eredità del suicida. Ebbene, Beccaria rigetta questa possibilità, in quanto la sanzione cadrebbe su persone diverse dal suicida e soprattutto - e qui rifulge la sua mentalità tipicamente utilitaristica perché una tale prospettiva sanzionatoria non sarebbe assolutamente in grado di fermare in tempo la mano di chi voglia usare violenza su se stesso. Da notare come anche in questo caso Beccaria metta in campo considerazioni di taglio strettamente utilitaristico, rifuggendo da ogni osservazione di tipo sostanziale, che afferisca cioè all’essenza del fenomeno. Non a caso, egli evita argomentazioni di quest’ultimo genere, dal momento che sa bene come esse in passato abbiano condotto a contrapposizioni sterili e infruttuose, tali da non condurre ad alcun esito condiviso o condivisibile. Una particolare clemenza Beccaria mostra poi per il reato di contrabbando il quale, se pur dannoso per le patrie finanze, non viene quasi mai percepito dai suoi autori nella sua reale consistenza: perciò, per il giurista milanese, le pene per costoro debbono essere diverse da quelle previste per i ladri o addirittura per i sicari. Qui Beccaria ripropone la sua netta avversione per i delitti che attentano direttamente alla incolumità personale o a quella dei beni privati, rispetto a quelli che attentano alle casse dello Stato, ma non si tratta di insensibilità per i beni pubblici: si tratta di effettiva ed immediata lesività dei comportamenti. CAPITOLO XXXII. SUICIDIO Il suicidio è un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può cadere che o su gl’innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non farà alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua, quella è ingiusta e tirannica, perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda li conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza, dolcissimo inganno dè mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo perché temer si debba che la necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche influenza sugli uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il motivo che tratterrà la mano disperata del suicida? Chiunque si uccide fa un minor male alla società che colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere. Anzi se la forza della società consiste nel numero dè cittadini, col sottrarre se stesso e darsi ad una vicina nazione fa un doppio danno di quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla società. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso alla nazione il lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun membro di essa. Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi regna l’opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del legislatore, che resiste alle dirette e violente, così le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche più salutari, che sono risguardate più come un ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i nostri sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle leggi tanto meno ne resterà alle leggi medesime. Da questo principio il saggio dispensatore della pubblica felicità può trarre alcune utili conseguenze, che, esponendole, mi allontanerebbono troppo dal mio soggetto, che è di provare l’inutilità di fare dello stato una prigione. Una tal legge è inutile perché, a meno che scogli inaccessibili o mare innavigabile non dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere tutti i punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi? Chi tutto trasporta non può, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto subito che è commesso non può più punirsi, e il punirlo prima è punire la volontà degli uomini e non le azioni; egli è un comandare all’intenzione, parte liberissima dell’uomo dall’impero delle umane leggi. Il punire l’assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed inevitabile collusione, che senza tiranneggiare i contratti non può esser tolta, arrenerebbe ogni commercio da nazione a nazione. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l’impedire che si ripari il male fatto alla società col rendere tutte le assenze perpetue. La proibizione stessa di sortire da un paese ne aumenta il desiderio ai nazionali di sortirne, ed è un avvertimento ai forestieri di non introdurvisi. Che dovremo pensare di un governo che non ha altro mezzo per trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime impressioni dell’infanzia alla loro patria, fuori che il timore? La più sicura maniera di fissare i cittadini nella patria è di aumentare il ben essere relativo di ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo perché la bilancia del commercio sia in nostro favore, così è il massimo interesse del sovrano e della nazione che la somma della felicità, paragonata con quella delle nazioni circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i principali elementi di questa felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si addenserebbono in una sola mano. Dove i confini di un paese si aumentano in maggior ragione che non la popolazione di esso, ivi il lusso favorisce il dispotismo, sì perché quanto gli uomini sono più rari tanto è minore l’industria; e quanto è minore l’industria, è tanto più grande la dipendenza della povertà dal fasto, ed è tanto più difficile e men temuta la riunione degli oppressi contro gli oppressori, sì perché le adorazioni, gli uffici, le distinzioni, la sommissione, che rendono più sensibile la distanza tra il forte e il debole, si ottengono più facilmente dai pochi che dai molti, essendo gli uomini tanto più indipendenti quanto meno osservati, e tanto meno osservati quanto maggiore ne è il numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior proporzione che non i confini, il lusso si oppone al dispotismo, perché anima l’industria e l’attività degli uomini, e il bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perché quegli d’ostentazione, che aumentano l’opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi può osservarsi che negli stati vasti e deboli e spopolati, se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso d’ostentazione prevale a quello di comodo; ma negli stati popolati più che vasti il lusso di comodo fa sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei piaceri del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo di molti, pure comincia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero, talché non impedisce il sentimento della miseria, più cagionato dal paragone che dalla realità. Ma la sicurezza e la libertà limitata dalle sole leggi sono quelle che formano la base principale di questa felicità, colle quali i piaceri del lusso favoriscono la popolazione, e senza di quelle divengono lo stromento della tirannia. Siccome le fiere più generose e i liberissimi uccelli si allontanano nelle solitudini e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e ridenti campagne all’uomo insidiatore, così gli uomini fuggono i piaceri medesimi quando la tirannia gli distribuisce. Egli è dunque dimostrato che la legge che imprigiona i sudditi nel loro paese è inutile ed ingiusta. Dunque lo sarà parimente la pena del suicidio; e perciò, quantunque sia una colpa che Dio punisce, perché solo può punire anche dopo la morte, non è un delitto avanti gli uomini, perché la pena, in vece di cadere sul reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse che una tal pena può nondimeno ritrarre un uomo determinato dall’uccidersi, io rispondo: che chi tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l’esistenza quaggiù, talché vi preferisce un’infelice eternità, deve essere niente mosso dalla meno efficace e più lontana considerazione dei figli o dei parenti. CAPITOLO XXXIII. CONTRABBANDI Il contrabbando è un vero delitto che offende il sovrano e la nazione, ma la di lui pena non dev’essere infamante, perché commesso non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà pene infamanti à delitti che non sono reputati tali dagli uomini, scema il sentimento d’infamia per quelli che lo sono. Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano ed a chi assassina un uomo o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell’animo umano, per far nascere i quali fu creduto necessario l’aiuto dei più sublimi motivi e un tanto apparato di gravi formalità. Questo delitto nasce dalla legge medesima poiché, crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione di fare il contrabbando e la facilità di commetterlo cresce colla circonferenza da custodirsi e colla diminuzione del volume della merce medesima. La pena di perdere e la merce bandita e la roba che l’accompagna è giustissima, ma sarà tanto più efficace quanto più piccola sarà la gabella, perché gli uomini non rischiano che a proporzione del vantaggio che l’esito felice dell’impresa produrrebbe. Ma perché mai questo delitto non cagiona infamia al di lui autore, essendo un furto fatto al principe, e per conseguenza alla nazione medesima? Rispondo che le offese che gli uomini credono non poter essere loro fatte, non l’interessano tanto che basti a produrre la pubblica indegnazione contro di chi le commette. Tale è il contrabbando. Gli uomini su i quali le conseguenze rimote fanno debolissime impressioni, non veggono il danno che può loro accadere per il contrabbando, anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno fatto al principe; non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando, quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il carattere, ed altri mali che posson loro accadere. Principio evidente che ogni essere sensibile non s’interessa che per i mali che conosce. Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi non ha roba da perdere? No: vi sono dei contrabbandi che interessano talmente la natura del tributo, parte così essenziale e così difficile in una buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione medesima, fino alla servitù; ma prigione e servitù conforme alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia del contrabbandiere di tabacco non dev’essere comune con quella del sicario o del ladro, e i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha voluto defraudare, saranno i più conformi alla natura delle pene. Teatro in carcere, la Compagnia Stabile Assai in tour estivo aics.it, 24 agosto 2017 Tra Puglia e Calabria, grazie ad Aics, sette date emozionanti per portare sul palco la storia di Borsellino, interpretata da detenuti ed ex detenuti del carcere di Rebibbia: a Reggio Calabria, lo spettacolo di fronte agli ex esponenti della criminalità organizzata locale. Ancora una volta la tournée estiva della Compagnia Stabile Assai del carcere di Rebibbia, unica in Italia a realizzare questo tipo di sperimentazione culturale, è fortemente sostenuta dalla disponibilità di alcune realtà locali dell’Aics che da molti anni ospitano il più antico gruppo teatrale penitenziario italiano, affiliato all’Aics provinciale di Roma sin dal 1984. Il giro estivo è iniziato il 17 agosto scorso a Casalabate, Lecce, dove gli ex detenuti di Rebibbia, guidati da Antonio Turco (anche responsabile delle Politiche sociali di Aics), hanno portato in scena lo spettacolo "Farfariello, l’appagatore dei sogni", opera ironica e sarcastica sulle speranze dei più poveri nel trovare soluzione ai loro problemi grazie all’intervento dello spiritello che si aggira nei luoghi sotterranei di Napoli e ai più fortunati consegna i numeri vincenti del lotto. La manifestazione, in collaborazione con la Pro Loco locale, è stata voluta dal Presidente dell’Aics di Lecce, Fernando Melendugno, da sempre sostenitore di molte iniziative legate alla disgregazione e alla marginalità minorile. L’indomani, il 18 agosto scorso, la Compagnia ha invece portato a Bari (Turi) lo spettacolo "Parole e catene", grazie alla collaborazione con il presidente di Aics provinciale Francesco Mallardi. Il 19 e il 20 agosto scorsi è stata la volta della tappa ad Alberobello per "La notte dei briganti". Ma il momento di certo più emozionante è stato quello della doppia data a Reggio Calabria e Locri, il 21 e il 22 agosto scorsi, con la rappresentazione del "Corno di Olifante" nei rispettivi carceri, grazie alla collaborazione con l’associazione "Politeia" guidata da Elena Gratteri, e con Aics Reggio Calabria. Allo spettacolo, dedicato alla morte del giudice Borsellino, hanno partecipato oltre un’80ina di detenuti ex esponenti della ‘ndrangheta e il Garante dei Detenuti di Reggio Calabria. "Davvero commovente la rappresentazione teatrale dedicata alla morte di Paolo Borsellino in un originale parallelismo con la morte, due secoli prima, dell’eroe Orlando che sacrificò la sua vita rifiutando di suonare il "corno di Olifonte", che dà il titolo allo spettacolo", ha commentato il Garante Agostino Siviglia, anche promotore della serata. Ha chiuso la tournee estiva della Compagnia la tappa di ritorno ad Alberobello, il 23 agosto, dove a Largo Martellotta, gli ex ospiti di Rebibbia hanno messo in scena ancora una volta "Farfariello l’appagatore dei sogni". Migranti. Calano gli sbarchi, la svolta che viene ignorata di Paolo Mieli Corriere della Sera, 24 agosto 2017 Possiamo escludere che negli ultimi giorni di agosto o in settembre si abbia qualche brutta sorpresa? No. È evidente. È però accaduto che qualcuno si sia finalmente e provvidenzialmente mosso contro i signori del traffico di essere umani. Sarà anche a causa (o per merito) di qualche "ex capo mafioso" di Sabratha che ha smesso di aiutare gli scafisti e - per legittimarsi con il governo di Tripoli - adesso anzi li ostacola, ma quel che sta accadendo nei mari libici ha dell’incredibile: ad oggi il numero dei migranti sbarcati nel mese di agosto sulle coste italiane è di 2.859 contro i 10.366 dell’anno scorso. Sono diminuiti di ben più del 72%. Davvero clamoroso. E pensare che le cose in primavera sembravano essersi messe al peggio: ad aprile gli arrivi erano cresciuti a 12.943 contro i 9.149 del 2016. A maggio erano aumentati ancora: 22.993 a fronte dei 19.957 dell’anno scorso. A giugno lo stesso: 23.526 contro 22.339. Infine quei due giorni maledetti, 27 e 28 giugno, nei quali di profughi ne giunsero diecimila. Diecimila che sbarcarono pressoché contemporaneamente da venticinque navi in altrettanti porti italiani. Poi un nuovo mega sbarco di oltre quattromila persone il 14 luglio. Ci si aspettava un’estate davvero complicata. Tragica per i migranti, prima di tutto, dal momento che - con quei ritmi di fuga dall’Africa - sarebbe stato assai probabile che un’alta percentuale di uomini, donne, bambini avrebbe trovato la morte in mare. E assai impegnativa per il nostro Paese che avrebbe dovuto accoglierne in quantità alle quali non era preparato. È in quel momento che si è avuta la svolta. Una svolta iniziata qualche giorno prima delle celeberrime disposizioni del ministro dell’Interno Marco Minniti che impegnavano le navi di soccorso delle Ong ad accogliere a bordo agenti inviati dall’autorità giudiziaria. Tant’è che già nel mese di luglio - nonostante i 4 mila del 14 - i migranti giunti nel nostro Paese erano scesi dai 23.552 del 2016 a 11.459. Cosa è successo? Alcuni personaggi equivoci, come quelli peraltro non identificati di Sabratha, hanno giudicato conveniente mollare i trafficanti al loro destino. Si poi è messa in moto la Guardia costiera libica alla quale l’Italia aveva riconsegnato quattro motovedette riammodernate assieme ad una cinquantina di agenti addestrati alla scuola della Guardia di finanza di Gaeta. E la famosa nave che (su richiesta del presidente Fajez Serraj) abbiamo mandato in acque libiche - invio a causa del quale il generale Haftar ci ha minacciato di ritorsioni armate - funge adesso da officina di riparazione delle motovedette di Tripoli. Un programma che va avanti: entro l’estate di motovedette ne consegneremo altre sei; così come continueremo ad addestrare altro personale della loro Guardia costiera. E la Guardia costiera, sia ricordato a sollievo di chi guarda all’intera vicenda ispirato da autentici principi umanitari, non solo ha reso molto meno facili le attività dei trafficanti di profughi ma ha sottratto ad un destino di sventura (e alcuni a "morte certa", parole che prendiamo da documenti delle Nazioni Unite) diecimila disperati in fuga dall’Africa. La complessa operazione ha avuto un’altra insperata conseguenza. Invece di crescere a dismisura e di andarsi a stipare in dimensioni straripanti nei centri di accoglienza del nord libico, i migranti che quest’estate hanno raggiunto la costa settentrionale africana, sono diminuiti. La notizia che il trasbordo dalle imbarcazioni degli scafisti a quelle delle Ong era stato reso più complicato, ha avuto, ad ogni evidenza, un effetto deterrente. Anche perché, a seguito dell’incontro di Minniti con i "tredici sindaci" (capitribù ai quali è stata offerta una prospettiva economica alternativa al coinvolgimento nel traffico di esseri umani), hanno cominciato a funzionare alcune attività di frontiera a sud della Libia. Ad un tempo è aumentata - con effetti positivi - la sorveglianza dell’Onu (tramite Unchr) sui centri di accoglienza. E ben cinquemila profughi hanno accettato di tornarsene nei Paesi d’origine grazie anche ad un incentivo economico. Il tutto sotto la sorveglianza delle Nazioni Unite. Ci si può fidare al cento per cento dell’Onu? Sottovalutiamo la disponibilità della milizia di Sabratha a cambiare nuovamente bandiera? Abbiamo risolto una volta per tutte - almeno per quel che ci riguarda - il problema delle migrazioni? Possiamo escludere che negli ultimi giorni di agosto o in settembre si abbia qualche brutta sorpresa? No. È evidente. Ripetiamo: no. È però accaduto che qualcuno si sia finalmente e provvidenzialmente mosso contro i signori del traffico migratorio. E che qualche risultato si cominci a vedere: gli sbarchi ridotti del 72%, la Guardia costiera libica che ha salvato diecimila persone, cinquemila profughi che accettano il "rimpatrio volontario assistito". Molti dimenticano che l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti fu preceduta da una vera e propria guerra cinquantennale della Royal Navy inglese contro gli "scafisti" di allora. Dopo che con lo Slave Trade Act (1807) fu reso illegale il commercio degli schiavi, le navi britanniche ingaggiarono nei mari una battaglia contro i trafficanti che si protrasse fino al 1865, l’anno in cui, con la vittoria del Nord abolizionista, si concluse in America la guerra di secessione. Oggi concordiamo sul fatto che senza quella spietata guerra ai negrieri, la strada per l’abolizione della schiavitù sarebbe stata molto più lunga. L’analogia con quella lontana offensiva contro i trafficanti di esseri umani è stata colta - prendiamone nota - da due personalità alle quali, quando si tornerà a parlare di questo agosto 2017, si dovranno riconoscere meriti particolari: Gualtieri Bassetti e Bernard Kouchner. Bassetti è da poco tempo il presidente dei vescovi italiani e nel momento in cui il mondo cattolico appariva incline a criticare in termini aspri la politica del governo sulle Ong, ha pronunciato - il giorno di San Lorenzo, a Perugia - un notevole discorso nel quale ha richiamato la comunità cristiana ad una guerra senza quartiere contro "la piaga aberrante della tratta di esseri umani" e alla pronuncia del "più netto rifiuto a ogni forma di schiavitù moderna". Riferimenti evidenti alla lunga battaglia della marina inglese di cui si è appena detto. Ancora più esplicito è stato Kouchner l’uomo che nel 1971 fondò Medici senza frontiere, l’Organizzazione non governativa che adesso non ha firmato il Codice di condotta proposto da Minniti e ha ritirato le proprie navi dai mari antistanti la Libia. Kouchner, pur riconoscendo la liceità delle obiezioni di Msf, ha spiegato quanto sia fondamentale la lotta "inesorabile" ai trafficanti, ha definito senza mezze misure "sbagliata" la decisione di chi come Msf si è chiamato fuori dalle operazioni di soccorso, e ha riconosciuto all’Italia (ma anche alla Germania di Angela Merkel) di aver in questi frangenti "salvato l’onore dell’Europa". Dopodiché ha esortato le Nazioni Unite a farsi valere per impedire che i campi di accoglienza in Libia diventino (o continuino ad essere) dei lager. E a trasformare in qualcosa di più ambizioso il piano per la restituzione dei profughi ai Paesi di provenienza. L’Europa in questo piano ha già investito 90 milioni, l’Italia 20, la Germania 50. Altri soldi forse verranno ancora. Funzionerà? Quel che è certo è che nel Mediterraneo non si è avuta la catastrofe umanitaria da molti annunciata; anzi, sono diminuiti i morti oltreché, in proporzioni clamorose, gli sbarchi. C’è la possibilità che qualcuno, anche uno solo, di quelli che avevano trattato questo capitolo dell’attività governativa alla stregua di una riproposizione delle pratiche persecutorie del nazionalsocialismo, sia indotto da ciò che è poi accaduto, a riconsiderare le cose dette e scritte? Improbabile. Ma se qualcuno volesse dar prova di onestà intellettuale, questa sarebbe l’occasione giusta. Massacro saudita in Yemen. E i fronti in guerra si sgretolano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 agosto 2017 Colpito un hotel: 60 morti. Oggi sit-in contrapposti tra (ex) alleati: Houthi contro Saleh. Archiviato anche l’asse tra presidente Hadi e secessionisti, mentre Riyadh pensa all’exit strategy. Il tetto dell’hotel di Arhab, alle porte di Sanàa, è collassato: le bombe sganciate da un jet saudita hanno distrutto il primo piano della struttura, piccola, in cemento, adibita ad albergo per combattenti Houthi (che si addestrano nei vicini campi di al Sama e Frija), operai di una fabbrica a poca distanza e coltivatori di qat. Il raid è stato lanciato all’alba, quando molti ospiti ancora dormivano. Le immagini, terribili, mostrano l’edificio di due piani ripiegato su stesso, il tetto che ha schiacciato chi c’era dentro, brandelli di corpi che spuntano dalle macerie. Il bilancio definitivo non c’è: 40 morti, forse 60. Almeno 30 civili. Secondo il medico Ali al-Rakmi, erano almeno cento gli ospiti dell’hotel; il direttore dell’ospedale di Umrah, a 10 km dal luogo dell’attacco, affievolisce le speranze di trovare sopravvissuti: non ci sono feriti, dice ad al Jazeera, solo morti. I giornalisti presenti lo descrivono come uno dei peggiori massacri di Riyadh in Yemen, che di stragi ne ha subite tante: la più pesante è dello scorso ottobre quando un raid uccise 140 persone riunite per il funerale del padre del ministro dell’Interno Houthi. Quella di martedì è stata una notte di morte in tutta la capitale, i raid sauditi hanno colpito senza sosta. Come accade da due anni e mezzo e con ancora maggiore intensità da gennaio: secondo l’organizzazione Protection Cluster in Yemen, nel 2017 lo Yemen è stato colpito da 5.676 bombardamenti, quasi il doppio di tutto il 2016 quando se ne registrarono 3.936. E il conflitto. nato dagli interessi egemonici dell’Arabia saudita indebolita sul fronte siriano e costretta ad assistere all’avanzata diplomatica e militare dell’Iran, rischia di inasprirsi ancora. Perché i tre fronti della guerra si stanno sgretolando: la coalizione di "volenterosi" sunniti guidata da Riyadh è indebolita dalla crisi qatariota; l’alleanza di comodo tra il presidente ufficiale Hadi e i movimenti secessionisti meridionali è ormai un ricordo, con il primo che ha allontanato i governatori legati ai separatisti; e l’asse Houthi-Saleh, l’ex presidente deposto nel 2012, perde pezzi. A dare la misura delle crepe nella strana alleanza tra ribelli sciiti e Congresso Generale del Popolo sarà la giornata di oggi. Saleh ha organizzato a Sanàa una manifestazione ad Al-Sabeen Street per celebrare i 35 anni dalla fondazione del partito. Gli Houthi risponderanno con contro-manifestazioni agli ingressi della capitale, probabilmente per bloccare i sostenitori di Saleh. E, con uomini armati di entrambe le fazioni che già affollano la città, cresce il timore di scontri interni a un asse nato per mera convenienza: l’ex dittatore ha potuto godere della forza militare Houthi, i ribelli della struttura di potere del partito. Mettendo da parte sei guerre e 30 anni di repressione subiti dagli Houthi sotto la presidenza Saleh, prima dello Yemen del nord e poi dello Yemen unito. La rottura è di qualche giorno fa, apparentemente esplosa perché Saleh ha definito la leadership Houthi "milizia" e l’ha accusata di incapacità nell’amministrare i territori controllati e nel pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. I ribelli hanno reagito: sei un traditore, "pagherai le conseguenze". Dietro c’è, ovviamente, di più: consapevole dello stallo, l’ex presidente starebbe lavorando ad un’eventuale exit strategy. Da ex alleato di ferro saudita, avrebbe avviato una trattativa segreta con le petro-monarchie per modellare una transizione senza gli Houthi. A dargli la spinta necessaria potrebbero essere state le dichiarazioni trapelate da Riyadh: durante un incontro con l’ex ambasciatore israeliano negli Usa Indyk e l’ex consigliere di Bush Hadley, l’erede al trono Mohammed bin Salman - altrettanto consapevole della potenza distruttrice del pantano yemenita e delle crescenti critiche internazionali (l’Onu una settimana fa ha accusato l’Arabia saudita di aver ucciso oltre la metà dei bambini vittime della guerra) - avrebbe detto di voler uscire dal conflitto il prima possibile. Una mezza conferma l’ha data il ministro degli Esteri emiratino che lunedì ha lodato il discorso di Saleh: "Può rappresentare l’opportunità di uscire dallo stallo politico dovuto all’intransigenza Houthi". Dimenticando quella dei Saud che dal 2015 fanno saltare ogni negoziato. Marocco. Sit-in a Casablanca contro la violenza sulle donne di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 24 agosto 2017 Oggi in place Maréchal nel centro di Casablanca, capitale economica del Marocco, si terrà un sit-in di protesta contro le violenze alle donne dopo l’aggressione sessuale subita in un autobus venerdì scorso da Imane, una ragazza di 24 anni affetta da ritardo mentale. In un video, diffuso online dagli stessi responsabili che si vantano del gesto, si vede un gruppo di adolescenti a torso nudo che mentre ridono spingono con violenza la giovane donna nell’autobus, in lacrime e in parte denudata, toccandola nelle parti intime. L’autobus continua la sua corsa e nessuno dei passeggeri interviene. Gli arresti - La compagnia privata alla quale appartiene l’autobus, Mdina Bus, ha pubblicato un comunicato nel quale spiega di avere fatto il possibile per individuare gli aggressori grazie alla videocamera in funzione nell’autobus. Lunedì la polizia marocchina ha arrestato quattro dei cinque aggressori, dopo un’ondata di emozione nazionale che ha riportato in primo piano la questione del rispetto delle donne nel Paese nordafricano. Le reazioni - Mohammed Ennaji, storico all’università Mohammed V di Rabat e scrittore, ha scritto un testo di forte denuncia della società marocchina: "Violentare una ragazza in un autobus e festeggiare questa violenza come un’azione eroica, ecco come siamo ridotti. Oggi fabbrichiamo degli assassini e dei criminali in serie. Non prepariamo più i giovani per sfidare l’avvenire, fabbrichiamo degli assassini, dei terroristi (i responsabili degli attentati a Barcellona sono originari del Marocco, ndr), dei criminali. Accuso tutti quelli che sono dietro a questi fatti, direttamente o indirettamente. Accuso il potere, che ha quasi chiuso la scuola per aprire commissariati e prigioni (..). Accuso gli islamisti che devono oggi prendere le loro responsabilità davanti all’immagine che diffondono della donna, davanti alla caricatura che ne fanno, accuso i siti che lodano le "uri" (le vergini che in paradiso attendono i martiri, ndr), i siti che denunciano i bikini in spiaggia e quelli che celebrano la poligamia. Sono direttamente responsabili e devono essere chiusi d’autorità. Il demonio siete voi che incriminate le donne, il diavolo non è la donna, siete voi che la insultate e che diffondete l’odio". Ma c’è stata pure la risposta incredibile di un regista piuttosto popolare in Marocco, Mahmoud Frites, che nella sua pagina Facebook ha incitato a violentare piuttosto gli omosessuali, accompagnando il suo testo da una foto di Adouma, un ragazzo noto per vestirsi da donna. "Non capisco le persone che violentano un’handicappata, una persona anziana, i loro figli, e non se la prendono invece con quelli che non solo sognano di essere violentati ma sono pure pronti a pagare". Dopo le proteste il regista ha chiesto scusa dicendo che "era uno scherzo". I precedenti - Il 5 agosto scorso è stato postato un video su YouTube dove si vede per una trentina di secondi una ragazza che si trova a camminare da sola la sera a Tangeri, vestita di jeans e maglietta, e viene circondata da un’orda di ragazzi che la seguono insultandola. Già allora erano scoppiate forti polemiche, perché la maggior parte dei commenti erano in difesa della giovane ma non è mancato chi ha dichiarato che "se l’era cercata". Le autorità del Marocco tengono all’immagine di un Paese aperto e dove l’Islam è più tollerante, ma queste vicende la smentiscono. Mustapha Ramid, ministro per i diritti dell’uomo, ha ammesso che la legge "condanna le molestie nei confronti delle donne sui posti di lavoro ma non negli spazi pubblici", e ha aggiunto che un progetto di legge più ampio, che criminalizza le violenze sulle donne comprese le molestie in pubblico, è all’esame del Parlamento. Secondo le cifre ufficiali riportate dall’agenzia Afp, due donne marocchine su tre sono vittime di violenze. Messico. Nove giornalisti uccisi in otto mesi di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 agosto 2017 Un giornalista messicano è stato assassinato a colpi d’arma da fuoco, insieme ad altre due persone, nello stato di Veracruz, sulla costa orientale, malgrado fosse protetto dallo stato federale: si tratta del nono cronista ucciso in Messico dall’inizio dell’anno. Candido Rios Vazquez, che lavorava per il Diario de Acayucan, era sottoposto al programma di protezione del governo federale per giornalisti e attivisti per i diritti umani e aveva ricevuto minacce in passato. La sua morte ha suscitato la protesta del sindacato dei giornalisti di Veracruz. Era dal 2012 che il reporter riceveva minacce di morte e aveva un pulsante di allarme istallato sul suo smartphone. L’omicidio è avvenuto verso le tre di pomeriggio di martedì 22 agosto mentre Rios rincasava a casa. Il giornalista si è fermato vicino all’autostrada in Hueyapan per parlare con un ex ispettore di polizia suo amico che è stato ucciso insieme a lui nell’agguato. Il Messico è considerato il Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti. A maggio, nello stato di Sinaloa, era stato ucciso Javier Valdez. Smepre nello Stato di Veracruz era molto un altro collega il 19 marzo. Pochi giorni dopo, il 23 marzo, a Las Granjas, Chihuahua, Miroslava Breach, 54 anni, reporter del quotidiano La Jornada, è stata freddata da un killer mentre era a bordo della sua auto con il figlio appena uscito da scuola. Dal 2000 ad oggi sono oltre 120 i giornalisti uccisi e il 99,75 per cento di questi delitti è rimasto irrisolto.