La morte viva di Francesca Valente francescavalentebl.wordpress.com, 21 agosto 2017 È la terza volta che visito il carcere Due Palazzi di Padova, anche se è un’esperienza che non mi appaga mai del tutto. Eppure da più di un anno entro quasi tutti i sabati pomeriggio nella Casa circondariale di Belluno (Baldenich) come volontaria dell’associazione Jabar (jabar.altervista.org) per tenere un corso di informatica a gruppetto di detenuti. Ma il Due Palazzi è diverso. Là dentro ci sono i "morti viventi", gli ergastolani ostativi che usciranno dal carcere soltanto nel 9999, condannati con sentenza inappellabile al "fine pena mai". È la terza volta che li cerco. È la terza volta che li incontro. La prima è stata quattro anni fa durante un seminario organizzato appositamente per noi giornalisti in cui Ornella Favero, direttrice di "Ristretti Orizzonti" (ristretti.it) che non è soltanto la rivista del carcere padovano, ma è anche un luogo di affermazione dei diritti e delle istanze dei detenuti, ci ha redarguiti sulla nostra professione, parlando di linguaggi, di parzialità e di strumentalizzazione. In quell’occasione hanno parlato anche alcuni carcerati, tra cui l’assassino della moglie, che ancora con la fede al dito ha descritto lo strazio provato nel vedere la donna soffrire e ammalarsi di depressione, fino a chiudersi in casa e in se stessa, del tutto incapace di uscire dal vortice dove era stato risucchiato anche lui. La seconda volta è stata il 22 maggio del 2015 nell’auditorium, dove sono entrata in ritardo finendo per sedermi proprio in cima ai gradoni, in mezzo a un gruppo di uomini che non sapevo essere ergastolani. E alla risposta "noi non abbiamo il permesso di usare internet" ho capito che l’occasione era troppo preziosa per non essere colta. Ricordo a malapena i volti dei relatori, ma gli sguardi dei detenuti con cui ho parlato quelli sì, me li ricordo ancora. Li ho ritrovati venerdì 20 gennaio 2017 (non tutti, visto che nel frattempo Carmelo Musumeci ha ottenuto la semilibertà e fa volontariato in una struttura al servizio di persone con disabilità, nella palestra dell’istituto, dove mi sono mescolata ai soliti giornalisti, ai cittadini ma soprattutto ai familiari, alle mogli, ai figli, ai fratelli e alle sorelle di quelle presone che da lì, quasi sicuramente, non usciranno mai più. Suela Muca, il sogno della magistratura e il desiderio del riscatto - Tra il pubblico noto quasi subito una ragazza alta, con una bella corona di capelli biondi pettinati da un cerchiello all’indietro e ben fissati alla testa. Siamo in poco meno di 600 persone e basta poco per addocchiarsi. Con stupore ascolterò anche la sua voce nella seconda parte del convengo, perché su invito di Ornella prenderà la parola per raccontare la sua storia di figlia ma anche di donna piena di difficoltà ma anche di orgoglio e di riscatto, un vanto per essere una ragazza così giovane. "Io mi vergognavo come una matta della mia condizione, non ne parlavo con nessuno e mi inventavo sempre un sacco di scuse per non dire dove fosse mio padre", racconta senza vergogna di fronte a quella platea in pendente ascolto, "ma grazie alle persone che ho conosciuto durante il mio percorso ho trovato il coraggio di non farne un mistero, ma un vanto. Ecco dove ho trovato la forza per essere qui oggi di fronte a voi". In una telefonata di qualche giorno dopo, mi racconterà: "Mio padre è entrato in carcere 20 anni fa, quindi se io ne ho 23 fai un po’ tu i conti. La cosa più difficile da affrontare è stata l’assenza della figura maschile in casa, un trauma che mi ha segnata nella mia crescita di donna. Ho iniziato a entrare in carcere che avevo 5 anni e ho girato tutta Italia, da Novara a Cuneo, a Sulmona, a Napoli, fino a Padova". Lei vive con la mamma ad Alessandria, quindi ogni volta andare a trovare il papà voleva dire imbarcarsi in un bel viaggio. I ricordi sono talmente dolorosi che non è difficile evocare i particolari più nitidi: "Ci facevano togliere le scarpe, quando mi toglievo la cintura mi cadevano i pantaloni perché ero troppo piccola e non avevo ancora le forme. A mia madre infilavano le mani nel reggiseno per controllare che non ci avesse nascosto nulla. Io non potevo masticare la chewingum né tenere un elastico al polso, se ce l’avevo dovevo sempre usarlo per legarmi i capelli. Quando lo vedevo i primi anni non era mai bello, perché era in isolamento e i colloqui, oltre che essere rari (è concesso vedersi soltanto una volta al mese) erano anche brutti, perché ostacolati da un muro di vetro. Una volta ha provato a prendermi in braccio ed è stato ripreso in malo modo dalla polizia giudiziaria. Fortuna che abbiamo incontrato anche poliziotti rispettosi e umani, cosa non scontata in contesti come quelli". All’inizio la condanna era a trent’anni, che poi sono diventati 27. Oramai non manca molto alla liberazione di papà Dritan. Un sollievo? "Il vero problema è che ci conosciamo pochissimo. Per colpa dei trasferimenti, della distanza e delle telefonate da 10 minuti a settimana non abbiamo mai avuto troppo tempo per capire che persone siamo. Per conoscermi mi ha fatto tante volte l’interrogatorio e non nascondo che a volte finiva per essere stressante. Nel momento in cui è potuto venire a casa da noi ci è apparso come una persona estranea, tanto che per incompatibilità caratteriale i miei genitori hanno deciso di separarsi. Non è un caso che gli ex detenuti vengano abbandonati dalle famiglie, ma non tanto per quello che hanno fatto, quanto per l’impossibilità a mantenere i rapporti e gli affetti, a tenere vivo il sentimento della pazienza e dell’accoglienza. Io sono felice che uscirà, ma non sarà mai come sarebbe stato averlo libero quando ero ancora piccola. Noi comunque ci sentiamo sempre e c’è affinità al massimo. Mio padre è una persona molto intelligente e nelle poche volte in cui è venuto a casa mi ha insegnato tanto, come a essere più attenta e acuta, soprattutto nell’ascoltare la televisione". Suela studia Giurisprudenza e sogna di diventare un Magistrato, ma non tanto per quel che è accaduto al padre, che lei responsabilizza molto, quanto per "applicare la legge alla perfezione, così come sto imparando all’università. A mio padre non è stato regalato niente, la sua pena l’ha scontata tutta e l’ha fatta scontare anche a noi. Io pagherò sempre per il suo errore perché non ho vissuto l’amore di un padre e questo mi porta a pretendere sempre il triplo di qualsiasi cosa. Sono sempre stata molto ambiziosa ma mai avrei pensato di arrivare fino a questo punto, anche per la nostra situazione familiare. Non era facile fare finta di niente, né portare sulle spalle un carico così pesante". Ma la strada, almeno quella, è tracciata. Giusy Torre, lo chock della verità e la lotta per l’indulgenza - Giusy parla quasi per ultima quel venerdì ma Ornella ci tiene, perché è arrivata apposta dalla Sicilia per raccontare del fratello Salvatore, condannato al "fine pena mai" all’età di appena 20 anni. "Mio fratello è finito in galera che era un ragazzino e come ragazzino la pena l’ha scontata tutta. Oggi ha 46 anni e per fortuna che si è buttato nello studio e nella scrittura, vincendo anche una serie di premi letterari di cui siamo orgogliosissimi. La cosa che ci pesa di più è ovviamente la distanza, che è una pena nella pena e ci impedisce di vederci spesso. Quando lo hanno spostato a Tolmezzo siamo stati 3 anni senza vederlo". Salvatore quel giorno a Padova non c’era perché era detenuto a Saluzzo. La famiglia aveva chiesto di poterlo incontrare al convegno ma non è stato possibile per motivi di "prevenzione", con ovvio stupore della sorella. "Ho compreso la gravità della sua pena quasi per caso, anche perché lui non ci aveva spiegato niente. Quando ho scoperto il significato di "ergastolo ostativo" ho avuto un crollo. Poi mi son detta che non potevo stare ferma e che dovevo fare qualcosa per mio fratello. Così ho deciso di metterci il nome e la faccia e ho iniziato a partecipare a incontri e a fare battaglie online contro il carcere a vita, a favore del riconoscimento della riabilitazione dei carcerati". Giusy gestisce anche una pagina Facebook a nome del fratello dove pubblica continue riflessioni e aggiornamenti. La forza sta anche nella squadra. La voce dei relatori - I partecipanti sono così tanti che non sempre prendo appunti. Queste sono le affermazioni che mi hanno colpita a tal punto da finire nel mio quadernetto. "La pena non sempre è propedeutica al reinserimento in società", afferma il direttore dell’istituto Ottavio Casarano in apertura ai lavori del convegno "Contro la pena di morte viva", che aggiunge: "Tutta l’Europa sta camminando verso l’abolizione dell’ergastolo, perfino la Slovenia ha punti di vista più innovativi". Tranne la Spagna, che l’ergastolo l’ha reintrodotto nel 2015, come segnala Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Che precisa anche come il suo non sia un "pensiero abolizionista, ma che l’intenzione del seminario è quella di recuperare il senso della pena detentiva", ed esorta: "Almeno si abolisca l’ergastolo ostativo. Almeno si dia spazio alla revisione della norma. I percorsi rieducativi sono l’essenza della pena. La finalità dev’essere il reinserimento sociale. Ma mentre lo Stato può abolire la libertà per la vita, al tempo stesso non può abolire la vita. Questa è un’aporia!". Sulla simil linea è il giurista Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale ed ex ministro della Giustizia, che denuncia il "paradosso dell’ergastolo, che la Consulta giudica "costituzionale" solo perché "non riveste i caratteri della perpetuità". Ma il carcere ostativo continua a esistere e continua a essere applicato, pur non avendo un’efficacia intimidatoria verso la criminalità organizzata. La semi ghettizzazione del 41bis contravviene alla tutela della dignità della persona", e quindi agli articoli 2 e 3 della Costituzione, tanto per cominciare. "Il carcere è diventato uno strumento di vendetta pubblica per evitare la vendetta privata". Pare però che si stia facendo avanti il principio di proporzionalità della pena: "Il nostro obiettivo dev’essere ottenere la giustizia riconciliativa". "La pena uccide la speranza di tornare alla libertà e punisce gli affetti", scrive Agnese, figlia di Aldo Moro, in una lettera. "La materia è incandescente, ma bisogna discuterne tanto in città quanto nei paesi. Il male va combattuto e le ferite di chi è vittima e artefice vanno curate". Anche Sabina, come Agnese, è orfana per colpa delle Brigate Rosse: lo è dal 1979, quando papà Guido Rossa è stato ucciso per aver denunciato le infiltrazioni brigatiste nella sua fabbrica. "Ho aspettato 23 anni per trovare il coraggio di parlare con l’assassino di mio padre, ma quando mi ha detto di non ricordare bene i dettagli di quel giorno, ho capito che l’attesa non era servita a nulla. Ho preteso la riscossione del mio debito morale nei suoi confronti e quando ho constatato il cambiamento di quella persona, sono stata la prima a segnalarlo al Magistrato di sorveglianza. Oggi lui è un uomo libero e io ritengo la libertà condizionale un atto giusto". Questo percorso l’ha segnata al punto che, una volta diventata deputata nel 2008 ha presentato un disegno di Legge per chiedere l’abolizione del "sicuro ravvedimento", chiedendo invece di dare il giusto peso alla rieducazione senza indagini psicologiche forzate, oltre che alla valutazione del rapporto tra i condannati e i parenti delle vittime. La proposta non è mai stata calendarizzata. Dopo la doverosa precisazione di Linda Arata, Magistrato di sorveglianza del Tribunale di Padova, che sostiene come la concessione dei benefici non sia "automatica, né scontata", ma necessiti di un percorso documentato fatto di "meriti", Favero annuncia la nascita a Padova della "prima rappresentanza seria delle persone detenute, che sarà una persona reclusa eletta democraticamente dai compagni per rapportarsi in modo diretto con la Direzione e rappresentare le istanze della sezione, proponendo idee e soluzioni per migliorare la vita detentiva". Stavolta non è Favero a strigliare la categoria, ma Renato Borzone, avvocato, responsabile dell’Osservatorio informazione giudiziaria delle Camere penali. "Non c’è un’attenzione critica alle vicende giudiziarie, visto che l’informazione è tendenzialmente colpevolista. L’asse tra stampa e accusa può incidere sensibilmente sulle vicende e sull’esito di un processo, nonostante la Magistratura lo neghi. Di carcere si continua a parlare poco e male. L’attenzione è alla quotidianità, mentre manca una riflessione critica. La stampa è prigioniera delle impostazioni accusatorie e delle paure della pubblica opinione". Proprio l’ex magistrato Gherardo Colombo sostiene che si debba "riconoscere la dignità delle persone a prescindere dai comportamenti episodici. Il sistema penale odierno non risolve il problema, ma lo enfatizza, secondo un concetto per cui la giustizia equivale con l’inflizione della pena e della sofferenza, piuttosto che con la riparazione e la consapevolezza. I diritti fondamentali che non confliggono con la pubblica incolumità vanno garantiti e tutelati". I dettagli che non ho dovuto appuntare - In quella folla di volti cupi e di piumini scuri noto quattro colori. Sono l’oro, il giallo, l’azzurro e il bianco. L’oro è il colore dei capelli della figlia di Guido Delisio, detenuto e membro della redazione di Ristretti Orizzonti che non riesce a staccarle gli occhi di dosso e il braccio dalle spalle. Il giallo è il colore dell’orologio che l’uomo seduto di fronte a me ha legato il polso. Quell’orologio segna come un metronomo gli abbracci che egli lancia ai due figli gemelli, seduti al suo fianco. L’azzurro è il colore dei tesserini che i visitatori portano appesi al collo, il lascia passare attraverso le sbarre per riportare alla libertà. Il bianco è il colore delle suole di gomma delle scarpe che indossano i detenuti. Sono candide perché non hanno mai battuto altre strade all’infuori dei corridoi di sezione. La mia attenzione si assopisce a più riprese, tranne quando sento la voce vera e viva, quella più toccante, dei familiari delle persone recluse. Sono tutte donne. Madri, figlie e sorelle che raccontano i dettagli di una pena scontata in casa, per strada, al supermercato, in chiesa, all’università. Una condanna che stanno espiando due volte, una dentro e una, più risonante, fuori le sbarre. Francesca, figlia di Tommaso Romeo, che ha 25 anni e da 25 anni non ha suo papà, sepolto vivo in carcere. Suor Consuelo, sorella di Demetrio Rosmini recluso da 26 anni "e 47 giorni" e che ha visto il suo cervello "appiattirsi durante il 41-bis". Suela, figlia di Dritan Muca, che della pena del padre ha imparato a farne un vanto. Giusy, sorella di Salvatore Torre, e Italia, sorella di Pasquale Zagari, che lottano da anni per permettere ai fratelli non tanto di uscire, quanto di vivere una pena dignitosa. Donne coraggiose, ferite, traumatizzate, tenaci, fragili, combattive, rassegnate, impotenti, sole, bellissime. Donne che muoiono ogni giorno che passa, perché ogni giorno muore insieme ai loro uomini. Allerta nelle carceri contro il proselitismo Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 A seguito dell’attentato di Barcellona e dell’attacco in Finlandia, un nuovo allertamento è stato diramato da parte dell’Amministrazione penitenziaria in un tutte le carceri per tenere sotto controllo forme di radicalizzazione dei detenuti e segnali sospetti in tal senso, e per prevenire e contrastare forme di proselitismo. Le carceri sono infatti uno dei luoghi a maggior rischio radicalizzazione. Attualmente i detenuti monitorati sotto questo profilo sono circa 420 e tra questi 45 sono detenuti in regime di alta sicurezza per reati di terrorismo. Superato il primo weekend dopo l’attentato in Catalogna. L’Angelus domenicale in piazza San Pietro è stato uno dei primi test-sicurezza a Roma dopo gli attacchi a Barcellona e in Finlandia, mentre in tutta Italia si rafforzano le misure. L’area del Vaticano è da mesi presidiata dalle forze dell’ordine e dai militari che stazionano con i blindati in alcuni punti chiave per sbarrare la strada. "Non abbiamo avuto nessuna evidenza. Non abbiamo incrementato le misure di sicurezza perché sono già molto forti. San Pietro é sempre protetta e Via della Conciliazione è chiusa al traffico", fanno sapere infatti dalla Santa Sede, dove l’ingresso in piazza durante gli eventi papali avviene solo da ingressi regolati e dopo controlli serrati, anche con metal detector. "Io non credo alla propaganda di alcuni siti islamici, ma sono consapevole che nessun Paese, neanche l’Italia, possa sentirsi al riparo dalla minaccia", sottolinea il premier Paolo Gentiloni. Il riferimento è alla minaccia rimbalzata via web, che indica l’Italia come "prossimo obiettivo" dell’Isis. Non è la prima del genere ed è al vaglio. "La minaccia continua e riguarda tutti", ammette Gentiloni, ma "i terroristi non ci costringeranno a rinunciare alla nostra libertà". Il premier ha parlato al meeting di Rimini. Questa 28esima edizione si è aperta con una visibile presenza di forze dell’ordine, anche con armi automatiche e giubbetto antiproiettile, e dissuasori stradali in cemento all’esterno. Quelle barriere che vengono posizionate anche in diverse città. Per prevenire azioni come quella compiuta sulla Rambla, si sta valutando una stretta dei controlli su camion e auto a noleggio con conducente. A Londra ci hanno già pensato e puntano a passare al vaglio le informazioni date dai clienti degli autonoleggio (inclusi nomi e indirizzi) per controlli incrociati con le liste di noti criminali. Si lavora sulla prevenzione anche nelle carceri, luogo a rischio radicalizzazione: l’Amministrazione penitenziaria ha diramato un allertamento in ogni sede su come individuare, prevenire e contrastare segnali sospetti e forme di proselitismo. Gli ultimi dati indicano in circa 420 i soggetti monitorati e 45 quelli detenuti in regime di alta sicurezza per reati di terrorismo. Che il clima sia cambiato lo racconta anche la cronaca. Quattro marocchini riaccompagnati alla frontiera non sono un episodio rilevante. Ma in questo caso a segnalare la situazione poco chiara alla polizia è stata una donna che ha notato i 4 in un’area di servizio nei pressi di Cecina, mentre parlavano e ridevano tra di loro: nella conversazione avrebbero fatto anche riferimento all’attentato di Barcellona. Giustizia, un regno in cui il delitto è merce di Luca D’Auria Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 Si è conclusa la carovana per la giustizia del Partito radicale con il supporto dell’Unione delle Camere penali, l’associazione degli avvocati penalisti. Hanno girato per la Sicilia sostenendo l’esigenza della riforma del diritto penitenziario e cioè del sistema di vita nelle carceri. Ma non solo. Ed è proprio su questo "altro" rispetto al tema carcerario che mi trovo in traumatico dissenso; mi riferisco alla separazione delle carriere tra giudici e pubblica accusa. Il dissenso è traumatico perché sono cresciuto con l’idea del sistema processuale accusatorio, dove la separazione è un fatto congenito al modello, e il mio attaccamento alla battaglie radicali e delle Camere penali è risalente. Ma non solamente credo che il tempo attuale non sia quello della separazione ma temo che questa scelta, oggi, sarebbe addirittura nefasta per il nostro processo. Siamo, come avrebbe detto Fichte, "nell’epoca della compiuta peccaminosità", dove la società ultra-capitalista ha mangiato lo schema classico di processo, con al centro il dibattimento ed il giudizio, a tutto favore di una totale ed assoluta mercificazione della vicenda delittuosa; la giustizia si è trasformata nel "crime" che altro non è che la sua versione da prodotto da banco in cui il bene ed il male non fanno differenza, ciò che conta, alla Baudrillard, è solamente la vertigine del fatto e la replica infinita della sua immagine, purché sia portatrice di un sentimento di attrazione merceologica e non certo il prologo per comprendere le modalità del giudizio. Il processo vero e proprio, tema centrale ai tempi dell’inquisizione e della ormai desueta giustizia mediatica, è stato nullificato. Conta solamente che tipo di attrattiva vertiginosa produce l’immagine emotiva di una vicenda. Su di essa non c’è più giudizio, né di bene né di male e questo perché il mercato non consente giudizi etici ma solo giudizi di vendibilità del prodotto. Trionfa esclusivamente la sua iper-realtà che è, ovviamente "persino meglio della realtà" (come recitava una canzone, "Even better than the real thing"). Complice primo di questa natura onnivora del mercato "da banco" della giustizia è la deflagrazione delle tecniche investigative che sottraggono terreno ai pubblici ministeri (divenuti un esercito di complemento della tecnica pseudo-scientifica; vittime essi stessi del mito risolutivo della tecnica, a prescindere dalla giustizia). I veri padroni della giustizia, a cui si contrappongono, in senso hegeliano, come servi, i magistrati e gli avvocati, sono i tecnici che gestiscono gli strumenti di accertamento quali la genetica e le intercettazioni. Costoro sono i sovrani del giudizio; decidono se una prova è ripetibile oppure no, se alla difesa si può lasciare un ruolo o va cancellata dalla dialettica. In buona sostanza: i tecnici decidono se la Costituzione ha ancora un senso oppure no. Il processo di oggi, apparentemente garantito dalla scienza, ma in realtà monopolizzato dalla tecnica che è servente alle esigenze di mercato del "crime", ha messo a morte i suoi principi (basta pensare al contraddittorio sulla prova) ritenendo che queste tecniche siano l’unica fede e l’unica salvezza. Anche a costo di rinnegare l’evoluzione culturale giuridica. È stato talmente ucciso il processo, con i suoi principi, che il Dna può anche essere invisibile, ma non più nel senso che le tecniche sono in grado di rilevarlo anche dove non si vede; ma che può essere catapultato nel processo come un risultato da prendere dogmaticamente senza che nessuno dei protagonisti della vicenda processuale abbia potuto valutarne i risultati. Non casualmente questa prova è quella che meglio supporta e rappresenta l’iper-realtà del mondo-merce della giustizia di oggi. Il fatto che il pubblico ministero, la difesa ed il giudice ricevano questi risultati come una merce "chiavi in mano", delegittimando il processo e rendendo questo un fantoccio, poco importa. In questo quadro, come detto, di "compiuta peccaminosità" della giustizia, dividere le carriere dei magistrati sarebbe un errore. Credo che sia necessario, al contrario, costruire una "coscienza di classe" tra tutti gli operatori forensi (giudici, accusatori ed avvocati) per ritrovare un’etica condivisa del processo, che sia in grado di contrastare la deriva attuale. Già la magistratura nel suo complesso aveva creato un fossato tra sé e l’avvocatura; se viene creata un’ennesima frattura si rischia un doppio, possibile, boomerang: che giudicanti e pubblici ministeri si sentano, come reazione, ancora più uniti (con il fascino del "nascosto" e del "trasgressivo") oppure che l’esercito dei pubblici ministeri si schiacci sempre più sui tecnici dell’indagine e divengano, anch’essi, garanti della compiuta peccaminosità della giustizia-merce. L’avvocatura, baluardo estremo della realtà desertificata del processo, dovrebbe farsi carico di questa esigenza sociale di ridare vita alla Costituzione e al codice di procedura penale che, in nome del prodotto-giustizia e della sua vertigine iper-reale, ha visto abbandonare i suoi principi. Addirittura le norme "di garanzia" e di civiltà giuridica sono diventate, da limite per l’Autorità a gestione del dissenso (processuale) per nullificarlo (il modo più semplice per togliere un diritto è quello di riconoscerlo ed al contempo renderlo una pura bandiera, senza nessuna effettività concreta). In tutto ciò, disgregare la magistratura e separarla dall’avvocatura, creando una lotta tra ultimi (perché, comunque, è la tecnica, nel suo segreto, che offre il "prodotto finito", condannando all’inutilità il processo) sarebbe un grave errore, un regalo assoluto alla giustizia trasformatasi in merce ed al cinismo investigativo dell’esercito dei magistrati d’accusa. Credo che l’avvocatura, in questo, dovrebbe fare un salto culturale, decolonizzando l’immaginario (Serge Latouche) secondo cui alcuni dogmi da sempre cavalcati siano realmente forieri di una buona novella. Frode in commercio non applicabile tra medico e paziente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2017 Cassazione, sentenza 39055 del 10 agosto 2017. Il paziente, a cui viene impiantata dal dentista una protesi di resina al posto di quella concordata in ceramica, non può far valere in sede penale la frode che scatta solo in ambito commerciale e non nel rapporto medico-paziente, in cui prevale lo scopo della cura. Il passaggio commerciale c’è, infatti, solo tra odontotecnico e odontoiatra e unicamente in quell’ambito, semmai, è configurabile il reato di frode in commercio. Al paziente non resta che far valere le sue rimostranze, ai fini del danno, in sede civile, perché la via penale lo può portare, come nel caso esaminato, a pagare le spese processuali. Il primo grado - La Corte di cassazione, con la sentenza 39055 del 10 agosto scorso, respinge il ricorso dell’uomo, rivolto a far condannare il camice bianco per frode in commercio e falso in scrittura privata (articolo 485 del Codice penale), quest’ultimo reato per avere fatto, nella stessa data, quattro preventivi diversi tra loro per importi e per materiali utilizzati. La tesi del ricorrente era stata accolta solo in primo grado. Il Tribunale aveva, infatti, condannato il dentista sia per la frode in commercio, in virtù dei differenti e meno "pregiati" materiali usati, sia per il falso nella scrittura privata. In primo grado il professionista era stato condannato a quattro mesi e 15 giorni di reclusione e a risarcire i danni al paziente, al quale era stata riconosciuta anche una provvisionale di 3mila euro. Un verdetto che era stato però ribaltato dalla Corte d’appello, il cui corretto operato è stato confermato dalla Cassazione. L’appello - I giudici di seconda istanza hanno escluso che la frode in commercio possa essere addebitata a un medico. La norma (articolo 515 del Codice penale) richiede, infatti, che l’agente operi nell’esercizio di un’attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico e non può essere estesa analogicamente all’attività medica. La Suprema Corte - Anche la Cassazione sottolinea che la disposizione serve a salvaguardare l’onesto svolgimento del commercio, e non a proteggere gli interessi patrimoniali dei singoli acquirenti. A verifica di ciò i giudici ricordano che è stata esclusa la rilevanza del fatto se l’acquirente non ha subìto un danno economico in conseguenza della consegna di una cosa diversa da quella pattuita. La specificità del bene giuridico tutelato impedisce, dunque, di ampliare l’ambito di applicabilità della norma ad attività diverse da quelle commerciali, anche quando vengono svolte professionalmente a scopo di lucro. E la professione di dentista, benché svolta a scopo di lucro, si caratterizza per il fine di cura dei pazienti e di salvaguardia della loro salute, diversamente dalle attività commerciali in cui il fine è lo scambio di merci dietro corrispettivo. In quest’ottica si può pensare che la frode in commercio sia ipotizzabile nel rapporto tra il medico e l’odontotecnico che fornisce la protesi, nel caso sia quest’ultimo a "ingannare" il professionista. Nulla da fare anche per il falso in scrittura privata, un reato ormai depenalizzato, ma che non poteva comunque essere contestato al medico. Il dentista aveva, infatti, firmato di suo pugno tutti i preventivi e se quanto scritto non corrispondeva al vero, si poteva provare solo il falso ideologico in scrittura privata: una condotta priva di rilevanza penale anche prima della depenalizzazione. Al paziente non resta che rassegnarsi al pagamento delle spese processuali. Cyberbullismo, ok all’ammonimento da parte del questore di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2017 Tra le novità della legge anche la misura di prevenzione dell’ammonimento del questore che, in concreto, potrebbe rappresentare un valido deterrente alla prosecuzione di condotte di cyberbullismo. La procedura può essere attivata dalla vittima, questa volta rappresentata dai genitori o dal tutore, ma anche da terze persone, purché non da una fonte anonima, fino a quando non sia stata presentata la querela o la denuncia. È infatti una misura di prevenzione amministrativa. Si espongono i fatti alla polizia o carabinieri i quali trasmettono poi gli atti al questore il quale convoca il minore autore del reato insieme ad almeno un genitore. Se il questore ritiene sussistente il fatto, assunte le informazioni e sentite le persone informate sui fatti, ammonisce oralmente l’autore dell’atto di cyberbullismo, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e a non divulgare il video che, ad esempio, per il momento circola soltanto su chat singole o di gruppo. È in vigore legge sul cyberbullismo - Il primo ammonimento è stato eseguito lo scorso 27 luglio dalla questura di Imperia, su istanza della madre di una quattordicenne, che ha ottenuto al rimozione di video erotici su Whatsapp che il fidanzato della minorenne minacciava di divulgare on line. Le segnalazioni devono essere attentamente vagliate, per evitare abusi dello strumento. La valutazione resta sommaria ma il provvedimento di ammonimento va adeguatamente motivato. Occorrerà allora descrivere analiticamente i fatti, indicare la relazione tra autore e vittima, eventuali testimoni, conservare le copie informatiche dei video o delle pagine web nonché documentare gli eventuali danni subiti. Più delicata la situazione nei casi dei reati procedibili d’ufficio, ai quali la legge estende la procedura di ammonimento, ovvero il trattamento illecito dei dati personali e le minacce aggravate. In questi casi, se durante l’istruttoria del questore o dei funzionari delegati emergeranno reati procedibili d’ufficio, questi avranno l’obbligo di comunicare i fatti all’autorità giudiziaria, essendo altrimenti configurabile il reato di omessa denuncia (articolo 361 Cp). In attesa dei protocolli delle questure, il problema sembra difficilmente superabile attraverso l’interpretazione letterale delle norme. Cyberbullismo, procedura sprint davanti al Garante - La legge, poi, non prevede un termine di durata massima dell’ammonimento né un’aggravante specifica, come previsto dall’omologo istituto introdotto dalla legge 38/2009 in tema di atti persecutori, nel caso l’ammonito non desista dalla condotta illecita. Tuttavia l’ammonito potrà chiedere la revoca della misura quando siano cessati i presupposti e il Tribunale per i minorenni potrà tenere conto di una eventuale prosecuzione del reato. In ogni caso gli effetti dell’ammonimento cessano al compimento della maggiore età. La legge non prevede l’obbligo di assistenza del difensore, ma la sua presenza è auspicabile, trattandosi di una misura che può avere conseguenze dirette e indirette sull’ammonito. L’istituto non si applica ai minori infraquattordicenni e quando la condotta non integra un reato. Contro il provvedimento di ammonimento si può ricorrere al Tar che valuterà legittimità e fondatezza dello stesso e, nel caso, disapplicarlo. Sia la parte offesa sia l’autore potranno quindi chiedere copia del verbale di ammonimento. Sequestro per mafia, no al fallimento per i vecchi debiti di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2017 Tribunale di Palermo, provvedimento del 15 giugno 2017. Un’impresa in amministrazione giudiziaria per un procedimento di prevenzione antimafia non si può considerare insolvente - e quindi essere dichiarata fallita - perché non paga i debiti contratti prima del sequestro. Prima di saldarli, infatti, occorre verificare che si tratti di debiti di buona fede. Lo afferma il Tribunale fallimentare di Palermo con una decisione del 15 giugno scorso (presidente D’Antoni, relatore Giammona). Il caso - La richiesta di fallimento della società in amministrazione giudiziaria totalmente sequestrata è partita da un’altra società e dal suo difensore, che avevano esposto crediti basati su un decreto ingiuntivo, sulla sentenza che aveva deciso sull’opposizione a quel decreto e sulla sentenza che decideva sull’opposizione al successivo atto di precetto. Stante la protratta inadempienza della società in amministrazione giudiziaria, ne veniva chiesto il fallimento. La sentenza - Il Tribunale ammette la possibilità che una società interamente sottoposta a sequestro possa essere considerata insolvente e quindi dichiarata fallita, come peraltro aveva già affermato la Cassazione con la sentenza 608 del 12 gennaio 2017. Tuttavia, nel valutare lo stato di insolvenza i giudici di merito tengono conto della particolare condizione che assumono i crediti nei confronti della società sequestrata se sono sorti prima del sequestro. Il credito originario vantato dalla società ricorrente nei confronti della società sequestrata, per il quale era stato emesso decreto ingiuntivo, si riferiva a un rapporto anteriore al sequestro, da accertare, quindi, secondo le regole del Codice antimafia (articoli 57 e seguenti del decreto legislativo 159/2011) quando il giudice delegato alla misura di prevenzione avrebbe fissato l’udienza di verifica dei crediti. In quella sede si sarebbe dovuta accertare la buona fede del credito, condizione indispensabile per poter effettuare il pagamento. Fino ad allora il mancato adempimento non si poteva considerare indice di insolvenza. Lo stesso doveva dirsi dei crediti che erano sorti nei contenziosi precedenti al sequestro, ai quali l’amministratore giudiziario nella qualità di rappresentante legale della società sequestrata non aveva partecipato. Il Tribunale di Palermo evidenzia però che la società in sequestro era stata parte del giudizio di opposizione a precetto ed era rimasta soccombente; per questo era stata condannata a pagare le spese del giudizio in favore dell’avvocato che le aveva anticipate. Si tratta, quindi, di un credito sorto dopo il sequestro, che non va sottoposto a verifica di buona fede e deve essere considerato prededucibile. Non è stato tuttavia pagato in base all’articolo 54 del Codice antimafia, perché oggetto di contestazione giudiziale, visto che la sentenza di condanna era stata impugnata dallo stesso amministratore giudiziario. Inoltre, emergeva un modesto ma costante utile di esercizio nella gestione svolta durante il sequestro. Per questo, i giudici respingono la richiesta di fallimento della società. Vendere borse taroccate non è reato se non crea danni alle case di moda di Nicola Pinna La Stampa, 21 agosto 2017 In Italia sono stati sequestrati 12 milioni di prodotti dall’1 luglio al 15 agosto. Il mercato non è in crisi. Anzi, d’estate gli affari vanno a gonfie vele e prendono il largo. La piazza in cui i prezzi sono più alti, e dove le trattative producono ricavi più alti, è la Costa Smeralda. Nelle spiagge intorno a Porto Cervo si vendono borsette contraffatte a 500 euro, orologi taroccati anche a mille. La bancarella dei prodotti falsi è sempre ricca e i sequestri si ripetono a ritmo quotidiano: 12 milioni di prodotti recuperati in tutta Italia dal 1 luglio al 15 agosto. Ma la vendita può non essere un reato. Tutto scritto in una sentenza del giudice monocratico di Tempio Pausania, quello competente sui reati compiuti nella zona della Costa Smeralda. La sentenza, che ora farà molto discutere, riguarda un sequestro compiuto in spiaggia dai vigili urbani di Olbia. Sotto accusa era finito un ambulante senegalese che era stato sorpreso dagli agenti con una ventina di borsette con marchio falso. All’udienza preliminare, però, l’accusa è caduta: caso archiviato. La vendita di oggetti taroccati, in questo caso, non è reato. Per una ragione molto semplice: il danno alle case di moda sarebbe stato irrisorio. "Il giudice ha applicato il principio della tenuità del reato, recentemente introdotto nel codice penale", spiega l’avvocato cuneese Enrico Martinetti, che ha difeso l’ambulante senegalese denunciato in Costa Smeralda. "Il giudice ha usato il buon senso, ritenendo che il modesto valore della merce sequestrata non provocasse danno economico alle griffe e quindi non integrassero gli estremi dell’illecito penale". I sequestri nelle strade e nelle spiagge, d’ora in poi, rischiano di rimanere impuniti. Napoli: sovraffollamento, oggi visita ispettiva nel carcere di Poggioreale Cronache di Napoli, 21 agosto 2017 Una delegazione questa mattina entrerà nelle celle e parlerà con i detenuti dopo le recenti proteste. Le porte del carcere di Poggioreale si aprono. Questa mattina ci sarà una visita ispettiva nella casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia. Si tratta di una verifica importante: servirà a testare la tenuta dell’impianto di via nuova Poggioreale, in particolare in chiave dì sovraffollamento. "Negli ultimi giorni abbiamo ricevuto segnali di tensioni nel carcere, con scioperi e battiture con pentole e utensili sulle inferriate - scandisce il presidente dell’associazione degli ex Detenuti organizzati napoletani. Pietro Ioia - i reclusi protestano per le condizioni e in particolare per il sovraffollamento di questi giorni". All’iniziativa parteciperanno anche Emilio Enzo Quintieri dei Radicali Italiani, il senatore Luis Alberto Orellana e i Giovani avvocati vesuviani. "Alle 9 e 30 passeremo in rassegna il reparto dell’alta sorveglianza, il padiglione Milano e il reparto San Paolo della medicheria, visiteremo le celle e parleremo con i detenuti - continua Ioia - dopo le carceri di Crotone, libo Valentia, Paola e Cosenza, saremo a Poggioreale, dove, attualmente, a fronte di una capienza di 1.500 posti disponibili (alcuni Padiglioni sono chiusi per ristrutturazione), sono ristretti 2.109 detenuti, 280 dei quali stranieri (609 detenuti in esubero)". Il carcere di Secondigliano ospita 1.280 detenuti (la capienza massima e 1.026), mentre il complesso a Poggioreale accoglie 2,109 persone. ma ne può contenere 1.624 (un surplus di 485 unità). I sindacali e le associazioni hanno spiegalo più volle che la situazione e le condizioni dei reclusi nel carcere di Poggioreale sono andate lentamente migliorando negli ultimi anni, con la gestione di Antonio Fullone. Qualche tempo fa l’istituto aveva anche toccato quota 2.700, un vero record negativo. Ma le altre carceri non stanno messe meglio: l’istituto femminile di Pozzuoli ha una capienza di 109 posti, ma ospita 171 donne. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere ospita 956 detenuti a fronte di una capienza di 819. Insomma è un problema diffuso e non solo in Campania. In Campania ci sono 7.096 detenuti in carcere, ma gli istituti ne possono contenere al massimo 6.114. Il dato risale al 31 luglio. Comprende anche i reclusi in semilibertà. Questo è il periodo più caldo dell’anno: l’emergenza sovraffollamento si fa sentire in modo particolare nei mesi di luglio e agosto, quando le celle diventano roventi. Padova: allarme jihadismo, 7 sorvegliati speciali nel carcere Due Palazzi di Marina Lucchin Il Gazzettino, 21 agosto 2017 Passano anche dalle carceri i reclutatori di estremisti disposti a gesti clamorosi in nome di qualche dio. Nelle celle della casa di reclusione di Padova ci sono sette sorvegliati speciali, tenuti sotto stretto monitoraggio dalla polizia penitenziaria. Si tratta di musulmani finiti dietro le sbarre per reati abbastanza comuni: spaccio di droga, furto, rapina, lesioni. Ma che una volta finiti in carcere, quasi fosse una palestra del jihadismo, iniziano un percorso che li può portare a posizioni così estremiste e fanatiche da trasformarli, una volta usciti di prigione, in mine vaganti pronte a gesti estremi in nome della loro appartenenza all’Isis. A svelare la presenza di questi sette sorvegliati speciali all’interno del carcere padovano di via Due Palazzi, su un totale di oltre 550 reclusi, è Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil penitenziari, che denuncia anche una carenza di formazione di chi è preposto a questo ruolo: "Pochi corsi e seminari sull’argomento. Abbiamo imparato a cogliere i segnali d’allarme perché ci siamo informati di nostra spontanea volontà". Secondo il sindacalista, infatti, agli operatori dell’istituzione carceraria non sono ancora stati forniti ufficialmente gli strumenti per capire le diverse sensibilità, per prevenire atteggiamenti di fanatismo e per evitare che i soggetti più fragili si facciano affascinare da predicatori che riescono a far proselitismo proprio nei luoghi della detenzione, dove regna il disagio e l’isolamento sociale. Busto Arsizio: il direttore del carcere "a fronte di 300 posti ospitiamo 420 detenuti" di Giovanni Toia La Provincia di Varese, 21 agosto 2017 Il direttore del carcere di Busto Arsizio, Orazio Sorrentini, e la piaga del sovraffollamento. "Abbiamo ampliato, ma a fronte di 300 posti ospitiamo 420 detenuti". È come un fiume carsico il problema delle carceri italiane: compare e scompare. Basta qualche fatto di cronaca per riportarlo alla luce, ovvero all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, giusto il tempo di qualche settimana, per poi tornare a scorrere sotto le grotte dell’oblio o dell’indifferenza. È solo di qualche mese l’evasione di Johnny lo Zingaro, approfittando del permesso-premio per svolgere lavori all’esterno del carcere, con il conseguente strascico di polemiche sulle misure alternative di recupero. Com’è lo stato di salute del carcere di Busto Arsizio, la casa circondariale di via per Cassano? All’interrogativo risponde il direttore, il dottor Orazio Sorrentini, da sei anni responsabile dell’istituto di pena: "Diciamo che la situazione è abbastanza seria, al limite del grave". E snocciola due cifre che illuminano sulla estrema serietà del problema, dirigendo "una struttura per 300 unità, ma al momento ne contiene 420". Nonostante i lavori di ampliamento, conferma Sorrentini, siano stati ultimati, è soprattutto un motivo giuridico che ha fatto aumentare la popolazione carceraria. Non sta dunque nel numero crescente di chi delinque, ma "nella cessazione alla fine del 2016 degli effetti del decreto svuota carceri del 2013 che prevedeva uno sconto di pena di cinque mesi l’anno. Da gennaio 2017 siamo tornati ai tre mesi e questo ha avuto l’effetto di innalzare il numero di detenuti. Per fornire un dato, basti dire che a fine 2016 complessivamente i detenuti erano circa 350-360". Busto è una casa circondariale che "dovrebbe avere solo detenuti in attesa del giudizio definitivo della Cassazione e, nello specifico, le detenzioni sono per il reato di spaccio di droga: Malpensa è a due passi. Poi c’è chi ha commesso rapine, furti, qualche femminicidio, mentre sono diminuiti gli omicidi". Ma in via per Cassano vi sono anche "coloro che hanno avuto una sentenza definitiva, passata in giudicato e che dovrebbero far parte di una casa di reclusione. Sono 213 di cui 102 sono italiani e 111 stranieri". Ovvero il cinquantuno per cento del totale di chi vi abita. Un sovraffollamento che si scontra con la legge Torreggiani che "prevede che per ciascun detenuto siano a disposizione tre metri quadrati all’interno della cella e questo comporta che vengano usufruite più ore diurne al di fuori della cella mentre, per quanto riguarda i detenuti in permesso, sono circa una ventina. E vorrei anche dire, a questo proposito, che per i mancati rientri, siamo nell’ordine dell’uno o del due per cento e mi riferisco alla situazione generale italiana. Numero fisiologici". Nonostante le difficoltà, tutto il personale del carcere di Busto Arsizio è impegnato nell’opera di assistenza e di recupero dei detenuti con il sostegno di educatori, psicologici e medici. Ma anche su questo fronte non mancano le criticità a cominciare da "un ricambio dei poliziotti penitenziari - fa sapere Sorrentini. Non se ne trovano e non è un problema da poco. I giovani non ne vogliono sapere di questo lavoro pensando magari che comporta grandi rischi. Ne servirebbero di risorse per non fare sentire i detenuti abbandonati anche in funzione di quell’opera di recupero e di rieducazione fondamentale per impedire, una volta che il detenuto abbia scontato la sua pena, di tornare a delinquere. Di essere recidivo e quindi di tornare nuovamente in carcere". Firenze: i Radicali si appellano al Sindaco "migliorare le condizioni dei detenuti" nove.firenze.it, 21 agosto 2017 L’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" chiede ascolto. Il sindaco Nardella ai Radicali: "Disponibili a valorizzare le molte iniziative mirate" "Spiace osservare che la risposta del Comune di Firenze alla nostra richiesta di convocare un Consiglio comunale straordinario a Sollicciano, dedicato ai problemi del carcere, sia così stizzita. Una risposta un po’ burocratica, un elenco della spesa che ha il connotato della giustificazione e non, come sarebbe più consono, quello del dialogo e della riflessione. Il punto non è illustrare ciò che il Comune ha fatto, o cercato di fare, ma aprire e consolidare un ponte tra il carcere e la città per capire le vere necessità e quanto, tanto, ancora il Comune potrebbe fare - dichiara Grazia Galli del Direttorio dell’Associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi- Su questo l’Associazione per l’iniziativa radicale Andrea Tamburi ha offerto e continuerà ad offrire il proprio aiuto. Occorre però una disponibilità politica che, al momento non pare esserci da parte del Comune. La Regione Toscana, invece, con l’invio dei ventilatori ha risposto positivamente, privilegiando l’attenzione verso Sollicciano e i fatti concreti: un primo mattone per la costruzione di quel ponte contro l’esclusione, che va ora rafforzato con altre iniziative. Un lavoro non facile, certo, ma necessario: per i detenuti, per il corpo di Polizia Penitenziaria, per gli operatori, gli educatori e, soprattutto, per la città di Firenze, la cui storia non è certo quella della rassegnazione all’illegalità. Rilanciamo quindi la nostra proposta al Sindaco, Dario Nardella, sulla cui sensibilità istituzionale confidiamo, affinché non faccia mancare il proprio apporto alla costruzione di un percorso che riporti nella legalità costituzionale l’istituto di Sollicciano, che della città di Firenze è parte integrante". "Apprezzo l’iniziativa dell’associazione Andrea Tamburi legata al movimento dei Radicali che ha riguardato il nostro carcere e che ha messo nuovamente in luce i problemi atavici di questa struttura. Da parte del Comune di Firenze non c’è alcuna volontà di prendere le distanze, ma una concreta disponibilità a valorizzare le molte iniziative mirate a migliorare le condizioni dei detenuti a Firenze e in Italia in generale". Lo ha detto il sindaco Dario Nardella dopo le dichiarazioni di Grazia Galli, dell’associazione radicale ‘Andrea Tamburi. "Non dimentichiamo - ha aggiunto - che il principio costituzionale della finalità educativa della pena è costantemente messo in discussione dalle condizioni oggettive di molti carceri italiani, come dimostrato purtroppo dai dati della recidività dei detenuti che, una volta usciti dal carcere, tornano a delinquere in assenza di concrete opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. A Firenze, con il Comune abbiamo accumulato una grande esperienza e grazie alla grande collaborazione del garante dei detenuti abbiamo le condizioni per dare una svolta alla riqualificazione di Sollicciano". "Tuttavia - ha concluso Nardella - è evidente che il sindaco e la sua comunità possono poco senza un la volontà forte dello Stato che è il responsabile formale e sostanziale della condizione dei carceri nel nostro Paese. Sono dunque pronto a lavorare insieme agli amici Radicali su questo fronte portando l’esperienza e la passione dei miei collaboratori su questo campo". Cagliari: risse e fuoco in una cella del carcere di Uta. Uil-Pa "situazione fuori controllo" L’Unione Sarda, 21 agosto 2017 Ha appiccato il fuoco nella propria cella e il fumo creato dal rogo ha cominciato a investire l’intera sezione del carcere di Uta, dov’è rinchiuso. Protagonista della vicenda, avvenuta lo scorso venerdì, un detenuto maghrebino. Gli agenti sono intervenuti evitando che l’incendio provocasse danni maggiori. Il giorno successivo, invece, si sono verificate contemporaneamente alcune risse in diverse sezioni del penitenziario. La calma è tornata grazie all’intervento della polizia penitenziaria. Poco dopo un detenuto si è barricato nella propria cella e ha distrutto tutti i suppellettili, allagando poi l’intera sezione e creando così non poco scompiglio. A denunciare la situazione nel carcere è il segretario generale per la Sardegna della Uil Pa Polizia Penitenziaria, Michele Cireddu, che ha detto: "Sembra la descrizione di una giornata di guerriglia urbana, ma purtroppo quelli descritti sono scenari frequenti. Crediamo che per evitare o quantomeno ridurre tali eventi sia necessaria una riorganizzazione o forse un’organizzazione della politica penitenziaria sarda. Scriveremo al capo del dipartimento e chiederemo un’ispezione dipartimentale sulla gestione del distretto e degli istituti". Porto Azzurro (Li): Casa di Reclusione, nuova produzione del Forno San Giacomo tenews.it, 21 agosto 2017 Sembra una comunicazione commerciale, ma in realtà si tratta di una informazione di servizio per quelle persone, come i celiaci, che fanno fatica a trovare sul territorio i prodotti necessari per la loro alimentazione. Dopo la produzione di pane fresco senza glutine prodotto nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro, presentata nei primi giorni dello scorso luglio a Forte San Giacomo, da qualche giorno c’è un’altra novità: sono stati sfornati i primi cantucci alle mandorle senza glutine. Si vendono nei supermercati elbani a marchio Conad e sono prodotti nel panificio specializzato della Casa di Reclusione di Porto Azzurro. Una iniziativa, quella de Il forno di San Giacomo "Pan del Forte", portata avanti dalla Cooperativa Sociale "Il Forte Elbano" con finalità evidentemente non solo commerciali, ma anche dedicate alla riabilitazione e all’inserimento lavorativo dei detenuti. Roma: le prigioni di Marcello Dell’Utri "a Rebibbia fa caldo, climatizzatore rotto" palermotoday.it, 21 agosto 2017 L’ex senatore di Forza Italia sta scontando la condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e nel frattempo prepara il suo prossimo esame di storia moderna alla Sapienza di Roma insieme a un tutor. Insofferente per il caldo torrido di questi giorni ma impegnatissimo nello studio. Marcello Dell’Utri è apparso così al senatore di Fi, Francesco Giro, che lo ha incontrato in questi giorni a Rebibbia. È qua che Dell’Utri sta scontando la condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. In questi giorni il tribunale di sorveglianza di Roma ha dato al medico legale Alessandro Fineschi ed al cardiologo Luciano De Biase il compito di stabilire se le condizioni del senatore sono compatibili o meno con il carcere. Il professor Fineschi e De Biase dovranno vagliare la documentazione clinica e poi visitare Dell’Utri. Il 29 settembre è stata fissata l’udienza per la discussione del loro compito. "Dell’Utri è come una bomba ad orologeria - ha spiegato uno dei difensori, l’avvocato Alessandro De Federicis. Il suo quadro clinico è molto serio e confidiamo che la nuova perizia accerti quello che noi stiamo dicendo da tempo e cioè che una persona in queste condizioni non può stare in cella". E Dell’Utri sarebbe ansioso, in attesa che si concluda la procedura per la valutazione sulla compatibilità della detenzione in carcere con il suo stato di salute. Attende di essere visitato dal collegio dei periti, ma - a detta di Francesco Giro - si teme che la procedura non si concluderà prima dell’autunno prossimo". "Marcello - ha rivelato Giro - si è molto lamentato del caldo torrido di questi giorni. Nel reparto clinico dove è recluso il sistema di climatizzazione si è rotto e ora funziona con qualche difficoltà. Fortunatamente trascorre la sua intera giornata nella grande sala destinata a chi frequenta corsi di studio universitari dove l’aria è più fresca". Intanto Dell’Utri si tuffa nello studio: al momento sta preparando il suo prossimo esame di storia moderna alla Sapienza di Roma insieme a un tutor. Reggio Calabria: "Un palcoscenico oltre le sbarre", in memoria di Paolo Borsellino telemia.it, 21 agosto 2017 "Un palcoscenico oltre le sbarre" è un progetto nato dalla penna e dal cuore di Elena Gratteri e Maria Teresa Badolisani, presidente e vicepresidente dell’Associazione di Promozione Sociale "Politeia - Dentro la Città", ancor prima della costituzione formale dell’associazione. L’estate scorsa, si è portato avanti tale progetto con lo scopo di far conoscere alla Locride, attraverso l’esibizione della compagnia "Teatro Stabile Assai" della Casa di Reclusione di Rebibbia, una realtà diversa dalla solita pena inflitta dai tribunali ovvero quella della giustizia riparativa, realizzata appunto mediante la pratica dell’attività teatrale. Il successo ottenuto dagli spettacoli teatrali a Locri ed a Marina di Gioiosa Ionica ha messo in moto un motore che da quasi un anno ha iniziato a percorrere una strada verso i sentieri più ai margini della società: le carceri, le case di riposo, i centri di cura, i paesi più interni sono stati raggiunti da "Politeia - Dentro la Città" e sono al centro dei numerosi progetti che l’associazione sta realizzando. "Un palcoscenico oltre le sbarre", progetto pilota dell’associazione, non poteva rimanere un episodio isolato, per cui si è deciso di riproporlo per l’estate 2017, chiedendo il sostegno del Comune di Sant’Ilario dello Jonio e della Proloco del paese, dove il 22 agosto i componenti della Compagnia "Teatro Stabile Assai", guidati dall’educatore penitenziario Antonio Turco, fondatore della Compagnia, si esibiranno nel Piazzale del "Sacro Cuore" alle ore 21,30. La chiesetta del "Sacro Cuore" farà da scenografia allo spettacolo "Il corno di Olifante", scritto da Patrizio Pacioni, adattamento scenico e regia di Antonio Turco, contributi scenografici e di sceneggiatura di Paolo Mastrorosato, Cosimo Rega, Patrizia Spagnoli e Mimmo Miceli. Il pubblico potrà assistere al parallelismo tra la morte del Paladino Orlando e quella del Magistrato Paolo Borsellino: entrambe sono state determinate dalla scelta dei due personaggi di non indietreggiare di fronte alla "certezza della morte". Il primo, a Roncisvalle, tradito dal perfido Gano di Maganza, esita a suonare il "corno di olifante", condannando se stesso e il suo gruppo ad una fine gloriosa. Accerchiati da un numero enorme di saraceni, i paladini muoiono eroicamente, rinunciando a richiamare il grosso dell’esercito francese per non esporlo ad un possibile massacro. A Palermo, il giudice Borsellino, dopo la morte del suo fraterno amico e collega Giovanni Falcone, non rinuncia a proseguire nell’opera di indagine contro i corleonesi, esponendosi ad un attentato che arriverà puntuale, come il tradimento dei vertici dello Stato che non fanno nulla per rimuoverlo da una sede che si rivelerà mortale per questo coraggioso Magistrato e per i 5 uomini della sua scorta nella strage di via D’Amelio. Lo spettacolo rende omaggio a due figure che hanno saputo interpretare sino alla fine il ruolo di "servitori dello Stato" con una dignità e con una "onestà di principi" fuori dal comune. Il riferimento alla "Chanson de geste", ai 500 anni dell’ "Orlando Furioso", alla narrazione popolare dei "pupi siciliani" e, allo stesso tempo, all’"Agenda rossa di Paolo Borsellino", alle dichiarazioni di Salvatore Borsellino e dei magistrati Antonino Caponnetto e Alessandra Bonaventura Giunta, costituiscono l’ossatura degli spunti che sono stati utilizzati per costruire questo ennesima testimonianza di "Teatro di denuncia" di cui è significativa esponente la Compagnia Stabile Assai. Come da tradizione la narrazione sarà sostenuta da una colonna musicale fatta di espressioni classiche di musica popolare siciliana (Alfio Antico, Rosa Balistreri e Ignazio Buttitta), di canzoni d’autore (Battiato e Ivano Fossati), di blues rurale (Robert Johnson e Memphis Slim)." Nonostante la Compagnia "Teatro Stabile Assai" proponga un vasto repertorio inedito, si è scelto di ricordare il magistrato Paolo Borsellino, in occasione del venticinquesimo anno dalla sua morte, ed anche in virtù di altri progetti, aventi ad oggetto le vittime della mafia, che Politeia - Dentro la Città è pronta ad avviare. Superare l’egemonia dell’io per debellare l’odio di Mauro Magatti Corriere della Sera, 21 agosto 2017 L’odio e la violenza sono tristemente parte della nostra vita quotidiana: dal terrorista isolato che si inventa un attentato ai fatti di sangue che si succedono per futili motivi in strada o in famiglia; dagli insulti gonfi di odio che circolano sui social network fino alla manifestazione dei "primatisti" bianchi che, nella civile America, non hanno alcuna remora a urlare pubblicamente il loro risentimento verso ciò che é altro. La preoccupazione, se non proprio la paura, ci tocca tutti. Il male sembra più forte, capace di colpire ovunque, senza alcuna zona franca. Sbaglieremmo, però, se pensassimo che alle nostre spalle c’è un’età dell’oro pacificata, priva di tensioni. Barbarie e civiltà si misurano da sempre, in una lotta senza fine. Ma dire questo non basta, se non ci sforziamo di capire qual è la posta in gioco della fase storica che stiamo vivendo. È dagli anni 70 che i principali studiosi della società hanno insistito sulle patologie dell’individualismo radicale diffuso come dogma globale. Forse solo adesso - momento in cui gli equilibri squilibrati del sistema non reggono più - ci accorgiamo che quelle analisi colpivano nel segno. Le scorie problematiche della incredibile stagione espansiva che é alle nostre spalle vengono ora a galla. Ma non disponiamo né della cultura né delle istituzioni adatte per gestire adeguatamente i problemi che ne conseguono. É nei momenti di sbandamento che il peggio dell’umano tende a riemergere. E noi ci troviamo proprio in una fase di questo tipo: per citare Shakespeare, "time is out of joint" ("il tempo è fuori dai cardini"). Non è la prima volta, non sarà l’ultima. E tuttavia, come sempre, non c’è solo questa spinta distruttiva. Parallelamente alla distruzione si va sviluppando anche una nuova sensibilità più relazionale e capace di una responsabilità vista non come un dovere imposto da una qualche autorità, ma come piena espressione della propria libertà. Responsabilità verso l’ambiente: anche se si fa ancora troppo poco, sono sempre di più i cittadini consapevoli che si debba cambiare sistema. E responsabilità verso gli altri - a partire, per stare alla cronaca, dagli stranieri. Cito solo due sintomi che mi paiono importanti. Il primo riguarda i discorsi pubblici fatti di recente dai più autorevoli imprenditori del nostro tempo. Sentire il discorso di Tim Cook al MIT o quello di Mark Zuckerberg ad Harvard fa impressione. Si dirà: sono solo parole. É vero. Pur tuttavia esse segnano una direzione ben precisa, nella quale le imprese più avanzate mostrano di voler investire. Tanto che alle parole sono seguiti anche i fatti: proprio in questi giorni, sia l’uno sia l’altro hanno preso pubblicamente posizione contro la tiepida risposta di Trump ai fatti di Charlottesville. Il secondo sintomo viene dai giovani: qui le ricerche dicono che il profilo social dei millennials tende a produrre un prisma valoriale un po’ diverso, meno centrato sull’Io e più interessato alla relazione. La verità è che siano vicini a un nuovo snodo: andare oltre l’individualismo radicalizzato e i suoi limiti. Nell’incertezza nella quale ci troviamo, affiorano dunque spinte potenti di imbarbarimento. Non più libertà, ma più controllo; non più scelta, ma più chiusura; non più tolleranza ma più violenza. Dall’altra parte, cresce anche una nuova sensibilità sociale e ambientale che però ha bisogno di innovazioni istituzionali profonde per potersi sostenere e permetterci di riassorbire i molteplici focolai di tensione dai quali sprigiona tanto odio. Se questa é la nuova alternativa, essa non è però immediatamente riconducibile all’asse destra e sinistra. Perché se è vero che la destra può essere risucchiata dai gorghi sicuritari, non è affatto detto che la sinistra sia in grado di dare risposte adeguate ai problemi in campo. Prigioniera come é di schemi ormai superati. Allo stato in cui siamo, nessuna delle due polarità politiche sembra riuscire a interpretare il nuovo che pure c’è. L’alternativa é culturale prima che politica. Come fu tra gli anni 60 e 70, quando con la perdita degli equilibri del dopoguerra si liberarono le energie individuali, mettendo in gioco sia la destra che la sinistra. Ad andare nella direzione che tutti desideriamo potranno essere forze più moderate o progressiste. Dipenderà da molti fattori, oltre che dalla intelligenza dei leader. Di sicuro, le cose non potranno essere più come le abbiano conosciute negli ultimi decenni. Delle due l’una: o accettiamo di incattivirci; o ci decidiamo a costruire modelli di convivenza capaci di non limitarsi a parlare il linguaggio dell’io. Modelli, cioè, in grado di riassorbire l’enorme latenza psichica generata dalla condizione nella quale ci troviamo: la somma di milioni di individui non basta per fare una società. Perché è sbagliato pensare che non si può fermare il terrorismo di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 21 agosto 2017 Inutile lanciarsi in tirate contro il male dopo ogni strage, solo la concretezza può salvare vite. Un esperto britannico scrive sul "Times": dalle Ramblas a Westminster, la lotta al terrorismo non va bollata con disfattismo solo perché periodicamente ci sono attentati. Tra vincere e perdere la guerra al terrorismo c’è una buona via di mezzo: difendersi. Questo commento di Matthew Parris sul Times è da conservare, perché contiene un’esemplare lezione di pragmatismo e perché spiega che solo la concretezza può salvare vite. Inutile lanciarsi in tirate contro il male dopo ogni strage, dice Parris (analista politico ed esperto di terrorismo, negli Anni 80 eletto in Parlamento fra i conservatori). Che fa di una parola - mitigation, attenuazione - il suo manifesto: "I pericoli non possono essere cancellati, attenuarli invece è possibile". Come la medicina non può essere considerata un fallimento perché la gente continua ad ammalarsi, l’antiterrorismo non va bollato con disfattismo solo perché periodicamente ci sono attentati. Giusto blindare i luoghi a rischio - Dai successi saltuari dei terroristi vanno tratte lezioni. Per esempio, sappiamo che cercano di colpire in luoghi famosi, simbolici. Non ha senso dire che ci sono un sacco di luoghi affollati dove possono colpire, e che non si possono difendere tutti: cominciamo a difendere quelli più attraenti per gli assassini, finora non interessati a location anonime. Cercano lo shock. Quindi blindiamo le Ramblas, i parlamenti, le vie strategiche, e - perché no - la Galleria e il centro di Milano. Sì a barriere che chiudano queste strade. Sì a lungomari e promenade chiusi al traffico. Poco efficaci i limiti al noleggio di furgoni - Più scettico, il commentatore inglese, sull’opportunità di limiti al noleggio di furgoni: per quanto il van di colore bianco sia ricorrente nelle stragi, un altro veicolo i terroristi lo troverebbero. Meglio insistere sulla tecnologia che consente di controllare i mezzi via mobile e Gps. Non è futurismo. Il camion del mercatino di Natale a Berlino avrebbe ucciso molta più gente senza il freno automatico che si attiva in caso di collisione. È questo dettaglio che ha fatto 12 morti a Berlino e 80 a Nizza. Europa e Usa stanno rendendo questi sistemi obbligatori, e questo ostacolerà i terroristi. Troveranno altri strumenti di massacro? Forse sì, forse no. Intanto, attenuiamo quelli che hanno ora. Attenuare il potenziale distruttivo - "La parola "attenuazione", purtroppo, è un po’ più lunga ma molto meno incisiva di "male" o "sconfitta". Ma se non vincere questa guerra al terrorismo equivale a perderla, abbiamo perso - scrive Parris. Finché non abbandoniamo la retorica della vittoria sul male e non ci dedichiamo alla possibilità pratica di rendere le cose più difficili a persone patetiche ma pericolose, allora continueremo a pensare che stiamo perdendo. E i jihadisti, che non stanno affatto vincendo, ci crederanno". Crisi e profughi, la contesa sull’acqua presenta il conto di Federica Zoja Avvenire, 21 agosto 2017 Dalla Siria all’Etiopia dall’Egitto alla Tailandia la gestione dell’"oro blu" è oggetto di contese e all’origine di fenomeni che stanno cambiando il volto del pianeta. C’è un legame diretto fra crisi idriche e fenomeni migratori di massa? E fra mancanza d’acqua e conflitti? Man mano che, in presenza di un mutato regime idrologico planetario, comunità umane già svantaggiate pagano il prezzo più alto di modelli economici insostenibili, la comunità scientifica avverte tutta l’urgenza di approfondire l’analisi. Meno preoccupati si direbbero invece i governi: al momento sono davvero pochi quelli che si stanno muovendo per adottare strategie adeguate a contrastare future criticità. L’assenza di acqua è classificata dalla Fao secondo tre tipologie: la scarsità strettamente fisica di acqua superficiale, in correlazione con un mutato ciclo idrico (piogge ed evaporazione), e anche penuria di acqua di falda, utilizzata oltre la naturale ricaric’; la scarsità economica, là dove non c’è la capacità finanziaria di rendere accessibile l’acqua per i propri cittadini anche se essa fisicamente c’è; la scarsità istituzionale, quando a mancare sono leggi, capacità tecniche e organizzative delle istituzioni, non risorse idriche. Spiega Cristina Cattaneo, ricercatrice presso la Fondazione Eni Enrico Mattei: "Il cambiamento climatico è certo un incentivo a emigrare, ma la migrazione è sempre una scelta multi-casuale, generata da svariate motivazioni - sociali, politiche, personali, culturali - e non da una sola". Se si prende il caso di inondazioni, uragani, piogge torrenziali (sempre di crisi idriche si tratta) "c’è da dire che raramente esse provocano migrazioni di tipo permanente. Piuttosto si verificano spostamenti brevi, in termini spaziali e temporali", argomenta l’economista. In presenza di importanti siccità, invece, "si possono verificare esodi importanti" e duraturi. Oppure può avvenire l’esatto contrario: essendo la migrazione un’opzione costosa, non praticabile da tutti, le persone colpite, impoveritesi ulteriormente, talvolta rimangono intrappolate in un luogo. E a creare tensioni conflittuali è allora la mancata migrazione, "tradizionale strategia di adattamento al cambiamento climatico". L’esperta non rileva tuttavia una connessione diretta fra la siccità verificatasi nel Nord della Siria negli anni 2006-2010 e il conflitto civile esploso nella primavera del 2011: "Una migrazione interna da settentrione verso Sud, come verificatasi in quel periodo, non ha rappresentato una novità nella storia del Paese. Non ci sono evidenze scientifiche che essa abbia creato instabilità politica". Di altro parere Giorgio Cancelliere, dell’Università Milano-Bicocca, che ha recentemente realizzato una ricerca sul rapporto acqua-migrazioni insieme a Gvc Onlus: "A causa della siccità, un milione e mezzo di siriani su 22 milioni ha perso i mezzi di sussistenza ed è stato sradicato dalle proprie terre; l’85% del bestiame è morto, sono scomparse le colture di grano. Gli agricoltori sono fuggiti in massa nelle città, in particolare a Damasco e a Daara, con problemi di occupazione e scarsità di acqua. Le città che ospitavano 8,9 milioni di persone nel 2002 sono passate a 13,8 milioni nel 2010". Ed è in quel contesto altamente esplosivo generato dalla crisi ambientale, secondo questa interpretazione, che la rivolta politica avrebbe trovato terreno fertile, rafforzata poi da interventi esterni. Non c’è dubbio che un conflitto di tale importanza abbia innescato nuovi stress idrici e vulnerabilità climatiche, e quindi nuovo slancio alle migrazioni. Ad Aleppo, per esempio, è l’intero sistema fognario e di distribuzione dell’acqua al pubblico a dover essere riparato, mentre risultano danneggiate dagli jihadisti del Daesh - e quindi pericolose per la popolazione - alcune dighe su Tigri ed Eufrate, in Siria e Iraq. Il rischio di disastro ambientale è anche in questo caso dietro l’angolo, nell’eventualità di piogge torrenziali. Nell’Asia centrale, intanto, è la troppa acqua all’origine di intensi fenomeni migratori. O, più propriamente, l’inadeguatezza dell’uomo nel gestire situazioni esplosive da lui stesso provocate. Nel bene e nel male, dipendono dai fiumi che scendono dall’Himalaya e dalla regolazione delle dighe su Indo e Brahmaputra il Nepal, la Cina, il Bangladesh e l’India. Gli sfollati per le alluvioni negli Stati indiani di Tamil Nadu e Andhra Pradesh ammontano a un milione e 800mila. Ma c’è un’altra emergenza idrica asiatica, meno conosciuta: il 60% delle falde dell’Asia meridionale risulterebbe inquinato da arsenico, con la conseguenza che la salute di 750 milioni di persone tra Pakistan, India, Nepal e Bangladesh è a rischio. Poi c’è la regimazione delle risorse idriche che danneggia le altre popolazioni e crea tensioni politiche potenzialmente foriere di conflitti. Le dighe e gli sbarramenti sul Mekong in Indocina e sull’Irrawaddy in Myanmar hanno costretto milioni di contadini e pescatori a migrazioni interne del tutto irreversibili. Quanto alla diga della Grande rinascita etiope sul Nilo Azzurro, essa bloccherà un volume pari a una volta e mezzo il flusso annuo del Nilo scacciando popolazioni indigene a ridosso dell’infrastruttura e, insieme, minacciando la sopravvivenza di milioni di persone che vivono negli Stati a valle, partecipi del bacino idrografico del Nilo (Egitto e Sudan). La prospettiva di vedere drasticamente ridotte le risorse idriche sta creando frizioni fra Il Cairo e Addis Abeba, e quest’ultima e Asmara. Con Khartoum si cerca una cooperazione economica che coinvolga il Sudan nel progetto idroelettrico etiope, ma i negoziati sono lenti e faticosi. Per l’Etiopia la questione dighe non rappresenta una novità: i precedenti invasi Ghible II e III hanno coinvolto le popolazioni indigene dell’Etiopia e del Lago Turkana che praticavano coltura di recesso, pesca e pastorizia, per fare spazio a piantagioni industriali di canna da zucchero. E sempre azioni dell’uomo che hanno cambiato l’ambiente stanno costringendo migliaia di contadini kazaki a cercare nuove aree coltivabili alla luce delle trasformazioni che stanno interessando il fiume Amu Darya. S e è vero tuttavia che la migrazione, volontaria o forzata, si rivela spesso una scelta vantaggiosa - per esempio sulla qualità della vita di chi rimane e riceve le rimesse -, è altrettanto vero che le aree geografiche riceventi sono spesso messe a dura prova: Bangkok, metropoli thailandese "tra le città più a rischio di alluvioni, scarsità di acqua e intrusione salina", come illustra Margherita Romanelli, di Gvc onlus, è un bacino di elezione non solo per i migranti nazionali ma anche, fra gli altri, per quelli cambogiani, in fuga dalla siccità. Il loro arrivo aggrava problematiche già esistenti. La matassa, dunque, è davvero aggrovigliata. Per Riccardo Petrella, già promotore del contratto mondiale dell’acqua, si tratta in primis di lanciare segnali forti di assunzione di responsabilità: "Abbiamo provato, in occasione di Expo 2015, a promuovere la nascita di un’Agenzia internazionale per l’acqua, ma non c’è stato verso. Eppure alle Nazioni Unite c’è un’agenzia per tutto: perché allora non un’altra che vigili sull’uso corretto delle risorse idriche, sull’accesso equo per tutti?". Ora la cornice del G7 Ambiente (10-12 giugno a Bologna) potrebbe creare le condizioni per un rilancio della proposta, foriera di un approccio olistico alle strategie di gestione delle crisi idriche e delle emergenze umanitarie da esse provocate, o aggravate. Un approccio che metta insieme scienza e politiche lungimiranti. Prima che sia troppo tardi. Droghe. Progetto Drug Checking "1 pasticca su 3 non è quello che sembra" di Stefano Ciardi Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 La cooperativa Alice e il centro antidoping Alessandro Bertinaria negli ultimi 12 mesi hanno testato più di 300 campioni all’interno del progetto europeo Baonps, nato per ridurre l’impatto delle droghe sintetiche. Ora però i finanziamenti dell’Unione europea sono finiti. Ogni tre pasticche di droga vendute in Italia, una non contiene quello che il compratore pensa di assumere. Questo è quanto emerge dal lavoro congiunto della cooperativa Alice e del centro antidoping Alessandro Bertinaria, che negli ultimi 12 mesi hanno testato più di 300 campioni all’interno del progetto europeo Baonps, nato per ridurre l’impatto delle droghe sintetiche nei luoghi di consumo. Ora i finanziamenti dell’Unione europea sono finiti e il progetto rischia di naufragare per mancanza di fondi: "Negli ultimi due anni abbiamo ricevuto 50.000 euro dall’Ue - racconta Lorenzo Camoletto, project manger di Baonps Italia - ma adesso senza queste sovvenzioni rischiamo di chiudere. Altri Paesi come la Svizzera, la Spagna e il Portogallo hanno già dei progetti finanziati dallo Stato, mentre noi ancora no". Il lavoro degli operatori, affiancati da medici e chimici, è quello di andare nelle situazioni a rischio, come i rave party e le serate in discoteca, per informare i giovani sul pericolo delle droghe e offrire un controllo gratuito delle sostanze acquistate. "Ogni volta organizziamo un piccolo pronto soccorso con personale medico che sa come agire in caso di overdose - spiega Camoletto - poi, utilizzando un dispositivo laser portatile, diamo la possibilità ai ragazzi di verificare cosa ci sia dentro le pasticche che hanno comprato". Lo strumento di cui parla l’operatore è poco più grande di uno smartphone e utilizza un fascio di luce per capire quale sia la composizione di una pasticca: "Quando una persona ci porta una sostanza da analizzare, noi non la tocchiamo neanche - racconta Enrico Gerace, analista del centro antidoping Bertinaria - ma proiettiamo il nostro laser su una porzione del prodotto e nel giro di un minuto abbiamo il risultato". "Con questo metodo abbiamo scoperto più di 10 nuove droghe - spiega ancora Gerace - Ogni volta abbiamo allertato l’Istituto Superiore di Sanità e gli altri partner europei; così chi produce e commercia questa sostanza può essere fermato". Tra le nuove sostanze scoperte c’è anche il metilone, una molecola che mima gli effetti dell’Mdma (il principio attivo dell’Ecstasy) ma ha un livello di tossicità maggiore e possibili effetti collaterali ancora ignoti. Le sostanze ancora legali che emulano le droghe già presenti sul mercato vengono sintetizzate per lo più nel sud-est asiatico e si riversano nel resto del mondo anche attraverso il dark web: "Adesso esiste un motore di ricerca sul deep web che si chiama Grams - racconta Camoletto - qui si possono trovare sempre nuove droghe con la descrizione delle molecole illegali che vanno a mimare". "Quando scopriamo che la sostanza comprata è diversa da quella che si pensava - continua sempre Camoletto - la metà delle persone rinuncia ad usarla e la butta; questo è di sicuro un altro successo del progetto. Anche negli altri casi cerchiamo di persuadere i ragazzi a non utilizzare la droga, ma se non ci riusciamo almeno li mettiamo in guardia sulle possibili interazioni e i pericoli dell’assunzione". Oltre al drug checking, gli operatori mettono a disposizione anche uno spazio chiamato chill-out, utile a far riposare chi è alterato per impedirgli di guidare sotto effetto di alcool o altre droghe. "Finora abbiamo portato il nostro lavoro in sei regioni italiane e speriamo di continuare a farlo - conclude Camoletti - per questo stiamo cercando nuovi finanziatori". Per Angela Debernardis, direttrice del dipartimento delle dipendenze di Ivrea, la continuazione del progetto è fondamentale: "Anche noi collaboriamo con gli operatori del Baonps - spiega la direttrice - e abbiamo capito che esiste un mondo sommerso di consumatori senza nessuna idea delle sostanze che assumono; per questo la prevenzione è vitale". Egitto. Caso Regeni, gli Usa: "l’ordine di colpirlo arrivò dall’alto" di Paolo Mastrolilli La Stampa, 21 agosto 2017 Fonti di Washington: l’Egitto voleva dare una lezione agli stranieri ma con l’omicidio la situazione è crollata. E insistono: Roma sapeva. "Giulio Regeni è stato ucciso dai servizi di sicurezza egiziani, o da gruppi affiliati. Questo è un fatto di cui il governo americano è assolutamente sicuro, e ne possiede le prove. Vista la stretta collaborazione tra i nostri apparati di intelligence e i vostri, sarei molto sorpreso se non avessimo informato i colleghi italiani di quanto sapevamo". La fonte che fa questa rivelazione a La Stampa ha lavorato per l’amministrazione Usa, e parla per conoscenza diretta dei fatti. Ha letto la ricostruzione dell’omicidio del ricercatore italiano fatta di recente dal New York Times, e l’articolo che il nostro giornale aveva pubblicato nell’aprile del 2016, riguardo il contrasto avvenuto su questo caso tra il segretario di Stato Kerry e il ministro degli Esteri egiziano Shoukry. Quindi ha deciso di spiegare quanto conosce, nell’interesse della verità e della giustizia: "Posso confermare quegli eventi, e chiarirli". La nostra fonte sostiene che l’ordine di colpire Regeni "era venuto dall’alto". Non pensa che il presidente al Sisi avesse chiesto il suo omicidio, ma aveva espresso con chiarezza la volontà di dare un esempio agli stranieri. A quel punto "i gorilla dei servizi di sicurezza hanno preso in mano la situazione, facendola sfuggire a qualunque controllo". Hanno spinto l’esempio oltre la stessa volontà di al Sisi, torturando e uccidendo il ricercatore italiano. Una volta scoppiato lo scandalo, però, le massime autorità egiziane hanno deciso di gestire la crisi negando tutto, invece di fare chiarezza e punire i colpevoli. Una seconda fonte del settore d’intelligence è convinta che Regeni sia stato vittima di una "turf war" fra gli apparati egiziani, in sostanza una guerra interna tra i vari servizi di sicurezza. In questo quadro, la morte di Giulio è stata usata da qualcuno per "scoring points", cioè segnare punti a danno dei suoi avversari. Al Sisi voleva dare una lezione, e l’arresto del ricercatore italiano rientrava in questo obiettivo. Invece il suo omicidio, e poi l’abbandono del cadavere in strada allo scopo evidente di farlo ritrovare, sono serviti ai responsabili per rendere pubblica la sua tragedia e farne ricadere la colpa sui rivali. Il governo degli Stati Uniti aveva ottenuto le prove "humint" di questa verità, cioè intelligence umana. In altre parole, rivelazioni ricevute da informatori interni agli apparati egiziani, considerati credibili e affidabili. La fonte però non esclude che esistano anche conferme "sigint", cioè la signal intelligence che si raccoglie con le intercettazioni: "Non abbiamo la foto dei colpevoli, ma sappiamo che sono stati i servizi di sicurezza o i loro affiliati. In Egitto ci sono diversi apparati che si occupano di questo settore, e per simili operazioni possono fare ricorso a gruppi esterni, perché non sono direttamente riconducibili alle strutture ufficiali". La seconda fonte non ha la prova diretta che queste informazioni furono passate al governo italiano, ma pensa che ciò sia avvenuto: "Sarei molto sorpreso se i nostri servizi di intelligence, vista la stretta collaborazione che hanno con i colleghi italiani, non avessero comunicato a Roma quanto sapevano su un caso così delicato". Questa posizione è condivisa da fonti della Farnesina. Di sicuro l’allora segretario di Stato Kerry era a conoscenza dei dettagli, e li rinfacciò direttamente al collega egiziano Sameh Shoukry, durante un incontro molto teso avvenuto nell’aprile del 2016, a margine del vertice nucleare che gli Usa avevano ospitato a Washington. Il capo della diplomazia americana disse al collega che il caso Regeni era diventato una seria complicazione nei rapporti bilaterali, perché gli Stati Uniti non potevano accettare che i civili di paesi alleati fossero trattati in questa maniera. Davanti alle obiezioni e le smentite di Shoukry, Kerry aveva risposto che l’intelligence americana aveva le prove inconfutabili della responsabilità dei servizi egiziani nell’uccisione di Giulio. Quindi aveva detto che l’unica soluzione accettabile per gli Usa era l’arresto e la punizione dei colpevoli. Questo non è mai accaduto, ma le fonti americane restano convinte che gli egiziani possano farlo: "Se si è trattato di elementi affiliati ai servizi, è più difficile risalire ai loro nomi. La verità però non è emersa, finora, solo perché il governo del Cairo non ha voluto". Iran. 10mila condannati a morte in trent’anni per droga, ora una legge dà speranza di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 In tutto l’Iran vanno avanti senza sosta le esecuzioni per reati di droga: nei primi sette mesi dell’anno sono state 183 su un totale di 319 prigionieri messi a morte. La scorsa settimana, tuttavia, il Parlamento ha approvato un testo di legge in discussione da un paio d’anni che potrebbe ridurre sensibilmente il ricorso al boia e riguardare anche i prigionieri in attesa di esecuzione: circa 5300, il 90 per cento dei quali dai 20 ai 30 anni di età e privo di precedenti penali. Il testo approvato dal Parlamento mantiene la pena di morte per spaccio di oltre due chili di eroina, morfina, cocaina e loro derivati (in passato, bastavano 30 grammi) e più di 50 chili di bhang (una bevanda a base di cannabis), oppio e cannabis (10 volte di più rispetto a prima). La pena di morte, inoltre, resta in vigore per i capi delle bande criminali del narcotraffico, per coloro che sfruttano i minorenni nello spaccio, per chi possiede o usa armi da fuoco durante la commissione di reati di droga e per i recidivi con precedenti condanne superiori a 15 anni. È prevista inoltre la commutazione a 30 anni di carcere e a una multa per i prigionieri già condannati a morte e che, secondo le nuove norme, non avrebbero dovuto esserlo. Dal 1988, secondo fonti giudiziarie iraniane, le condanne a morte eseguite per reati di droga sono state circa 10.000. Per Iran Human Rights, solo dal 2010 al 2016 sono state 2.990. Un bagno di sangue, dunque, che ha colpito e continua a colpire per lo più consumatori e piccoli spacciatori provenienti dai settori più poveri della società o immigrati dall’Afghanistan. Una strategia che oltretutto non pare abbia funzionato. Lo riconoscono sempre più spesso anche le autorità iraniane: i reati di droga sono collegati ad altri problemi come la disoccupazione e la povertà, che le esecuzioni non risolvono. A inizio agosto, durante le fasi finali del dibattito parlamentare, il presidente della Commissione affari legali e giudiziari del parlamento ha dichiarato che dal 2010 i costi della lotta alla droga sono raddoppiati e che, tra consumatori abituali e saltuari, oltre sei milioni di iraniani fanno uso di droga. Resta ora l’incognita della ratifica da parte del Consiglio dei guardiani e dell’opposizione di alcuni dei settori più radicali dell’apparato di sicurezza iraniano. Marocco. Re, spie e repressioni nell’incubatore del nuovo jihadismo di Leonardo Coen Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 Il sovrano Mohammed VI sostiene l’ islamismo moderato ma le sue frontiere sono crocevia del terrore. Da Barcellona a Casablanca: il tragitto dei pendolari jihadisti? È più che un sospetto. I fratelli Moussa e Driss Oukabir sono andati spesso in Marocco: l’ultima volta, sono rientrati a Ripoll lunedì scorso, ossia pochi giorni prima del massacro sulle Ramblas. La famiglia è originaria di Béni Mellal, capoluogo del Béni Mellal-Khenifra: una regione al centro del Paese da cui provengono alcuni dei terroristi che hanno insaguinato Parigi e Bruxelles. Da lì Said Oukabir, il padre di Moussa (ucciso dalla polizia a Cambrils) e Driss (arrestato per sospetta appartenenza alla cellula jihadista), è emigrato in Catalogna 25 anni fa. Pure Mohamed Hychami e suo fratello Omar, altri due membri della cellula catalana, sono di nazionalità marocchina. Lo sono i fratelli Younes e Houssaine Abouyaaqoub, colui che ora viene indicato come il presunto autore materiale della mattanza. Un altro marocchino è Said Aallaa, come Mohamed Houli Chemlal, il ventenne arrestato in ospedale, originario di Melilla, enclave spagnola in Marocco, catturato poche ore dopo l’esplosione di Alcanar, il "laboratorio" degli esplosivi che la cellula intendeva utilizzare per mettere a ferro e fuoco Barcellona. Quasi tutti i terroristi "ragazzini" sono imparentati: condividono radici, qualcuno le trasforma in radicalizzazione. Qualcuno in Marocco? Il dubbio è lecito. In ogni clamoroso attentato degli ultimi anni, purtroppo, c’è un preciso riferimento al Marocco: vuoi per le origini dei jiha- disti, vuoi per la comunanza religiosa salafita, un modo ultraconservatore ed estremo di concepire l’Islam. In Belgio, quest’origine è più evidente: anche perché la minoranza araba proveniente dal Marocco è la più cospicua, conta oltre mezzo milio- ne di persone. In Francia sono gli algerini i più numerosi. In Marocco, il salafismo è stato aspramente combattuto dal potere che propugna un islamismo moderato e tollerante. È in questo contesto che s’inserisce prima al Qaeda, poi l’Isis. Nel 2002, il governo del Marocco accusa i qaedisti di fomentare la cosiddetta "insurrezione islamica nel Maghreb". Il 16 maggio 2003 Casablanca viene furiosamente attaccata da alcuni commando suicidi: il bilancio è di 33 vittime, più 12 terroristi. Due la scamparono perché furono arrestati prima di poter compiere attentati. Otto erano europei, sei marocchini. Re Mohammed VI mette in moto un grosso apparato di intelligence e repressione, per contrastare duramente l’estremismo religioso. Coordina i servizi il Bureau Central des Investigations Judiciaires (BCIJ), contemporaneamente il sovrano avvia un’azione capillare a livello religioso, creando una Fonda- zione reale degli Ulema africani (lo scopo è la formazione di 50 mila imam per consolidare il rito musulmano sunnita-malikita). Nel frattempo, le varie polizie cominciano a collaborare con quelle di Parigi, Bruxelles e Madrid. La Spagna, infatti, sin dagli anni Novanta, era diventata il bersaglio privilegiato del movimento salafita, alla testa del quale c’era Mustafà Setmariam Nassar, un siriano ultra-radicale. Alla stazione madrilena di Atocha (11 marzo 2004: le bombe fecero 191 vittime e 1858 feriti) l’attacco fu portato dal Gruppo Islamico Combattente del Marocco, legato (ma non troppo) alla galassia di al Qaeda. Fu un’operazione meticolosa. La differenza coi ragazzini di Barcellona è che l’età media degli attentatori era di 35 anni. La cooperazione dei Servizi marocchini fu determinante nello smantellare la rete qaedista in Spagna. Anni dopo, il terrorismo colpisce di nuovo il Marocco: stavolta, nell’aprile del 2011, tocca a Marrakesh. Uno degli organizzatori era salafita e ammiratore di Bin Laden. In realtà, il problema del Marocco è geografico prima che geopolitico: le sue frontiere sono porosissime. Sahara e Sahel, in particolare, sono crocevia di ogni traffico: armi, droga, esseri umani. Il business del terrore. L’oceano di sabbia e pietre è uno spazio vuoto che facilita le manovre tattiche e l’azione operativa dei gruppi armati e dei "reduci" dalla Siria e dall’Iraq. Fonti diverse concordano nel dire che c’è un continuo passaggio di armi e di uomini dall’A l ge r i a verso la frontiera marocchina. Eppure, mercoledì 19 luglio, il Dipartimento di Stato americano, nel suo rapporto annuale sul terrorismo nel mondo (relativo al 2016), sottolineava l’apporto positivo del Marocco e della sua strategia di lotta antiterroristica, basata sulla cooperazione regionale e internazionale e su efficaci politiche di contro-radicalizzazione. Turchia. Arrestato in Spagna scrittore critico di Erdogan di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 agosto 2017 Lo scrittore turco-tedesco Dogan Akhanli, è stato arrestato il 19 agosto in Spagna, nella città di Granada, dopo che le autorità turche avevano emesso un ordine di cattura internazionale nei suoi confronti. Ora, per ottenere l’estradizione, la Turchia dovrà dimostrare la effettiva esistenza di un procedimento nei confronti di Akhanli, supportata da indizi di colpevolezza a carico dello scrittore, trasferitosi nella città tedesca di Colonia nel 1995. L’avvocato dello scrittore, Ilias Uyar, ha spiegato allo Spiegel che il suo assistito è vittima di "una caccia alle streghe che prende di mira chiunque sia critico del governo turco". Il ministero degli Esteri tedesco è in contatto con le autorità spagnole e ha chiesto che l’estradizione non abbia luogo. Nei giorni scorsi il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva invitato i turchi residenti in Germania a non votare per la Cdu, l’Spd o i verdi perché animati da sentimenti anti turchi. L’arresto di Akhanli è stato commentato dal leader dei socialdemocratici Martin Schulz: "Questo è uno sviluppo drammatico - ha detto - che fa parte della reazione paranoica al golpe fallito. Ora Erdogan dà la caccia ai nostri cittadini nei Paesi della Ue". Akhanli è fuggito dalla Turchia nel 1991 dopo essere stato detenuto per svariati anni a causa delle sue attività di opposizione e per aver diretto un giornale di sinistra. Niger. Espulsi, detenuti e venduti: un venerdì qualunque per i migranti di Mauro Armanino Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 Barry non aveva mai lavorato in un cantiere. Ora cammina a stento per la ferita che l’accompagna da quel giorno. Un chiodo è bastato per mettere fine alla sua permanenza in Algeria. I suoi connazionali l’hanno portato in ospedale per le prime cure. Un banale infortunio sul lavoro costituisce, per un ‘irregolarè, come una condanna da scontare. Resiste quanto può e infine giunge alla decisione di rientrare nella Guinea da cui era partito da pochi mesi cercando fortuna altrove. Nel suo paese vendeva cellulari, schede e bustine di detersivo per abbellire il chiosco di compensato e lamiera. Dall’altra parte del telefono tutto andava meglio, le immagini e la voce offrivano ampie garanzie di successo. Barry è partito senza dir nulla a casa. Solo quando alcuni ribelli, dopo averlo derubato, l’hanno venduto ad un altro gruppo, ha chiamato suo fratello per pagare il riscatto. È così che la famiglia ha saputo che si trovava prigioniero del deserto in Algeria. Il chiodo lo porta ancora nella carne trafitta da chi ha dichiarato la migrazione un reato. Basta guardare al deserto, militarizzato, reticolato, venduto, tradito e accerchiato dalle barriere armate dell’Europa. Alla stazione dei bus e dei taxi di Agadez si negoziano i passaggi delle frontiere. Per l’Algeria, o a scelta la Libia per la modica somma di 80mila franchi locali, che fanno 121 euro senza la riduzione per il cambio fluttuante come le dune. L’inganno si scopre poco dopo in pieno deserto. Il mezzo si ferma e i passeggeri sono abbandonati al loro destino in attesa del prossimo acquirente. Magari l’autista arriva trafelato il giorno dopo e chiede i soldi per il seguito del viaggio arma alla mano. Alla tappa successiva altra rivendita, pagata con qualche settimana di lavoro o con appelli telefonici ai famigliari. A questo di fatto conduce il blocco navale del mare del deserto di pietre e sabbia impastata di chiodi. Uno di questi accompagna Barry. Perché la corona di chiodi è come quella di spine e il giorno del suo passaggio è lo stesso. Un venerdì di qualunque calendario migrante. Giorni che passano e tornano, espulsi, detenuti e venduti la tappa successiva all’altro commerciante di vite. Un calendario fabbricato in Europa, senza giorni di festa e senza santi in cui inciampare. I mesi, le settimane e gli anni passano tentando di inventare il giorno che non c’è. Sparito al momento del libero rimpatrio senza documenti. Alpha nel suo paese vendeva sigarette e consigliava di non fumare ai clienti per evitare danni alla salute. Non gli rimaneva che partire nella stessa Algeria che contrabbanda migranti nei campi e nei cantieri. Si è messo a coltivare fragole in giardino per la stagione buona. Alla fine del contratto il padrone non l’ha pagato ma solo denunciato alla polizia come ‘clandestino’. Trova lavoro in un ristorante per le pulizie fatte di nascosto. Neppure in questo caso sarà alla fine pagato dal padrone. Accusato come potenziale terrorista, sicuramente spacciatore, con ogni probabilità malfattore e dunque migrante secondo le ultime disposizioni legislative è infine espulso. Categoria strana quella dei migranti, balzati da molto tempo alla ribalta delle cronache quotidiane sugli schermi. Qui nel Sahel si chiamavano a suo tempo e con rispetto esodanti, in seguito sono stati trasformati in avventurieri, decretati infine irregolari e dunque illegali o criminali secondo le circostanze. Su di loro si fanno affari a non finire. Le migrazioni sono un’industria che arricchisce la filiera che su di esse fonda la sua gloria. I benefattori dell’umanità sono innumerevoli. Col pretesto di salvare vite umane comprano le frontiere, i deserti, i mari e persino le fragole. Solo rimane una ferita, quella che Barry si porta a casa come ricordo di viaggio.