La giustizia appesa al bracciale di Luigi Labruna La Repubblica, 22 agosto 2017 "Quando comincio a sentire sul collo il fiato rovente estivo non posso fare a meno di pensare ai rinchiusi nelle galere, in cui il disagio fisico e morale fatalmente cresce sino a diventare insopportabile, le sofferenze dei corpi inaspriscono e l’impossibilità di sottrarvisi esaspera la pena. Molto più che la privazione della libertà". È l’incipit de "I dannati d’agosto a Poggioreale", uno splendido articolo in cui Aldo Masullo sul Mattino sottolinea come "il diritto nelle carceri" sia oggettivamente "tra le cocenti questioni che invocano il pieno compimento dello Stato di diritto". Non vi è pietismo nelle sue affermazioni ma sapiente humanitas, buon senso, realismo. Doti che sembrano mancare a quei giudici che hanno trattenuto nelle patrie galere - in cui si son verificati dall’inizio dell’anno a luglio ben 32 suicidi - oltre un centinaio di detenuti nonostante fossero stati loro concessi gli "arresti domiciliari con previsione del controllo mediante dispositivi elettronici" (articolo 275-bis c.p.p.), motivando la loro decisione con la indisponibilità da parte della polizia giudiziaria del cosiddetto "braccialetto elettronico". Determinando, così, in sostanziale contrasto con l’articolo 13 della Costituzione, una "restrizione della libertà personale" per sua natura "inviolabile", ben più gravosa di quella ritenuta necessaria dal giudice. E ciò solo per sopperire alle carenze dell’amministrazione giudiziaria, anche se - come affermato da un orientamento consistente, seppur non incontrastato, della Cassazione (ad esempio Sez. I, n. 39529/15) - in caso di indisponibilità dei braccialetti, "vanno applicati" a chi ha ottenuto i domiciliari "gli ordinari strumenti di controllo" da parte della polizia. Soluzione che - nonostante il successivo avviso delle Sezioni Unite (sent. n. 20769/16) - a me sembra ancora l’unica decente e praticabile. Sembra comunque che ora finalmente l’appalto di fornitura dei preziosi monili sia stato assegnato. Fra mesi, salvo sospensione di qualche Tar, la giustizia "sospesa" riprenderà il suo corso. Ma che credibilità può mai avere una giustizia appesa a un bracciale, come un ciondolo. Aumenta l’allerta contro la radicalizzazione in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2017 Sono 365 quelli a rischio: 45 detenuti per terrorismo, i "leader", i follower e i "criminal opportunist". Nuova allerta diramata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per tenere sotto controllo le forme di radicalizzazione dei detenuti. A seguito degli attentati di Barcellona e Finlandia, anche l’Italia aumenta il grado di attenzione e si rafforzano le misure in tutto il territorio. Per quanto riguarda gli istituti penitenziari, in realtà, l’osservazione dei detenuti a rischio radicalizzazione non si è mai fermata. Secondo gli ultimi dati a disposizione, attualmente si parla di circa 365 soggetti a rischio fondamentalismo. La classificazione elaborata dal Nic - il Nucleo investigativo della Polizia penitenziaria - include quattro di detenuti musulmani ritenuti pericolosi. Oltre a coloro che sono detenuti per reati di terrorismo (in totale sono 45 e si trovano divisti in regime di Alta Sicurezza tra le carceri di Rossano, Rebibbia, Torino, Tolmezzo, Sassari, Nuoro, Lecce, Brindisi e Benevento), ci sono i "leader", ossia criminali comuni che hanno aderito all’ideologia jihadista e nelle celle sono diventati riferimenti carismatici, adeguati per il proselitismo; mentre, fra i criminali comuni, quelli considerati più vulnerabili e disponibili a diventare prede facili per i reclutatori, vengono definiti "follower". Infine c’è la categoria dei "criminal opportunist", ovvero quelli che entrano in contatto con i gruppi radicali per offrire loro servizi logistici come i documenti falsi. Ma non c’è solo monitoraggio e repressione. L’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno costituiscono una risposta incisiva e prevede che si abbassi i ponti levatoi tra carcere e società. Una via maestra tracciata dagli stati generali per l’esecuzione penale e anche dalla legge di contrasto al terrorismo, recentemente approvata dalla Camera, che prevede l’utilizzo della cultura coinvolgendo varie componenti delle istituzioni e società civile, a partire dalle scuole, le comunità islamiche, il mondo dell’accoglienza e le direzioni degli istituti penitenziari. "Più galera, meno benefici". Così il pm della "Uno bianca" vuole cambiare la legge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2017 "Sarebbe il caso di rivedere i benefici della pena". A dirlo è il procuratore aggiunto di Bologna Valter Giovannini in merito alle polemiche scaturite dalla notizia secondo cui il tribunale di sorveglianza ha concesso un permesso premio di una settimana, in regime di libertà vigilata a Marino Occhipinti, condannato all’ergastolo per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari durante un assalto da parte della famigerata banda della Uno Bianca a un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio. "Lo stupore e il dolore delle vittime è umanamente comprensibile - spiega il magistrato Giovannini - ma le leggi in vigore devono essere applicate dai magistrati. Oggi ha ragione il Ministro Orlando: dopo più di venti anni di reclusione certi benefici si possono ottenere". Ma poi aggiunge: "Se poi la sensibilità culturale è mutata rispetto al tempo della loro emanazione, nulla vieta di modificarle". Quindi, secondo il magistrato, sarebbe preferibile modificare i benefici della pena per assecondare il malcontento delle persone. Il procuratore continua la sua riflessione mettendo sul tavolo anche delle proposte: "Più in generale e quindi non riferendomi al fatto di cronaca spiega Giovannini - da anni ormai penso che il vero problema dell’esecuzione penale sia la mancanza di certezza della pena. Alle volte condanne anche severe, dopo qualche anno, agli occhi dell’opinione pubblica sembrano come evaporare. Penso in particolare alla liberazione anticipata che comporta notevoli riduzioni di pena per ciascun anno espiato". Eppure, la liberazione anticipata è un istituto giuridico che ha una funzione rieducativa. Consiste nella detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena detentiva scontata. Il suo presupposto è che il condannato abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione nel semestre considerato. È rieducativo perché è diretto a stimolare il condannato a intraprendere e a proseguire il percorso di risocializzazione, consentendogli di riacquistare anticipatamente lo stato di libertà. Inoltre, attraverso tale istituto, si consente un controllo ed una riduzione della popolazione carceraria posto che la prospettiva della riduzione della pena consente la riduzione della pena e, conseguentemente, pone in essere un chiaro effetto deflattivo. La liberazione anticipata è stata anche analizzata e valorizzata durante gli stati generali per l’esecuzione penale che hanno dato il via alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Riforma che potrà essere attuata con la votazione dei decreti, oggi esaminati dalle commissioni appena istituite dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Il grande Satyagraha promosso dal Partito Radicale che vede la partecipazione di migliaia di detenuti attraverso il digiuno, lo sciopero della spesa e il rifiuto del carrello, è stato indetto anche per chiedere che i decreti per attuare la riforma contengano la norma di portare da 45 giorni a 60 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre. L’esatto contrario della proposta avanzata dal magistrato Giovannini che invece vorrebbe addirittura ridurli. Il magistrato è stato interpellato perché fu il Pm dell’inchiesta e del processo bolognese sulla banda della Uno bianca e, inoltre, si occupa anche di esecuzione delle sentenze di condanna. Va ricordato che parliamo dello stesso magistrato che, a marzo di quest’anno, è stato condannato dal consiglio superiore della magistratura per aver condotto in modo scorretto l’interrogatorio alla farmacista Vera Guidetti, la quale in seguito si suicidò lasciando un bigliettino con su scritto che Giovannini non le aveva creduto e l’aveva trattata come una criminale. Si tratta di una terribile vicenda di due anni fa. La Guidetti, cittadina incensurata, venne rinvenuta cadavere nella propria abitazione bolognese con accanto l’anziana madre ancora agonizzante. Vera Guidetti si era procurata la morte iniettandosi una dose letale di insulina dopo averne iniettata una dose alla propria madre. Questo avvenne qualche giorno dopo essere stata interrogata proprio dal magistrato Giovannini come testimone in un’indagine su un furto di gioielli. Giovannini è stato condannato dal Csm per aver condotto in modo scorretto l’interrogatorio alla farmacista, visto che la sentì come persona informata sui fatti anziché indagarla e farle nominare un avvocato. Nell’incolpazione il sostituto procuratore generale Mario Fresa ha contestato a Giovannini di non aver sospeso l’audizione, nonostante la donna fosse in evidente stato di agitazione, consapevole della sua effettiva condizione processuale di indiziata che temeva per la sua reputazione. "Le decisioni giurisdizionali si rispettano e non si commentano - aveva dichiarato Giovannini -, nel foro interno della mia coscienza rimango convinto di aver agito correttamente. Farò ricorso in Cassazione". Mafia, largo ai giovani: arrivano i baby boss di Lucio Musolino Il Mattino, 22 agosto 2017 Nella relazione della Dia la trasformazione dei clan: investono in hi-tech. Boss anziani affiancati o addirittura sostituiti da giovani leve che puntano su imprese innovative e ad alto contenuto tecnologico. Quella che emerge dalla relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia è la mafia 2.0, il ricambio generazione di Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e criminalità organizzata pugliese. Baby boss che "investono capitali" in quei settori che "sino ad oggi sono stati apparentemente esclusi dalla sfera di interesse delle mafie". Il report della Dia parte dalle 32 operazioni eseguite nel 2016 e che hanno portato all’arresto di 152 soggetti, al sequestro di beni per 210 milioni di euro e alla confisca di patrimoni per 6 milioni di euro. Con le dovute differenze, tra le varie mafie, un capitolo particolare è quello della ‘ndrangheta. "Metabolizzate le conoscenze tecniche ed i meccanismi di mercato - dice la relazione - le nuove generazioni criminali hanno maturato capacità manageriali che, favorite dalla elevata scolarizzazione, consentiranno operazioni finanziarie ed economiche sempre più complesse, anche in settori innovativi". Con l’indagine "Alchemia", infatti, ci sono i primi segnali dell’interesse delle cosche della Piana di Gioia Tauro "ad investire anche nel settore delle lampade a led". Nell’inchiesta "Reghion", invece, è emerso come le ‘ndrine volevano investire in società ad alto contenuto tecnologico, operanti nei settori dell’alluminio e della gestione dei servizi idrici e di depurazione". In Sicilia la situazione è diversa: la Commissione provinciale di Cosa nostra è impossibilitata a riunirsi perché tutti i componenti sono detenuti. Al suo posto una sorta di "cupola anomala" composta anche da figli d’arte, che "non sempre godono di unanime riconoscimento". Baby boss "impulsivi e spregiudicati, incapaci di calcolare le conseguenze delle loro decisioni". Ecco perché le famiglie "devono ora fare ricorso ai consigli di anziani e uomini d’onore chiamati a sopperire, con il loro carisma, ai giovani inadeguati". Situazione simile, in Campania dove la relazione del capo della Dia di Napoli, Giuseppe Linares, traccia un quadro inquietante con "l’abbassamento dell’età degli affiliati e dei capi, con la trasformazione dei clan in gang, più pericolose per la sicurezza pubblica. Vanno quindi affermandosi nuove compagini, che agiscono con particolare violenza e sfrontatezza". Barbe lunghe e folte, tatuaggi autoreferenziali: gli investigatori assistono a "un’identità comunicativa" che caratterizza tanti "piccoli eserciti" che non hanno, però, una vera e propria "identità criminale". La riparazione per l’ingiusta detenzione: presupposti e condizioni Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2017 Riparazione per l’ingiusta detenzione - Procedimento - Istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione proposta dal difensore privo di procura speciale - Inammissibilità - Sussistenza. L’articolo 315 c.p.p., nel disciplinare il procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, richiama le norme sulla riparazione dell’errore giudiziario e, pertanto, l’articolo 645 c.p.p. che stabilisce che l’istanza deve essere presentata dalla parte interessata o da un procuratore speciale. La sua proposizione, in quanto espressione della volontà della parte di far valere il diritto alla riparazione in giudizio, può avvenire, oltre che personalmente dall’interessato, anche per mezzo di procuratore speciale nominato nelle forme previste dall’articolo 122 c.p.p., con esclusione del difensore con procura, avendo la legge voluto garantire sia l’autenticità dell’iniziativa, sia la sua diretta e inequivocabile derivazione dalla volontà dell’interessato. Infatti, dall’usuale contenuto del mandato ad litem, privo di ogni specifico riferimento all’azione da esercitare e contenente richiami a istituti del tutto estranei alla procedura in oggetto, si ricava la totale assenza di specificità del mandato medesimo e della esplicitazione della volontà della parte di trasferire al difensore il potere di esercitare l’azione riparatoria. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 5 aprile 2017 n. 17199. Misure cautelari - Personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Presupposti - Colpa grave ostativa - Valutazione - Comportamenti deontologicamente scorretti - Rilevanza - Fattispecie. La colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione può essere integrata anche da comportamenti deontologicamente scorretti, quando questi, uniti ad altri elementi, configurino una situazione obiettiva idonea a evocare, secondo un canone di normalità, una fattispecie di reato. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto integrativa della colpa grave la condotta dell’imputato, Ispettore della Polizia di Stato, in servizio presso un Centro di Identificazione ed Espulsione, il quale - violando le disposizioni regolatrici dell’attività della Polizia di Stato - aveva intrattenuto rapporti sessuali con persone che, essendo trattenute nella predetta struttura, si trovavano in una posizione di soggezione nei suoi confronti). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 14 dicembre 2016 n. 52871. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Dolo o colpa grave dell’interessato - Elementi di valutazione - Elementi probatori non oggetto del vaglio dibattimentale - Utilizzabilità - Condizioni. In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice della riparazione, per decidere se l’imputato vi abbia dato causa per dolo o colpa grave, deve valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare, e sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili ovvero siano stati esclusi o neutralizzati nella loro valenza nel giudizio di assoluzione. Nella specie, la Corte ha applicato il principio in un’ipotesi di non coincidenza tra quadro indiziario esaminato nella fase cautelare e quadro probatorio alla base del giudizio assolutorio, ritenendo legittima la valutazione del verbale di arresto e di alcune dichiarazioni fisiologicamente inutilizzabili in dibattimento. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 3 ottobre 2016 n. 41396. Misure cautelari personali - Riparazione per l’ingiusta detenzione - Presupposti - Parametri di valutazione - Autonomia rispetto a quello del giudice penale - Configurabilità - Fattispecie. Il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti ma sottoposto a un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la rivalutazione, effettuata dal giudice della riparazione, dei fatti non nella loro valenza indiziaria o probante, ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una macroscopica negligenza o imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 24 settembre 2013 n. 39500. Antiriciclaggio: Sos obbligatoria se c’è sproporzione tra reddito e flussi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 21 agosto 2017 n. 20212. L’evidente sproporzione tra le operazioni finanziarie effettuate dal correntista e la sua attività professionale è un indice di anomalia che obbliga l’intermediario alla segnalazione di operazione sospetta. Segnalazione che in caso di flussi "importanti" deve essere ripetuta, anche a fronte del silenzio del destinatario della "sos" stessa in merito al primo episodio. La Seconda civile della Cassazione (sentenza 20212/17 depositata ieri) riconferma l’interpretazione restrittiva per l’attività di antiriciclaggio, ribadendo anche il ruolo non solo esecutivo dell’impiegato/agente e quindi la responsabilità cumulativa per il dipendente e il datore di lavoro. Il caso definitivamente risolto dalla Seconda riguardava la sanzione amministrativa da 350mila euro inflitta dal Mef a Bper e a un suo impiegato per non aver dato seguito alle segnalazioni su un conto corrente ben più che sospetto. Il rapporto bancario, domiciliato presso un’agenzia di Milano, era stato utilizzato a metà degli anni 2000 per far confluire oltre 3 milioni di euro di provenienza e di destinazione dubbie (attività criminali relative all’usura, come si rilevava dall’incasso di assegni postdatati, cambiali, ricorso a prestanome etc.). Nel 2003, per completezza di ricostruzione storica, la banca aveva inoltrato una prima segnalazione - rimasta isolata - per un movimento da 13.500 euro, poi più nulla per i 3 anni successivi, nonostante il vertiginoso aumento dei flussi in entrata di denaro. Tra le tesi difensive - respinte però dalla Corte - anche quella secondo cui la scelta di non inoltrare nuove Sos era stata determinata dal silenzio dell’Uic (all’epoca dei fatti destinatario delle segnalazioni) circa il primo invio dell’istituto: sia il tribunale di Milano sia la Cassazione, però, rimarcano la totale irrilevanza dell’argomento, anche perché sui fatti specifici era in corso all’epoca un’indagine penale, con relativi obblighi di riservatezza. Quanto poi alle caratteristiche del "fatto" che deve accendere la curiosità/dovere dell’operatore bancario, la Corte ribadisce che non è per nulla richiesta la piena consapevolezza e men che meno la certezza della commissione dei reati - in questo caso di usura - ma è sufficiente l’osservazione di circostanze incoerenti, per esempio la sproporzione tra i volumi girati sul conto e l’attività svolta (o non svolta) dal titolare. La Cassazione mette poi ben in chiaro che la responsabilità della segnalazione di operazione sospetta non può essere "trasferita" al sistema automatico di rilevazione Gianos, il cui asserito malfunzionamento era tra l’altro fra gli argomenti difensivi. Il sistema Gianos, scrive il relatore "funge da ausilio nell’attività di vigilanza rimessa all’intermediario finanziario, il quale è comunque chiamato a compiere una propria autonoma valutazione, proprio alla luce delle caratteristiche soggettive ed oggettive delle operazioni effettuate". Il potere di segnalazione non può essere quindi "rigidamente vincolato alle indicazioni di carattere informatico". Como: scia macabra al Bassone, al "carcere dei suicidi" è morto un altro detenuto di Roberto Canali Il Giorno, 22 agosto 2017 È il secondo da inizio anno. Tra addetti ai lavori lo chiamano "il carcere dei suicidi" e il Bassone purtroppo ha tenuto anche stavolta fede al suo nome. Ieri a morire in una corsia del Sant’Anna di Como è stato un giovane che una settimana fa si era impiccato nell’infermeria del carcere, malgrado il tentativo della Polizia penitenziaria di salvarlo. Dall’inizio dell’anno si tratta del secondo suicidio, prima di lui a togliersi la vita era stata una donna somala di 37 anni, in carcere da un paio d’anni per reati contro il patrimonio. Sarebbe tornata libera a luglio di quest’anno, ma il 5 gennaio dopo essere stata messa in isolamento ha deciso di farla finita. L’ennesima morte inspiegabile dietro le sbarre: secondo l’associazione Ristretti Orizzonti che monitora la condizione degli istituti di pena italiani si tratta del diciannovesimo suicidio dal 2002 a oggi su un totale di circa 1.000 in tutta Italia. Il culmine nel 2014 quando tra ottobre e novembre erano stati trovati morti ben tre detenuti. Caso controverso quello di un 28enne italiano, trovato impiccato alla finestra della sua cella con un lenzuolo. Era stato arrestato una decina di giorni prima per sequestro di persona e messo in isolamento. Aveva scritto lettere alla moglie in cui le chiedeva i francobolli per poter scrivere alla loro bambina. Così quando lo trovarono morto, la famiglia chiese alla Procura di aprire un’inchiesta, facendosi aiutare anche dai Radicali e dal deputato del Pd Roberto Giachetti, che presentarono un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia. Si indagò per istigazione al suicidio, ma tutto venne archiviato. Le morti al Bassone non cessarono. Che al Bassone si viva male non è un mistero: a Como c’è il record del sovraffollamento rispetto al resto delle carceri lombarde con 405 detenuti reclusi in una struttura che potrebbe contenerne massimo 221, ovvero l’83% in più. A questo si aggiunge oltre un centinaio di detenuti sono malati o con problemi psichiatrici, oltre la metà sono in transito e solo 35 lavorano, mentre a sorvegliargli secondo le stime dei sindacati di polizia ci sono 294 agenti penitenziari in meno di quelli che servirebbero. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): suicida in carcere a 38 anni, aperta un’indagine di Violetto Gorrasi today.it, 22 agosto 2017 I familiari denunciano: "Non aveva segni sul collo". Maurizio Famà trovato senza vita nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Per il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe si è trattato di suicidio, ma i punti da chiarire sono molti. "È stato ritrovato impiccato al sifone del bagno e nonostante l’intervento del personale di polizia penitenziaria non c’è stato purtroppo nulla da fare. A quanto risulta non ha lasciato lettere o biglietti e non aveva dato segni di squilibrio". Così, venerdì scorso, il segretario generale del Sappe Donato Capece dava notizia di un (presunto) suicidio nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Maurizio Famà, 38enne di Catania accusato di furti di auto e rapine, si sarebbe tolto la vita in cella, il ventinovesimo detenuto a compiere questo gesto estremo nelle carceri italiane nei primi sei mesi del 2017. È davvero andata così? I contorni della vicenda sono ancora tutti da chiarire e sono in corso le indagini della procura di Barcellona Pozzo di Gotto per poter stabilire le esatte cause di morte del detenuto. "Oggi alle 15 è stata eseguita l’autopsia sul corpo della vittima - ci racconta al telefono Francesco Marchese, legale dei familiari di Famà - e bisogna attendere ancora qualche giorno per conoscere i risultati. Abbiamo richiesto anche l’accertamento tossicologico". I familiari, non convinti dalla versione del suicidio sostenuta dall’amministrazione penitenziaria, hanno presentato denuncia contro ignoti. Vogliono chiarezza. Soprattutto perché, come racconta l’avvocato, "hanno visto il corpo di Maurizio Famà e, dal loro racconto, non aveva segni da strangolamento sul collo". Segni che dovrebbero essere visibili in caso di suicidio per soffocamento. Non solo. Il giorno prima del ritrovamento del cadavere, il detenuto aveva fatto un colloquio con la famiglia. Nessun segnale di malessere. "Era tranquillo - dice il legale - e attendeva la fine del mese di agosto per chiedere un’istanza di scarcerazione". Sul caso c’è un procedimento penale in corso: sarà l’autopsia a fare chiarezza su quanto avvenuto nella cella del carcere messinese. Napoli: M5S e Radicali "a Poggioreale detenuti con patologie gravi e celle fatiscenti" internapoli.it, 22 agosto 2017 Il senatore Orellana visita Poggioreale coi Radicali: sovraffollamento, celle fatiscenti e malati senza cure 2123 detenuti su 1600 posti disponibili, patologie gravi non curate e celle fatiscenti: la visita del Senatore Orellana e dei Radicali a Poggioreale conferma le vecchie criticità ma rivela anche alcuni passi in avanti Al termine della visita condotta presso il carcere di Poggioreale con una delegazione di attivisti radicali, il senatore Luis Alberto Orellana e l’avvocato Raffaele Minieri della direzione nazionale di Radicali Italiani, hanno rilasciato alcune dichiarazioni che descrivono quanto emerso dall’ispezione odierna. "Abbiamo visto parecchi padiglioni come il Milano, il Salerno e l’infermeria (San Paolo). L’impressione è stata di grande professionalità, del direttore e della Polizia Penitenziaria. Da nessun detenuto abbiamo sentito critiche ma solo complimenti" ha esordito l’ex senatore M5S, ora nel gruppo misto che dopo le note liete è passato ai problemi riscontrati: "In alcuni reparti la situazione è drammatica da un punto di vista igienico e logistico con muffa, mancanza delle docce e sovraffollamento con fino a nove detenuti in una cella. Inaccettabile". Quindi Orellana ha aggiunto che: "Ci sono grosse inadempienze da parte dell’Asl. Non c’è una pronta risposta per quelli che sono prima di tutto pazienti ed essere umani. Ci sono anche malati affetti da gravi patologie e, non solo nel San Paolo ma anche in altri padiglioni, ci sono detenuti che richiedono visite, cure e operazioni che non ricevono". Raffaele Minieri, avvocato e membro della direzione nazionale di Radicali Italiani ha spiegato le ragioni per cui va proseguita la battaglia per l’amnistia: "Abbiamo constatato che anche le opere più meritorie fatte in questo carcere, migliorato grazie alle attività e al lavoro del direttore, dimostrano quanto fosse e quanto sia giusta la battaglia di Marco Pannella sull’amnistia. Il problema resta il sovraffollamento che rende impossibile qualsiasi iniziativa o comunque la complica, perché i detenuti più fortunati usufruiscono di una stanza ristrutturata mentre altri si trovano in celle completamente fatiscenti. Muffa ovunque, giornali alle pareti per tentare di combatterla e muri scrostati con fili esposti, una situazione drammatica". Minieri ha individuato nel sovraffollamento il problema principale: "Il paradosso è che anche nei casi in cui i detenuti sono in celle ristrutturate come in parte del padiglione Milano, il sovraffollamento rende invivibile la situazione a causa del caldo. Si pensi a nove persone con un bagno in uno spazio inferiore a tre metri quadri. Abbiamo trovato letti a castello di tre piani e i detenuti devono fare i turni per scendere dalla branda (tutti in piedi non entrano nella cella). C’è un detenuto operato alla gola che si trova in una stanza piena di muffa e questo rende tutto più problematico". Spazio quindi agli obiettivi politici della giornata odierna: "Sollecitare il Governo ad approvare i decreti sull’ordinamento penitenziario è fondamentale. Tuttavia - ha aggiunto Minieri - non possiamo limitarci a questa risposta e dato che il vero problema è il sovraffollamento non dobbiamo perdere di vista la battaglia fondamentale per l’amnistia che passa anche attraverso la depenalizzazione di alcuni reati. Radicali Italiani è impegnata per la depenalizzazione dei reati connessi alla cannabis che contribuirebbe - portando a una sorta di amnistia per queste condotte - a far diminuire tantissimo i detenuti sia in attesa di giudizio che condannati. Minieri ha spiegato che saranno presto disponibili i dati completi della visita, annunciando un impegno affinché aumenti il più possibile la trasparenza dietro le sbarre come ad esempio tipologia e numero di malati, posti disponibili e presenze per reparto, le istanze dei reclusi e i prezzi dei beni che i detenuti pagano per gli acquisti nello spaccio. Si chiederà inoltre l’applicazione dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario - riformato dopo la sentenza Torreggiani - affinché la magistratura di sorveglianza conceda sconti di pena previsti dalla legge e per costringere l’amministrazione penitenziaria a risolvere il problema del sovraffollamento. Presente alla visita anche Pietro Ioia, storico attivista e portavoce degli ex detenuti organizzati di Napoli, che ha affidato il suo pensiero a pochi ma inequivocabili concetti: "Ho visto i letti a tre piani e non va bene. I muri sono fradici e i detenuti sono ammassati uno sull’altro. Ho ricevuto due lettere di denuncia, altri volevano aggiungersi ma non è ancora stato possibile. Poggioreale andrebbe chiuso, senza ombra di dubbio". Santa Maria Capua Vetere (Ce): la Cassazione "carcere idoneo alla detenzione" Il Mattino, 22 agosto 2017 Non c’è detenzione disagevole o inumana presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo ha sancito la Cassazione confermando la bocciatura della richiesta di risarcimento per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta? fondamentali, avanzata da Silvio Borrata, esponente del clan dei Casalesi, fazione Bidognetti. Una decisione che giunge al termine di un’estate scandita dalle polemiche per le condizioni in cui versa l’istituto di pena sammaritano, specie riguardo la carenza idrica, problema quest’ultimo diventato assai frequente. L’istanza era stata presentata da Borrata ai sensi dell’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario, che prevede fra l’altro quale possibile misura risarcitoria una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio. Borrata aveva lamentato la violazione dello spazio minimo di superficie vivibile in cella, oltre alla mancanza di acqua calda in cella, a muri ammuffiti, impianti docce fatiscenti ed obsoleti, area sanitaria non sufficiente, presenza di insetti, odori sgradevoli, assenza di visus per le reti apposte oltre le sbarre delle finestre ed infine carenza di acqua potabile. Il magistrato di Sorveglianza di Livorno, investito della procedura, aveva invece ritenuto la superficie vivibile della cella superiore a tre metri quadrati, sottolineando che il bagno era posto in un locale separato e che al detenuto erano state garantite quattro ore di socialità al giorno. Decisione impugnata dinanzi al tribunale di Sorveglianza, con il reclamante che aveva dedotto fra l’altro l’erroneità dei dati forniti dalla Casa circondariale. Il Tribunale aveva confermato il diniego, ritenendo mancante la prova della falsità dei dati esposti nella relazione tecnica inviata dall’istituto. Aveva inoltre osservato che "la mancanza di acqua calda nella cella non integrava un trattamento inumano", atteso che i detenuti, a giorni alterni, potevano usufruire di docce con acqua calda miscelabile, che la cella risultava a norma per illuminazione e pulizia e che non risultavano né carenza di acqua potabile né presenza di insetti nelle celle. Sulla stessa linea la corte di Cassazione: tutte le doglianze del ricorrente sono state già valutate dal Tribunale che le ha ritenute non decisive o non provate o, ancora, smentite dalle relazioni tecniche depositate dai responsabili dell’istituto di pena di Santa Maria Capua Vetere. Firenze: problemi di Sollicciano, proposta seduta del Consiglio comunale in carcere di Luca Cellini agenziaimpress.it, 22 agosto 2017 "Una seduta del Consiglio comunale dentro il carcere di Sollicciano alla presenza delle autorità del carcere e della Città". Questa la proposta lanciata dal Capogruppo di "Firenze riparte a sinistra", Tommaso Grassi, tornando sulla visita effettuata nei giorni scorsi al carcere fiorentino insieme all’attore Paolo Hendel, a Rita Bernardini del Partito Radicale, all’avvocato Eriberto Rosso, al cappellano del carcere don Vincenzo Russo e a Massimo Lensi, dell’associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi. "Il carcere è una parte della città - ha aggiunto Tommaso Grassi. Per chi fa politica in una città come Firenze, è indispensabile andare in visita alcune volte all’anno, soprattutto in periodi dell’anno come quello estivo in cui le soprattutto in periodi dell’anno come quello estivo in cui le condizioni a cui sono costretti carcerate, carcerati e agenti della polizia penitenziaria sono davvero dure. Si è perso negli ultimi anni quel rapporto che deve esistere tra città, rappresentata dalle istituzioni fuori dal carcere, e da ciò che avviene dentro - ha proseguito Tommaso Grassi - per recuperare questo rapporto, essenziale quando è necessario vigilare sulle condizioni umane dei detenuti e monitorare sulle condizioni strutturali del carcere, crediamo che se il Consiglio comunale si svolgesse al suo interno sarebbe un segnale esemplare. Per questo lanciamo la proposta al sindaco e al Consiglio comunale intero augurandoci che possa essere accolto. Nel passato mandato è stato organizzato con la promessa che potesse diventare un appuntamento fisso ma così non è stato e anche la relazione del garante dei detenuti, prevista annualmente dallo Statuto del Comune di Firenze, da almeno due anni non ha più trovato spazio nei lavori del Consiglio". L’apprezzamento del sindaco Alla proposta fatta da Tommaso Grassi ma soprattutto all’appello ad un recupero del carcere di Sollicciano come luogo sempre più teso al recupero dei detenuti in condizioni di detenzione dignitose, ha risposto il sindaco di Firenze, Dario Nardella. "Apprezzo l’iniziativa dell’associazione ‘Andrea Tamburi’ legata al movimento dei Radicali che ha riguardato il nostro carcere e che ha messo nuovamente in luce i problemi atavici di questa struttura - ha evidenziato Dario Nardella. Da parte del Comune di Firenze non c’è alcuna volontà di prendere le distanze, ma una concreta disponibilità a valorizzare le molte iniziative mirate a migliorare le condizioni dei detenuti a Firenze e in Italia in generale. Non dimentichiamo - ha proseguito Nardella - che il principio costituzionale della finalità educativa della pena è costantemente messo in discussione dalle condizioni oggettive di molti carceri italiani, come dimostrato purtroppo dai dati della recidività dei detenuti che, una volta usciti dal carcere, tornano a delinquere in assenza di concrete opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. A Firenze, con il Comune abbiamo accumulato una grande esperienza e grazie alla grande collaborazione del garante dei detenuti abbiamo le condizioni per dare una svolta alla riqualificazione di Sollicciano. Tuttavia è evidente che il sindaco e la sua comunità possono poco senza un la volontà forte dello Stato che è il responsabile formale e sostanziale della condizione dei carceri nel nostro Paese. Sono dunque pronto a lavorare insieme agli amici Radicali su questo fronte portando l’esperienza e la passione dei miei collaboratori su questo campo". Padova: allarme Isis nel carcere Due Palazzi, sette i detenuti "sorvegliati speciali" di Marco Campanale tgpadova.it, 22 agosto 2017 Si nutre dell’abbandono. Vive nell’emarginazione. Si propone come forma di riscatto sociale. Fa credere di essere importanti a personaggi che hanno sempre vissuto ai margini. L’idea del terrorismo fa presa tra i detenuti musulmani del carcere di Padova: spacciatori, ladri, balordi, clandestini che, dietro le sbarre, coltivano la rabbia verso le istituzioni italiane, "colpevoli" di averli puniti per le loro malefatte. E se all’inizio erano solo sospetti, ora i sindacati della Polizia Penitenziaria escono allo scoperto, affermando di essere impreparati per affrontare l’emergenza radicalizzazione al Due Palazzi. Sarebbero sette i sorvegliati speciali: personaggi (tunisini e marocchini, per la maggioranza) che, una volta fuori, potrebbero anche compiere gesti estremi, spinti dal fanatismo, dalla voglia di vendetta e di riscatto nei confronti di una società che avrebbe avuto la colpa di non "accoglierli". Mentre il sedicente Stato Islamico perde una battaglia dietro l’altra in medio oriente, cerca affiliati anche in Italia dove le minacce del terrorismo passano anche da ex spacciatori e delinquenti in cerca di "giustizia" divina, mentre continuano ad entrare ed uscire dal carcere, sopravvivendo nel limbo del garantismo e di accordi internazionali che ne impediscono il rimpatrio. Napoli: "Io, detenuto picchiato in ospedale". La replica: "Falso, noi agenti gli aggrediti" di Giuliana Covella Il Mattino, 22 agosto 2017 La denuncia in Procura: "Avevo difeso un immigrato dai loro maltrattamenti". "Io ammanettato, picchiato e insultato da agenti penitenziari in servizio presso il padiglione "Palermo" dell’ospedale Cardarelli". È la denuncia, inoltrata alla Procura, dalla la presunta vittima, Vincenzo Campanile, 40 armi, detenuto nel carcere di Poggioreale, difeso dagli avvocati Raffaele Boccagna e Mauro Zollo. Un’aggressione che il 40enne avrebbe subito, secondo la denuncia, 117 agosto. Della vicenda si è saputo ieri nel corso di una visita ispettiva al carcere di Poggioreale organizzata da Pietro Ioia, dell’associazione Ex Don, Emilio Quintieri e Raffaele Minieri dei Radicali e dal senatore Luis Alberto Orellana, che presenterà un’interrogazione parlamentare. Il direttore del carcere di Poggioreale, Antonio Fullone, intanto precisa: "Com’è nostro dovere abbiamo ricevuto e trasmesso la denuncia, ma essendoci un’inchiesta in corso occorre mantenere massima riservatezza". La vicenda, secondo la ricostruzione dei fatti esposti nella denuncia, sarebbe cominciata il 2 agosto: "Offese verbali da parte di un agente, che poi si sarebbero trasformate in aggressione fisica pochi giorni dopo, cui si sarebbero uniti altri agenti". Ma questi ultimi, come fanno sapere dal comando di polizia penitenziaria, si sarebbero difesi nel corso di una colluttazione ingaggiata con il carcerato, come espongono in una controdenuncia. "Altro che cure mediche, mangiare e bere. Se fosse per me ti avrei già sparato e avrei risolto il problema sul nascere", sarebbero state queste le parole pronunciate da una delle guardie i12 agosto. Motivo della lite, secondo la versione esposta da Campanile, il fatto che gli agenti si sarebbero accaniti contro un detenuto immigrato. Il 40enne era nella cosiddetta cella "Ischia". Assistendo, a suo dire, ai maltrattamenti subiti dall’immigrato, sarebbe intervenuto chiedendo agli agenti le ragioni del maltrattamento. A quel punto, i penitenziari lo avrebbero insultato. "Quell’agente era pieno di odio e solo l’intervento di un brigadiere ha evitato il peggio", è scritto nella denuncia del detenuto. Ma, come accennato, la lite non si esaurisce il 2 agosto. Il 7 agosto Campanile viene convocato nella sala colloqui del "Palermo". "Mi volevano far firmare un documento - riferisce nella denuncia - ma ho rifiutato. C’erano scritte tutte bugie su come erano andati i fatti i12 agosto e ho chiesto di essere riaccompagnato in cella. Qui mi hanno ammanettato e gettato a terra. Si sono fermati solo quando hanno visto che perdevo sangue dalla bocca", racconta. I legali di Campanile puntualizzano che il loro cliente è affetto da ictus. "Pochi giorni prima di essere trasferito al Cardarelli - spiegano gli avvocati- era stato trasportato d’urgenza al Loreto Mare, dove i medici avevano consigliato ulteriori accertamenti. Il nostro assistito soffre inoltre di patologie di carattere gastro-intestinale e ha una cisti al cervello". Cagliari: venti detenuti barricati per ore ai "passeggi", si rifiutano di rientrare in cella sassarinotizie.com, 22 agosto 2017 "Rivolta nel carcere di Uta ieri pomeriggio. Oltre 20 detenuti si sono barricati nei passeggi esterni al carcere e si sono rifiutati di rientrare nelle celle dopo l’ora d’aria. Per quasi 4 ore la tensione è salita alle stelle e pare che gli agenti abbiano dovuto richiedere rinforzi per reprimere la rivolta. Alla base della nuova sommossa ci sarebbero i fatti dei giorni scorsi con un chiaro riferimento al giro di droga messo in piedi dentro il carcere cagliaritano. Gli agenti hanno dovuto ricorrere anche alla forza per far desistere i 20 detenuti, forse di più, dell’intero braccio denominato "Cagliari". Si è trattato di una vera e propria guerriglia interna al braccio più caldo del carcere con un livello di scontro mai raggiunto prima. Lo scontro con i marocchini ha lasciato come era prevedibile pesantissime ripercussioni nell’equilibrio interno della sicurezza del carcere. Il carcere di Uta come ho denunciato ieri è una polveriera ormai fuori controllo. Tutto questo dopo una quarantotto ore d’inferno che tra venerdì e sabato aveva scatenato l’inferno con risse furibonde tra detenuti, con pestaggi a sangue, celle devastate con sradicamento dei sanitari, mobili ridotti a pezzi, porte staccate e diventate scudo per asserragliarsi dentro la cella, vetri esplosi in mille pezzi. La cella n. 15 del braccio Cagliari del primo piano del carcere di Uta era la rappresentazione esatta dell’inferno che si sta generando dentro l’istituto penitenziario cagliaritano". Lo ha denunciato ieri sera il deputato di Unidos Mauro Pili. Il deputato dopo una visita blitz ieri nel carcere di Uta ha nuovamente ribadito l’esigenza di un intervento urgente del ministro della Giustizia. "Con la rivolta di poco fa - ha detto Pili - arriva la conferma che siamo dinanzi ad una situazione incredibile che sta degenerando giorno dopo giorno. Gli agenti rischiano la vita ogni giorno in un carcere ormai senza controllo, senza agenti, senza ufficiali e senza direttore. Un carcere gigantesco che da mesi non ha guida e nella giornata del 17 il direttore era sostituito dal sostituto del reggente del carcere. Siamo alla follia gestionale del carcere più grande della Sardegna con una totale responsabilità del primo dirigente del Dap Sardegna e dello stesso ministro della giustizia che continua a non affrontare seriamente l’emergenza del carcere di Uta. Quello che si è verificato nelle ultime ore è solo la punto di una situazione che rischia di degenerare senza alcun tipo di controllo". "Il ministro della giustizia - ha concluso Pili - è il primo responsabile della situazione e se dovessero verificarsi fatti ancor più gravi sarà solo lui a doverne rispondere. Un carcere di queste dimensioni non può continuare ad essere gestito con tanta superficialità, mettendo a rischio la vita degli agenti". Bologna: "La Dozza", nasce la mozzarella di bufala prodotta in carcere Corriere della Sera, 22 agosto 2017 Il riscatto sociale è affidato ad una bufala, intesa questa volta non come notizie falsa, ma come prodotto caseario che può salvare la vita, portandola verso binari della legalità e dell’inclusione occupazionale. Lo sanno bene Vincenzo, Ahmed, Umair e Marco, i quattro detenuti della casa circondariale di Bologna che hanno iniziato a produrre la "La Dozza", la mozzarella di latte di bufala prodotta proprio nel caseificio attrezzato all’interno del carcere. L’iniziativa è stata realizzata con la supervisione di un casaro dell’azienda pugliese "Liberiamo i sapori", e la collaborazione di "I Freschi", che ne cura la commercializzazione. La sfida raccolta dalla Casa circondariale - Prodotta con metodo artigianale con latte della Val d’Adda, in provincia di (Bergamo, la mozzarella è disponibile in due confezioni da 250 grammi (intera o a bocconcini) che nell’incarto riproduce l’immagine del Santuario della basilica di San Luca ed il logo del Ministero della Giustizia, che ha patrocinato l’iniziativa acquistando i macchinari e le attrezzature per il caseificio. "Per noi è una sfida - ha detto Rocco Frontera, titolare dell’azienda salentina - e abbiamo pensato a Bologna come cuore commerciale d’Italia". La sfida è stata prontamente raccolta dalla direttrice della Casa Circondariale "Dozza", Claudia Clementi, e dagli stessi detenuti, scelti per attitudine, percorso comportamentale, eventuali esperienze precedenti nel settore alimentare e un fine pena lungo in modo da consentire loro di avere il tempo di imparare il mestiere. Un’occasione di riscatto sociale - Vincenzo, Ahmed, Umair e Marco, dunque, stanno producendo la bufala a marchio "La Dozza" a pieno regime. L’obiettivo, chiaramente, è quello di acquisire competenze professionali da poter spendere nel mercato del lavoro una volta scontata la pena, l’unico deterrente concreto per prevenire contrastare la recidiva. "È una grande opportunità per chi sta dentro l’istituto, perché può avere un riscatto sociale, in modo da avere un domani maggiori possibilità di poter lavorare e non tornare a delinquere" ha detto Vincenzo, uno dei quattro detenuti coinvolti nell’iniziativa. "Il mio futuro adesso lo vedo positivo - ha aggiungo Umair, giovane pachistano. Magari quando uscirò dal carcere tornerò nel mio Paese per fare ancora questo lavoro". I detenuti sono assunti a tempo indeterminato, per ora con dei contratti part-time. L’idea è quella di aumentare la produzione e di conseguenza il numero dei lavoratori, in modo da poter offrire ad un numero più alto di detenuti la possibilità di poter imparare un nuovo mestiere e di poter scontare più produttivamente il tempo di permanenza che ancora resta da scontare in carcere. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): un carcere- modello, con orto, officina e tipografia di Valentina Stella Il Dubbio, 22 agosto 2017 "Intraprendere mirate iniziative trattamentali, fare rieducazione nelle carceri sono attività sofisticate, complesse, di lunga durata: convincere una persona a non commettere più un reato, indicandole una strada e fornendole degli esempi positivi, è certamente più difficile che chiudere la cella e buttare la chiav". È con questo spirito che il dottor Massimiliano Forgione dirige la casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. "La nostra realtà - racconta al Dubbio - è un unicum nel panorama nazionale: abbiamo 4 lavorazioni penitenziarie, interamente gestite da noi, che consentono di soddisfare una larga parte delle esigenze dell’amministrazione. Mentre negli altri Istituti hanno dato spazio alle cooperative e alle imprese per facilitare il lavoro dei detenuti, noi abbiamo optato per una scelta completamente diversa che ha un doppio fine: oltre che insegnare un mestiere ai reclusi e quindi restituire alla società delle persone che hanno acquisito competenze nel periodo della pena, perseguiamo anche un risparmio per l’amministrazione, quantificabile in diversi milioni di euro". Il carcere infatti è dotato di una carrozzeria e officina meccanica in cui si riparano le macchine dell’amministrazione penitenziaria, con un risparmio di circa un milione di euro. C’è anche una tipografia che, come ci descrive orgoglioso il direttore, "soddisfa le esigenze di tutta l’amministrazione penitenziaria: rileghiamo libri, realizziamo brochure, striscioni, e timbri. Solo nel 2016 abbiamo prodotto circa 20.000 timbri, per un risparmio di circa mezzo milione di euro". Da due anni a Sant’Angelo si stampano anche i calendari della polizia penitenziaria, con un risparmio, rispetto agli altri corpi di polizia, di circa 300.000 mila euro. "E utilizziamo sempre le risorse interne per consegnarli", precisa Forgione. La percentuale dei detenuti che lavorano è dell’ 80%. I disoccupati sono quelli che, avendo già una pensione o una indennità, sono non idonei al lavoro. Intorno al carcere c’è anche un tenimento agricolo, curato con particolare attenzione alle esigenze del territorio, attraverso la coltivazione dei frutti autoctoni che andavano scomparendo: "produciamo il miele di sulla, dell’ottimo vino, abbiamo anche una tartufaia continua Forgione - poi c’è un orto sociale a cui i detenuti accedono direttamente, dando loro la facoltà di portare i prodotti in cella e cucinarli. Abbiamo un uliveto con 100 alberi e 250 piante di frutti del luogo". E in questi giorni in cui si discute di nuovo del sovraffollamento carcerario è da rilevare positivamente che in questo carcere ci sono celle che ospitano due detenuti e sono grandi circa 12 metri quadrati, quindi quasi il doppio dei metri minimi previsti per detenuto. È l’unico istituto in Italia che prevede un frigorifero per cella, i reclusi possono accedere a Sky pagando l’abbonamento, hanno la doccia in cella e le piastre elettriche - i costi dell’energia elettrica sono a carico dei detenuti -, scongiurando così i rischi delle bombolette a gas. "Tutto quello che è stato fatto in questo Istituto - dice Forgione - eccetto quello obbligatorio per legge tipo la manutenzione degli ascensori, lo hanno fatto i detenuti. Loro sono visti come risorsa per se stessi e per l’amministrazione". Ma anche per la collettività e la sua sicurezza: "se intendiamo per recidiva il re- ingresso in questo istituto, la percentuale è sotto il dieci per cento. Negli ultimi dieci anni non abbiamo avuto nessuna aggressione al personale. Da 8 anni abbiamo aperto le celle sperimentalmente h24, abbiamo due sezioni in cui i detenuti si gestiscono da soli addirittura con la cucina e non abbiamo mai riscontrato un problema. Ovviamente tutto questo è possibile grazie ad una previa selezione attenta e accurata dei detenuti, ma anche grazie al personale che ha aderito convintamente a questa nuova idea di carcere. Evitare il processo di infantilizzazione del detenuto significa migliorare la convivenza all’interno delle carceri, consentire agli agenti di polizia penitenziaria di tornare a casa sereni, e restituire alla società persone nuove e capaci di reinserirsi nel tessuto sociale", conclude Forgione. Reggio Calabria: i detenuti allo spettacolo teatrale dedicato alla morte di Paolo Borsellino di Serena Guzzone strettoweb.com, 22 agosto 2017 "Davvero commovente la rappresentazione teatrale dedicata alla morte di Paolo Borsellino in un originale parallelismo con la morte, due secoli prima, dell’eroe Orlando che sacrificò la sua vita rifiutando di suonare il "corno di Olifonte", che dà il titolo allo spettacolo. E poi il 21 di agosto non si era mai tenuta una manifestazione in carcere: merito dell’Associazione Politeia e del suo dinamico duo composto dalla Presidente, avv. Elena Gratteri e dalla Vice Presidente, avv. Maria Teresa Badolisani, che hanno fortemente voluto l’iniziativa in carcere a Reggio Calabria. Certo non è mancata la sensibilità della Direttrice dell’istituto di Via San Pietro, dott.ssa Maria Carmela Longo, da sempre attenta al delicato tema del trattamento rieducativo e che ha accolto fin da subito la proposta del "teatro oltre le sbarre", coadiuvata dal Responsabile dell’Area Pedagogica, dott. Emilio Campolo, dal Comandante della Polizia Penitenziaria, dott. Stefano La Cava e da tutto il personale amministrativo e volontario dell’istituto. Lo spettacolo messo in scena dalla Compagnia del "Teatro Stabile Assai" della Casa di Reclusione di Roma Rebibbia, è stato promosso anche dal Garante Comunale dei diritti dei detenuti, avv. Agostino Siviglia, con il Patrocinio Morale del Comune e della Città Metropolitana di Reggio Calabria. È stata inoltre promossa una raccolta fondi che ha coinvolto le Associazioni Reset e La Svolta al fine di sostenere il rimborso dei costi. Infine, hanno patrocinato la manifestazione anche la Presidenza del Consiglio regionale della Calabria e l’Aics. Seguendo l’alternarsi di momenti di recitazione teatrale a brani musicali, magistralmente eseguiti dalla cantante romana Barbara Santoni, la rappresentazione è risultata piacevole, leggera e profonda nel contempo, intima eppure pubblica, non solo perché, in particolare, si è soffermata sugli aspetti personali e familiari di Borsellino e Orlando ma anche perché a metterla in scena c’erano detenuti veri (fra i quali un ergastolano), educatori, volontari, attori professionisti e persino un agente di polizia penitenziaria. Insomma, un crocevia di "vite perdute", "quelle delle "morti buone" e quelle delle "vite invischiate" con il male, ed in questo incrocio di "senso" è sembrato già allontanarsi quel "puzzo" che il male porta con sé. Del resto, come diceva Paolo Borsellino "in ogni essere umano c’è una scintilla di divinità". Ed i detenuti del carcere di Via San Pietro hanno seguito attenti e partecipi, anche se qualcuno si è allontanato durante lo spettacolo, ma anche questo fa parte del "gioco delle parti", soprattutto, se si mette in scena il dolore e la serenità di un uomo giusto qual è stato Paolo Borsellino. La Legalità e la Giustizia meritano dunque di essere anche snobbate, e non è affatto detto che ciò sia più naturale in un carcere. Di certo, ciascuno è chiamato a fare la propria parte, nella certezza che la Legalità e la Giustizia sono destinate a prevalere e che perciò continuare a proporle, soprattutto in un carcere, vuol dire renderle sempre possibili e sempre a portata di mano: in fondo, c’è più potenza e perfezione nel trarre il bene dal male che nell’impedire al male di esistere"- Così scrive in una nota l’Avv. Agostino Siviglia, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Pallanza (Verbano-Cusio-Ossola): mostra sulla mail art nata in carcere vaccarinews.it, 22 agosto 2017 Grazie alla Onlus "Artisti dentro", sono state registrate numerose interpretazioni, provenienti da diverse case di reclusione. Ora parte dei lavori è in mostra a Pallanza (Verbano-Cusio-Ossola). Curioso sapere che nei penitenziari non circoli, per il settore, solo il progetto "Filatelia nelle carceri", guidato da Poste italiane e che vede il supporto di Federazione fra le società filateliche italiane ed Unione stampa filatelica italiana. Altre attività sono firmate da "Artisti dentro" Onlus, un’associazione fondata nel 2015 da volontari "che hanno ritenuto di volersi impegnare per offrire un’occasione in più ai detenuti", avendo l’obiettivo di portare in cella arte e cultura. Propone, fra l’altro, "Pittori dentro", consistente in un concorso di mail art, secondo il quale l’elaborato "dovrà viaggiare attraverso le sbarre, superare i pericoli e le avversità della società esterna, il tempo meteorologico e anche la casualità", fino ad arrivare nelle mani dei giurati. Ogni tipo di cartolina va bene: illustrata, creata artigianalmente, in cartoncino o altri supporti cartacei purché accettati dal servizio postale. Su di essa è possibile intervenire in qualsiasi modo; se necessario, il sodalizio mette a disposizione invii già indirizzati ed affrancati. L’invito agli interlocutori è stato "esprimere un collegamento tra l’opera artistica e il francobollo, attraverso disegni che ne richiamino le forme, i colori oppure il senso". Ora -con 359 interventi e 122 autori- si è appena chiusa l’edizione 2017: la giuria si riunirà il 9 settembre. Intanto, parte dei lavori realizzati l’anno scorso - erano 208, firmati da 101 persone - è stata venduta per finanziare le iniziative; circa la metà viene esposta in forma itinerante sotto al titolo "Mostra galeotta". Fino al 15 settembre è ospitata presso villa Giulia, in via Vittorio Veneto, a Pallanza (Verbano-Cusio-Ossola). Ad ingresso libero, l’allestimento può essere raggiunto martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 15 alle 21, venerdì, sabato e domenica dalle 11 alle 21. Il materiale -confermano lungo il percorso- proviene da diverse carceri italiane e rappresenta sia la popolazione maschile che femminile. "Tra di loro vi sono certamente anche degli innocenti, vittime involontarie della fallace giustizia umana". "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. La pena di morte non è né utile né necessaria commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 22 agosto 2017 Siamo così giunti al cuore dei temi affrontati da Beccaria, al punto che potrebbe affermarsi, senza tema di esagerare, che ogni altro argomento da lui espresso tendeva verso questo come scopo ultimo da trattare: la pena di morte. Gli interrogativi sulla pena di morte attraversano tutta la storia del pensiero occidentale, il quale da sempre si è preoccupato di reperire un fondamento teorico ad una pratica che per molti secoli aveva soddisfatto la gestione del potere politico. Non è certo questa la sede per censire le innumerevoli posizioni che sono state al riguardo elaborate, ma un punto fermo va comunque messo: Beccaria non propone alcun argomento teorico o filosofico contro la pena di morte, limitandosi a respingerla per motivazioni di carattere pratico e utilitaristico. Ciò non è senza rilievo per diverse ragioni. Infatti, per un verso, si tratta di argomentazioni che possono essere ritenute valide da chiunque e dovunque, fatto questo particolarmente importante se si pensa che in quel tempo non vi era Stato ove la pena di morte fosse sconosciuta: il primo ad abolirla, come è noto, fu il Granducato di Toscana, per mano di Leopoldo, molto influenzato proprio dalle idee di Beccaria, il 30 novembre 1786. Per altro verso, proporre motivi legati alla non utilità della pena di morte, espelleva in modo determinante dal dibattito ogni argomento di carattere teorico che potesse essere escogitato a favore, restringendo in modo sensibile il territorio del confronto tra i favorevoli e i contrari. Ebbene, Beccaria rigetta la pena di morte essenzialmente con due motivazioni, entrambe molto pratiche. Innanzitutto, perché l’effetto deterrente che molti sostengono essa abbia, inducendo la collettività ad astenersi dal commettere gravi delitti, si fa cogliere come inesistente. Con fine occhio di osservatore delle dinamiche sociali e psicologiche, Beccaria infatti rileva che la pena di morte "con la sua forza, non supplisce alla pronta dimenticanza", e che essa "non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società". Il giurista milanese sa bene che ciò che viene più difficilmente dimenticato dagli uomini non è un male grave e puntualmente individuato nel tempo - quale una esecuzione capitale, che appunto egli definisce uno "spettacolo"- ma la visione di un male, pur meno lacerante, ma duraturo nel tempo, tale da generare uno sgomento non transeunte - quale appunto una "perpetua schiavitù", che oggi diremmo ergastolo (il quale, non a caso, va abolito oggi proprio in quanto rappresenta una sorta di pena di morte diluita nel tempo). La pena di morte non gode allora in punto di fatto di una reale forza deterrente verso la collettività, non mostra alcuna utilità. Da un secondo punto di vista, Beccaria ritiene assurdo in chiave psicologica e sociale che le stesse leggi dello Strato che puniscono l’omicidio, ne possano poi ordinare un altro allo scopo di sanzionare il primo. Anche da questa prospettiva, la pena di morte mostra tutta la sua inconcludenza e la sua inutilità. Infatti, si palesa del tutto inutile tentare di scoraggiare i sudditi dal commettere gravi reati, utilizzando leggi che, per punirli, legalizzassero proprio il comportamento punito. Si tratta di una insanabile contraddizione che Beccaria non manca di denunciare non tanto in sede teorica, ma di pratica utilità, allo scopo di far intendere ai governanti come sia impossibile proporre un simile schema di pseudo- ragionamento, destinato a fallire in partenza appunto perché autocontraddittorio. Come si è detto, queste idee dilagarono in Europa e, poco alla volta, tutti gli Stati, anche se a volte con grande lentezza, si risolsero ad abolire la pena di morte. Beccaria, da uomo esperto del mondo, sapeva bene quanta fatica ci sarebbe voluta per giungere a tale esito e, ricorrendo ad una immagine perfino poetica, scrive che "la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano". Egli non si faceva illusioni e sapeva quante resistenze si sarebbero incontrate lungo la via dell’abolizione delle esecuzioni capitali. Oggi, se essere europei espone a tante critiche e stigmatizza tante incapacità politiche, tuttavia giustifica un orgoglio: l’Europa è l’unico continente in cui tutti gli Stati - nessuno escluso - hanno abolito la pena di morte. Questa si chiama civiltà: e la dobbiamo a Beccaria. CAPITOLO XXVIII. DELLA PENA DI MORTE Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma du- rante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste più alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir così condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia à suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito dè suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai più forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce più che non lo corregge. Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel più secreto dei loro animi, parte che più d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti à delitti, nè quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può più che la religione medesima. Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al più gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle. La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo dè loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani. Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù, delle scienze, delle arti, padri dè loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità dè quali forma la felicità dè sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo più crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità. Le nostre libertà non tutelano chi istiga all’odio di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 22 agosto 2017 Quando si tratta di limiti e controlli alla libertà di espressione e, in particolare, alla libertà di espressione religiosa si avverte imbarazzo, reticenza, come se in ogni caso si stesse facendo qualcosa d’illecito, di cui scusarsi o da tener celato. È così perfino nei tempi presenti ove troppo spesso in gruppi terroristici si trova un imam islamico influente in una moschea, impegnato a incitare all’odio verso gli infedeli, le loro società e il loro modo di vivere. Trattandosi dei discorsi di imam ai fedeli musulmani che lo seguono, da un lato si rifiuta giustamente l’argomento della reciprocità, che non vale quando i diritti umani fondamentali sono in gioco. Se nei paesi a prevalenza musulmana la libertà religiosa ai cristiani è negata, non per questo possiamo noi europei fare altrettanto nei confronti dei musulmani. Ma dall’altro lato il richiamo a una lettura violenta dei testi sacri dell’Islam, non può porre la propaganda e l’istigazione contro l’Occidente al riparo della libertà religiosa. La libertà di espressione religiosa in Europa, a partire almeno del ‘600 è stata storicamente posta all’origine di tutte le altre. Ma né la libertà di espressione, né la libertà religiosa, né la libertà di riunione e associazione sono libertà assolute, sottratte a ogni limitazione da parte dello Stato. A partire dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, le libertà hanno limiti per assicurare agli altri la garanzia di quegli stessi diritti e libertà. Nella nostra epoca sia la Convenzione europea dei diritti umani, sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea espressamente escludono dalla protezione coloro che si impegnano in attività dirette alla distruzione dei diritti e delle libertà che esse prevedono. Uguale principio si trova nella Dichiarazione universale dei diritti umani e negli altri testi internazionali. Si tratta del divieto di abuso del diritto, di uso cioè distorto dei diritti e delle libertà propri delle democrazie, al fine di abbatterle negandone i fondamenti. Le democrazie devono (non solo possono) difendersi, combattendo le attività che pretendono di usare la libertà di espressione per negare i diritti e le libertà degli altri e distruggere i regimi democratici che li assicurano. Per questo la Corte europea ha negato protezione a chi fa discorsi incitanti al razzismo, all’antisemitismo e all’odio o alla violenza verso altri gruppi di persone. Simili leggi esistono negli Stati d’Europa, conformemente alle loro Costituzioni nazionali. Così ad esempio la Costituzione tedesca, che pone al suo primo articolo la dignità dell’uomo e il riconoscimento dei diritti inviolabili, espressamente stabilisce che perde protezione chi, per combattere l’ordinamento costituzionale liberale e democratico abusa, tra le altre, delle libertà di espressione, di insegnamento, di riunione, di associazione. Non c’è dubbio che tale principio pervada le altre Costituzioni e anche quella italiana. Nessuna tolleranza, cioè, va garantita agli intolleranti dei diritti e libertà altrui. L’espulsione di stranieri che tengano simili discorsi e attività, la repressione di ogni gruppo associato che a tali attività di dedichi o le prepari, sono non solo diritto, ma anche dovere da parte dello Stato. Certo può essere difficile per le autorità raccogliere prove inequivoche di incitamenti non solo retorici all’odio o alla violenza. Ma sono legittimi i controlli e la pretesa da parte dello Stato che i discorsi in luoghi come le moschee siano controllabili, comprensibili e quindi pronunciati in italiano. E i provvedimenti amministrativi come le espulsioni, le chiusure di luoghi di incontro o lo scioglimento di riunioni sono legittimi anche sulla sola base di seri sospetti. Sia chiaro che non si tratta di sospendere lo Stato di diritto, come se si fosse in guerra. Anche in un contesto del tutto normale - come però non è chiaramente il caso presente - sia la libertà di espressione, sia la libertà di professione religiosa, sia la libertà di riunione e associazione incontrano limiti per la sicurezza nazionale e la tutela dei diritti altrui. Anzi, l’enunciazione della libertà di espressione nella Convenzione europea è accompagnata dall’affermazione che essa comporta doveri e responsabilità. Cosicché non vi è necessità di ricorrere al rimedio estremo della sospensione della Convenzione europea per impedire l’indottrinamento, la propaganda e l’incitamento a commettere gli orrendi crimini che aggrediscono e insanguinano l’Europa. Non si rinuncia al carattere fondamentale delle nostre democrazie, non si fanno vincere le idee del nemico delle nostre libertà impedendo che esse siano usate per distruggerle. Si adempie anzi al dovere di difenderle. Su questo terreno non avrebbe ragione di esistere una separazione tra chi dà la massima importanza alle garanzie per tutti dei diritti e delle libertà fondamentali e chi invece le rifiuta o le sente con fastidio. Uniti, senza sensi di colpa, con la determinazione che meritano, i fondamenti delle democrazie liberali vanno difesi. Terrorismo. Comunità islamiche, la reazione che ancora non c’è di Sabino Cassese Corriere della Sera, 22 agosto 2017 C’è un grande assente nelle vicende - tra loro intrecciate - degli attentati terroristici islamici e del controllo statale dell’immigrazione: le comunità islamiche. Eppure i cittadini di origine o fede musulmana, che rappresentano circa il 7 per cento della popolazione dell’Europa (complessivamente, 49 milioni di persone, secondo stime recenti), sono danneggiati due volte dal terrorismo. Gli attentati producono, innanzitutto, negli Stati, una reazione di diffidenza nei confronti delle comunità islamiche già stabilite, una diffidenza che non agevola il dialogo interreligioso, la pacifica convivenza, l’integrazione. L’altra è una reazione di chiusura degli Stati a danno dei migranti appartenenti alla medesima comunità, che sarebbero interessati a entrare nei nostri Paesi. È noto, infatti, che gli immigrati non si muovono alla cieca, hanno sempre in tasca il numero telefonico di un parente, un amico, un correligionario, o uno sfruttatore, appartenente alla stessa comunità di origine. Dunque, gli attentati terroristici impauriscono i cittadini europei, ma danneggiano anche gli immigrati musulmani e coloro che aspirano a stabilirsi sul territorio europeo. L’Unione delle comunità islamiche d’Italia, la Confederazione islamica italiana, il Centro islamico culturale d’Italia ed altre organizzazioni islamiche, anche nell’ambito del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano, operante presso il Ministero dell’interno, hanno fatto passi interessanti. Hanno condannato le violenze, dialogato con le istituzioni, si sono impegnati a lottare contro il terrorismo e a collaborare con il ministero dell’Interno, stipulando prima un "patto di cittadinanza", poi un "patto nazionale", obbligandosi ad aderire ai valori e ai principi dell’ordinamento statale e a contrastare il radicalismo religioso. Ma le comunità islamiche potrebbero fare di più, in forme di autogoverno, per prevenire e impedire reazioni terroristiche? E i governi nazionali, nonché l’Unione Europea, potrebbero fare di più per stabilire rapporti con ordini religiosi e con comunità laiche? Gli uni e gli altri non dovrebbero svolgere un’azione educativa, pacificatrice, in modo che una parte della "rabbia musulmana" (sulla quale un grande esperto delle civiltà mediorientali, Bernard Lewis, ha scritto un ottimo libro, edito da Mondadori, qualche anno fa) possa sbollire? Non dovrebbero, se necessario, collaborare con le comunità nazionali ed europee, segnalando i focolai che tengono viva la rabbia e l’estremismo religioso? Conosco le obiezioni. Pur affratellati da un credo religioso, molti islamici vengono da comunità nazionali frammentarie, divise anche da modi diversi, talora opposti, di leggere il Corano. Il senso civico, il diritto di critica e la costruzione di un dibattito pubblico aperto al confronto tra opinioni diverse, anche in materia religiosa, sono il prodotto di lunghi anni di democrazia negli Stati europei, e non sono acquisizioni altrettanto diffuse nei Paesi di provenienza di molti immigrati. Gli attentati rispondono non solo a precetti religiosi contro i "miscredenti", ma anche a un senso di malessere proprio di minoranze non integrate in contesti nazionali diversi da quelli di provenienza. Le guide religiose (gli imam), quando non educano esse stesse all’odio, non sono tutte preparate a svolgere un’opera diretta alla integrazione pacifica, nel rispetto delle culture diverse a cui l’Europa si è abituata dopo le guerre di religione. Gli autori di attentati sono spesso cittadini di Stati europei, nati su suolo europeo, educati nelle nostre scuole, che parlano le lingue europee, e che tuttavia restano esposti a processi di radicalizzazione talora anche repentini e sommersi. Tutto questo aumenta le difficoltà dell’opera, ma non la impedisce. Così come, in molti Paesi (innanzitutto il Regno Unito), le comunità islamiche sono riuscite a guadagnare il riconoscimento di loro usi, pratiche, istituzioni, diritti, allo stesso modo, esse potrebbero stabilire forme e luoghi di "autogoverno", diretti sia alla formazione e alla integrazione, sia al controllo sociale delle persone devianti, educate alla violenza, piuttosto che al rispetto reciproco. Se, invece, continuano gli attentati per impaurire le comunità europee e sfidare gli Stati, si corre il rischio di aumentare le difficoltà della convivenza e di indurre gli ordini statali a difendersi, con conseguenze difficili da calcolare. Insomma, come è stato detto di recente da una autorevole rappresentante della cultura islamica, tocca ai musulmani essere protagonisti del rigetto della violenza. Migranti. Lo Ius soli e i professionisti della paura di Chiara Saraceno La Repubblica, 22 agosto 2017 Non bastava che gli sbarchi di massa di qualche mese fa avessero creato un clima ostile all’approvazione della norma sullo ius soli e ius culturae, provocando, con l’attivo sostegno dei professionisti della paura, un corto circuito tra i disperati disposti a ogni rischio pur di lasciare il loro Paese e i bambini e ragazzi figli nati qui da genitori lungo-soggiornanti regolari o che qui sono andati a scuola. C’è chi si è spinto fino a paventare che sarebbero sbarcate sulle nostre coste torme di donne incinte, al solo scopo di far nascere qui i loro figli, facendoli cosi diventare automaticamente cittadini italiani. Ora gli ultimi attacchi dell’Isis hanno servito su un piatto d’argento ai medesimi professionisti della paura e della malafede il corto circuito mentale e discorsivo tra ius soli e terrorismo. Non sono più solo Salvini e Meloni a equiparare la concessione della cittadinanza a chi è nato qui da genitori lungo-residenti regolari o qui è andato a scuola, a una apertura all’ingresso di terroristi. Anche Berlusconi, nel criticare l’impegno (in parte ritrattato) di Gentiloni a porre la questione al Senato, ha affermato che si tratta di una manifestazione di irresponsabilità a fronte del rischio di terrorismo. E Renzi, invece di impegnarsi a denunciare capillarmente e sistematicamente questo corto circuito, di fatto lo avvalla, nascondendosi dietro le resistenze di Alfano e le paure dei cittadini. Di questo passo il, moderatissimo, ius soli all’italiana verrà ancora una volta rimandato a un’altra legislatura, senza che perciò la lotta contro il terrorismo islamico faccia un passo avanti in più. Anzi, potrebbe farne uno indietro, nella misura in cui si sta creando una generazione di giovani che non ha posto da nessuna parte: né nel paese di origine dei genitori né in quello in cui sono nati e cresciuti ed è spesso l’unico che conoscono. Non è impensabile che, non vedendosi riconosciuta altra identità sociale che quella di estranei non voluti, alcuni di loro vadano alla ricerca, o siano affascinati, da una appartenenza e identità vicarie, antagoniste, fino al terrorismo. Le promesse di rivoluzioni palingenetiche e/o di vendette per le storture della società hanno un grande fascino per chi è giovane e insoddisfatto, come dovremmo sapere bene noi italiani. È successo negli anni di piombo a coetanei italianissimi degli attuali terroristi, passati dalla protesta legittima nelle fabbriche e nelle scuole al terrorismo rosso e nero. Le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna ci ricordano che non è solo l’Islam fondamentalista degli "stranieri" a motivare il terrorismo, il colpire "nel mucchio" e nei luoghi più frequentati. Per non parlare delle stragi di mafia con la loro scia di "ammazzati per caso, o per sbaglio". Ricordo questo, ovviamente, non per giustificare o relativizzare il terrorismo islamico, e neppure per fare di ogni erba un fascio. Sono perfettamente consapevole che il terrorismo islamico rappresenta oggi un rischio gravissimo, non solo perché può essere attivato in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, ma anche perché è un’intera società e modo di vivere che vengono percepiti, e attaccati, come nemici. Proprio per questo occorre non cadere nella stessa logica, bensì evitare i cortocircuiti di cui sopra. Altrimenti la perversa visione dicotomica - "noi" contro "loro" - del terrorismo islamico avrà vinto anche nelle nostre teste. Non tutti i migranti sono musulmani. Non tutti i musulmani sono fondamentalisti islamici aperti alla propaganda terrorista. Non basta essere cittadino italiano autoctono per condividere i valori di libertà, democrazia, uguaglianza tra uomini e donne, rispetto dell’altro. Non basta neppure per essere esente dal rischio di terrorismo. Quei valori, e la capacità di esprimere un conflitto o un disagio senza annullare l’altro/a, si apprendono e convalidano quotidianamente in famiglia, a scuola, nelle relazioni sociali. Un apprendimento e una modalità di relazioni che ci riguardano tutti e a tutti i livelli, migranti e autoctoni, semplici cittadini e governanti (o aspiranti tali), e che, se non realizzate adeguatamente, possono e devono essere oggetto di sanzioni. La legge sulla cittadinanza, con la sua estrema moderazione e i suoi requisiti stringenti non aumenterebbe in nulla il rischio di terrorismo (e neppure di "sottrarre risorse agli italiani"). Al contrario, immetterebbe esplicitamente e strutturalmente i "nuovi cittadini" nel circuito dei doveri e delle responsabilità, oltre che dei diritti, che discendono dal far parte della nostra società. Migranti. Cittadini dalla nascita. Bergoglio chiede Ius soli e accoglienza di Luca Kocci Il Manifesto, 22 agosto 2017 Nel messaggio per la Giornata del migrante anche la proposta di corridoi umanitari e no alle "espulsioni collettive e arbitrarie". Quattro i verbi chiave, che danno il titolo al testo: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Sì allo Ius soli, no ai centri di detenzione per gli immigrati irregolari. Il messaggio di papa Francesco per la prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (14 gennaio 2018), diffuso ieri dalla sala stampa vaticana, sembra un vero e proprio programma politico sulla questione delle migrazioni che, per restare al nostro Paese - ma il messaggio è rivolto a tutti gli Stati, non solo all’Italia -, è agli antipodi dalle ricette razziste dei fascio-leghisti alla Salvini e da quelle dei populisti a 5 stelle. Ma il messaggio di Bergoglio è anche molto distante dalle proposte securitarie del Pd di governo area Minniti, recentemente benedette dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana, solitamente più attenta agli equilibri e ai rapporti di forza e di potere interni che alla profezia evangelica. "Nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita", si legge nel messaggio che approva lo Ius soli. E boccia i Cie e gli altri centri di reclusione per i "clandestini": "In nome della dignità fondamentale di ogni persona, occorre sforzarsi di preferire soluzioni alternative alla detenzione per coloro che entrano nel territorio nazionale senza essere autorizzati". "Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi" è l’incipit (tratto dal libro biblico del Levitico) del messaggio di Francesco che ricorda come la "preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dai disastri naturali e dalla povertà" - un "segno dei tempi" - ha caratterizzato il proprio pontificato fin dall’inizio, con la visita a Lampedusa l’8 luglio 2013, quattro mesi dopo l’elezione. Quattro i verbi chiave, che danno il titolo al messaggio: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. "Accogliere - si legge nel messaggio di Bergoglio - significa innanzitutto offrire a migranti e rifugiati possibilità più ampie di ingresso sicuro e legale nei Paesi di destinazione", tramite l’incremento e la semplificazione della "concessione di visti umanitari e per il ricongiungimento familiare", "programmi di sponsorship privata e comunitaria" e "corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili" (un progetto, quello dei "corridoi umanitari", che da tempo portano avanti la Comunità di sant’Egidio e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia). "Non sono una idonea soluzione le espulsioni collettive e arbitrarie di migranti e rifugiati, soprattutto quando esse vengono eseguite verso Paesi che non possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali", prosegue papa Francesco, il quale afferma un principio che suonerà quanto mai impopolare in tempi di ansie da terrorismo: "Anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale". Poi "proteggere" i "diritti e la dignità dei migranti e dei rifugiati, indipendentemente dal loro status migratorio". Una protezione che, scrive il papa, "comincia in patria" - ma che è ben diversa dal ritornello "aiutarli a casa loro" -, fornendo "informazioni certe e certificate prima della partenza" e prevenendo le "pratiche di reclutamento illegale"; e prosegue "in terra d’immigrazione, assicurando ai migranti un’adeguata assistenza consolare, il diritto di conservare sempre con sé i documenti di identità personale, un equo accesso alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari personali, la garanzia di una minima sussistenza vitale", "la libertà di movimento nel paese d’accoglienza, la possibilità di lavorare e l’accesso ai mezzi di telecomunicazione". Sono da proteggere in particolare i "minori migranti" ai quali "va assicurato l’accesso regolare all’istruzione primaria e secondaria", "la permanenza regolare al compimento della maggiore età e la possibilità di continuare gli studi". Una sorta di Ius culturae. Infine "promuovere" (la libertà religiosa, la formazione, l’inserimento socio-lavorativo) e "integrare". "L’integrazione - aggiunge il pontefice - non è un’assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale", ma un processo di "conoscenza reciproca" e di costruzione di società e culture "multiformi". Un processo che, conclude papa Francesco, "può essere accelerato attraverso l’offerta di cittadinanza slegata da requisiti economici e linguistici e di percorsi di regolarizzazione straordinaria per migranti che possano vantare una lunga permanenza nel Paese". Migranti. Per il Papa l’integrazione è il processo chiave di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 22 agosto 2017 Papa Francesco parla dei migranti con un linguaggio non all’unisono della gran parte dei governi europei. Soprattutto di quanti considerano la chiusura come difesa dell’identità cristiana e nazionale. Non sono nuove le accuse al Papa di difendere i "dannati della terra", ma di ignorare le ragioni degli Stati. Il Papa, da parte sua, è convinto che le migrazioni siano un fenomeno epocale da gestire con umanità e lungimiranza: "accogliere, proteggere, promuovere e integrare" - sono i quattro verbi attorno a cui ruota il messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2018, presentato ieri. Il testo richiama il valore della persona-migrante e i suoi diritti riconosciuti in sede internazionale, come quando scrive: "Non sono una idonea soluzione le espulsioni collettive e arbitrarie di migranti e rifugiati, soprattutto quando esse vengono eseguite verso paesi che non possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali". Qui parla la Santa Sede, tutt’altro che utopista, ma consapevole del diritto internazionale. Molte le proposte in un testo meditato: i "programmi di sponsorship privata e comunitaria" e i "corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili" (che l’Italia ha aperto per prima in Europa per i siriani); i "visti temporanei speciali" per chi fugge dalla guerra, come i profughi siriani e iracheni spesso senza statuto nei paesi vicini. Il Papa chiede l’apertura di vie legali, unica soluzione, tra l’altro, per combattere la mafia degli scafisti. Il suo non è solo invito "cristiano" all’accoglienza, ma una visione dell’Europa in crisi demografica. Francesco, ad aprile, ha usato un’espressione forte: "Siamo nella civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti: questo si chiama suicidio". Jorge Bergoglio è un argentino, memore della formazione del suo paese nel crogiolo dei migranti. Ha detto in un importante discorso all’Università Roma Tre: "Le migrazioni non sono un pericolo, sono una sfida per crescere. Lo dice uno che viene da un Paese dove più dell’80% sono migranti, un Paese meticcio". Guardando la storia europea, il Papa ha notato come questa si sia sviluppata nel crogiuolo etnico: "Io mi domando: quante invasioni ha avuto l’Europa?". Nel pensiero di Francesco, l’integrazione è il processo chiave. Insiste, nel messaggio, sul "diritto alla nazionalità dalla nascita" per i figli di migranti, che favorisce l’integrazione; invita a processi di regolarizzazione per i lungo-residenti per evitare ghetti di marginali. L’allargamento dei ricongiungimenti familiari è un passaggio decisivo in questa prospettiva. Sull’immigrazione si aprono ogni giorno nuove polemiche e dibattiti emotivi. Poche le risposte reali. In questo messaggio, se ne trovano alcune per uscire da uno stallo, che produce illegalità e disumanità. Il Papa è soprattutto convinto che gli interessi di chi bussa alle porte dell’Europa non siano contrari a quelli degli europei e sfida a capirlo meglio: "Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga" - ha detto in una conferenza stampa. Il messaggio esprime lo sguardo di chi vede la storia sul "lungo periodo". Infatti si avverte l’angustia delle prospettive nazionali di fronte a un fenomeno così vasto, che invece sarebbe una grande occasione per far maturare una politica europea. L’allarme dei pionieri dell’intelligenza artificiale: "bisogna fermare i robot-soldato" di Vittorio Sabadin La Stampa, 22 agosto 2017 La richiesta viene da 116 esperti, tra i quali ci sono nomi di spicco come il fondatore di Tesla Elon Musk e Mustafa Suleyman creatore di DeepMind Technologies. Bisogna fermare i robot che uccidono prima che sia troppo tardi e non c’è molto tempo per farlo. La richiesta, dai toni estremamente preoccupati, viene da 116 pionieri di robotica e di intelligenza artificiale, tra i quali ci sono nomi di spicco come il fondatore di Tesla Elon Musk e Mustafa Suleyman creatore di DeepMind Technologies. Le stesse persone che nel mondo progettano e costruiscono robot sempre più sofisticati hanno inviato alle Nazioni Unite un appello perché i paesi della Terra trovino un accordo per bandire le macchine che uccidono. Dopo l’invenzione della polvere da sparo e quella delle bombe nucleari la storia della guerra è oggi a una nuova svolta, la più pericolosa. Non solo i robot potrebbero ribellarsi agli ordini, come in un film di Hollywood: il loro impiego potrebbe favorire lo scoppio dei conflitti invece che evitarlo e l’industrializzazione della guerra causerebbe milioni di vittime. I 116 ricercatori di 26 paesi hanno reso pubblica la loro lettera in concomitanza con l’apertura a Melbourne della conferenza mondiale sull’intelligenza artificiale e chiedono che le macchine che uccidono rientrino nella convenzione che già proibisce l’uso di armi chimiche e di laser accecanti. "Una volta sviluppate - scrivono nell’appello - le armi letali autonome permetteranno ai conflitti armati di essere combattuti in una scala più grande e a intervalli più veloci di quanto gli umani possano comprendere. Queste possono essere armi di terrore, armi che i despoti e i terroristi usano contro popolazioni innocenti e armi che un’operazione di hackeraggio può spingere a comportarsi in modo indesiderato. Non abbiamo molto tempo per agire, una volta che il vaso di Pandora sarà aperto, sarà difficile richiuderlo". Scienziati come Stephen Hawking e persone molto coinvolte nello sviluppo dell’intelligenza artificiale, come Bill Gates e Elon Musk, si sono espresse più volte contro i pericoli che lo sviluppo futuro delle macchine potrebbe rappresentare per la specie umana. Musk, in particolare, ha detto che quello che vediamo adesso è solo la preistoria dell’intelligenza artificiale e che ciò che ci aspetta in un periodo di tempo molto breve va valutato con molta attenzione. Ma a vederne i pericoli sono solo le persone che ci lavorano, mentre la gente comune ne apprezza per ora solo i numerosi aspetti positivi. Sarà comunque difficile ottenere da tutti gli stati del mondo un impegno comune contro l’intelligenza artificiale applicata alla guerra. Il Parlamento britannico ha respinto una legge in materia, sostenendo che bastano già quelle esistenti. Intanto, la marina americana ha varato la prima nave senza equipaggio, al confine tra le due Coree ci sono postazioni di mitragliatrici prive di soldati, in grado di sparare quando individuano movimenti sospetti, e Mosca sta lavorando a carri armati che si muovono e sparano da soli. Quando il mondo si deciderà a fermarli, potrebbe essere davvero troppo tardi. Egitto. I misteri del caso Regeni e gli attacchi a Trump di Sergio Romano Corriere della Sera, 22 agosto 2017 Ricostruendo il giallo del ricercatore ucciso, il "New York Times" ha anche messo a nudo le simpatie del presidente americano per il tiranno egiziano. Il lungo articolo di Declan Wash sul caso Regeni è stato pubblicato due volte: la prima sul magazine del New York Times e la seconda sulla edizione internazionale del grande quotidiano americano: una ripetizione che a molti lettori non è parsa strettamente necessaria. In Italia l’articolo, apparso mentre il governo Gentiloni annunciava l’invio di un nuovo ambasciatore nella sede lungamente vacante del Cairo, ha suscitato un interesse comprensibile. Gli italiani vogliono sapere se le loro autorità siano state sufficientemente energiche e scrupolose, si chiedono se il governo Gentiloni abbia chiuso un occhio per non guastare le relazioni politiche con un Paese che ha nella regione una importanza strategica, sospettano che gli interessi di qualche grande gruppo economico abbiano condizionato la politica nazionale. Ma è probabile che l’articolo non concerna soltanto l’Italia e anche questo aspetto dovrebbe incuriosire la nostra opinione pubblica. Conviene partire dalle fonti che hanno permesso al giornalista americano di ricostruire, per quanto possibile, la tragica vicenda del giovane studioso italiano. Molte sono locali. Walsh ha parlato con gli amici di Regeni e con i suoi interlocutori abituali, fra cui i sindacalisti dei venditori ambulanti e gli studiosi interessati alla sua tesi sul sindacalismo indipendente in Egitto. Ha intervistato poliziotti, diplomatici, rappresentanti della stampa egiziana. Qualcuno ha fatto supposizioni, ma nessuno è stato tanto esplicito quanto due "former officials" (ex funzionari) della amministrazione Obama. Il primo ha detto: "Avevamo prove incontrovertibili sulla responsabilità ufficiale egiziana"; e avrebbe aggiunto che di tutto questo, per desiderio del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, il governo Renzi era stato informato. Il secondo ha detto a Walsh che le autorità americane non sapevano chi avesse dato l’ordine di catturare Regeni e, presumibilmente, di ucciderlo. Ma sul coinvolgimento nella vicenda del vertice egiziano "non avevano alcun dubbio". Chi sono i due "former officials"? Walsh non ne rivela il nome (comprensibile), ma dalla lettura dell’articolo sembra lecito presumere che appartenessero alla Cia o a un altro servizio di informazioni americano. Può darsi che fossero vecchie conoscenze dell’autore dell’articolo e volessero aiutarlo a fare brillantemente il suo mestiere. Ma i servizi, generalmente, non fanno indiscrezioni se non quando hanno interesse a farlo. Nell’etica dell’intelligence (anche le spie hanno la loro morale) esistono due esigenze, non sempre facilmente compatibili. Devono vantare successi e dimostrare, anche per ragioni di bilancio, che la loro organizzazione è indispensabile alla sicurezza della nazione. Ma devono contemporaneamente guardarsi dal dare qualsiasi informazione sulla fonte delle notizie di cui sono possesso e sulle loro complicità locali. Le fonti sono il più prezioso dei patrimoni, il bene che un servizio segreto, di regola, non condivide nemmeno con le proprie autorità governative. Riletto alla luce di queste riflessioni, l’articolo sembra concernere il governo egiziano molto più di quanto concerna il governo italiano. Il ritratto dell’Egitto è disastroso. Secondo Walsh le tre principali agenzie egiziane di sicurezza hanno stazioni televisive, controllano un gruppo parlamentare, decidono dove passa la frontiera fra il lecito e l’illecito, sono molto attive nel mondo degli affari, possono sbarazzarsi di un avversario chiudendolo in un carcere o impedendogli di trasferirsi all’estero. Sarebbero responsabili di 1.700 "desaparecidos" e di esecuzioni "extra giudiziali". Nulla di sorprendente, sembra dire implicitamente l’autore, in un Paese dove le forze di sicurezza, due settimane dopo la elezione del maresciallo Al Sisi alla presidenza della Repubblica, hanno eliminato in una sola giornata 800 membri della fratellanza musulmana. Ma non è forse Al Sisi lo stesso uomo che pochi mesi fa, il 3 aprile 2017, è stato calorosamente accolto alla Casa Bianca da un presidente degli Stati Uniti che lo ha sommerso di lodi e ha detto al mondo: "Siamo d’accordo su tante cose"? Non è impossibile che i "former officials" si siano serviti dell’articolo per denunciare le simpatie autoritarie di un uomo che preferisce dialogare con i tiranni piuttosto che con i rappresentanti delle democrazie. Il sospetto sarebbe meno giustificato se il mondo della comunicazione americano, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, non fosse diventato un campo di battaglia in cui l’arma preferita è quella delle indiscrezioni e delle notizie che giungono ogni giorno, senza paternità, sui tavoli delle redazioni. Abbiamo creduto che l’articolo del New York Times parlasse principalmente di noi. Forse parlava anzitutto di Donald Trump. Germania. Fabio, 47 giorni di galera a 18 anni. Gli appelli a Bruxelles e a Roma di Roberta Polese Corriere del Veneto, 22 agosto 2017 Il feltrino arrestato alle proteste al G20 di Amburgo. "Liberatelo". Il caso finirà al Parlamento Europeo e anche Amnesty International accende i riflettori sulla situazione di Fabio Vettorel, feltrino da poco 18enne arrestato 47 giorni fa ad Amburgo, dov’era andato a protestare contro il G20 insieme ad altre migliaia di giovani provenienti da tutto il mondo. "Presenterò appena possibile un’interrogazione per sapere se ci sono effettivamente le condizioni per far restare Fabio in carcere ad Amburgo spiega Isabella Da Monte, europarlamentare del Partito Democratico - Ho parlato a lungo del caso con Laura Puppato (senatrice Dem, Ndr) e, stando a quello che sappiamo, non sembra ci sia ragione perché questo ragazzo non possa essere ammesso a una misura restrittiva più lieve rispetto al carcere. Chiederemo alla Germania di risponderci". E ora si stanno muovendo anche le associazioni in difesa dei diritti umani perché la permanenza di Fabio nelle carceri tedesche non appare giustificata nemmeno da un’accusa pesante: il ragazzo, incensurato, si trovava al G20 per protestare insieme a migliaia di altri giovani ed è accusato dalla polizia tedesca di disturbo della quiete pubblica e resistenza a pubblico ufficiale, accusa che peraltro coinvolgeva anche l’amica Maria Rocco di Cesiomaggiore, scarcerata 15 giorni fa e altre 50 persone già ammesse ai domiciliari pochi giorni dopo l’arresto. Il portavoce per l’Italia di Amnesty International chiede che Fabio venga scarcerato immediatamente e prende una posizione critica nei confronti dell’autorità giudiziaria tedesca. "Le dichiarazioni di fonte giudiziaria riportate dal Corriere del Veneto circa le "tendenze violente" di Fabio Vettorel, determinate da un suo presunto "gene criminale" sono gravi e inaccettabili - dice Riccardo Noury di Amnesty Italia - Sono un’altra spia dell’atteggiamento discriminatorio col quale sono stati trattati gli stranieri arrestati ad Amburgo. Amnesty International Italia auspica che la vicenda di Fabio Vettorel possa chiudersi velocemente e positivamente e confida che all’impegno del console italiano ad Hannover possa affiancarsi un’efficace azione della Farnesina". Del caso si sta occupando anche la senatrice Dem Laura Puppato che ha presentato una interrogazione al ministero degli Esteri per chiedere quantomeno l’ammissione del giovane alla detenzione domiciliare nella sua cittadina d’origine, Feltre. "Fabio, arrestato quando aveva ancora 17 anni, è un giovane incensurato - spiega Puppato - l’accusa di un presunto gene criminale che lo avrebbe indotto a disobbedire alle leggi tedesche è un’assurdità". Venezuela. Mons. Sequera: a Puerto Ayacucho uccisi 37 detenuti, massacro pianificato agensir.it, 22 agosto 2017 "Queste persone sono state massacrate in modo pianificato": lo ha detto mons. Jonny Eduardo Reyes Sequera, vicario apostolico di Puerto Ayacucho (Venezuela), commentando il massacro di mercoledì scorso nel carcere di Puerto Ayacucho dove sono morte 37 persone durante l’intervento di un’unità antisommossa della polizia venezuelana nel carcere di Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas, nel sud del Paese. La stampa locale aveva informato che prima dell’intervento armato, un gruppo di detenuti aveva preso il controllo del carcere. "Qui parliamo di una tragedia grave, perché sono vite umane, perché quando si pagano gruppi armati per andare ad ammazzare la gente, è una cosa pianificata", ha ribadito Mons. Reyes, incontrando ieri la stampa locale, come riferito dall’agenzia Fides: "Non si tratta di polli o gatti, sono persone, e neppure sappiamo se sono solo 37. Sentiamo da tutti i telegiornali ciò che è accaduto a Barcellona, ma in Venezuela? Cosa succede veramente qui?". Bolivia. Dalla giustizia retributiva al "caffè corretto" di Arianna Badini piacenzasera.it, 22 agosto 2017 Il progetto Kamlalaf con l’associazione ProgettoMondo Mlal. Passando per El Alto, qualche giorno dopo, andiamo a visitare i ragazzi del carcere. Qalauma, "L’acqua che rompe la pietra", è nato nel 2003. In Bolivia, nonostante la legge vieti la convivenza di adulti e minori, non vi sono strutture detentive che prevedano per loro uno spazio specifico. I ragazzi quindi si trovano in carceri sovraffollate, in cui bisogna pagare per avere il proprio spazio e qualsiasi tipo di servizio anche di sussistenza, spesso dilaga la corruzione ed è impossibile garantire sicurezza. Vi sono leggi molto rigide e una burocrazia lenta, per cui molti di loro passano anni aspettando un processo che non arriverà mai. La giustizia è punitiva, non vi sono programmi di recupero o educazione per i detenuti e questo implica un tasso dell’80% circa di recidiva. Qalauma ospita molti ragazzi arrivati da San Pedro, il carcere principale di La Paz, ed è basato su un principio di giustizia retributiva. Nelle comunità indigene la giustizia retributiva è tuttora utilizzata per regolare le dinamiche interne: chi non sottostà ai doveri o fa torto a qualcuno viene condotto a risponderne in un dialogo comunitario, al termine del quale la parte lesa e il responsabile devono ritenersi soddisfatti delle decisioni prese. Spesso il risarcimento consiste in un lavoro utile per la comunità, ed è su questo principio che Qalauma punta ad evolvere. Un altro obiettivo è quello di contribuire al recupero sociale dei giovani attraverso l’accrescimento di competenze professionali e sviluppando la comunicazione nelle relazioni familiari e sociali. Per mostrarci i loro progetti, dopo aver visitato i vari settori del carcere in cui vivono i ragazzi, ci sono stati quindi presentati i laboratori di carpenteria, falegnameria, cucito, musica, il piccolo panificio e la biblioteca. I ragazzi ci spiegano la gestione degli spazi e i turni di lavoro, a fine giornata ci offrono i prodotti del panificio e ci troviamo a fare un ultimo dialogo con gli educatori e gli psicologi prima di prendere la lunga strada del ritorno. L’indomani partiamo in serata per Caranavi e arriviamo verso le 4 di mattina, il paese si trova a nord di La Paz, verso l’inizio della foresta amazzonica. Ci accompagna Giacomo, un ragazzo in servizio civile che si occupa del progetto che andremo a scoprire: Caffè Corretto. Il giorno successivo ci spostiamo verso la foresta per raggiungere la cooperativa Montaña Verde. Per accoglierci, i cafficoltori ci accompagnano nelle piantagioni e ci spiegano come raccogliere i chicchi di caffè, ci mostrano e ci fanno provare tutti i processi di produzione, spiegandoci nel frattempo i dettagli della loro coltivazione equosolidale e del commercio internazionale. Poi ci riuniamo davanti a un ottimo caffè appena tostato per parlare in maniera approfondita del progetto. L’idea nasce dalla volontà di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, in particolare dando accesso ad assicurazione sulla salute e pensione e sensibilizzando le persone sui loro stessi diritti. Inizialmente si concentra sulla creazione di piccole imprese, in Perù e Bolivia, puntando ad innovarle grazie all’entusiasmo e al forte impegno dei giovani che le gestiscono. Per quanto riguarda le pensioni, le soluzioni plausibili sono tre e vengono proposte ad ogni famiglia che deciderà a quale aderire. La prima opzione è quella di incrementare la pensione minima del governo (200 boliviani al mese, circa 25 euro) versando una quota mensile, soluzione in sé non è ottimale perché prevede grandi sacrifici economici per una pensione comunque mediocre. Un’altra possibilità è quella di indirizzare alle pensioni il premio Flo, previsto per le cooperative di Commercio equo solidale, che include un fondo economico per migliorare le condizioni della comunità. Il progetto di riforestazione, invece, consiste nell’utilizzare il terreno per piantare una gamma diversificata di alberi pregiati nel corso degli anni per poi trarne guadagno in maniera indipendente vendendone i prodotti. Ognuna delle tre possibilità ha pro e contro e le varie cooperative ne discutono in maniera attiva, in particolare gli adulti cercano di sensibilizzare i giovani sulla responsabilità delle prospettive future, iniziando a pretendere diritti e lavorando per l’espansione di questi anche a settori lavorativi e realtà differenti. Ora però ritorniamo verso La Paz: ci aspettano due giorni sul Titicaca, il lago più alto del mondo, condiviso con il Perù al confine nord occidentale. Afghanistan: Trump "più soldati, più attività antiterrorismo e ampie deleghe ai generali" di Francesco Semprini La Stampa, 22 agosto 2017 Il presidente delinea la strategia quadro degli Usa: "Diffondere numeri e tempi avvantaggia il nemico". Donald Trump delinea la strategia della sua amministrazione per l’Afghanistan e l’Asia centrale, definendo il quadro generale di azione che punta a chiudere una guerra in cui gli Stati Uniti sono coinvolti da quasi 16 anni. I pilastri del piano di intervento vengono individuati dal presidente americano nel concedere carta bianca e più poteri ai comandanti sul terreno senza fissare termini temporali, azioni più energiche contro le reti terroristiche terroristici, monito al Pakistan perché cessi di proteggere gli estremisti e al governo di Kabul per fare riforme perché "il nostro sostegno non è un assegno in bianco". L’inquilino della Casa Bianca illustra il "trump-pensiero" sull’Afghanistan in diretta tv il dalla base militare di Fort Myer, Virginia, in un prime-time blindassimo che, rara eccezione durante la sua presidenza, ha impedito ogni fuga di notizie. Eppure la sua mossa era stata anticipata da media ed esperti convinti che Trump annunciasse l’invio di 4 mila militari in aggiunta agli 8.400 già presenti nel Paese. Il presidente non snocciola numeri ma definisce il quadro di azione entro il quale avranno mano libera i suoi generali, a partire dal capo del Pentagono Jim Mattis. Lo stesso che a maggio si era esentato dall’assecondare il potere concessogli da Trump di aumentare il contingente di 3900 soldati. Il segretario alla Difesa aveva chiesto che la Casa Bianca definisse prima una strategia e questa è maturata lo scorso weekend a Camp David. Trump ripercorre il suo travagliato cammino verso la decisione annunciata ieri. "Il mio istinto era di procedere per il ritiro, e storicamente mi piace seguire i miei istinti, ma le decisioni sono molto differenti quando siedi dietro la scrivania dello studio Ovale", ha esordito Trump per giustificare la marcia indietro rispetto alle promesse elettorali, quando aveva criticato la guerra come un inutile spreco di soldi e soldati. Tanto da considerare, su consiglio dell’ex stratega Steve Bannon, un passaggio di consegne della missione ai contractor di Blackwater. Poi però "sono arrivato a tre conclusioni fondamentali". La prima è che "un ritiro frettoloso creerebbe un vacuum che i terroristi, incluso l’Isis e Al Qaeda, riempirebbero subito, proprio come successe prima dell’11 settembre". La seconda è che "la nostra nazione cerca un esito onorevole e durevole, degno dei tremendi sacrifici che sono stati fatti", la terza che "le minacce alla sicurezza che fronteggiamo in Afghanistan e nella più ampia regione sono immense". Il nuovo approccio trumpiano ha come discriminante le condizioni da raggiungere e non le scadenze temporali. "È controproducente annunciare le date in cui intendiamo cominciare, o finire, le operazioni militari. Non parleremo di numeri di soldati o dei nostri piani per ulteriori attività militari". Ma il limitarsi alla strategia quadro è anche la prerogativa del presidente convinto nella necessità di delegare ai tecnici il suo riempimento. E in questo senso la quota 4 mila potrebbe essere ufficializzata a breve da Mattis stesso. Col "surge" ci sarebbe un raddoppio del numero di comandi operativi Usa e 460 militari americani sarebbero addestratori il cui compito è di formare le forze speciali afghane. Questi corpi sono costituiti ora da 21 mila uomini, il 7% del totale delle forze di sicurezza e difesa del Paese, ma conducono tra il 70 e l’80% dei combattimenti. La strategia allora vedrebbe da una parte un rafforzamento del contingente Usa per assistere le forze afgane ad arginare la perdita di terreno degli ultimi anni. Dall’altra a rafforzare le disponibilità delle forze speciali e agevolare l’inversione del trend negativo. Ferme restando le attività di antiterrorismo per le quali il presidente vuole espandere "il potere per le forze armate Usa per colpire i terroristi e i network criminali" e massimizzare "le sanzioni e altre misure finanziarie e legali contro le reti del terrore". Sono infatti due le missioni Usa in Afghanistan, Resolute Support a guida americana ma sotto il cappello Nato. Prevede attività di "train, advise and assist" delle forze nazionali. Poi ci sono le attività antiterrorismo, condotte per lo più con forze speciali impegnate in attività di contrasto di Al Qaeda, Isis (nella provincia orientale di Nangharar) e altre affiliazioni terroristiche. Trump ha quindi rivolto un monito al Pakistan, accusandolo di offrire "paradisi sicuri" ai terroristi. Ma anche Kabul è stata messa in guardia: "L’America lavorerà con il governo afghano finché vedrà determinazione e progresso. Il nostro impegno tuttavia non è illimitato, e il nostro sostegno non è un assegno in bianco". Trump ha infine ribadito che "gli Usa non useranno più il loro potere militare per costruire democrazie in terre lontane, o per provare a ricostruire altri Paesi a loro immagine, quei giorni sono finiti". "Invece - ha aggiunto - lavoreremo con gli alleati e i partner per proteggere i nostri interessi comuni. Non chiederemo ad altri di cambiare il loro modo di vivere. Ci guiderà un realismo di buoni principi". La "good realpolitik" di Trump coinvolge quindi gli alleati della Nato che già schierano oltre 5 mila militari in Afghanistan, tra cui poco più di 900 italiani. Non è escluso che Trump chiederà uno sforzo suppletivo anche agli alleati, nell’ambito di quel maggior contributo da sempre predicato dal presidente.