Donne in carcere. Molte costrette all’illegalità da figure maschili di Francesca Vuotto ossigeno.info, 23 agosto 2017 Il progetto "Salviamo la Faccia" di Ossigeno per l’Informazione Onlus fa riemergere storie difficili: esperienze personali e violenze subite almeno una volta da parte di uomini. Il progetto "Salviamo la Faccia", che ha avuto inizio a marzo, si concluderà in autunno con due spettacoli teatrali, uno spot e un cortometraggio di cui saranno protagoniste le donne recluse che hanno partecipato attivamente al progetto "Salviamo la Faccia". A questo punto del percorso è possibile accennare a qualche considerazione generale su ciò che è emerso dagli incontri in carcere. Innanzitutto che la maggior parte delle donne sono in carcere perché costrette all’illegalità da figure maschili: mariti, figli, zii, etc. Molte di loro hanno subito violenza almeno una volta nella loro vita da parte di un uomo. Non per tutte è stato facile parlarne e soltanto alcune hanno deciso di venire allo scoperto. Molte ancora provano paura e avvertono un senso di colpa. La cultura di origine appare prevalente. Appare altrettanto evidente che l’attività svolta con il progetto "Salviamo la faccia" aiuta le recluse a guardare sé stesse con maggiore consapevolezza. La riflessione, il confronto, il riconoscimento, l’espressione orale o teatrale, il contatto con la natura e con il proprio corpo (nel laboratorio di erboristeria), l’elaborazione di frasi quali "riaffermazione identitaria" da stampare sulle magliette attraverso la serigrafia, sono sicuramente attività che segnano un cambiamento nell’esperienza di vita di queste donne. Per "salvare la faccia" le donne non si fermano alla superficie. Scavano nel profondo, raccontano le une alle altre la diversità che le contraddistingue per origine, provenienza, lingua, cultura. Così recuperano e salvano la propria dignità interiore. Il carcere può diventare momento di rieducazione, di riappropriazione di sé, possibilità di confronto e occasione per sperimentare altre attività, per immaginare un futuro diverso. Il progetto "Salviamo la Faccia" è nato dalla collaborazione fra l’associazione "Ossigeno per l’Informazione Onlus" e il Cpia 1 (Centro provinciale Istruzione Adulti), e con il sostegno del Dipartimento per le pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Destinatarie degli interventi sono le detenute della sezione femminile del carcere di Rebibbia e le transessuali del Nuovo Complesso. L’obiettivo è quello di coinvolgere le recluse in una riflessione sulla violenza di genere e, al contempo, di sviluppare la consapevolezza dei propri diritti e di rafforzare le proprie potenzialità (empowerment). Da sottolineare il lavoro comune, la sinergia e la collaborazione con la direttrice della Casa Circondariale, Ida del Grosso, con la direttrice del Nuovo Complesso, Rosella Santoro, con la dottoressa Maria Carla Covelli e con le educatrici Sabrina Maschietto e Rosaria Marziale. La loro collaborazione non è marginale. Il progetto coinvolge sedici detenute dell’area transessuale e circa cinquanta delle sezioni femminili, comprese quella delle collaboratrici di giustizia, quella di massima sicurezza, quelle delle detenute comuni. Da marzo ai primi di giugno sono state tenute oltre cento ore di lezioni in cui si sono affrontati i temi della violenza di genere (dalla violenza sessuale ai maltrattamenti in famiglia, dallo stalking alla violenza psicologica o "economica"? e i reati previsti dal codice penale e il modo attraverso i quali contrastare la violenza: la querela, la procedura d’ufficio e strumenti concreti quali indicazioni di sportelli e centri antiviolenza, contatti telefonici di pronto intervento e di ascolto e ospedali con sezioni specializzate nella cura dei danni subiti dalle donne. Altri momenti sono stati dedicati al dopo "carcere", alla possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro: come costituire una cooperativa, come lanciare una start up, l’analisi dei diversi modelli di impresa. Contemporaneamente, sono stati attivati i laboratori sensoriali e di espressione: circa 40 ore di erboristeria nelle serre per le detenute comuni del reparto femminile. Con l’erboristeria le recluse affrontano la cura di sé, attraverso lo studio delle piante per la fitoterapia e la cosmesi: un’occasione di formazione e di lavoro. Inoltre, trecento ore sono state dedicate all’attività teatrale, coinvolgendo tutte le detenute. Per le transessuali è stato attivato un laboratorio di serigrafia (80 ore) ed è in corso di esecuzione un grande murales nello spazio adibito alle ore di aria. Fns-Cisl: "ecco perché gli agenti di Polizia penitenziaria non sono più al sicuro" di Davide Zappalà diariodelweb.it, 23 agosto 2017 Ogni giorno, a livello nazionale, 3 agenti di Polizia penitenziaria vengono aggrediti. Cosa sta accadendo? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Mangione, del sindacato Fns-Cisl. Nei primi anni del decennio, col "Piano Alfano", si è incrementata la capacità detentiva delle carceri senza provvedere contestualmente a nuove assunzioni di agenti di Polizia Penitenziaria. Per arginare il problema è stata lanciata la cosiddetta "sorveglianza dinamica", ovverosia gli agenti non presidiano più fisicamente la sezione ma osservano i detenuti con impianti di video sorveglianza limitandosi ad intervenire laddove necessario. Attualmente è operativo circa un agente ogni 50 reclusi ma la situazione va aggravandosi nei periodi estivi con le turnazioni per le ferie. Il poliziotto, inoltre, non assolve esclusivamente il lavoro di monitoraggio ma è anche sottoposto ad altre incombenze, i detenuti vanno portati in infermeria, ai colloqui con gli avvocati, all’Area trattamentale e via discorrendo. Altra grave fonte di dispersione di energie si ha quando il medico in servizio per oggettive necessità, o umanamente non sentendosela di assumersi determinate responsabilità, dichiara che un detenuto va urgentemente portato al Pronto soccorso per accertamenti ed ecco che in questi casi una struttura già all’osso per il personale perde altre unità operative. Sentenza Torreggiani - Dire che gli agenti debbano fare i salti mortali è un eufemismo, ma c’è di più. Nel 2013 con la "Sentenza Torreggiani", sempre in merito al problema del sovraffollamento carcerario, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani; si decide pertanto che per 8 ore al giorno i detenuti vengano lasciati uscire dalle proprie celle e siano liberi di circolare negli spazi comuni, nella maggior parte dei casi il semplice corridoio. Lentamente, mese dopo mese, questa modifica del trattamento ha comportato la nascita di un clima di minor rigidità con la conseguente diminuzione del rispetto verso gli agenti, la divisa, lo stato. La maggior severità che si percepiva nel sistema quando iniziai a lavorare portava ad avere più rispetto e conseguentemente una situazione più tranquilla. Per quanto concerne i soggetti con cui abbiamo da rapportarci tenete presente che il carcere non accoglie solo i delinquenti in senso stretto ma anche coloro che una volta sarebbero stati ospitati nei manicomi. Fu una decisione ipocrita la chiusura di quelle strutture che di certo non fece riguadagnare il senno ha chi non l’aveva ma semplicemente pose il fardello della gestione in capo ad altri soggetti, piuttosto che chiuderli li avrei riformati rendendoli meno degradanti per la condizione umana. Nervosismi - A questa situazione in cui ci immergiamo quotidianamente appena varchiamo le porte d’ingresso si aggiungono specifiche occasioni di nervosismo che siamo chiamati a gestire. Per un recluso gli anni del carcere, spesso in attesa del processo conclusivo, sono anni pesanti. Come ho già detto, rispetto ad una volta, vi è minor severità dell’ambiente con una scarsa fisicità degli agenti ed un controllo appena percepito, in questo contesto difficile con soggetti che certo non rappresentano la crema della società ecco che talvolta nasce un’aggressività che si rivolge verso gli agenti della Polizia Penitenziaria che in quel momento, con la loro divisa blu, rappresentano lo stato. Non è certamente colpa del poliziotto se il servizio dei dentisti è insufficiente rispetto al numero dei reclusi ma è contro il poliziotto che il detenuto (magari da 5 giorni sofferente per mal di denti) si scaglia. Età - Anche le modalità di intervento per riportare la calma sono difficoltose, gli agenti hanno un’età media che oscilla dai 40 ai 50 anni, i detenuti sono spesso giovani, nel pieno delle forze e che nelle ore libere svolgono attività fisica in palestra. L’agente non ha armi, la sua unica forza è il numero è la capacità di persuasione. In pochissimi carceri vi sono celle idonee dove rinchiudere i soggetti facinorosi in attesa che si calmino. Esiste l’isolamento, è vero, ma è una misura estrema cui non si ricorre frequentemente; inoltre non tutti i detenuti sopportano il regime d’isolamento e specifici certificati medici impediscono alla Polizia Penitenzia di porre un soggetto in isolamento. Tre aggressioni al giorno - Tre aggressioni al giorno sono molte ma sarebbero molte di più se non vi fosse la nostra professionalità che si manifesta non solo quando interveniamo ma anche quando, monitorando continuamente i detenuti, impediamo che si creino capannelli di soggetti facinorosi; costantemente operiamo per dividere in sezioni diverse coloro che uniti potrebbero creare un branco pericoloso, trasferiamo in altri carceri i soggetti che una volta radicati possono creare disturbo. Il nostro lavoro si basa sulla prevenzione che con la nostra grande esperienza riesce ad essere efficace anche se non capiamo ciò che si dicono i reclusi di origine araba. La riforma Orlando entra nelle aule di giustizia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 agosto 2017 Il nuovo sistema penale alla prova. La legge voluta dell’attuale guardasigilli sta finendo il rodaggio per entrare nel delicato ingranaggio del sistema giudiziario. Entrata in vigore il 3 agosto scorso, la legge 23 giugno 2017, n. 103 "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", la "Riforma Orlando", che prende il nome dell’attuale Guardasigilli che ha fortemente voluto la sua approvazione, sta pian piano finendo il rodaggio per entrare nel delicato ingranaggio del sistema giudiziario. Il provvedimento, ricordiamolo, introduce modifiche di grande rilievo nell’ordinamento penale, sia sul piano del diritto sostanziale, sia su quello del diritto processuale. Alcune, come detto, già entrate in vigore, altre invece oggetto di specifiche deleghe che dovranno essere attuate dal Governo, come ad esempio quella sull’Ordinamento penitenziario sulla quale si sono insidiate il 26 luglio scorso le Commissioni presso l’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia composte da docenti universitari, avvocati e magistrati di sorveglianza. Oggi esamineremo alcune criticità evidenziate da chi materialmente è chiamato ad applicare le nuove norme: magistrati ed avvocati su tutti. Iniziamo dall’allungamento dei termini di prescrizione che così come formulato inciderà sul lavoro dei giudici. Oggi i piani organizzativi di molti tribunali nello stabilire le priorità del lavoro del giudice prevedono che si possa evitare la trattazione di quei processi che si prescrivono entro un contenuto lasso di tempo. In genere si va dai sei mesi ad anno. La ragione è chiara: si preferisce che il giudice si concentri su processi che proseguiranno nei vari gradi senza arenarsi nella prescrizione. L’allungamento della prescrizione si traduce nel fatto che il giudice dovrà comunque raggiungere una sentenza nel merito dato che il processo è destinato ad allungarsi nella fase successiva del giudizio. Insomma, meno reati che si prescrivono vuol dire più sentenze nel merito per i giudici. Fra i punti maggiormente discussi fra i giudici di primo grado, poi, la normativa secondo cui il tribunale in composizione monocratica dovrà occuparsi della impugnazione dei provvedimenti di archiviazione del Gip. In particolare, il giudice monocratico valuterà i casi di nullità previste dall’art. 410 bis commi 1 e 2 cpp dei decreti di archiviazione in accoglimento della relativa richiesta del Pm e delle ordinanze di archiviazione a seguito di udienza camerale. Sono le nullità conseguenti al mancato rispetto dei termini, alla mancanza degli avvisi e alla mancata considerazione di una opposizione. Ci si chiede, specie con riguardo ai piccoli tribunali, se si verificheranno delle incompatibilità fra il giudice, inteso come persona fisica, che avrà esaminato le nullità inerenti il provvedimento di archiviazione e il medesimo giudice che comporrà il collegio al dibattimento su reati connessi. In ogni caso, si imporrà un aggravio di lavoro del giudice dibattimentale che dovrà esaminare le eccezioni, peraltro doverose, del foro. Ma anche i consiglieri d’Appello saranno chiamati ad una nuova forma di giudizio di secondo grado, quello sulla impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere emesse dal Gup. Come si ricorderà, la competenza spettava, fino alla riforma Orlando, immediatamente alla Corte di Cassazione. Ora si ha una pronunzia della Corte di Appello e poi ancora la possibilità di ricorso in Cassazione. Un allungamento, dunque, della procedura. Un allungamento analogo si ha anche con la rimodulazione dell’istituto finalizzato alla rescissione del giudicato per assenza incolpevole dell’imputato. Il giudice di Appello, poi, deve disporre la rinnovazione della istruzione dibattimentale in caso di appello del Pm contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione di una prova dichiarativa: un pregiudizio negativo verso le assoluzioni in primo grado che hanno ad oggetto la valutazione della credibilità del teste. Il tutto, anche qui, con sicuro allungamento dei tempi processuali. Infine il punto più discusso: l’avocazione da parte del procuratore generale delle indagini preliminari se il Pm non chiede l’archiviazione o non esercita l’azione penale nei termini. Per rendere effettiva questa forma di controllo sulle procure presso i tribunali bisognerà aumentare gli attuali organici dei sostituti procuratori generali. Il nuovo giornalismo che vive di odio e copia i social di Piero Sansonetti Il Dubbio, 23 agosto 2017 Non saprei dire con certezza se sono i giornalisti a guidare l’incanaglimento dei "social" o viceversa. Probabilmente è un circolo vizioso, un inseguirsi a vicenda. Con risultati pessimi. I risultati sono due. Il primo è lo scadere oltre ogni livello di oscenità della stessa lingua italiana. Che dopo secoli di sviluppo rischia di tornare indietro e imbarbarirsi. Il secondo è l’obnubilamento che questo linguaggio di aggressione e di odio inevitabilmente porta con se. Il pubblico obnubilamento del pensiero ha delle inevitabili conseguenze sul funzionamento della democrazia e quindi anche sul dispiegarsi della libertà. Di che sto parlando? Vediamo. Vi trascrivo un brano di un editoriale pubblicato proprio ieri su uno dei più importanti giornali italiani. E firmato da uno dei quattro o cinque giornalisti che in Italia contano. Non vi dico neppure il nome del giornale né del giornalista, perché non mi va di personalizzare. Se lo capite da soli bene, sennò non cambia niente, quello che conta non sono i nomi ma la sostanza. Leggete qui: "... Non faccio che pensare a loro. E naturalmente a Lui che, cattivissimo come solo i nani sanno essere, detesta tutte le sue creature e, pur di non vedere più quell’orda di parassiti forforosi, sudaticci, e alitosi, se ne sta asserragliato ad Arcore (dove nessuno lo fotografa e può evitare di montarsi ogni mattina quella calotta catramata che lui chiama capelli) con qualche puntatina a Merano per darsi una sgonfiata (dove ogni tanto si scorda il toupet sul comodino accanto alla dentiera...)". L’articolo prosegue per molte e molte righe, sempre con questo tono. Come si capisce, si riferisce a Silvio Berlusconi, cioè il capo del centrodestra italiano più volte ex presidente del Consiglio e al suo gruppo parlamentare. L’estensore è un uomo forte dell’establishment di Beppe Grillo. Se però avete un pò di pazienza potrete trovare molti esempi simili di giornalismo, riferiti magari, anziché a Berlusconi, a Renzi, oppure - molti - a Laura Boldrini, ma anche a tantissime altre persone famose. Difficile trovare dei precedenti per questo linguaggio giornalistico. Qualche volta ho cercato un antenato in un certo Roberto Farinacci, che - poco meno di un secolo fa - fu un gerarca fascista molto esagitato, e per questa ragione, dopo qualche anno, emarginato dalla stesso Mussolini. Ci sono delle analogie e delle differenze tra il farinaccismo e questo nuovo giornalismo nostrano (che non è solo di matrice grillina). L’analogia sta nel sentimento che lo muove. E il sentimento che lo muove è quello che Leonardo Sciascia, con la sua solita arguzia, definiva "la collera degli imbecilli". Diceva Sciascia che è esattamente la collera degli imbecilli il carburante di tutti i fenomeni fascisti. La differenza sta invece nel carattere essenzialmente politico del farinaccismo (che rispondeva a una esigenza aggressiva e sfacciata del fascismo, che in quegli anni era ancora molto giovane e aveva assolutamente bisogno di affermarsi e unirsi schiacciando i nemici), e nel carattere invece poco politico e molto populistico di questo nuovo giornalismo d’assalto, che - esattamente al contrario di Farinacci - ha bisogno assoluto di nemici per affermarsi. Il farinaccismo era funzionale a una politica e a una ricerca di stabilizzazione del potere. Il nuovo populismo, che nasce o comunque vive e si alimenta nei social, è semplicemente questo: la ricerca, l’esaltazione e la mostrificazione del nemico. In questa catena, la mostrificazione è essenziale, e per questa ragione assurge a un ruolo decisivo l’odio, la formazione dell’odio, la coltivazione dell’odio e dunque il linguaggio dell’odio. L’odio serve a formare i mostri, i mostri sono i pilastri del nuovo populismo. Nello sviluppo del linguaggio dell’odio (che diventa ancora più importante dello stesso odio, e naturalmente molto, molto più importante della ragione dell’odio, che è assolutamente secondaria, se c’è resta sullo sfondo) ha una funzione decisiva l’interfacciarsi tra giornalismo e social. L’autore dell’articolo che abbiamo citato certamente usa un linguaggio in gran parte mutuato dai social. Che è diventato ormai il suo linguaggio. Avrete notato come dà una importanza decisiva agli aspetti fisici della persona che critica, e a quelle che ritiene le proprie superiorità fisiche rispetto al nemico, individuato e indicato al pubblico odio. Dunque lui che scrive è più alto del nemico, e quindi il nemico è un nano. Ha più capelli, più denti, più gioventù del nemico, e quindi la scarsità dei capelli, la necessità di portare una dentiera e l’età avanzata diventano colpe e motivi di insulto. La politica scompare. Il conflitto politico non esiste, non è neppure immaginato. Il conflitto è tra il bello e il brutto. Tra il giovane e il vecchio. Tra l’uomo robusto e l’uomo anziano con una dentatura debole. E anche le persone che circondano il nemico non sono colte o ignoranti, reazionarie o progressiste, liberali o totalitariste, violente o miti. No: sono sudaticce, hanno cattivo odore, molta forfora. Ma non è solo il giornalista a mettersi alla coda del social. Succede anche il contrario. Il giornalista, che ha attinto al linguaggio del social diventa l’esempio per i fruitori del social, i quali lo eleggono a simbolo e iniziano a imitarlo. E vogliono superarlo, e allora incattiviscono ulteriormente il proprio linguaggio e - contemporaneamente - riducono sempre di più l’interesse per i contenuti. E quando incattiviscono le parole e abbassano il livello del pensiero, diventano a loro volta un modello per il giornalista. Si forma la spirale. Il bersaglio dell’odio può essere chiunque. Ha pochissima importanza chi sia il bersaglio, perché ciò di cui si ha bisogno non è colpire un avversario per indebolirlo, ma costruire un avversario per colpirlo. Quindi si cerca l’avversario che abbia le caratteristiche migliori per essere colpito. Più un personaggio è considerato possibile catalizzatore di odio più viene prescelto dai social e dal giornalismo post-social. Ma non basta che abbia le caratteristiche giuste, cioè i punti deboli (l’altezza fisica nel caso di Berlusconi, l’esser donna nel caso della Boldrini, eccetera...) è necessario che sia un personaggio con l’indice più alto possibile di visibilità. Perché questo indice di visibilità fa da moltiplicatore alla quantità di odio che si mette in movimento. Da questo punto di vista andava molto bene Obama e va molto bene anche Trump. Oltretutto Obama era nero e Trump ha una strana capigliatura, ottimi punti deboli. Ma il massimo, dal punto di vista della visibilità, è il papa. Il capo dell’intera cristianità. Raramente un Papa aveva concentrato su di se tanto odio, e tanto linguaggio dell’odio - da parte dei cristiani come è successo a Francesco. Eppure, in passato, molti papi solo stati al centro di scontri durissimi, in politica e non solo in politica. Quasi mai però un cattolico praticante aveva avuto l’ardire di sostenere che il papa (che ha chiesto il diritto allo Ius soli) dovrà risponderne "davanti alla storia e davanti, addirittura, a Dio". Lo ha fatto l’altro giorno un famoso psichiatra. È preoccupante, questo fenomeno, o è solo un fatto folcloristico e passeggero? Penso che non sia un fatto passeggero. E che dipenda da tre fattori stabili nell’attuale fase della modernità. Uno di questi fattori - l’unico positivo - è lo sviluppo delle tecniche informatiche, cioè l’enorme diffondersi del web. Il secondo fattore è la coincidenza temporale - e probabilmente casuale - almeno qui in Italia, tra questo sviluppo e la caduta dell’intellettualità, della sua robustezza, della sua autorevolezza, della sua funzione nella società e nell’establishment. Per capirci: avevamo Pasolini, Calvino, Calogero, Argan, Calamandrei, Lombardo Radice, e oggi - se tutto va bene e senza sottovalutare i miei colleghi - abbiamo Gramellini, Saviano, Scanzi. Non solo non c’è una intellettualità in grado di costituire un punto di riferimento esterno ai social, e magari di indirizzarli e funzionare come esempio; ma abbiamo una intellettualità "debole", subalterna organicamente ai social, e da essi stregata. Il terzo fattore è la caduta della politica, che non è più in grado di costruire programmi, speranze, conflitti, e sostituisce tutto questo con la rappresentazione di conflitti che, inevitabilmente, si nutre dell’odio. Come si può intervenire? Come si può frenare la tendenza a trasformare l’odio - l’odio senza contenuti e senza conflitto - in pilastro del dibattito pubblico e in costruttore del linguaggio? Con delle leggi? Con delle contromisure culturali? Con la scuola? Lascio aperte queste domande. Perché non so rispondere. Mi aspetto delle risposte dal G7 delle avvocature, che si terrà a settembre proprio su questi argomenti, e del quale riferiamo qui accanto. Il detenuto in regime di 41bis può ricevere i libri in lingua straniera diario1984.it, 23 agosto 2017 I giudici della Suprema Corte sconfessano il Magistrato di Sorveglianza di Novara. I giudici della prima sezione della Corte di Cassazione (presidente, Arturo Cortese; consigliere relatore, Adet Toni Novik; consiglieri, Antonella Tardio, Rosa Anna Saraceno e Aldo Esposito), il 24 maggio scorso, hanno esaminato il reclamo proposto dal detenuto siracusano Alessio Attanasio, 47 anni, attualmente detenuto nella Casa Circondariale di Sassari, avverso l’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Novara il 29 maggio 2014. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione aveva chiesto di dichiarare inammissibile il reclamo di Attanasio. Invece, la Suprema Corte lo ha dichiarato fondato e ha annullato l’ordinanza impugnata dall’Attanasio, con rinvio ad altro Magistrato di Sorveglianza di Novara affinché si pronunci sulla richiesta del detenuto tesa ad ottenere un’ordinanza con la quale venga ordinato alla Direzione della Casa Circondariale di commissionare i libri in lingua straniera che poi verranno pagati dall’Attanasio. L’acquisto dei libri in lingua straniera, come sollecitato da Alessio Attanasio, deve essere consentito anche agli altri detenuti sottoposti al regime del 41 bis Ordinamento Penitenziario, ristretti in tutti gli istituti di pena, ai quali è stato negato il diritto di ricevere libri in lingua straniera. Nel suo reclamo alla Suprema Corte, aveva chiesto che la questione da lui sollevata venisse esaminata a sezioni unite della Cassazione in quanto a suo dire era di speciale importanza. Alessio Attanasio aveva impugnato l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Novara poiché, in risposta alla sua richiesta di essere autorizzato alla consultazione e all’eventuale all’acquisto di libri in lingua straniera, l’aveva rigettata rappresentando delle difficoltà della Direzione dell’istituto di pena nel reperire i libri richiesti. Ma non tanto per il rigetto del reclamo quanto per l’atteggiamento del magistrato di Sorveglianza il detenuto ha impugnato la sua ordinanza. Nel dare ragione alle lagnanze di Attanasio, i giudici della Suprema Corte scrivono: "Il Magistrato di Sorveglianza irritualmente ha emesso un provvedimento sollecitatorio invitando in ottica collaborativa la Direzione della Casa Circondariale di Novara a dare sollecito riscontro alla richiesta di libri da parte dell’Attanasio e degli altri detenuti ristretti ex articolo 41 bis O.P. che hanno già presentato reclamo in tal senso e chiesto giudizio di ottemperanza". I giudici ricordano al Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Novara, che era sufficiente osservare le disposizioni di cui agli articoli 666 e 678 codice di procedura penale, secondo quanto stabilito dal quinto comma dell’articolo 35 bis O.P. per adottare una formale decisione sulla richiesta dell’Attanasio e degli altri detenuti che avevano chiesto, come il recluso siracusano, il giudizio di ottemperanza. In altre parole il magistrato non deve chiedere la collaborazione del direttore del carcere per fare eseguire un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, ma deve emettere una decisione cui il direttore è tenuto ad osservare e farlo eseguire. E su questo versante, la Suprema Corte dà atto al detenuto Alessio Attanasio di avere messo in evidenza l’ambiguo comportamento del Magistrato di Sorveglianza e di averlo saputo ben rappresentare nel reclamo da lui stesso scritto a mano. Per Alessio Attanasio, già laureato in carcere in Scienze della Comunicazione e attualmente iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, si tratta dell’ennesimo successo nell’ambito della sua battaglia contro i provvedimenti emessi dai magistrati di sorveglianza dei tribunali di mezza Italia. Psicologi: professione abusiva per il guru della psico-setta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39229/2017. Per il reato di esercizio abusivo della professione di psicologo non serve un metodo, bastano un fine e un presupposto: la diagnosi e la cura dei disturbi psichici. La Corte di cassazione, partendo da questo principio, conferma la condanna del guru fondatore della psico-setta Archeos per associazione a delinquere ed esercizio abusivo della professione di psicologo. La Suprema corte, con la sentenza 39339 ha, prima di tutto affermato il diritto dell’Ordine degli psicologi di costituirsi parte civile nel processo, respingendo l’obiezione sul punto del ricorrente. La costituzione è, infatti, possibile quando non si fonda solo sulla lesione degli interessi morali della categoria, ma anche sul danno patrimoniale che deriva, pur se indirettamente, ai professionisti dalla concorrenza sleale della persona non abilitata. E?per i giudici era certamente concorrenza sleale ed esercizio abusivo della professione "il percorso di sviluppo e conoscenza personale" propagandato nei seminari di Archeon. Percorsi che, secondo la difesa, altro non erano che un’evoluzione del Reiki, la pratica spirituale usata come terapia alternativa ai mali del corpo e della mente. I giudici di appello avevano verificato, che i frequentatori si rivolgevano "all’associazione" con la speranza di risolvere i loro problemi psicologici attraverso la psicoterapia. Un "sostegno" che i "maestri" non negavano "andando a scandagliare nella sfera più intima e nascosta degli adepti insinuando atroci sospetti sul loro passato". Da una relazione tecnica della Procura del Tribunale di Bari, emerge che, secondo i "maestri" erano in genere i genitori a trasmettere valori perversi ai figli, quasi sempre la madre che, in quanto donna, era dedita a relazioni prevalentemente perverse. L’unica funzione nobile riconosciuta al gentil sesso era quella di essere una terra fertile destinata a dare vita al figlio del Guerriero. Il risultato di una "introspezione" tanto "illuminata" non era la ricercata serenità ma uno sconvolgimento e gravi rischi per la stabilità psichica dei frequentatori dei seminari. Non stupisce la costituzione di parte civile degli psicologi. La Cassazione afferma che l’articolo 348 del Codice penale, sull’esercizio abusivo della professione, è una norma in bianco, da combinarsi con le altre che regolano le professioni per le quali è prevista l’abilitazione. Chiarito che per fare lo psicologo serve una specifica laurea o una laurea in medicina e chirurgia, più i dovuti corsi di specializzazione, i giudici negano che sia necessario, per contestare il reato, l’uso di modalità particolari, scientificamente collaudate o meno. Basta infatti che la condotta abbia come presupposto la diagnosi e come fine la cura. La norma è tesa, infatti, ad evitare che la salute psichica del paziente sia messa a rischio da chi può "manipolarla" danneggiandola. Il danno per l’Ordine degli psicologi era evidente dall’esame della struttura e del modus operandi di Arkeos. Passaparola, volantini, "pubblicità" via internet, presentazioni gratuite dei corsi: tutto era finalizzato a raccogliere più partecipanti possibile per massimizzare i profitti. Gli adepti dopo aver "investito un rilevante capitale" nei seminari, restavano legati al gruppo anche nella speranza di far fruttare anche loro, una volta diventati finalmente maestri, il titolo rilasciato dal guru. Il tutto dimostra "sia il dolo del delitto-fine in esame che quello di associazione a delinquere". Parte civile, in Cassazione per il rimborso spese basta la memoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 22 agosto 2017 n. 39337. "In tema di spese processuali ha diritto ad ottenerne la liquidazione la parte civile che, nel giudizio di legittimità, pur non intervenendo alla discussione in pubblica udienza, depositi memorie conclusive e relativa nota spese". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 22 agosto 2017 n. 39337, dopo aver rigettato il ricorso di un uomo condannato in appello per "esercizio arbitrario delle proprie ragioni" e "lesioni" nell’ambito di una lite di vicinato tra i proprietari di due fondi agricoli. L’articolo 541 del cpp, ricorda infatti la Suprema corte, "prevede un obbligo generale di condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile - in caso di accoglimento della domanda di restituzione o di risarcimento dei danni - svincolato da qualsiasi riferimento alla discussione in pubblica udienza (n. 6052/2015)". Del resto, prosegue la decisione citando un diverso precedente di legittimità, "la mancata presentazione della parte civile non può essere qualificata come revoca tacita della costituzione e, dall’altro, l’articolo 12 del Dm 10 marzo 2014 n. 55, attribuisce rilievo alla partecipazione in sé alla fase decisionale, senza distinguere tra difese orali e scritte (n. 36805/2015)". I giudici di legittimità hanno inoltre ritenuto infondata la censura dell’imputato secondo cui la presentazione dell’atto di appello da parte di un "incaricato" in una cancelleria diversa da quella del giudice a quo avrebbe violato l’articolo 582, comma 2, cpp "Tale norma, infatti - spiega la decisione -, nel sancire che le parti privati ed i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, non costituisce, come opina il ricorrente, una norma di esclusione per l’incaricato del difensore, bensì esclusivamente per il pubblico ministero". Una interpretazione condivisa anche dalla Corte costituzionale (n. 110/2003) che ha dichiarato manifestamente infondata la questione della legittimità dell’articolo nella parte in cui consente soltanto alle parti private ed ai difensori di presentare l’atto di impugnazione nei luoghi "alternativi". Pertanto, prosegue la decisione, "la facoltà, introdotta dall’art. 582, comma 1, c.p.p., di presentare personalmente o a mezzo di un incaricato l’atto di gravame nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, si estende anche alle ipotesi di presentazione dell’atto nella cancelleria degli uffici giudiziari alternativi previsti dal comma 2 del medesimo articolo, atteso che tale disposizione non provvede espressamente circa l’identità dei soggetti legittimati al deposito, la cui regolamentazione è lasciata al comma 1, ma si limita solamente ad individuare gli altri possibili luoghi in cui è possibile effettuarlo". Del resto, conclude sul punto la Cassazione, il legislatore nel riprodurre la previsione del codice di rito abrogato "ha inteso agevolare la parti private e, segnatamente, quelle "fuori sede" nella presentazione della impugnazione e, pertanto, ogni limitazione dell’ambito dei soggetti legittimati ad avvalersi dei luoghi "alternativi" richiede una espressa indicazione". Affidamento "in house" con abuso di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017 Corte di cassazione - sentenza 39348/17. L’affidamento ad una società regionale in house della gestione di un fondo comunitario, al posto di una finanziaria controllata dall’ente, integra il reato di abuso d’ufficio. A determinare l’illiceità della condotta, in questo caso, salva la discrezionalità riconosciuta all’amministratore, è l’uso dei poteri pubblici (nel caso specifico, quelli di un assessore) per uno scopo diverso da quello per cui erano stati conferiti. La Sesta penale della Cassazione - sentenza 39348/17, depositata ieri - chiude la fase cautelare dell’inchiesta calabrese Robin Hood, respingendo il lungo ricorso dell’ex assessore Nazzareno Salerno, arrestato per una serie di ipotesi di reato relative al "giro" di un consistente finanziamento comunitario. L’ex assessore al Lavoro e alle politiche sociali è accusato di aver affidato alla Fondazione Calabria Etica la gestione del Fondo credito sociale, destinato a persone in temporanea difficoltà economica con la concessione di crediti agevolati. Il dirigente regionale della partita, stando alle ipotesi della Procura - finora avallate anche da due gradi di giudizio cautelare - era stato "istigato" ad adottare quella decisione, tagliando fuori la finanziaria Fincalabra "più idonea allo svolgimento dell’incarico", per assecondare alcune finalità del gruppo malavitoso che avrebbe mosso da remoto i fili dell’azione amministrativa. La Fondazione infatti aveva poi dovuto affidare i servizi per la gestione del finanziamento (2,5 milioni di euro) a una finanziaria esterna, la cui movimentazione dei conti ha poi dato adito ad altre contestazioni penali (tra cui corruzione per un trasferimento "a se stesso" di 230mila euro); inoltre l’ex assessore aveva preteso l’istituzione di un Comitato di gestione - da lui stesso nominato - per valutare le domande di ammissione al Fondo, con chiare "finalità clientelari". Per finire con una minaccia aggravata da metodi mafiosi verso un altro dirigente regionale, per far nominare un dirigente "gradito" nella gestione del Fondo. Quanto all’abuso d’ufficio relativo all’assegnazione del fondo comunitario all’ente Calabria Etica (invece che alla più attrezzata finanziaria delle Regione), la Sesta sezione sottolinea che la destinataria era del tutto priva delle caratteristiche necessarie e che - in questo contesto - è del tutto ininfluente l’annullamento in autotutela intervenuto per opera del Tar. Inoltre, argomenta il relatore, l’operazione va letta nel più vasto scenario criminale inquadrato dall’inchiesta Robin Hood, in cui l’affidamento della gestione alla finanziaria "fidata" era stato solo il primo passo. La Cassazione ha poi avallato anche la riqualificazione del reato di estorsione in "minaccia aggravata dal metodo mafioso" nei confronti del dirigente compulsato a scegliere un collega più "sensibile" alle esigenze dell’assessore arrestato. In particolare la Corte ha valutato che l’incontro tra il politico e il dirigente onesto non solo era avvenuto fuori dalla sede istituzionale - prima anomalìa - ma addirittura in un "luogo protetto" e alla presenza di due figuri contigui alla cosca dominante nei luoghi. Non solo: il politico locale, per risultare più convincente, aveva evocato "una sorta di autorità che non c’è" con un’espressione che, agli occhi della povera vittima, era parsa rimandare direttamente al padrino locale. Il destinatario della minaccia aveva inteso così bene i metodi e i rimandi mafiosi che pochi istanti dopo, e ancora all’interno dell’auto dei due accompagnatori non istituzionali, aveva telefonato alla propria collaboratrice per procedere alla nomina del collega più "gradito". Da qui la conferma della custodia cautelare in carcere per l’ex assessore, con l’effetto di giudicato interno per il prosieguo delle fasi successive del processo. Elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale - Definizione di distrazione di beni - Concorso tra reati - Delitti tributari - Occultamento e sottrazione dei documenti contabili - Specialità reciproca - Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte - Rinvio. Costituendo "distrazione" anche le condotte che, pur non determinando fuoriuscita fisica o giuridica di cespiti o ricchezza dal patrimonio dell’impresa, determinano un vincolo per il patrimonio dell’impresa fallita, creando obbligazioni pertinenti alla destinazione di un bene o comunque idonee a ricadere sul patrimonio nella sua globalità, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, a opera dell’amministratore, della destinazione dei suddetti beni, non essendo poi necessario accertare in favore di chi sia avvenuta la retrocessione dei pagamenti. I reati di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale possono concorrere rispettivamente con i delitti tributari di occultamento e sottrazione dei documenti contabili e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, escludendosi che il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 Dlgs n. 74/2000) rimanga assorbito nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Dalla comparazione strutturale delle fattispecie emerge una diversità nella soggettività dell’illecito: il reato fallimentare può coinvolgere soltanto gli imprenditori falliti, mentre al delitto tributario sono interessati tutti i contribuenti, imprenditori e non; l’elemento psicologico per la bancarotta fraudolenta per distrazione è il dolo generico, nella sottrazione fraudolenta è specifico per il pagamento delle imposte. •Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 19 luglio 2017 n. 35591. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta post-fallimentare - Responsabilità dell’extraneus - Elemento soggettivo del reato - Volontarietà della condotta del reo - Depauperamento del patrimonio sociale in danno ai creditori - Accettazione del rischio del danno - Dolo. La responsabilità dell’extraneus nella bancarotta post-fallimentare si modella su quella dell’imprenditore fallito nel senso che presuppone la commissione del reato da parte di quest’ultimo e un’attività causalmente orientata dell’extraneus, perché rivolta a realizzare l’evento tipico o a favorirne la realizzazione. Al giudice il compito di indagare sull’esistenza della bancarotta post-fallimentare e sulla sua imputabilità soggettiva, sulla gestione post-fallimentare e l’eventuale violazione dei diritti dei creditori concorsuali procurando un danno alla massa fallimentare, essendo la bancarotta post-fallimentare un reato di danno, al contrario di quella prefallimentare, che è un reato di pericolo concreto. L’elemento soggettivo in capo all’extraneus concorrente nel reato proprio consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, cosicché rileva non solo la volontà dolosamente diretta alla lesione dei diritti dei creditori del fallimento o a nascondere denaro alla procedura in concorso con il fallito ma anche l’accettazione del rischio di una siffatta eventualità. •Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 luglio 2017 n. 32385. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, comma 1, legge fall.) - Occultamento e distruzione di documenti contabili (art. 10 Dlgs. n. 74/2000) - "Ne bis in idem" (Corte cost. n. 200/2016) - Diversità delle fattispecie di reato - Concorso tra fatti-reati - Ammissibilità. Anche nel rispetto della sentenza della Corte costituzionale n. 200/2016 in tema di "ne bis in idem" e alla luce dei principi comunitari, i due "fatti" illeciti della bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, comma 1, legge fall.) e dell’occultamento e distruzione di documenti contabili (art. 10 Dlgs. n. 74/2000), non sono i medesimi, sicché non potendo applicarsi nella fattispecie l’incipit dell’articolo 10, con conseguente assorbimento del meno grave reato fiscale in quello fallimentare, i due fatti-reato concorrono: un conto è non esibire la documentazione prescritta a fini tributari per evadere le imposte, altro è non consegnare al curatore fallimentare le scritture contabili e non presentare le dichiarazioni fiscali in maniera tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e degli affari di una società fallita. Se alla condanna per illecito tributario (nella specie per occultamento e distruzione di documenti contabili) fa seguito la condanna per bancarotta fraudolenta documentale, non sussiste la violazione del principio del "ne bis in idem" di cui all’articolo 649 c.p.p., l’identità del fatto sussistendo solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona. I reati tributari di cui al Dlgs. n. 74/2000 e quelli di bancarotta fraudolenta non regolano la "stessa materia" ex art. 15 c.p., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, e interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte e dell’elemento soggettivo (dolo specifico in un caso, generico nel secondo). L’evento dei due reati differisce, determinando la bancarotta fraudolenta - di cui la sentenza dichiarativa di fallimento è elemento costitutivo del reato - l’impossibilità di ricostruire il patrimonio o il movimento degli affari, mentre il reato di cui all’articolo 10 i redditi o il volume di affari. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 luglio 2017 n. 32367. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta documentale - Responsabilità dell’amministratore di diritto - Sottrazione dei libri contabili - Elemento soggettivo del reato (artt. 216 legge fall.). Il reato di bancarotta fraudolenta documentale non può avere a oggetto il bilancio, non rientrando quest’ultimo nella nozione di "libri" e "scritture contabili" prevista dall’art. 216, comma 1, n. 2, legge fall. La condotta di sottrazione delle scritture contabili, peraltro, deve essere dal giudice adeguatamente motivata in ordine alla consapevolezza dell’imputato, alla qualità di amministratore di diritto, allo stato delle scritture contabili e alla decisione di sottrarle agli organi fallimentari in prossimità della dichiarazione di fallimento. Posto che la Corte di cassazione è giudice della motivazione, non già della decisione e che il controllo di legittimità concerne il rapporto tra motivazione e decisione, non il rapporto tra prova e decisione, nella bancarotta fraudolenta documentale l’amministratore di diritto risponde del reato per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture contabili, anche laddove sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28189. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Amministratore di diritto - Amministratore di fatto - Responsabilità - Elemento soggettivo del reato - Qualifica di dipendente della società - Configurabilità. In tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente sotto il profilo soggettivo la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali. Per tale motivo, allorché il soggetto accetti il ruolo di amministratore allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale e, sotto nessun profilo, la condizione di "dipendenza" esclude la configurabilità della gestione di fatto, una vola accertato che il "dipendente" abbia posto in essere gli atti tipici della gestione e si sia sostituto oppure abbia affiancato l’amministratore di diritto nella conduzione dell’impresa. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 18 maggio 2017 n. 24781. Basilicata: al via programma di formazione professionale negli istituti penitenziari di Ivana Infantino piumezzogiorno.it, 23 agosto 2017 Formazione professionale in carcere: dalla giunta regionale via libera al progetto, di durata annuale, "Vale la pena lavorare", finanziato con 2, 3 milioni di euro del Po Fse 2014/2020 e destinato a 410 persone. Obiettivo: sviluppare esperienze di formazione professionale e di lavoro negli istituti penitenziari di Potenza, Melfi, Matera e nell’istituto per minorenni di Potenza. Il soggetto attuatore è l’agenzia regionale per il lavoro e le transizioni nella vita attiva, Lab, che attuerà il progetto nell’ambito del protocollo d’intesa tra la Regione Basilicata ed il ministero della Giustizia, in linea con gli obbiettivi di reinserimento, sociale dei documenti di programmazione dell’Unione europea. Gli obiettivi - Per l’assessore regionale Roberto Cifarelli promotore dell’iniziativa approvata dall’esecutivo guidato da Marcello Pittella, "di particola interesse è il previsto raccordo tra i percorsi di formazione professionale, promossi a favore dei detenuti adulti e minorenni e degli ammessi a misure alternative, con le reali esigenze occupazionali del mercato del lavoro regionale". "La realizzazione delle attività - spiega Cifarelli - riguarda la complessa questione dell’inserimento sociale e lavorativo dei detenuti, considerando l’istruzione, la formazione professionale e il lavoro come parti integranti e centrali del trattamento penitenziario nei confronti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, anche in forma alternativa. Rilevanti - conclude - sono le previste relazioni operative fra i vari soggetti, pubblici e privati, che saranno in grado di offrire risposte articolate a tali bisogni sociali complessi, attraverso soluzioni innovative e interessanti". I servizi si articoleranno in tre tipologie: formazione (con lezioni in aula e laboratorio nelle strutture penitenziarie); work experience (un percorso formativo individuale con azioni di orientamento, formazione on the job, grazie ad un contatto diretto con la realtà lavorativa) e stage/tirocinio (in azienda o nelle strutture limitative della libertà personale). Altri step sono: "Case Management e Prison Farm" che consistono nella presa in carico di detenuti ospiti delle case circondariali per sostenerne l’inserimento lavorativo sia fuori dal carcere, attraverso i servizi alternativi territoriali, che dentro il carcere. Fra gli istituti coinvolti anche l’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Potenza e Matera; l’istituto penale per minorenni Comunità minori; l’ufficio servizi sociali per minorenni. Como: il "carcere dei suicidi" ha fatto un’altra vittima di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2017 Salgono così a 34 i detenuti che si sono tolti la vita in Italia dall’inizio di quest’anno. Sale a 34 il numero dei suicidi dall’inizio dell’anno, a questo si aggiungono 72 morti per cause naturali. È come un inarrestabile fiume in piena la lunga scia di morte che interessa le patrie galere. Si muore per cause naturali - molto spesso causate da cure poco adeguate -, per suicidio e anche dopo aver tentato di suicidarsi. L’ultimo decesso per conseguenza di tentato suicidio è avvenuto ieri. Si tratta di un detenuto che, la settimana scorsa, si era impiccato nell’infermeria del carcere comasco del Bassone. La polizia penitenziaria aveva tentato di salvarlo, ricoverato d’urgenza in ospedale, era entrato in coma e ieri è morto. Dall’inizio dell’anno si tratta del secondo suicidio avvenuto nello stesso carcere, prima di lui a togliersi la vita era stata una donna somala di 37 anni. Fu lei che "inaugurò" la lunga lista di sucidi dall’inizio dell’anno. Il 4 gennaio scorso era da sola, in una cella di isolamento, e ha deciso di togliersi la vita. Celle di isolamento che poi sono state chiuse, ma solo quelle che riguardano il reparto femminile. Era in carcere da due anni, arrestata per reati contro il patrimonio che le erano costati tre anni di condanna: a luglio di quest’anno sarebbe ritornata in libertà, anche se era senza un punto di riferimento in Italia a cui rivolgersi o una dimora fissa. Un altro carcere difficile, dove si continua a morire, è quello di Barcellona. Nei giorni scorsi un 70enne, con disagio psichico, aveva avuto un ictus ed è morto in ospedale nello stesso giorno nel quale è avvenuto il suicidio di un recluso dello stesso carcere. Ora ha un nome il detenuto che si sarebbe tolto la vita all’ex Opg, convertito in istituto penitenziario, di Barcellona Pozzo di Gotto. Si chiamava Maurizio Famà, catanese di 38 anni accusato di furti di auto e rapine. Secondo la ricostruzione del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, si sarebbe impiccato al sifone del bagno della cella. Eppure qualcosa non torna. Secondo i familiari che hanno poi visto il corpo del defunto, Famà non presenterebbe segni da strangolamento al collo. Eppure, in caso di suicidio per soffocamento, i segni dovrebbero essere visibili. C’è anche un altro motivo per il quale i familiari mettono in dubbio la versione ufficiale. Il giorno prima del ritrovamento, Famà aveva fatto un colloquio con la famiglia e non aveva presentato nessun segno di malessere, anche perché attendeva la fine di agosto per chiedere un’istanza di scarcerazione. A chiarire la causa della sua morte sarà l’esito dell’autopsia effettuata ieri e per i risultati bisognerà aspettare qualche giorno. Il legale della famiglia ha richiesto anche l’accertamento tossicologico. Il disagio dell’ex Opg - Quello di Barcellona Pozzo di Gotto è stato l’ultimo Opg a chiudere definitivamente. Gli ultimi pazienti sono stati trasferiti a febbraio scorso. Le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che dovrebbero sostituire quella che è stata chiamata una delle vergogne del nostro sistema giudiziario e sanitario, sono state attivate in quasi tutte le Regioni (rimane ancora da aprire quella di Empoli) e hanno visto transitare più di 900 persone e uscirne circa 400, a dimostrazione che il sistema è in via di funzionamento e che le rems non sono un carcere a vita. Eppure non bastano. Sparsi nelle patrie galere, oltre ai detenuti psichiatrici che vivono nei reparti specifici per l’assistenza e che nella maggioranza dei casi risultano inadatti, ci sono pazienti psichiatrici che dovrebbero stare nelle Rems, ma in mancanza di posto rimangono reclusi nelle carceri. E questo vale anche per la casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto. Infatti, vi sono recluse due persone che erano sottoposte a regime di detenzione e che, una volta terminata, sarebbero dovuti andare in una Rems: ma non ci sono posti, perciò nonostante le plurime richieste alla magistratura di sorveglianza da parte della direzione del carcere, per il momento rimangono reclusi. Attualmente, l’ex Opg, ospita 45 detenuti psichiatrici, 14 per sopravvenuta malattia mentale (tanti sono i reclusi che si ammalano di patologie psichiatriche durante la detenzione), 18 in osservazione psichiatrica e i due che dovrebbero stare in una Rems. Un disagio che porta a diverse conseguenze. Anche il suicidio. Esattamente come è avvenuto l’anno scorso, sempre al carcere di Barcellona Pozzo Di Gotto, a un detenuto di 40 anni che doveva essere trasferito in una Rems. Morti poco chiare - Dietro ogni gesto di questo tipo, ci sono tristi vicende umane che l’istituto penitenziario non solo non le attenua, ma l’esaspera ancora di più. Però, come nell’ultimo caso di Barcellona Pozzo di Gotto, non tutte le morti classificate come suicidi, sono così chiare. Proprio quello del Bassone, gli addetti ai lavori lo chiamano "il carcere dei suicidi", perché era già stato sotto i riflettori nel 2014 a causa di tre suicidi avvenuti nel giro di poco tempo. Tra i tre, uno è emblematico e definitivamente archiviato. Il 31 ottobre del 2014, verso le 16 del pomeriggio, il 28enne Maurizio Riunno era stato trovato impiccato con un lenzuolo alla finestra della sua cella. Riunno era stato arrestato dieci giorni prima per sequestro di persona e si trovava in carcere in custodia cautelare. Era già stato arrestato in passato ed era stato liberato poche settimane prima del nuovo arresto. Si trovava in una cella a parte riservata ai detenuti che hanno problemi di convivenza con gli altri, una specie di isolamento: nel suo caso si trattava di esigenze giudiziarie legate alle indagini ancora in corso. La procura di Como aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, una pratica necessaria per effettuare l’autopsia che ha confermato la morte per asfissia. La famiglia però è rimasta convinta che Riunno non si sia suicidato, soprattutto per via di alcune lettere che aveva scritto alla compagna in cui parlava del futuro, della voglia di ricominciare una vita con lei e i tre figli piccoli, e con cui chiedeva francobolli per continuare a scriverle. Tutti elementi che facevano presagire che, lui, alla vita ci teneva. La donna aveva anche raccontato di aver guardato il corpo di Riunno prima dell’autopsia e di aver fotografato "un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo". Ha anche scoperto che la procura aveva sequestrato quattro lettere che aveva inviato a Riunno e una scritta da lui. La famiglia aveva chiesto aiuto alla radicale Rita Bernardini per fare chiarezza sull’accaduto ed era stato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte dell’esponente del Pd Roberto Giachetti rivolta al ministro della giustizia Orlando. A marzo del 2015, il giudice delle indagini preliminari ha rigettato la richiesta di archiviazione, accogliendo anche il ricorso presentato dall’avvocato Massimo Guarisco, legale prima di Riunno e ora dei suoi familiari. Ma si concluse tutto con una definitiva archiviazione. Per la giustizia il caso è chiuso. Prato: barricate e vetri rotti, il carcere scoppia di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 23 agosto 2017 La rivolta dei detenuti della Dogaia. Convocato un Consiglio comunale straordinario. Rivolta dei detenuti ieri alla Dogaia: barricate con le brande di metallo e vetri rotti. Per la polizia penitenziaria è "una polveriera". Convocato un Consiglio comunale straordinario. La denuncia "In 700 nelle celle contro i 400 previsti E gli agenti sono sempre di meno". Sovraffollato, con pochi agenti, pericoloso. "Questo carcere - dicono senza usare mezzi termini i poliziotti penitenziari della Dogaia - è una polveriera". Pronta a esplodere ogni volta che se ne crea l’occasione. Questa volta i detenuti hanno protestato per i turni del lavoro interno al carcere. Lunedì, attorno all’ora di pranzo, alcuni di loro hanno deciso di mettere in atto una delle più violente azioni di disturbo che siano avvenute negli ultimi mesi. È da poco finito il momento del pranzo quando alcuni reclusi bloccano l’accesso alla terza sezione: creano una barricata con le brande di metallo prese dalle delle celle; nel frattempo nella quinta sezione vengono frantumati i vetri del cancello di ingresso. Urla strazianti e baccano: la situazione scivola pericolosamente in una condizione di difficile controllo da parte degli agenti. Durante i disordini vengono messi in atto gesti autolesivi da parte degli stessi detenuti. Si feriscono con una lametta, cercano di ingoiare gli oggetti che si trovano in cella. Uno di loro perde i sensi, viene portato al pronto soccorso dell’Ospedale di Prato: i medici lo curano e lo rimandano in carcere. La rivolta va avanti per ore, sino al tardo pomeriggio, quando il personale di polizia penitenziaria riesce a riportare faticosamente l’ordine. Le perquisizioni nelle ore seguenti portano all’individuazione di tutti gli autori dei disordini - almeno tre maghrebini tra i 20 ed i 30 anni - e al rinvenimento di molti oggetti pericolosi e contundenti nelle loro celle. "Nessuno degli agenti stavolta si è fatto male - spiega una nota delle sigle dei lavoratori del carcere - ma non bisogna sminuire l’accaduto perché questi atteggiamenti di sfida sono quotidiani. Purtroppo, nonostante il mese scorso le organizzazioni sindacali abbiano protestato, non sono stati posti in essere interventi tesi alla riorganizzazione dell’Istituto". E questi, sembrano suggerire con la loro denuncia, sono i risultati. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati gli episodi di violenza all’interno della casa circondariale. Dopo l’attuazione delle misure della sorveglianza dinamica (per gli effetti della sentenza "Torreggiani") l’organizzazione del lavoro all’interno della Dogaia è sensibilmente peggiorata. I detenuti sono in costante aumento (700 a fronte della capienza prevista di circa 400 persona). Il personale di polizia penitenziaria risulta carente: 220 agenti a fronte dei 345 previsti. Il presidente del Consiglio comunale Ilaria Santi ha annunciato che entro il mese di settembre si svolgerà una seduta straordinaria dell’assemblea per discutere la situazione e chiedere al governo un intervento. La data sarà fissata nei prossimi giorni, dopo la riunione della Conferenza dei capigruppo. "Le notizie dei disordini avvenuti all’interno del carcere della Dogaia sono preoccupanti e sono la spia di una situazione critica", spiega il vicesindaco Simone Faggi. Cagliari: la lettera di un detenuto "questo carcere è una tortura" di Andrea Manunza L’Unione Sarda, 23 agosto 2017 "Io sottoscritto William Portoghese, nato a Cagliari il 16 dicembre 1979, mi trovo recluso presso la casa circondariale Ettore Scalas di Uta". Comincia così la lettera con cui il detenuto cagliaritano, 37 anni, pescatore, alle spalle 16 anni di risse, danneggiamenti, furti, inseguimenti e una sparatoria (della quale è stato vittima), esprime il malcontento per un carcere che "funziona malissimo" e che renderebbe i suoi ospiti "più delinquenti di prima, senza speranza di reinserimento". L’istituto dovrebbe essere all’avanguardia, dopo la chiusura del vecchio Buoncammino (quasi 160 anni di vita, da tanti ritenuto uno dei peggiori d’Italia), e invece "fa venire voglia" di pensare alle soluzioni più estreme, sostiene Portoghese: "Non ne posso più di queste torture psicologiche". Il carcere - Costruito a partire dal 2006, l’edificio può ospitare 587 detenuti ed è costato quasi 90 milioni di euro. Inaugurato nel novembre 2014 (avrebbe dovuto aprire le porte nel 2009), oggi ospita 640 persone. Erano 334 il giorno del trasferimento da Buoncammino. In questi tre anni non sono mancate le proteste dei sindacati per l’esiguo numero di agenti di polizia penitenziaria e i tanti episodi cui far fronte (litigi, allagamenti, incendi, pestaggi), e neanche quelle degli stessi detenuti per condizioni restrittive ritenute inadeguate. La lettera scritta da Portoghese è solo l’ultimo esempio. Portoghese - La lista di aggressioni, minacce alle forze dell’ordine e tra carcerati, roghi e insubordinazioni è lunga. Senza considerare quanto sarebbe accaduto proprio ieri sera (una rivolta, secondo il deputato Mauro Pili, sedata dopo quattro ore anche grazie all’uso di idranti) e la notevole quantità di droga che i parenti dei reclusi (o loro stessi) tentano di introdurre in cella. Nel solo 2016, dati forniti dall’associazione Socialismo diritti e riforme, nell’istituto sono stati contati 61 tentativi di suicidio - due riusciti - 29 risse, undici persone ferite e 133 episodi di autolesionismo. Lo scorso 10 marzo un detenuto è stato soccorso dopo aver tentato di togliersi la vita, poi si è scagliato contro gli uomini intervenuti per salvarlo. Nella stessa giornata, un altro ha ingoiato una lametta e cercato di aggredire un agente. Pochi giorni dopo è stato aggredito un medico. Il 19 maggio un 41enne che scontava la pena si è impiccato al soffitto della cella. Lo scorso 9 agosto un agente è stato colpito con un pugno al volto; il 18 è stato appiccato un incendio in una cella, il 19 sono scoppiate varie risse e un reparto è stato allagato. Non un’isola felice. La lettera - Condannato a 7 anni per diversi episodi, Portoghese deve ancora scontarne 4 e attende il termine di alcuni processi a suo carico. Difeso storicamente dall’avvocato Riccardo Floris, ora il pescatore spiega: "Ci sono tanti di quei problemi qua...", scrive Portoghese nella lettera, "in teoria dovrebbero darci i detersivi per pulire, carta igienica, spugnette, stracci per lavare in terra, panni per lavare la cucina. Invece non ci viene dato nulla. Sono stato arrestato l’11 maggio 2014 e portato a Buoncammino. Dopo dieci giorni mi hanno trasferito nel carcere di Macomer, ora chiuso. Dicevano essere punitivo, io stavo benissimo. Ogni 15 giorni ci passavano le forniture, ci davano detersivi per lavare in terra, detersivi liquidi per lavare i piatti, spazzolini, dentifrici, stracci per i pavimenti e panni per la cucina. Ogni venti giorni passavano con un carrello e a tutti i detenuti regalavano alimenti di ogni genere, persino cioccolati e merendine. Ero lì da 7 mesi, essere portato a Uta è stata la mia rovina". Qui "c’è la palestra", ma ci si "deve andare con pedofili e violentatori", quindi "non partecipo ad alcuna attività sportiva e ricreativa perché questa gente mi fa schifo. Mi sto deprimendo, esco poco dalla cella. Sono padre, ho fatto tante richieste per lavorare e non mi hanno consentito di farlo continuativamente. Vorrei farlo, ma da quello che ho capito non ho speranze. Spero che qualcuno intervenga e faccia cambiare il sistema, perché non so quanto riuscirò a trattenermi su. Non è l’unico carcere nel quale sono stato ma non ne ho mai visto di simili". Quindi, par di capire: era meglio Buoncammino. Sassari: il carcere di Bancali senza comandante La Nuova Sardegna, 23 agosto 2017 Denuncia della Cisl al Provveditore: "La polizia penitenziaria non può lavorare in simili condizioni". È considerato uno dei penitenziari più importanti d’Italia, anche per la presenza di 90 detenuti sottoposti al regime del 41bis e per essere uno degli ultimi istituti costruiti secondo il piano di ammodernamento pianificato dal Ministero. A Bancali però c’è una anomalia: manca il comandante della polizia penitenziaria. Il dirigente titolare, infatti, è assente per motivi personali ormai da tempo e non c’è stata la sostituzione alla guida del reparto con la nomina di un ufficiale dal ruolo dei commissari. La denuncia arriva dal segretario generale della Fns-Cisl Nino Manca che ha inviato una nota al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per segnalare quello che viene considerato un problema non secondario. E la segnalazione è stata rilanciata a livello nazionale dal segretario Pompeo Mannone che si è rivolto al Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. "Sicuramente le dotazioni organiche del personale afferente ai funzionari e agli ispettori non è adeguato numericamente ma questo non giustifica in talune circostanze che a questo personale sia stato maggiormente assicurato il meritato periodo di ferie estive con totale certezza mentre gli Istituti hanno proseguito la gravosa gestione con personale che ha dovuto assolvere quotidianamente i compiti della "Sorveglianza Generale", nel migliore dei casi con colleghi del ruolo sovrintendenti ma anche con quelli del ruolo agenti-assistenti. Una incredibile assunzione di responsabilità che non condividiamo e che contestiamo all’amministrazione di averne abusato". E l’esempio è proprio quello del carcere di Sassari, anche se i l problema è più frequente di quanto emerso finora. "Che questo avvenga poi in Istituti con circuiti penitenziari che riguardano detenuti di alto spessore criminale - sottolinea Mannone - tali da richiedere invece la presenza costante di personale direttivo e quanto meno del ruolo ispettori, ci appare grave". La richiesta è di un intervento urgente di verifica per avere piena conoscenza della situazione. "In questi giorni a Bancali il compito di comandante viene assolto da un sovrintendente. Ma in questo nuovo complesso penitenziario, non si deve continuare ulteriormente a lavorare in simili condizioni. La Fns-Cisl non starà in silenzio", ha concluso Nino Manca. Busto Arsizio: "una speranza per tutti esiste, si chiama giustizia riparativa" di Giovanni Toia La Provincia di Varese, 23 agosto 2017 Il professor Bienati e il "laboratorio" di via per Cassano. Non ci si piega sulle problematiche alla casa circondariale di Busto e non ci si ferma alle analisi constatando magari l’impossibilità di venirne a capo, anche perché le soluzioni non dipendono da via per Cassano. Si cammina. Ed allora avanti nel proprio lavoro in ossequio sempre alla sicurezza, ma anche in favore della complessa opera di rieducazione. E Busto è un laboratorio di un’esperienza di Giustizia Riparativa della quale se ne parla da anni ma che fatica a farsi largo il cui sviluppo potrebbe facilitare le problematiche carcerarie riducendone nel contempo anche i costi. Sono volute le maiuscole, trattandosi di un percorso di vita. Di un cammino culturale. Di un cambiamento di mentalità. Ne è responsabile il professor Andrea Bienati, docente presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano nonché componente dell’Istituto di Scienze Religiose della Diocesi di Milano. "Il gruppo di lavoro del carcere bustocco riguarda una decina di detenuti e non con reati gravi e l’abbiamo chiamato, assieme alla dottoressa Rossella Panaro, "Dieci passi per mediare" - fa sapere - e sono appunto dieci incontri che compongono un percorso che riguarda un gruppo di detenuti, ma è anche riservato agli agenti carcerari. E che vengano coinvolti questi ultimi potrebbe sorprendere. Ed invece non lo è. Perché? Perché vi è la quotidianità, il rapporto continuo e la giustizia riparativa non deve trascurare questo aspetto. Anzi". Ma cosa s’intende per giustizia riparativa? "L’assunzione di responsabilità di chi ha commesso l’errore. La prima cosa che ti risponde chi ha commesso un delitto è che non è stato lui o al massimo che è stato indotto a farlo. E qui non c’è da sorprendersi perché questo comportamento lo si legge nella Bibbia quando Dio chiese a Caino dove fosse suo fratello Abele e Caino rispose che non era il suo custode. Ecco, in primis l’assunzione di responsabilità, quello di aver commesso un errore. In secondo luogo l’incontro con la vittima o, nei casi di omicidio, l’incontro con i parenti della vittima. La giustizia riparativa intende recuperare il ruolo della vittima, capirne i suoi drammi, mentre invece per la giustizia ordinaria è solo uno strumento. Finito il processo, c’è la condanna del reo, ma di chi ha subito il danno fisico e morale non si ricorda più nessuno. O meglio le istituzioni non s’interessano". È un percorso che vuole recuperare tutti gli attori per "appunto assumersi la responsabilità, cominciare a comunicare, riscoprire il proprio ruolo e nel contempo approcciarsi alla costruzione di un principio di fiducia. È un camminare faticoso. Ed anche pieno di sofferenza, ma, a mio avviso, necessario per andare verso un cambiamento. Le perplessità e le difficoltà le ho riscontrate anche negli agenti che ogni giorno sono a contatto con realtà complesse. Ma questo cammino è fondamentale perché abbatte pregiudizi e barriere". Busto Arsizio: una vita da guardia carceraria "oggi il rapporto con i reclusi è migliore" di Giovanni Toia La Provincia di Varese, 23 agosto 2017 Antonio Coviello, da 37 anni in servizio tra le celle: "Dopo la legge Gozzini un ambiente diverso, si è stabilito un dialogo". Ne ha da raccontare Antonio Coviello, ispettore superiore e sostituto commissario del carcere di Busto Arsizio. Non è lontano dalla quiescenza chi ne ha viste e soprattutto vissute di situazioni anche tragiche. Forse un giorno potrebbe mettere nero su bianco i suoi trentasette anni di servizio scrivendo un libro che potrebbe aiutare a comprende a chi sta fuori la realtà carceraria e a chi sta dentro quali siano le difficoltà ed i drammi che il poliziotto penitenziario si porta dentro e "purtroppo, anche se non vuoi, te li porti anche a casa alla sera mentre sei con la tua famiglia" confessa Coviello. Lui ha attraversato un’epoca toccando con mano e vedendo con i suoi occhi la trasformazione del mondo carcerario. Per Coviello "un’evoluzione, perché all’interno del carcere è cambiato il clima ed il rapporto coi detenuti è molto migliorato". Il merito "va alla legge Gozzini che ha istituito i benefici di legge contribuendo parecchio a dare speranza a chi entrava in carcere, consapevole che un determinato comportamento, un diverso modo di approcciarsi, la capacità di convivere con gli altri avrebbe fornito delle opportunità, una speranza, appunto, di ricominciare alla vita normale". E dire che Coviello iniziò la sua missione di poliziotto penitenziario quando la Gozzini era di là da venire (10 ottobre 1986). Eppure "la mia prima esperienza fu bellissima". Racconta: "Nel giugno del 1980 sono stato assegnato alla colonia penale di Lonate Pozzolo e vi sono rimasto fino al settembre del 1981 per poi andare a San Vittore. Era una colonia agricola e lì i detenuti lavorano i campi durante il giorno ed alla sera mangiavano e dormivano all’interno di questa struttura, che era aperta. Non vi erano le classiche celle, ma camere. Capitò che qualcuno si allontanasse, ma venne ripreso e naturalmente messo in carcere. Certo, la fiducia comporta dei rischi, ma i margini di approssimazione erano molto bassi. Furono quindici mesi intensi e ne parlo sempre volentieri". L’esperienza di San Vittore gli fece incontrare il carcere duro, in cui "i pestaggi fra i detenuti erano molto frequenti ed anche qualche omicidio, ma fortunatamente la legge Gozzini ha cambiato l’ambiente", facendo scendere il livello di pericolosità e di violenza, ma come sottolinea Coviello "fra noi ed i detenuti si è stabilito un dialogo". Venendo a cadere quei pregiudizi all’interno e fuori dal carcere verso chi non svolge una mansione, ma una faticosa missione. "Dei delitti e delle pene". Chi va in prigione e poi è assolto non può essere infamato per sempre commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 23 agosto 2017 Come era naturale, Beccaria non manca poi di occuparsi di aspetti rilevanti della politica criminale non solo del suoi tempo, ma di ogni tempo, compreso il nostro. Così, il primo problema che il giurista milanese si pone è quello della cattura degli accusati dei delitti. E di una cosa egli è assolutamente certo. Il magistrato non può mai e in nessun caso esser designato arbitro dei casi e delle modalità della carcerazione preventiva di un accusato, dovendo invece essere le leggi a determinare come e quando questo possa legittimamente avvenire. In altre parole, Beccaria ritiene che la discrezionalità dei giudici nell’ambito della cattura preventiva dell’accusato debba esser ridotta a zero, dovendosi invece rimettere alle leggi ogni indicazione al riguardo. Ora, abbiamo già visto prima che l’idea che il giudice possa farsi semplice cinghia di trasmissione fra la legge e il fatto da giudicare sia improponibile, anche se Beccaria la ripropone ogni volta con forza, fedele all’insegnamento illuminista del suo tempo: ciò non potrà mai accadere per il semplice motivo che il giudice è un essere umano e, come tale, portatore di una visione del mondo specifica che mai potrà essere messa nel nulla. Tuttavia, l’insistenza di Beccaria in tal senso può rivestire comunque il carattere di una preziosa indicazione utilissima per il nostro tempo, il tempo che vede purtroppo il protagonismo di diversi magistrati far aggio sulle legittime pretese della legge. Anche oggi i giudici - se leggessero le pagine di Beccaria - dovrebbero cercare di limitare al massimo la propria libertà interpretativa, che a volte sfocia nella incomprensibilità dell’arbitrio, per prestare maggiore ascolto alle indicazioni della legge, come risultano dai testi scritti in lingua italiana: insomma, anche alle interpretazioni c’è un limite e questo non va impunemente valicato. A margine - per modo di dire - Beccaria lamenta poi che nel suo tempo nonostante l’accusato possa essere stato assolto da ogni addebito, ciononostante, porti seco una nota "d’infamia". Lezione molto utile per il nostro tempo, un tempo in cui non basta essere assolti con formula piena per vedersi restituita quella credibilità sociale di cui si era stati ingiustamente spogliati. Ne sanno qualcosa coloro - e non son pochi - che dopo anni di calvario, sono stati riconosciuti del tutto estranei ai fatti contestati, ma che non hanno potuto pubblicizzare l’esito positivo con la stessa forza e capillare diffusione con cui invece fu pubblicizzato il loro arresto o la loro messa in stato d’accusa. Altro tema oggi scottante è quello della prescrizione dei delitti, ma Beccaria lo affronta con la serenità intellettuale che ne dimostra la libertà da ogni asservimento ideologico. Egli suddividendo i delitti in due grandi categorie - quelli più gravi che attaccano la vita e la incolumità e quelli meno gravi che attaccano i beni - difende una prescrizione più lunga per i primi e una più breve per i secondi. Non gli passa neppure per la testa di eliminarla del tutto o di ridurla drasticamente, come invece oggi alcuni Soloni del diritto italiano vorrebbero. Infine, in relazione a particolari delitti considerati di difficile dimostrabilità - quali l’adulterio o l’infanticidio - Beccaria sostiene giustamente che primo onere delle leggi non è punire chi commetta reati, ma cercare di prevenirne la commissione, attraverso un’opera attenta di politica sociale. Quale politica sociale abbiamo oggi in Italia, ammesso ce ne sia una, lasciamo ai commentatori odierni delle vicende politiche individuare. Insomma, da molti versanti, Beccaria parla non soltanto ai suoi contemporanei, ma anche a noi, lanciandoci come un guanto di sfida che sta a noi raccogliere. Il fatto è che in Italia nessuno lo raccoglie, probabilmente perché chi di ragione sa che con Beccaria sarebbe una sfida perduta in partenza. E perciò finge di non sentire e di non sapere. CAPITOLO XXIX. DELLA CATTURA Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l’opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi d’imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl’indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza d’ogn’altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie l’altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gl’indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d’un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l’offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino; ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti dè quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl’inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d’indizi sempre più deboli per cattura- re. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assolto non dovrebbe portar seco nota alcuna d’infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi nostri l’esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l’opinione degli uomini, prevalga l’idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbon essere. Così la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle leggi, combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare toglierebbero l’infamia, la quale è più attaccata al modo che alla cosa, come tutt’i popolari sentimenti; ed è provato dall’essere le prigionie militari nella comune opinione non così infamanti come le forensi. Durano ancora nel popolo, nè costumi e nelle leggi, sempre di più di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri. Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo commettasi un delitto, cioè un’azione contraria alle leggi, possa essere punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cioè sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici sovente contradittori. Alcuni credono parimente che un’azione crudele fatta, per esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l’astratta ragione che chi offende l’umanità merita di avere tutta l’umanità inimica e l’esecrazione universale; quasi che i giudici vindici fossero della sensibilità degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di loro. Il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l’offesa pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una società di cui non era membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della società esiliato ed escluso, ma non punito colle formalità delle leggi vindici dei patti, non della malizia intrinseca delle azioni. Sogliono i rei di delitti più leggieri esser puniti o nell’oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio, con una lontana e però quasi inutile schiavitù, a nazioni che non hanno offeso. Se gli uomini non s’inducono in un momento a commettere i più gravi delitti, la pubblica pena di un gran misfatto sarà considerata dalla maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena di delitti più leggeri, ed ai quali l’animo è più vicino, farà un’impressione che, distogliendolo da questi, l’allontani viepiù da quegli. Le pene non devono solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo d’infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza ed all’umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità dell’esempio, come può condonare il risarcimento dell’offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri. CAPITOLO XXX. PROCESSI E PRESCRIZIONE Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo così breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno dè principali freni dè delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove dè delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata l’utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando così della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti. Ma questi tempi non cresceranno nell’esatta proporzione dell’atrocità dè delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell’esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall’omicidio, e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero dè motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga minore al numero dè motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano nè loro cuori ma nelle convenzioni della società. La massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi principii: nei delitti più atroci, perché più rari, deve sminuirsi il tempo dell’esame per l’accrescimento della probabilità dell’innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll’atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell’innocenza del reo, deve crescere il tempo dell’esame e, scemandosi il danno dell’impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell’impunità quanto cresce la probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l’innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà dè sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia. CAPITOLO XXXI. DELITTI DI PROVA DIFFICILE In vista di questi principii strano parrà, a chi non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice delle nazioni, che i delitti o più atroci o più oscuri e chimerici, cioè quelli dè quali l’improbabilità è maggiore, sieno provati dalle conghietture e dalle prove più deboli ed equivoche; quasiché le leggi e il giudice abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare il delitto; quasiché di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior pericolo quanto la probabilità dell’innocenza supera la probabilità del reato. Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtù, per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che più si sostengono per l’attività del governo e delle passioni cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la costante bontà delle leggi. In queste le passioni indebolite sembran più atte a mantenere che a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento. Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo frequenti nella società e difficili a provarsi, e in questi la difficoltà della prova tien luogo della probabilità dell’innocenza, ed il danno dell’impunità essendo tanto meno valutabile quanto la frequenza di questi delitti dipende da principii diversi dal pericolo dell’impunità, il tempo dell’esame e il tempo della prescrizione devono diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono delitti di difficile prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti ammettono le tiranniche presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove (quasi che un uomo potesse essere semiinnocente o semi-reo, cioè semi-punibile e semi-assolvibile), dove la tortura esercita il crudele suo impero nella persona dell’accusato, nei testimoni, e persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua freddezza insegnano alcuni dottori che si danno ai giudici per norma e per legge. L’adulterio è un delitto che, considerato politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due cagioni: le leggi variabili degli uomini e quella fortissima attrazione che spinge l’un sesso verso l’altro; simile in molti casi alla gravità motrice dell’universo, perché come essa diminuisce colle distanze, e se l’una modifica tutt’i movimenti dè corpi, così l’altra quasi tutti quelli dell’animo, finché dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo più prende forza e vigore col crescere degli ostacoli medesimi. Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce della religione direi che vi è ancora un’altra differenza considerabile fra questo e gli altri delitti. Egli nasce dall’abuso di un bisogno costante ed universale a tutta l’umanità, bisogno anteriore, anzi fondatore della società medesima, laddove gli altri delitti distruttori di essa hanno un’origine più determinata da passioni momentanee che da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e l’uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi che cercassero diminuirne la somma totale, perché il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui bisogni, ma sagge per lo contrario sarebbero quelle che, per dir così, seguendo la facile inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento. La fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero ed alla libertà dè matrimoni. Dove gli ereditari pregiudizi gli reggono, dove la domestica potestà gli combina e gli scioglie, ivi la galanteria ne rompe segretamente i legami ad onta della morale volgare, il di cui of- fetti, perdonando alle cagioni. Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha più sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L’azione di un tal delitto è così istantanea e misteriosa, così coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno posto, velo necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece di scemarlo, le occasioni così facili, le conseguenze così equivoche, che è più in mano del legislatore il prevenirlo che correggerlo. Regola generale: in ogni delitto che, per sua natura, dev’essere il più delle volte impunito, la pena diviene un incentivo. Ella è proprietà della nostra immaginazione che le difficoltà, se non sono insormontabili o troppo difficili rispetto alla pigrizia d’animo di ciascun uomo, eccitano più vivamente l’immaginazione ed ingrandiscono l’oggetto, perché elleno sono quasi altrettanti ripari che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di sortire dall’oggetto, e costringendola a scorrere tutt’i rapporti, più strettamente si attacca alla parte piacevole, a cui più naturalmente l’animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da cui fugge e si allontana. L’attica venere così severamente punita dalle leggi e così facilmente sottoposta ai tormenti vincitori dell’innocenza, ha meno il suo fondamento su i bisogni dell’uomo isolato e libero che sulle passioni dell’uomo sociabile e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla sazietà dei piaceri, quanto da quella educazione che comincia per render gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad altri, in quelle case dove si condensa l’ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si consuma inutilmente per l’umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia. L’infanticidio è parimente l’effetto di una inevitabile contradizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virtù. Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo. Vita e morte nei racconti di Antonio Mattone di Emanuele Arciprete Il Roma, 23 agosto 2017 "Nel carcere che Antonio Mattone racconta, la vita odora di vita e allo stesso tempo puzza di morte". "Possiamo e dobbiamo voltarne le pagine, certo non possiamo voltarci da un’altra parte". In queste poche e succinte parole citate, la prima di Alessandro Barbano, direttore de "Il Mattino" e la seconda del ministro Andrea Orlando, sono racchiuse la chiave di lettura di una evidente evoluzione, ma anche riflessioni sul complesso del mondo penitenziario. Si è concluso, nel giardino del centro multimediale del Comune di Anacapri, l’incontro con Antonio Mattone, volontario della comunità di Sant’Egidio, che dal 2006 visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, ed altri penitenziari italiani, autore del libro dal titolo "E adesso la palla passa a me", con la prefazione del ministro Orlando e la presentazione del direttore de "Il Mattino" Alessandro Barbano. Allo stesso tavolo erano seduti Vincenzo dè Gregorio, direttore emerito del Conservatorio di Napoli, e l’assessore al Turismo di Anacapri Massimo Coppola che hanno dato inizio all’incontro cominciando ad analizzare, oltre all’ultima fatica letteraria di Mattone, i meriti dell’umiltà e dell’altruismo. La giornalista Anna Maria Boniello ha brevemente introdotto l’autore per poi giungere al cuore del libro con l’intervento di Ernesto Mazzetti, giornalista e saggista, e Claudio Salvia, figlio di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, caprese, ucciso in un agguato nel 1981. La città di Capri ha intitolato al vicedirettore una scuola dell’infanzia, in via Tiberio, e nel 2013 lo stesso è stato insignito della medaglia d’oro al valore civile. "Ho scritto questo libro - ha precisato Mattone - per raccontare un viaggio in un mondo molto complesso e difficile, dove ho incontrato solitudine, violenza, tanta voglia di riscatto, e voglia di mettersi in gioco. Il titolo del libro nasce da una frase che mi ha scritto un ragazzo detenuto: "quando uscirò dal carcere la palla passa a me". Saper raccontare storie è un dono, ed è un dono anche saperle ascoltare e leggere". Mattone sottolinea poi il ricordo di Adriana Tocco, garante dei detenuti in Campania, scomparsa nei giorni scorsi: "Donna di eccezionale umanità e sensibilità, aveva consacrato la sua esistenza alla difesa dei diritti dei più deboli, era stimata e apprezzata da tutti per la grande discrezione con cui svolgeva il suo ruolo. Evidenzio la presenza di Claudio Salvia, figlio di Giuseppe: siamo qui in suo onore e continuare a ricordare la sua figura per svolgere con un supporto maggiore il vivere civile e la cultura alla legalità". "Risveglio", il film dei detenuti della Casa circondariale di Civitavecchia tusciatimes.eu, 23 agosto 2017 Al di là delle novità (che non mancano: l’ambizione al cortometraggio, per dirne soltanto una) e delle costanti (la consueta intenzione narrativa, con lo sviluppo filmico teso al plot). Questo intenso Risveglio, diretto e interpretato da Pietro Benedetti con l’estro inventivo il pathos la cura artigianale che da sempre caratterizzano i suoi lavori (al cinema come a teatro), s’impone senz’altro per l’irruzione in scena di una verità forte - forte perché eterodossa - che vi si consuma senza mediazioni. Quella dei corpi e delle voci dei 37 detenuti della casa circondariale di Civitavecchia, che vi hanno recitato dopo aver frequentato, sotto la sua vigile guida, nel corso di questo 2017, il laboratorio cinematografico "Un cielo tra le sbarre". Alcune scene di questo film non si dimenticheranno facilmente: quella del meticoloso rito di preparazione del caffè da offrire al nuovo arrivato, per esempio. Ma anche la partitella a carte. O la partita di pallone giocata sul campo assolato e polveroso del carcere. Le chiacchiere a tavolino e per il corridoio. Momenti di verità nuda, assoluti e imperfetti come la vita stessa, che irrompono senza filtri dal set sullo schermo, al di là di ogni - pur comprensibile e perseguito - sforzo per una retorica della recitazione. In Risveglio i detenuti non recitano. Essi sono il loro personaggio. Sotto questo profilo Pietro - memore della pedagogia approfondita in seno all’ormai decennale esperienza targata "Banda del racconto": dietro ogni storia raccontata ci sono un’arte attenta e un’etica dell’ascolto - lezione che egli stesso ha contribuito nel tempo ad affinare - sotto questo profilo, dicevo, Pietro è davvero insuperabile: professionale nel formare e dirigere questi uomini, simpatetico nel recitare insieme con loro, in mezzo a loro. Così che loro infine si sono fidati di lui in pieno, senza remore. E nel film si vede. Non mancano, per chiudere, anche momenti di genuina improvvisazione (resi possibili da una totale disponibilità all’affidamento, dono prezioso dei suoi ragazzi, ma sempre incoraggiati dalla sua peculiarissima rodata maestria nell’incoraggiamento): acrobazie estemporanee al cui rischio Pietro ha saputo puntualmente-coraggiosamente lasciarsi andare. Su tutte, non dimenticheremo qui una schitarrata di gruppo con gustosa imitazione del mitico Molleggiato, Adriano Celentano. Concludendo: merito all’indefesso lavoro per montaggio e fotografia (difficile, credetemi) di Davide Boninsegna, per la preziosa consulenza di Giovanni Cavallini. Le musiche di Enrico Capuano invece, appropriatissime, sembrano create per il film. Dolcissima la performance attoriale di Luisa Stagni. Un plauso infine all’associazione Real Dreams per l’organizzazione. Migranti. Libia, una milizia dietro il calo degli sbarchi di Lorenzo Cremonesi La Stampa, 23 agosto 2017 La Brigata 48 di Sabratha blocca le partenze dei migranti. I traffici del passalo, gli accordi con Serraj. Sulle spiagge di Sabratha e gli altri punti caldi della costa occidentale libica sono noti come "Brigata 48". Il vero terrore dei migranti, che dopo mesi e mesi (se non anni) di sofferenze sul calvario delle rotte verso l’Italia, si vedono bloccare la strada da uomini armati proprio a ridosso delle spiagge: li rinchiudono nei campi di detenzione, requisiscono le barche, impediscono la via del mare con le armi in mano. Secondo i corrispondenti a Tripoli della Reuters, che hanno condotto l’inchiesta a Sabratha considerata la capitale degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani, questo "gruppo armato" si sarebbe riconvertito abbastanza di recente. Alcune centinaia tra miliziani, militari e agenti di vario tipo oltre a non meglio identificati "civili", si sarebbero uniti proprio in questa cittadina a 70 chilometri a ovest di Tripoli con l’obiettivo specifico di "lavorare sul territorio, lungo le spiagge, per impedire ai migranti di imbarcarsi per l’Italia". Per chiunque abbia famigliarità con quei luoghi appare comunque evidente che il loro compito non è troppo complicato. Le masse di poveracci addossate alla costa sono concentrate in casupole e capanne ben note e visibili a tutti i libici residenti nella zona. Il mattino presto da anni ormai si affollano lungo le strade e in luoghi prestabiliti dei centri urbani, dove si offrono per cifre irrisorie come lavoratori giornalieri. Le fonti locali citate dalla Reuters parlano di un’attività di pattugliamento da parte della "Brigata 48" molto "forte e determinata", che sta riportando "notevoli successi nel ripulire l’intera area". Sembra che a lanciarla sia stato "un ex capo mafioso", che in passato era pienamente coinvolto nelle attività degli scafisti e adesso starebbe organizzando un centro di detenzione per i migranti respinti o comunque rimasti intrappolati. Il dato rilevante dell’intera vicenda pare essere il fenomeno della nuova collaborazione tra coloro che sino a ieri partecipavano (arricchendosi) al grande business dell’emigrazione con i guardiacoste e le autorità legate al governo di Fajez Sarraj, che invece oggi proprio quell’emigrazione vogliono bloccare con l’aiuto e i finanziamenti italiani e dell’Unione Europea. I re spingimenti che negli ultimi tempi venivano fatti in mare adesso sono effettuati anche sulla terra. E infatti pare che il gruppo stia cercando sostegno proprio dalle autorità di Tripoli. I dati del resto parlano chiaro. Quella che stava diventando l’attività più redditizia del Paese, tanto da competere persino con l’indotto generato dall’export di petrolio e gas, oggi è in piena crisi. Le ultime cifre fornite da Frontex (l’agenzia europea per il controllo delle frontiere) registrano il calo del 57 per cento dei migranti dalla Libia all’Italia nel luglio 2017 rispetto a quello del 2016. Con una diminuzione ulteriore negli ultimi giorni: nell’agosto 2016 furono 21.294, contro i 2.080 sbarcati dal primo al 14 di questo mese. Sulla spiagge attorno a Sabratha sono adesso parcheggiate centinaia di migliaia di persone, in maggioranza uomini giovani, arrivati per lo più da Nigeria, Sudan, Mali, Guinea ed Eritrea. In alcuni casi anche le organizzazioni non governative occidentali hanno consigliato i migranti a non prendere il mare per evitare che venissero ricacciati in malo modo. A Tripoli per il momento le autorità non commentano. E così neppure dall’ambasciata italiana. Il tema resta delicato: quale sarà adesso la sorte dei migranti imbottigliati nel limbo libico? Ma negli uffici dei guardiacoste libici apertamente sostenuti dall’Italia c’è atmosfera di festa. "Le nostre operazioni sono evidentemente un successo. Siamo riusciti in poche settimane a frenare le migrazioni", ci dice tra gli altri Massud Abdel Samat, responsabile anche delle operazioni dei quattro guardiacoste consegnati dall’Italia a inizio estate. "Le nostre navi controllano ormai notte e giorno il mare di Sabratha e lo faranno sempre meglio". Droghe. Piano d’azione europeo. Avanti adagio di Susanna Ronconi Il Manifesto, 23 agosto 2017 Che non potesse essere una rivoluzione lo si sapeva: il Piano d’azione (PA) europeo sulle droghe 2017-2020 è vincolato alla Strategia Europea varata nel 2013, che non è particolarmente innovativa rispetto all’approccio globale sulle droghe, e lo scenario è segnato da profonde differenze tra gli Stati membri. Prudenza e mediazione è la legge che governa il processo di redazione del Piano. Tuttavia questo nuovo Piano d’azione contiene alcune novità. Ne scrivo come delegata di Forum Droghe al Civil Society Forum on Drugs (CSF), organo consultivo della Commissione Europea, e leggo dunque il testo finale partendo da ciò che come CSF abbiamo richiesto: nel processo di valutazione del Piano precedente, infatti, condotto da due agenzie indipendenti, il CSF ha potuto esprimere critiche e proporre cambiamenti, e questo è un primo dato positivo. Alcuni input sono stati accolti, altri no. Vediamo luci ed ombre. Avevamo posto con forza (con non poche difficoltà interne, il CSF include tutti gli orientamenti, anche quelli iperproibizionisti) la questione della decriminalizzazione del consumo, è passato invece un obiettivo limitato allo sviluppo di sanzioni alternative al carcere, che tuttavia invita a considerare la detenzione come estrema ratio e introduce indicatori relativi allo sviluppo delle pene alternative, cui tutti gli Stati membri devono attenersi. Ancora sul fronte delle politiche, avevamo chiesto un impegno a valutare sistemi alternativi al proibizionismo, citando quanto sta accadendo sulla cannabis e criticando il fatto che i documenti istituzionali dell’Unione Europea non li avessero mai considerati: non pretendevamo che in sede di PA si annunciasse la legalizzazione… ma almeno che vi fosse un impegno a cominciare a lavorarci. La risposta è parziale, ma rappresenta un primo passo: il Piano dà incarico al Emcdda di "fornire un aggiornamento del panorama 2017 della legislazione sulla cannabis nell’Ue nonché continuare a monitorare e riferire riguardo alle legislazioni sulla cannabis a livello nazionale e nei paesi terzi". Più che prudente… ma è pur sempre la prima volta che si apre il capitolo "regolazione legale" a livello comunitario istituzionale. Riduzione del danno (RDD): come CSF era stata espressa una dura critica alla mancata implementazione delle raccomandazioni in materia del precedente Piano, e ai mancati investimenti in molti dei Paesi membri. Il nuovo Piano appare più incisivo nel porre la RDD tra gli approcci necessari e non accessori, infatti cita in maniera esplicita, oltre ai servizi più consolidati, anche la distribuzione del naloxone, le stanze del consumo, il drug checking e il lavoro nei setting naturali di uso, e soprattutto include - ma questa è una positiva scelta trasversale a tutto il documento - indicazioni precise su monitoraggio, valutazione e standard minimi. Infine ma non ultimo, il ruolo delle associazioni della società civile nei processi sia a livello comunitario che nazionale, che si fa meno vago, con la definizione di ambiti specifici e la centratura sulle politiche e non solo sui singoli interventi: "Promuovere e intensificare il dialogo con la società civile e la comunità scientifica, e la partecipazione delle stesse alla definizione, attuazione, monitoraggio e valutazione delle politiche in materia di droga a livello di Stati membri e di Unione Europea". Per l’Italia, è un indirizzo da far valere, dato che almeno da dieci anni su questo fronte siamo a zero. La richiesta, ribadita anche con un atto di diffida al Governo, di convocazione della Conferenza nazionale appare ancor di più, alla luce del PA, un punto discriminante. Egitto. Caso Regeni, quelle domande sul ruolo dei Servizi segreti di Armando Spataro* La Repubblica, 23 agosto 2017 La notizia diffusa a Ferragosto dal New York Times secondo cui le autorità americane avrebbero trasmesso nei primi mesi del 2016 al governo Renzi - attraverso l’Aise, afferma Repubblica - un dossier con " notizie esplosive" e " prove inconfutabili" sul coinvolgimento di istituzioni egiziane nel sequestro, tortura e omicidio di Giulio Regeni, nonché sulla consapevolezza che ne avrebbe avuto la " leadership dell’Egitto", ha determinato polemiche e commenti di opposti contenuti: c’è chi dice che queste informazioni non sono mai state comunicate a chi indaga e chi afferma che comunque esse erano inutili e scontate. È preannunciata per il 4 settembre una fase di chiarimento politico, mentre il Copasir intende convocare il premier Gentiloni e forse il suo predecessore. Premesso che chi scrive non ha alcuna conoscenza del contenuto processuale delle indagini in corso e del fondamento delle notizie diffuse dal Nyt, va comunque osservato che nel dibattito di questi giorni è mancato ogni riferimento ad una domanda pregiudiziale: cosa prevede la legge in casi come questi? Va subito detto che secondo la legge n. 124/ 2007 (che disciplina l’attività dei Servizi), l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise, ex Sismi) ha il compito di ricercare ed elaborare tutte le informazioni utili alla difesa dell’indipendenza, dell’integrità e della sicurezza della Repubblica dalle minacce provenienti dall’estero, mentre l’Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi, ex Sisde) ha lo stesso compito sul fronte interno contro ogni minaccia, attività eversiva ed ogni forma di aggressione criminale o terroristica. Entrambe rispondono al presidente del Consiglio e informano, tempestivamente, i ministri della Difesa, degli Esteri e dell’Interno per le materie di rispettiva competenza. I rapporti tra il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e l’autorità giudiziaria sono peraltro disciplinati in ossequio ai principi di leale e reciproca collaborazione e del bilanciamento tra l’interesse di giustizia e quello di tutela della sicurezza dello Stato. A tal fine è importante ricordare che l’articolo 23 della legge citata prevede l’obbligo dei direttori delle agenzie di riferire alla polizia giudiziaria (a sua volta obbligata dal codice di procedura a fare altrettanto, " senza ritardo", nei confronti del pubblico ministero competente) ogni notizia di reato di cui vengano a conoscenza a seguito delle attività svolte dal personale dipendente. E l’adempimento di tale obbligo può essere solo ritardato (non omesso), ma su autorizzazione del presidente del Consiglio. Dunque, ai Servizi spettano fondamentali compiti di prevenzione, ma non attività di indagine giudiziaria in senso stretto, riservate esclusivamente alla polizia giudiziaria ed alla magistratura. Si tratta di previsioni che costituiscono una scelta virtuosa del sistema italiano, anche in chiave di sinergia istituzionale e di efficace contrasto del terrorismo. Tornando al caso Regeni, ecco allora, alla luce della normativa vigente, le domande da porre all’Aise (ove sia confermato che tale agenzia abbia ricevuto il predetto dossier) ed al governo: 1) l’Aise ha trasmesso alla polizia giudiziaria le notizie ricevute dalle autorità statunitensi? 2) se lo ha fatto, la polizia le ha inviate, dopo eventuali approfondimenti, alla Procura di Roma? 3) Se le risposte sono affermative, il problema non esiste e tocca solo ai pubblici ministeri romani valutare in assoluta autonomia e - se del caso - utilizzare le informazioni ricevute. Ma se l’Aise non ha inviato alla polizia quelle specifiche informazioni, si pongono altre domande: 3) è intervenuto un provvedimento del presidente del Consiglio che ha autorizzato tale ritardo? 4) se sì, quale ne è stata la motivazione, posto che la legge prevede che l’inoltro sia ritardato solo "quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza" (il che non sembra pertinente al caso Regeni)? Se non è intervenuto alcun atto di questo tipo, le ragioni del mancato doveroso inoltro delle informazioni a chi stava indagando sono da chiarire sotto ogni profilo, con il contributo del presidente del Consiglio, quale responsabile del Sistema dell’intelligence. Né può bastare una risposta del tipo "ma noi già sapevamo del coinvolgimento dei servizi egiziani" nella tragica vicenda. O del tipo: "il reato era già noto". La notizia di reato di cui è per i Servizi obbligatorio l’invio alla polizia, infatti, può riguardare anche un reato di cui sia già nota la consumazione, mentre ogni valutazione circa il suo effettivo rilievo rispetto alle indagini (anche sotto il profilo del rafforzamento di ipotesi già sotto esame) e la sua eventuale utilizzazione in forma legale spetta esclusivamente alla Procura ed ai presidi di polizia giudiziaria che indagano. Un’ultima osservazione: fortunatamente, in questa storia, non c’entra il segreto di Stato che, a quanto è dato di sapere, non risulta apposto- opposto: anzi è proprio la pertinenza della notizia a fatti notori che viene addotta come giustificazione della sua presunta irrilevanza investigativa. *Magistrato e procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino Siria. A Raqqa decine di morti sotto le bombe Usa di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 agosto 2017 I raid sono in appoggio all’avanzata curda contro l’Isis ma il prezzo più alto lo pagano i civili intrappolati nella città. L’opposizione siriana invece riferisce di decine di morti causati da aerei russi. Erdogan minaccia una guerra per fermare i referendum per l’indipendenza curda. Almeno 78 civili sono morti nelle ultime ore sotto le bombe sganciate dai caccia della Coalizione a guida Usa in appoggio all’avanzata delle forze curde dentro Raqqa, la "capitale" dell’Isis in Siria. Dal 14 agosto, riferiscono i centri per i diritti umani, i morti sono 167, di cui 59 minori. I comandi militari americani hanno approvato 250 raid aerei solo nell’ultima settimana. Stragi in nome della lotta al terrorismo che si concentrano nei quartieri centrali della città, pieni di civili che non riescono a fuggire per le minacce dei jihadisti e per l’assedio in cui è stretta Raqqa. Almeno 25 mila civili, avverte l’Onu, si troverebbero ancora nella città, in condizioni terribili, con poca acqua, cibo e medicinali. La stessa sorte degli abitanti di Mosul, costretti prima a subire l’occupazione della loro città da parte dell’Isis e poi a pagare in vite umane il costo della liberazione. Il bilancio delle vittime di Raqqa è destinato ad aggravarsi perché molti dei feriti versano in gravi condizioni. Un’altra strage di civili, denunciano questa volta gli oppositori anti-Assad, sarebbe avvenuta ieri a Rueidah, del distretto di Ukeirat, dove i cacciabombadieri russi avrebbero ucciso 50 civili in bombardamenti diretti contro le postazioni dell’Isis in quella zona. Nella Siria che parla di ricostruzione la guerra divampa violenta ancora nel Nord e nell’Est, e gli attori regionali che hanno contribuito ad incendiare il Paese, specialmente coloro che hanno armato e finanziato i jihadisti, non mancano di alzare la voce quando vedono minacciati i loro interessi. Ieri il leader turco Erdogan, parlando ad Ankara, ha avvertito che ostacolerà qualsiasi tentativo dei curdi di creare un loro Stato nella Siria settentrionale. "Non permetteremo mai che un cosiddetto Stato sia stabilito (dalle formazioni curde) Pyd e lo Ypg nel nord della Siria", ha detto riferendosi alle aree nella regione nordorientale della Siria e in quella dell’Afrin. Ankara, si teme, potrebbe lanciare un’offensiva contro i combattenti curdi per cacciarli da Afrin dove secondo Erdogan la loro presenza rappresenterebbe una minaccia per la Turchia. Il leader tuco ha anche ipotizzato un’operazione congiunta con l’Iran contro i curdi. Oggi il ministro degli esteri turco Cavusoglu andrà a Baghdad per discutere del referendum per l’indipendenza che si svolgerà il mese prossimo nel Kurdistan iracheno e che la Turchia vuole impedire. Per Cavusoglu i piani per l’indipendenza curda porteranno a un conflitto devastante. Non lavorano per la fine della guerra i rappresentanti dell’opposizione siriana che nell’ultimo incontro, lunedì, nella capitale saudita Riyadh, hanno continuato a ripetere vecchi slogan e a ribadire posizioni sterili che non hanno alcuna aderenza con la realtà sul terreno. I delegati della cosiddetta piattaforma di Mosca, più pragmatici, non sono riusciti a convincere quelli della piattaforma del Cairo e quelli dell’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc) finanziato e sostenuto dall’Arabia Saudita, della illogicità della richiesta di una uscita di scena immediata di Bashar Assad e della non partecipazione del presidente siriano a qualsiasi processo di transizione politica in Siria. Dopo anni trascorsi negli hotel europei, arabi e turchi a discutere con i loro sponsor del "futuro della Siria", i rappresentanti dell’opposizione sembrano non aver compreso che il campo di battaglia ha già deciso per loro. L’esercito siriano ha recuperato il controllo di gran parte del Paese liberandolo dalle formazioni jihadiste e qaediste. E la milizia dell’opposizione "moderata", l’Esercito siriano libero, è svanita nel nulla dopo aver fagocitato i 500 milioni di dollari che gli Usa di Barack Obama avevano investito nel suo addestramento e armamento. Ai negoziati con i delegati dell’esecutivo siriano, previsti a Ginevra il prossimo ottobre, le tre opposizioni siriane forse andranno con una delegazione unica, come auspica il rappresentante dell’Onu Staffan De Mistura, ma servirà a ben poco. Continuare a chiedere, come farà ancora l’Hnc, la destituzione immediata di Assad è oggi più irrazionale di quanto non lo fosse due-tre anni fa quando il presidente siriano si trovava in una situazione precaria. Insistendo su quel punto l’Hnc probabilmente vuole affermare di contare ancora. Intanto a settembre si terrà ad Astana il prossimo round dei colloqui siriani mediati da Russia, Iran e Turchia. Afghanistan. La guerra dell’oppio, il "petrolio dei talebani" di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017 Come ha fatto l’Isis nel 2014 a divenire l’organizzazione terroristica più ricca di tutti i tempi? Le voci principali del "Pil del Terrore" erano le tasse proibitive estorte alla popolazione ma soprattutto il greggio e i prodotti raffinati venduti di contrabbando. Anche i talebani hanno il loro petrolio: è il papavero da oppio, un fiore quasi inodore che ricopre intere province dell’Afghanistan. È l’export quasi esclusivo del Paese. Dal suo commercio gli insorti ricavano il 60% delle loro entrate. Grazie alle quali portano avanti la guerra contro Kabul. Sconfiggere i talebani significa anche ridurre le loro fonti di entrate. Perché le guerre non si vincono solo dal cielo. Ci vogliono gli stivali sul terreno. Obtorto collo, il presidente americano Donald Trump ha ceduto alle pressanti richieste dei suoi generali. Il Pentagono invierà altre migliaia di soldati in Afghanistan per addestrare l’esercito. Per infliggere all’Isis le cocenti sconfitte dell’ultimo anno, e ridimensionare il suo territorio, la coalizione internazionale ha cercato di bloccare i canali di finanziamento e indotto i Paesi confinanti, Turchia in primis, a sigillare le fin troppo permeabili frontiere. Senza tasse, e soprattutto senza i proventi del petrolio, lo Stato islamico ha fatto i conti con la sua prima crisi finanziaria. La sua parabola è ora nella fase di declino. Trump intende aumentare il numero di soldati americani (forse altri 4mila), confidando che i Paesi alleati si allineino anche loro, per venire in soccorso al fragile Governo di Kabul e impedire che i talebani conquistino altri territori. La guerra all’oppio non pare rappresentare una priorità. Eppure ridurre le coltivazioni di papavero sarebbe, oltre che raccomandabile, anche possibile. Il riottoso Paese, dove gli americani conducono la guerra più lunga mai combattuta all’estero, si è ormai guadagnato la nomea di Banca mondiale dell’oppio. Nelle regioni meridionali del Paese, da Helmand passando per Kandahar fino all’Uruzgan e a Zabul, ogni cosa emana il profumo discreto del papavero. L’ultimo rapporto diffuso dall’Unodc, l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, traccia uno scenario allarmante; nel 2016 le piantagioni di oppio sono cresciute del 10% salendo a 201mila ettari. Mentre la produzione è quasi raddoppiata (+43%) arrivando a 4.800 tonnellate, il quarto raccolto più alto di tutti i tempi. L’Afghanistan fornisce il 70-80% dell’oppio prodotto nel mondo. E il prossimo raccolto, quello del 2017, dovrebbe essere ancor più promettente. Viene naturale domandarsi: dove sono finiti i miliardi di dollari spesi in campagne per eradicare le piantagioni? Dove gli ambiziosi programmi per incentivare i contadini a convertire il raccolto con mais, fagioli e ortaggi? Soldi ne sono stati spesi. Otto miliardi e mezzo di dollari solo dagli Stati Uniti dal 2002 a oggi, destinati a ridurre la piantagioni di oppio e reprimere il narcotraffico, ha segnalato davanti al Congresso lo scorso maggio l’Ispettorato generale speciale Usa per la ricostruzione in Afghanistan (Sigar). Ci sarebbe da chiedersi come sia possibile che, davanti a tale cifra, nel 2016 gli ettari distrutti siano stati appena 355, meno di un decimo rispetto al 2015. Nelle regioni meridionali come Helmand, roccaforte degli insorti, l’ eradicazione è stata quasi pari a zero ettari. D’altronde il "petrolio dell’Afghanistan" rende. Coinvolge nel suo indotto decine di migliaia di afghani. Secondo il Sigar il valore potenziale lordo degli oppiacei è di 3 miliardi di dollari, il 15% del Pil afghano nel 2016. Insomma, troppi soldi spesi per le guerre convenzionali (quella afghana è costata ai contribuenti americani più di mille miliardi di dollari), troppo pochi per rendere efficaci i programmi di eradicazione. C’è un altro fattore da non sottovalutare. In Afghanistan le guerre alimentano i raccolti di oppio. Nel 1980, pochi mesi dopo che iniziò l’invasione sovietica del Paese (dicembre 1979), la produzione era di circa 200 tonnellate. Quando l’armata rossa si ritirò, nel 1989, era aumentata di sei volte a 1.200 tonnellate. Confidando che il loro regno del terrore durasse ancora a lungo, nel 2001 i talebani proibirono la coltivazione di papavero. L’anno dopo il raccolto crollò da 3.200 a 185 tonnellate. A inizio del 2002 prese il via il contingente Nato (Isaf). Sei anni più tardi, nel 2007 il record di 7.400 tonnellate. Certo vi sono altri fattori alla base dei declini o degli aumenti produttivi. Le siccità, come quella che ha ridotto il raccolto del 2015, e le implacabili leggi del mercato. Che oggi ha fame di eroina. "La produzione di cocaina e oppiacei è in aumento", ha precisato Yuri Fedotov, il direttore dell’Unodc. L’oppio in Afghanistan è il settore più remunerativo. Non solo per i talebani, che ci guadagnano con le tasse sui raccolti, sulla produzione e sui transiti, ma anche per i poliziotti e i governanti corrotti. Che rendono spesso vani i programmi di eradicazione boicottandoli. Quanto ai contadini, i più poveri di questa filiera, con l’oppio evitano i rischiosi trasporti (ci pensano gli altri intermediari) e con un chilo ricavano 400 volte di più rispetto a un chilo di fagioli. I talebani hanno approfondito la conoscenza del mercato. In un periodo di sovraofferta e quindi di prezzi in ribasso, nel 2008 compresero quanto fosse più remunerativo vendere il prodotto finito - l’eroina - anziché limitarsi a controllare l’export di materia prima, o di prodotto semi-lavorato. Da allora Helmand non è più il maggior produttore di oppio (oltre il 40%), ma anche un raffinatore. I talebani controllano e riscuotono tributi mensili dalle 190 raffinerie. La soluzione non può passare che per la sicurezza. Bombardare dai cieli equivale a inimicarsi la popolazione (i danni collaterali sono difficili da evitare) e lasciare in mano il territorio ai talebani. Che scappano di giorno e tornano la notte, terrorizzando i villaggi. L’esercito afghano deve riprendere il controllo delle zone rurali, e restarci, con l’aiuto degli alleati occidentali. L’Unodc è stata chiara. "C’è uno stretto legame tra l’insurrezione armata e la coltivazione di oppio. L’80% dei villaggi dove le condizioni di sicurezza sono quasi assenti si dedicano alla coltivazione dell’oppio, mentre solo il 7% dei villaggi non toccati dalle violenze coltiva il papavero". Qualcuno a Trump lo avrà pur detto. Marocco. Un arresto per gli attentati in Spagna e un’amnistia di Gina Musso Il Manifesto, 23 agosto 2017 Una persona in stato di arresto e altre tre indagate. È il contributo marocchino all’inchiesta e alle operazioni di polizia dopo i fatti di Barcellona e Cambrils. A finire in manette a Oujda, non lontano dal confine algerino, è stato Nourine Oukabir, cugino di Moussa Oukabir, uno dei membri del gruppo che ha architettato gli attentati, ucciso in seguito dalla polizia spagnola, nonché di Driss Oukabir, un altro appartenente alla cellula che figura invece tra gli arrestati. L’arresto sarebbe avvenuto il 20 agosto, lo stesso giorno in cui il re del Marocco, Mohammed VI, concedeva la grazia, o meglio il "perdono reale" a 415 persone, di cui 343 in carcere. Tra queste ci sono anche 14 condannati per "terrorismo" che hanno partecipato al programma Mossalaha (riconciliazione), tutti con condanne inferiori a 30 anni tranne uno, condannato a morte. Quanto al terzo membro della famiglia Oukabir coinvolto nella strage catalana, il 35enne per il quale viceversa si sono aperte le porte del carcere in quelle stesse ore, sarebbe accusato di "apologia del terrorismo". Secondo gli inquirenti era solito riunirsi con gli altri aderenti al "gruppo di fuoco" per lunghe conversazioni. Accadeva a Ripoll, la località catalana in cui anche lui ha mantenuto la residenza, malgrado fosse tornato a vivere in Marocco. È il posto in cui tutto è cominciato e tutto è maturato, si direbbe. Ma si lavora anche all’ipotesi - ispirata secondo El Confidencial dai servizi d’intelligence marocchini - che gli attentati siano stati pianificati tra i monti dell’Atlas, a Mrirt, nella provincia di Khenifra, luogo da cui vengono la maggior parte dei sospettati. In più, le autorità marocchine inizialmente non hanno esitato a collegare le attività di Nourine Oukabir alla protesta sociale che da mesi scuote la regione del Rif - con riverberi diretti anche sulla questione identitaria berbera- chiedendo "lavoro" e "sviluppo". La prova, alcuni messaggi datati 9 agosto - postati dal sospettato sul suo profilo Facebook e poi cancellati - che a detta degli inquirenti contenevano espliciti inviti alla lotta armata. Un modo per tirare in ballo un movimento - battezzato al Hirak, semplicemente "il movimento", - che al contrario in piazza sembrerebbe attento ai principi della non-violenza e che già in passato ha subito tentativi di delegittimazione, con accuse riguardanti possibili infiltrazioni jihadiste tra le sue file. Fatto sta che Mohammed VI, il quale nelle ore successive alla strage delle Ramblas aveva espresso tutto il dolore e la solidarietà del caso, due giorni dopo, per il 64° anniversario della "Rivoluzione del re e del popolo" - festa nazionale in Marocco - non ha rinunciato al tradizionale gesto di clemenza rivolto ai detenuti che hanno seguito percorsi di recupero. Nel discorso televisivo che il re ha tenuto per l’occasione non sono mancati toni trionfali per il nuovo ruolo che attende il Paese dopo il suo ritorno nei ranghi dell’Unione africana. Venezuela. Maduro: mandato di cattura internazionale per Luisa Ortega Diaz La Stampa, 23 agosto 2017 L’ex procuratrice generale venezuelana si era opposto al presidente ha lasciato la Colombia, dove aveva chiesto asilo politico dopo che era in patria era stata rimossa dall’incarico. Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato un mandato di cattura internazionale contro l’ex procuratrice generale del Venezuela, Luisa Ortega Diaz, fuggita in Colombia nei giorni scorsi. Il capo dello stato lo ha reso noto durante una conferenza stampa. Nei giorni scorsi Luisa Ortega Diaz era diventata il nemico numero uno di Maduro dopo essersi opposta al presidente, a cui era stata legata politicamente in precedenza. Lo aveva accusato di un coinvolgimento nello scandalo della più grande società di costruzioni brasiliana, la Odebrecht. L’ex magistrato aveva lasciato il Venezuela insieme con il marito, deputato chavista. La contestata assemblea costituente del Venezuela, considerata illegale dalla maggior parte della comunità internazionale, l’ha destituita ai primi di agosto. La settimana scorsa, la polizia ha perquisito la sua abitazione sequestrando computer e documenti, mentre il suo successore, Tareq William Saab, ha chiesto l’arresto del marito. India. Corte suprema dichiara illegale il divorzio istantaneo islamico di Raimondo Bultrini La Repubblica, 23 agosto 2017 Messa al bando come incostituzionale la pratica per cui un uomo rompe il legame coniugale pronunciando o scrivendo tre volte la parola "talaq". La Corte Suprema indiana ha impiegato molte settimane per emettere una storica sentenza che dichiara illegale la pratica degli uomini islamici ortodossi di divorziare dicendo o scrivendo tre volte "talaq" ("sciogliere un nodo"). È stato il governo formato da religiosi a maggioranza hindu a chiedere il verdetto, poiché il triplo ripudio vìola il diritto sancito dalla Costituzione secolare dell’India sull’uguaglianza tra uomini e donne. Con poche riserve, i magistrati hanno dato ragione all’esecutivo. La vittoria legale sostenuta da organizzazioni islamiche moderate come la Bharatiya Mahila Andolan e dalle stesse vittime degli abusi, arriva dopo settimane di audizioni di Imam, Mullah, storici, gente comune e testimoni della scioccante usanza. Per dimostrarne l’illegalità, infatti, la Corte doveva capire quanto il divorzio istantaneo sia essenziale nella dottrina dell’Islam perché, in caso positivo, nessun tribunale civile per norma costituzionale può emettere sentenze quando si tratta materie di spirito. La Corte formata da un cristiano, un hindu, un parsi, un Jain e un musulmano, ha scoperto che Paesi devoti come Pakistan, Egitto e Turchia ritengono illegale l’usanza, e che in realtà la pratica risale a una delle prime quattro dinastie di eredi del profeta, gli Omayyad, sotto il cui regime le donne erano poco più che schiave. I magistrati sono rimasti anche sorpresi di scoprire i molti e psicologicamente crudeli modi con i quali le donne testimoni avevano ricevuto il benservito in tre parole, soprattutto oggi con la diffusione degli smartphone e Facebook, esposte al mondo della rete dopo l’umiliazione. Ma c’è stata qualche moglie che ha letto la micidiale sequenza addirittura su un foglio di carta igienica, altre sullo specchio del bagno, sulla porta di casa, perché tutti sapessero. La sentenza della Suprema Corte potrebbe non interropere del tutto tale odiosa forma di separazione, perché i gruppi fondamentalisti sconfitti in tribunale continuano ad avere un seguito tra la popolazione, specialmente quella maschile meno educata. Nella sua difesa del triplo "talaq" inviata alla Corte, un potente Consiglio per l’applicazione delle leggi islamiche chiamato in sigla Aimplb, ha sostenuto che la legge rispetta i voleri del Corano perché di fatto protegge le donne dalle conseguenze di un loro rifiuto a divorziare. "Se si sviluppa una grave discordanza tra la coppia e il marito non vuole vivere con lei, le obbligazioni legali di un processo di separazione e di spese richiederebbero molto tempo e possono impedire il corso legale. In questi casi (un uomo, ndr), può ricorrere a modi illegali e criminali per ucciderla (la moglie) o bruciarla viva", hanno scritto con crudezza nell’affidavit i componenti dell’Aimplb. Ma al di là della logica surreale, il Consiglio delle leggi islamiche cerca in realtà di mantenere il controllo sulla distribuzione della giustizia tra il maggior numero possibile dei 150 milioni di musulmani che vivono in India dopo la Partizione col Pakistan. A legiferare sulla loro versione del Corano vogliono essere gli stessi imam che hanno lasciato intatte le discriminazioni secolari e le cause delle violenze, ben precedenti e spesso successive al "divorzio". Infatti anche se letteralmente "talaq" significa "sciogliere un nodo", nella realtà ne stringe uno attorno al collo della ex moglie, spesso lasciata senza alimenti, o con i figli a carico senza contare le stimmate della rifiutata. Ma i dettagli umani non erano parte fondamentale dell’esame da parte dei giudici. Secondo il verdetto di tre di loro, si tratta di una pratica anticostituzionale per disparità tout court (la donna deve avviare molte pratiche e passare l’esame degli imam per ottenere il divorzio). Per gli altri due, invece, bisognava dare sei mesi al governo per trovare un’altra norma di compromesso che rispettasse i tradizionalisti e i liberali. Per ora, in attesa di vedere applicato e fatto rispettare il divieto in ogni casa, conta la nota comune con la quale i cinque giudici hanno abolito secoli di vergogne: "Il triplo talaq - hanno scritto - non è parte integrante della pratica religiosa e viola la morale costituzionale".