Giustizia: il trasferimento allunga i tempi di Claudio Tagliapietra lavoce.info, 20 agosto 2017 Tutti gli anni quasi un magistrato ogni quattro si trasferisce in un altro ufficio. L’alta percentuale dei trasferimenti e l’assenza di una disciplina che ne regoli le modalità possono aggravare la già considerevole durata dei processi in Italia. Magistrati in movimento - Ogni anno, un cittadino su dieci inizia una causa. Per rispondere a questa domanda di giustizia vi sono circa 10mila magistrati, il 90 per cento dei quali svolge funzione giudicante. Ciascun giudice italiano ha diritto a chiedere un trasferimento ogni tre anni (art. 19 Dlgs n. 160/2006; articoli 104-107 Cost). I trasferimenti sono molto frequenti: ogni anno, in media il 26 per cento dei magistrati si trasferisce ad altra sede o altro ufficio). Il 26 per cento dei magistrati corrisponde alla gestione di più di un milione di procedimenti giudiziari: che cosa succede a questi casi quando il loro giudice originario si trasferisce? I processi sono temporaneamente sospesi, in attesa dell’arrivo del sostituto. In media, ogni magistrato ha sulla scrivania 715 casi nuovi l’anno, dunque oltre 1.550mila procedimenti finiscono per qualche tempo "nel congelatore". Così come accade con il turnover del personale all’interno di aziende o istituzioni pubbliche, le nostre statistiche confermano l’esistenza di una forte correlazione fra numero di trasferimenti e durata media di processuali civili e penali. Se consideriamo i tribunali ordinari, le sedi con un’alta percentuale di trasferimenti hanno anche una elevata durata media dei processi (figura 1). Attraverso elaborazioni statistiche, abbiamo calcolato che un aumento dei trasferimenti si ripercuote negativamente sulla durata dei processi non solo nell’anno in cui avvengono, ma anche in quelli successivi. I dati a nostra disposizione non permettono di "seguire" ogni singolo magistrato, un livello di dettaglio che sarebbe tuttavia indispensabile per identificare inequivocabile una relazione causa-effetto tra trasferimenti e durata. È possibile infatti che i magistrati si spostino dalle sedi con una elevata congestione dei processi, lasciando così scoperte quelle in cui ci sarebbe, probabilmente, più bisogno. Come intervenire - Il "gioco delle sedie", particolarmente problematico per i tribunali con un carico processuale pendente già elevato, ha effetti tanto più indesiderati quanto più alta è la frequenza dei trasferimenti e quanto maggiore è "l’arretrato" del magistrato che cambia sede. Per limitare le conseguenze negative dei trasferimenti, occorre agire su ognuno di questi aspetti. Iniziamo dal primo: il problema deriva in parte dal sistema concorsuale nazionale su cui è basato il reclutamento dei magistrati, che non assicura la possibilità di coprire per tempo e con continuità i posti divenuti vacanti, oltre che per pensionamenti, anche in seguito a trasferimenti. L’assegnazione ideale dei magistrati alle sedi dovrebbe essere più "stabile", ossia dovrebbe rispondere il più possibile alle preferenze individuali, alzando così il tempo di permanenza in un dato ufficio e riducendo i tempi dei trasferimenti. Il secondo aspetto è la gestione del carico pendente di chi si trasferisce. Un magistrato che rimane più a lungo in uno stesso ufficio non solo riesce a dare continuità a un "ciclo" di processi, ma può anche sfruttare la specializzazione acquisita nello svolgimento del suo incarico (sempre rimanendo all’interno del termine massimo di permanenza decennale). Invece di essere fissata a priori, la permanenza minima nell’incarico in un determinato ufficio potrebbe essere calibrata in relazione al carico di lavoro da smaltire. Per esempio, si potrebbe permettere il trasferimento solo quando l’arretrato sia esaurito o comunque veloce da gestire per il subentrante. Proposte per una più efficiente gestione dell’arretrato provengono dal Programma Strasburgo e dalla calendarizzazione delle udienze (Coviello, Ichino e Persico (2014). Dato l’ingente volume di affari giudiziari, sembra sempre più opportuno che i magistrati acquisiscano abilità di project (o meglio, case) management. Alcune applicazioni, come l’agenda elettronica del magistrato A-Lex®, consentono un’organizzazione ottimizzata del calendario dei processi, determinando il momento migliore per effettuare il trasferimento sulla base delle preferenze del magistrato e dei vincoli amministrativi e legislativi. Un’altra soluzione riguarda l’informatizzazione degli uffici giudiziari. Raccogliendo informazioni dettagliate sui magistrati, sul loro carico di lavoro e sui trasferimenti si potrebbe stimare per tempo il numero di posti per cui indire nuovi concorsi tenendo in considerazione spostamenti e pensionamenti. Prima di una qualsiasi eventuale ristrutturazione della disciplina dei trasferimenti, l’efficacia di ciascuna proposta andrebbe testata e discussa. Perché non provare? Giustizia: in tilt da due settimane il portale delle notizie di reato, si torna alla carta di Paolo Lazzari luccaindiretta.it, 20 agosto 2017 In tilt il portale unico nazionale per le notizie di reato. Da almeno due settimane, secondo quanto emerge incrociando le repliche di Procure locali ed addetti del Ministero della Giustizia, la rete informatica che serve gli uffici giudiziari appare bloccata e, dunque, incapace di assimilare nuovi atti. Manca, per il momento, una spiegazione univoca: quella più accreditata è il mero guasto tecnico, anche perché agosto è mese di sospensione feriale e i caricamenti, certo, non sono sufficienti per mandare in corto circuito il server. Restano tuttavia aperte anche altre possibilità, considerata la lunghezza con cui si star protraendo il disservizio: tra le procure, in particolare, c’è chi avanza l’ipotesi di un attacco sistematico da parte di hacker. Un black out allarmante perché, al netto della circostanza che il portale non è ancora divenuto sostitutivo del deposito cartaceo, il sistema è nato proprio per garantire agli operatori di polizia giudiziaria maggiore rapidità ed incisività. Una situazione ancor più grave, per il dicastero di via Arenula, alla luce del fatto che il portale, oltre a consentire l’automazione del processo di iscrizione delle notizie di reato, dovrebbe rappresentare un canale sicuro per la trasmissione di quei documenti in formato digitale che, successivamente, andranno a formare i fascicoli. Un garbuglio, dunque, che se non districato rapidamente minaccia di riversare pesanti effetti a cascata sulle procure, capaci di compromettere la tenuta del sistema - specialmente in vista di settembre, quando i tribunali riapriranno anche per i riti ordinari - rallentando inevitabilmente i lavori degli uffici. Agli operatori specializzati, che possono accedere direttamente al portale con proprie credenziali, non resta che continuare ad aspettare. Nell’attesa, in caso di atti urgenti, sarà necessario ricorrere al vecchio deposito cartaceo, vera e propria scialuppa di salvataggio in un oceano cibernetico che, stavolta, sta mietendo vittime illustri. Uno Bianca. Il pm Giovannini: "Forse da rivedere i benefici ai killer" di Alessandro Cori La Repubblica, 20 agosto 2017 Il magistrato prende posizione dopo il caso di Marino Occhipinti in permesso premio in un 4 stelle. "Lo stupore e il dolore delle vittime è umanamente comprensibile, ma le leggi in vigore devono essere applicate dai magistrati. Oggi ha ragione il ministro Orlando, dopo più di venti anni di reclusione certi benefici si possono ottenere. Se poi la sensibilità culturale è mutata rispetto al tempo della loro emanazione, nulla vieta di modificarle". Dopo le polemiche suscitate dall’ultimo permesso concesso a Marino Occhipinti, uno dei killer della banda della Uno Bianca, il procuratore aggiunto Valter Giovannini prende la parola e lancia una riflessione sulla possibilità di rivedere l’attuale sistema della concessione dei benefici ai detenuti che hanno commesso i reati più gravi. Ma per il magistrato, che all’epoca si occupò dell’inchiesta e del processo bolognese alla banda dei fratelli Savi che fece 24 morti e 102 feriti, "il vero problema è la mancanza di certezza della pena. Condanne anche severe, dopo qualche anno, agli occhi dell’opinione pubblica sembrano come evaporare". La notizia del permesso premio che l’ergastolano Occhipinti, semilibero dal 2012, sta trascorrendo in un albergo in Val d’Aosta nell’ambito di una iniziativa di Comunione e Liberazione, ha gettato ancora una volta nello sconforto i familiari delle vittime. L’ex poliziotto condannato per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari in carcere ha scoperto la religione e da 15 anni lavora per la cooperativa Giotto. Un comportamento da detenuto modello, che però non interessa a chi ha perso un marito, come Rosanna Zecchi, che chiede giustizia. Lo stesso discorso vale per Anna Maria Stefanini, mamma di Otello, uno dei tre carabinieri trucidati dalla banda il 4 gennaio 1991 al Pilastro. "È uno schifo - si dispera Stefanini - Gli diamo i premi, invece si dovrebbero prendere le chiavi e buttarle. Sono la prima a dire se si può recuperare un ragazzo, ma non questa gente qui". Su questo punto Giovannini sposa le parole dette dal ministro della Giustizia Orlando ai familiari, ma poi sottolinea come in molti casi i cittadini non hanno fiducia nella certezza della pena. "Penso alla liberazione anticipata che comporta notevoli riduzioni di pena per anno espiato. Forse, almeno per i reati più gravi - continua il magistrato - occorrerebbe ripensare l’istituto non prevedendone l’applicazione per la custodia cautelare sofferta e per un congruo periodo in cui la pena è divenuta definitiva". Per Giovannini si tratta insomma "di ripensare, seppur in minima parte, l’attuale sistema ammettendo che la fase rieducativa, sancita dalla Costituzione, dovrebbe iniziare sul piano sia concettuale che materiale, dopo un periodo di tempo commisurato alla gravità del reato". Barcellona Pozzo di Gotto (Me): suicidio all’ex Opg. Padre Insana: "Disagi non curati" di Manuela Modica letteraemme.it, 20 agosto 2017 Era andato in cortile con i compagni di cella, poi si era allontanato con la scusa di esigenze fisiologiche. È stato ritrovato ieri mattina da un altro carcerato strozzato dalla corda legata al sifone della cella. È morto così a 38 anni all’interno dell’ex carcere psichiatrico, ora Casa circondariale per detenuti semplici o con problemi psichici sopravvenuti. Come nel caso del 38enne che: "Avevamo denunciato mesi addietro la situazione disastrosa dei detenuti dell’ottavo reparto dove sono ristrette persone con malattia mentale e dove è carente l’aspetto socializzante e riabilitativo", denuncia padre Pippo Insana, ex cappellano dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, responsabile dell’associazione "Casa di solidarietà e accoglienza". E continua: "I soggetti detenuti con infermità mentale (45 minorati psichici, 15 con art 148 per sopravvenuta malattia mentale, 18 in osservazione psichiatrica, due prosciolti che dovrebbero stare nella Rems e uno con misura di sicurezza provvisoria), vivono in solitudine e abbandono una vita senza senso e senza speranza. In questo contesto è comprensibile il suicidio del minorato di 38 anni". "Ci sono da noi due persone che erano sottoposte a regime di detenzione, una volta terminata avrebbero dovuto andare in Rems ma in quelle strutture non ci sono posti, perciò nonostante le nostre plurime richieste alla magistratura di sorveglianza, per il momento rimangono qui", spiega il direttore del carcere, Nunziante Rosania. Una sorta di Rems, però, potrebbe essere attivata all’interno del carcere: "Abbiamo messo a punto un progetto per l’attivazione di una struttura all’interno totalmente affidata al Dipartimento di salute mentale, siamo in attesa che la Regione e l’assessorato prendano una scelta definitiva", conclude Rosania. Nella stessa giornata, un altro detenuto è morto a seguito di un ictus. In carcere a Barcellona con disagio psichico, un uomo di 70 anni aveva avuto un ictus. Ricoverato da qualche giorno ieri sera è morto in ospedale. Firenze: ottanta ventilatori a Sollicciano, in magazzino di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 20 agosto 2017 La denuncia dei Radicali. Replica Brandi (Asl): pronta la lista dei detenuti a cui darli. Dopo appelli, proteste, e molti giorni di attesa ottanta ventilatori sono arrivati nel carcere di Sollicciano. Sessanta sono stati forniti dalla Regione e altri venti da Serre Torrigiani e Madonnina del Grappa. Ma i ventilatori sono fermi e inutilizzati nel deposito del penitenziario. A sollevare il caso è stato Massimo Lensi, che ieri ha visitato Sollicciano insieme a una delegazione di esponenti radicali. "I ventilatori non potranno essere utilizzati fino a quando la Asl non avrà stilato una graduatoria dei detenuti che ne hanno diritto, quelli con maggiori problemi di salute". Gli ottanta ventilatori, infatti, non bastano per gli oltre 500 reclusi e saranno riservati ai più disagiati. "Il rischio - incalza Lensi - è che possano essere usati solo quando il caldo non ci sarà più". "Proprio in queste ore - replica Gemma Brandi, responsabile per la Asl della salute in carcere - abbiamo consegnato una lista dei detenuti con più problemi di salute, dando priorità ai pazienti oncologici, a quelli con disturbi cardiovascolari, metabolici, neurologici ed epilettici". Il vero rischio semmai, secondo Brandi, è l’inadeguatezza dell’impianto elettrico di Sollicciano, che "potrebbe non consentire l’utilizzo dei ventilatori in cella". Alla visita di ieri ha partecipato anche il comico Paolo Hendel: "Invece che fare il nuovo stadio, a Firenze servirebbe un nuovo carcere". La visita, a cui hanno partecipato anche il La delegazione dei radicali che ieri ha visitato Sollicciano. Con loro anche Paolo Hendel cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo e il presidente della Camera penale di Firenze Eriberto Rosso, ha toccato anche il reparto giudiziario, dove ci sarebbero le condizioni più critiche: "Una doccia ogni 60 reclusi e abbiamo visto zecche nelle celle". Tommaso Grassi ha lanciato la proposta di un Consiglio comunale in carcere, mentre Lensi ha chiesto a Nardella "venga a visitare Sollicciano". Replica l’assessore Sara Funaro: "Il carcere è un pezzo importante della città, sono state numerose le visite e i sopralluoghi del Comune". Firenze: carcere di Sollicciano, botta e risposta tra Radicali e Comune controradio.it, 20 agosto 2017 "Nardella venga a visitare carcere" dicono i Radicali. "Conosciamo benissimo situazione" ribatte l'Assessore Funaro. Un appello alle istituzioni e in particolare al sindaco di Firenze Dario Nardella affinché "venga con noi a visitare il carcere di Sollicciano. Il senso che il Comune di Firenze ha voluto dare al rapporto tra la città e il carcere è carente e insufficiente". È quanto lanciato ieri da una delegazione Radicale, guidata da Massimo Lensi insieme al segretario nazionale del partito Rita Bernardini, al termine di una visita al penitenziario fiorentino. Presenti, tra gli altri, anche il cappellano del carcere Don Vincenzo Russo, il comico Paolo Hendel, il presidente della Camera penale di Firenze Eriberto Rosso, e il consigliere di Firenze riparte a sinistra Tommaso Grassi. "Nelle prossime settimane presenteremo al sindaco Nardella quelle che sono le carenze di questa struttura - ha sottolineato Lensi. La visita di oggi è solo un primo capitolo di tante altre iniziative che faremo prossimamente per una maggiore attenzione della città verso Sollicciano". Come spiegato da Don Russo "c’è bisogno di un interesse della città di Firenze verso il suo carcere. Sollicciano non è un corpo a sè, ma è un pezzo della città e come tale va considerato. Per questo c’è bisogno di un canale di comunicazione perché quelli che vive Sollicciano oggi sono i problemi di tutta una città e non solo di chi è rinchiuso qui dentro. Chiediamo al sindaco e anche all’amministrazione regionale di essere presente. Sollicciano è uno degli istituti peggiori in Italia, al suo interno ci sono delle condizioni invivibili e non è garantita la legge sul trattamento, sull’igiene e sul reinserimento. Chiediamo un maggiore interesse delle istituzioni". Eriberto Rosso ha spiegato che "anche come avvocatura siamo venuti a visitare Sollicciano dove ci sono oltre 200 detenuti in più rispetto alla capienza ordinaria e il caldo aggrava il sovraffollamento". Rosso ha ringraziato "per la collaborazione nella raccolta firme per la separazione delle carriere. Tra Sollicciano e l’istituto Gozzini abbiamo raccolto oltre 200 firme tra i detenuti. Una grande percentuale della popolazione detenuta se pensiamo che possono firmare solo i cittadini italiani che abbiano il godimento dei diritti civili". "Una seduta del Consiglio comunale dentro il carcere di Sollicciano alla presenza delle autorità del carcere e della Città": questa invece la proposta lanciata dal Capogruppo di Firenze riparte a sinistra, Tommaso Grassi, all’uscita della visita. "Il carcere è una parte della Città. Per chi fa politica in una Città come Firenze, è indispensabile andare in visita alcune volte all’anno, soprattutto in periodi dell’anno come quello estivo in cui le condizioni a cui sono costretti carcerate, carcerati e agenti della polizia penitenziaria sono davvero dure". "Si è perso negli ultimi anni quel rapporto che deve esistere tra Città, rappresentata dalle istituzioni fuori dal carcere, e da ciò che avviene dentro: per recuperare questo rapporto, essenziale quando è necessario vigilare sulle condizioni umane dei detenuti e monitorare sulle condizioni strutturali del carcere, crediamo che se il Consiglio comunale si svolgesse al suo interno sarebbe un segnale esemplare. Per questo lanciamo la proposta al sindaco e al Consiglio comunale intero augurandoci che possa essere accolto. Nel passato mandato è stato organizzato con la promessa che potesse diventare un appuntamento fisso ma così non è stato e anche la relazione del garante dei detenuti, prevista annualmente dallo Statuto del Comune di Firenze, da almeno due anni non ha più trovato spazio nei lavori del Consiglio". "Il sindaco, io e l’amministrazione comunale conosciamo bene la situazione del carcere di Sollicciano, non solo per le visite che vi ha fatto personalmente il sindaco, non soltanto per quelle che vi ho fatto io con tanto di sopralluoghi, l’ultimo dei quali l’8 agosto scorso, nelle celle delle varie sezioni eseguiti sia in inverno che in estate, ma anche per l’impegno che mettiamo, per quanto di nostra competenza, a migliorare la vita dei detenuti". L’assessore al welfare del Comune di Firenze Sara Funaro risponde così ai Radicali. "Riteniamo il penitenziario un pezzo di città su cui prestare grande attenzione - ha aggiunto Funaro - tanto che avevamo scelto di partecipare al progetto Urban, destinato alle periferie, con un progetto di miglioramento mirato alla struttura di Sollicciano. Ricordo anche che ogni anno 350mila euro sono stanziati per investimenti destinati ad organizzare attività per i detenuti, per l’operatore ponte e per due strutture di accoglienza esterna per detenuti. Ricordo che il garante dei detenuti, nominato dal Comune, è molto attivo e ci relaziona continuamente e che i rapporti con la direzione del carcere sono costanti, e continueranno ad esserlo, proprio a dimostrazione dell’attenzione che abbiamo verso la struttura e i detenuti". Bologna: alla Dozza un detenuto su tre è tossicodipendente di Giovanni Stinco radiocittadelcapo.it, 20 agosto 2017 Nel carcere di Bologna un detenuto su tre è tossicodipendente. A certificarlo il rapporto sull’attività di vigilanza dell’Ausl di Bologna nella Casa circondariale di Via del Gomito. Il documento, diffuso a inizio agosto, fornisce una fotografia sulla Dozza. A cominciare della presenze. Se la capacità ricettiva sulla carta sarebbe di 483 persone i reclusi effettivamente presenti sono 766. Di questi 421 sono stranieri. Dietro le sbarre anche 4 bambini sotto i tre anni d’età. Infine, e qui si arriva al dato sulla tossicodipendenza, sui 766 ospiti ci sono 224 persone dipendenti dalle sostanze. Il 29% del totale, poco meno di una persona su tre. Gli operatori del Sert (Servizi per le Tossicodipendenze) di Bologna che operano nel carcere sono 8: 2 medici, 3 psicologi e 3 assistenti sociali. A loro bisogna aggiungere 1 infermiere professionale diurnista e 6 turnisti. Il rapporto dell’Ausl fa una serie di osservazioni. Il numero delle presenze, superiore alle 700 unità, è diminuito rispetto agli anni precedenti (nel 2011 aveva superato quota 1.000) ma, si legge nel documento, "risulta comunque superiore alla capienza generale della struttura: permane, quindi, il disagio dei detenuti causato dal sovraffollamento: molte celle, previste per un occupante, vengono utilizzate da due ospiti, con problemi evidenti di vivibilità, privacy e di natura igienico sanitaria, dovuti anche all’utilizzo del bagno in cella come deposito degli alimenti utilizzati dai detenuti per il sopravvitto, già più volte segnalati". L’Ausl chiede infine interventi urgenti sulle sezione docce comuni di tutte le sezioni ad eccezione della Giudiziario 2C e nella sezione penale. "Si ribadisce la necessità di realizzare urgentemente gli interventi manutentivi nei soffitti e nelle pareti intonacate e di provvedere alla installazione degli aspiratori". Pisa: 34enne tenta di suicidarsi in cella, salvato dalla Polizia Penitenziaria reportpistoia.com, 20 agosto 2017 Un detenuto italiano di 34 anni, originario di Nola e ristretto nel carcere di Pisa, ha tentato di uccidersi nella sua cella, ma l’uomo è stato salvato dal tempestivo intervento delle Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio. È accaduto nel pomeriggio di giovedì e a darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che plaude al provvidenziale intervento degli Agenti di servizio. Spiega Donato Capece, Segretario Generale Sappe: "L’agente di servizio è stato richiamato dalle urla dei compagni di cella dell’uomo che chiedevano aiuto. Entrato nella cella, ha trovato l'uomo in bagno con una rudimentale corda (fatta con lembi di lenzuolo) al collo ed è riuscito a salvargli la vita con l'aiuto dei compagni di cella". "Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità - dice ancora Capece. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Questo nuovo drammatico tentativo di suicidio di un altro detenuto, sventato in tempo dai bravi poliziotti penitenziari, evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri". Padova: Cignoni dal carcere "troppo caldo, finito in ospedale con una sincope" di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 20 agosto 2017 L’ex imprenditore recluso a Padova. La replica: stiamo provvedendo. Stremato dal caldo del carcere di Padova dov’è detenuto da alcuni mesi, l’ex imprenditore edile di 76 anni di Lendinara, Franco Cignoni, è stato ricoverato nei giorni scorsi all’ospedale della città del Santo per una sincope. Cignoni, in carcere dopo una condanna a nove anni per violenza sessuale diventata definitiva, lancia accuse durissime sulle condizioni di vita della struttura penitenziaria padovana. "Le mie condizioni di salute non sono buone e i medici sono molto preoccupati" spiega Cignoni che aggiunge: "In questi giorni di agosto si sono sfiorati i 50 gradi in carcere e, nonostante le disposizioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando di fornire ai cardiopatici adeguati ventilatori, nulla è stato fatto". A rendere ancora più complicato il quadro lo stato di prostrazione psicologica di Cignoni che si è sempre professato innocente. "Sono stanco di soffrire ingiustamente mentre i miei accusatori si godono vacanze dorate acquisite grazie alla mia condanna" conclude l’ex imprenditore. Dal carcere di Padova la replica di Ottavio Casarano, il nuovo direttore. "Non mi è permesso fare riferimento al caso specifico, ma posso dire - afferma Casarano - che ho personalmente richiesto l’autorizzazione a dotare le stanze di ventilatori. Il Dipartimento centrale del ministero ha già invitato le singole direzioni degli istituti penitenziari a favorire l’uso di ventilatori e strumenti in grado di alleviare la sensazione di caldo all’interno delle camere. Di conseguenza abbiamo già iniziato a dotare di ventilatori le persone maggiormente esposte al fattore climatico, per fronteggiare conclude - il periodo più caldo". L’ex imprenditore, titolare della ditta di costruzioni famosa per aver costruito il ponte di Calatrava a Venezia, è stato processato per l’accusa di aver violentato una nipote australiana all’epoca dei fatti 11enne - durante una vacanza in Italia tredici anni fa. Gli episodi di toccamenti alla minore, sette, sarebbero accaduti dal 29 giugno al 7 luglio 2004 tra Lendinara e il lago di Garda. I tre gradi di processo, a Rovigo nel 2013, in Appello nel 2015 e in Cassazione lo scorso anno, hanno sempre confermato la stessa sentenza di condanna: nove anni. Torino: giornata di studi su "La prospettiva cristiana della pena" di Claudio Geymonat riforma.it, 20 agosto 2017 La giornata di studi intitolata al teologo Giovanni Miegge dedicata quest'anno al delicato tema carcerario. La colpa e la cura, il delitto e la pena, il ponte fra il dentro e il fuori, la pena di morte e il fine pena mai. E ancora, la qualità e la quantità del tempo, la soggettività cancellata e il recupero impossibile, le vittime, i carnefici, gli spazi soffocanti e le tante, troppe ore per pensare. Ampio, complesso, a tratti toccante, il tema scelto per l’annuale giornata di studi intitolata al pastore e teologo Giovanni Miegge, ormai consueto appuntamento del venerdì che precede il sinodo delle chiese valdesi e metodiste: "Il carcere e la pena in prospettiva cristiana". A parlarne, nell’aula sinodale della Casa Valdese di Torre Pellice, chi nelle carceri e per le carceri ha dedicato sforzi, impegno, tempo. Ecco allora alternarsi ai microfoni Elisabetta Zamparutti, già deputata radicale, tesoriera dell’associazione "Nessuno tocchi Caino" e rappresentante italiano nel Comitato per la prevenzione della tortura nel Consiglio d’Europa, Luigi Manconi, senatore, presidente dell’associazione "A buon diritto", Eva Propato, volontaria al momento della casa circondariale di Empoli, Nicola Valentino, 26 anni in carcere all’ergastolo e fra i fondatori della cooperativa editoriale "Sensibili alle foglie", il pastore Francesco Sciotto, da anni impegnato in materia con vari incarichi, la pastora Letizia Tomassone. Nella prima parte della giornata spazio dedicato all’analisi dell’ergastolo ostativo, definito dalla legge 356 del 1992, che in sostanza vieta la concessione dei benefici carcerari per i condannati di alcune tipologie di delitti (terrorismo, associazione mafiosa e simili). Nessun permesso premio quindi, nessuna libertà condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia nel favorire l’arresto di altre persone. Una pena di morte differita è stata definita dai relatori, una dilazione perpetua della condanna. "Lo Stato si prende la tua vita - racconta Nicola Valentino - ti esclude per sempre da ogni contesto sociale e decide il luogo in cui morirai. Non si può vivere aspettando di morire". Luigi Manconi ha quindi allargato il ragionamento per sottolineare la totale inutilità dell’esercizio carcerario così come è concepito oggi, "Che tutto fa tranne ristabilire l’equilibrio sociale, peggiorando anzi assai le cose", tanto da rilanciare lo slogan sull’abolizione totale del carcere, che è anche il titolo di un suo volume del 2015. Francesco Sciotto ha ricordato che "La Federazione delle chiese evangeliche in Italia si è già con chiarezza espressa a favore dell’abolizione dell’ergastolo. Pena e carcere non sono la stessa cosa, la cella tutta la vita non è soluzione. Io credo che come cristiani, seppur di una piccola comunità, siamo chiamati a dire una parola forte su questo. È lecito prendersi la vita di una persona per sempre, senza offrire una prospettiva di cambiamento?". Eva Propato dal 2005 spende il proprio tempo a dialogare con le detenute di varie case circondariali, e come gli altri relatori sottolinea "La totale mancanza di visione, di speranza che si respira fra quelle mura. Come fosse un mondo a sé, da tenere nascosto. Tanto che manca ogni sorta di ponte con il mondo "di fuori". Così, se e quando verrà il momento di uscire di cella, questi soggetti non sono né recuperati né sanno fisicamente cosa fare, dove andare, reietti in un mondo che non riconoscono e che a sua volta non li vuole riconoscere". Letizia Tomassone, a sua volta spesso in visita a detenuti, racconta della "Difficoltà di approcciare un microcosmo a sé, con le proprie regole che non sono quelle del mondo esterno. Ecco quindi il rischio di venir manipolati da questo o quel soggetto per i più vari motivi. A noi spetta ascoltare e quindi portare la parola di Dio, tentando di incidere sulla qualità del tempo". Il tema è coinvolgente, divisivo e meritevole certamente di una riflessione da parte dei delegati ai lavori sinodali. Ragionare sull’ergastolo e non sull’intero panorama giudiziale avrebbe forse reso più coerente il pacchetto degli interventi, così come un più forte richiamo anche a chi sta dall’altra parte, cioè alle vittime delle violenze, soggetto decisivo per un vero riequilibrio sociale, avrebbe forse reso più ampio e variegato il prodotto finale, che è però un risultato di assoluto livello tecnico, data la qualità e competenze degli oratori. La giornata si è conclusa con la proiezione di "Spes contra spem", il docufilm di Ambrogio Crespi sul mondo del carcere e, in particolare sulla realtà del 41 Bis e dell’ergastolo ostativo. Tre problemi nella lotta al terrorismo di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 agosto 2017 I foreign fighters van trattati come criminali di guerra e noi rinunceremo a un po’ di libertà per maggiore sicurezza: infine, negoziare con le comunità islamiche. Giunti a questo punto, arrivati a questa fase della guerra che il terrorismo islamico sta conducendo contro di noi, l’Europa ha di fronte a sé tre problemi, gli ultimi due, soprattutto, di difficilissima soluzione. Il primo, in teoria (ma solo in teoria) più semplice, riguarda il che fare con i foreign fighters, quelli che, magari in possesso di un titolo di cittadinanza europea, tornano in Europa dopo avere combattuto nelle fila dello Stato islamico. Il secondo - di assai più ardua soluzione - riguarda il quantum di libertà che l’Europa è disposta a sacrificare in cambio di una maggiore sicurezza, di una maggiore capacità di difendere la vita dei propri inermi cittadini dalle azioni di guerra condotte dai "soldati" - emuli degli antichi guerrieri della fede islamica - impegnati nel jihad. Il terzo problema, infine, riguarda quali prezzi, politici e sociali, occorrerà pagare per ottenere l’attiva cooperazione delle comunità musulmane europee ai fini dell’identificazione, dell’isolamento e della caccia ai jihadisti. Sulla prima questione non dovrebbe essere difficile trovare la soluzione. Si tratta di decidere a livello europeo, e di tradurre nelle legislazioni nazionali, norme che dichiarino i reduci combattenti dello Stato islamico criminali di guerra - gente che ha commesso crimini contro l’umanità e che potrebbe commetterne ancora - da ingabbiare e condannare a lunghissime pene detentive. Rimarrebbero altrimenti a piede libero giovani esaltati, già colpevoli di efferatezze, addestrati all’uso delle armi e combattenti esperti. Non c’è nessuno strappo rispetto ai principi liberali (è solo un elementare gesto di autodifesa) se costoro vengono messi in condizione di non nuocere. È assurdo che queste decisioni non siano già state prese. Molto più complesso è il secondo problema. Riguarda il dilemma libertà/sicurezza. Riguarda la questione, così difficile da trattare per le democrazie liberali, dei poteri d’emergenza. Molti di coloro che attentano alla vita degli europei non sono foreign fighters, sono persone che si sono radicalizzate di recente (come ha scritto Guido Olimpio sul Corriere di ieri). La questione, nella sua drammaticità, è semplice: o li si ferma prima che colpiscano o ci si deve rassegnare a che muoiano tante persone inermi. Ma se li si vuole fermare prima che agiscano, quando ancora si limitano a manifestare idee jihadiste e a frequentare altri radicalizzati come loro, allora si tratta di capire come ciò possa conciliarsi con la tutela della libertà di parola e di espressione. Limitarsi ad espellerli (misura saltuariamente utilizzata dai governi europei, e anche dal nostro) non è sufficiente. Sia perché una parte è composta da cittadini europei ai quali tale provvedimento non si applica. Sia perché l’espulso resta comunque una bomba pronta a esplodere da qualche altra parte. Lo espelli dalla Francia o dall’Italia e quello trova il modo di andare a uccidere (o a reclutare coloro che uccideranno) in Germania o in Spagna. Che fare dunque? È evidente che tocca all’Europa (nel senso dell’Unione Europea) dimostrare a chi ne contesta l’utilità che essa serve a qualcosa anche sul fronte della sicurezza. Per evitare che norme tese a bloccare i jihadisti quando rappresentano ancora solo una potenziale minaccia diventino il varco attraverso il quale, col tempo, possano passare provvedimenti illiberali in grado di colpire tutti, occorrono in Europa patti chiari, decisioni limpide, paletti ben piantati. Ma qualcosa bisogna comunque fare. Chi dice di no, chi dice che non servono misure ad hoc per fronteggiare il terrorismo islamico (e che dobbiamo solo rassegnarci a conviverci) ricorda la magnifica battuta di Ennio Flaiano sui rivoluzionari che fanno le barricate usando il mobilio altrui. Essi giocano sulle probabilità: assumono, correttamente, che sia poco probabile che fra le prossime vittime degli attentati ci siano loro stessi o i loro cari o i loro amici. I liberali hanno sempre saputo distinguere fra le situazioni in cui la sicurezza è relativamente garantita e le situazioni in cui non lo è, hanno sempre compreso che, nel secondo caso, se si tratta di sacrificare alcune libertà, allora è meglio farlo de jure, dopo una discussione pubblica, piuttosto che di fatto, tacitamente, nascostamente, sotto la pressione dello stato di necessità. Il terzo problema riguarda i futuri rapporti con le comunità musulmane europee. I governi dovranno negoziare (plausibilmente, lo stanno già facendo) con quelle comunità. Si tratta di chiarire i contenuti dell’inevitabile scambio politico (sollecitare la loro cooperazione con gli apparati europei di sicurezza in cambio di cosa?). È preoccupante che non se ne discuta apertamente. Bisogna decidere che cosa sia negoziabile e che cosa no, quali rivendicazioni siano accettabili e quali siano invece inaccettabili. Si tratta anche, negoziando, di non legittimare le componenti più integraliste di quelle comunità. Spesso in Europa si commette il terribile errore di chiamare "moderati" gli integralisti che non uccidono. Costoro non uccidono ma sono, culturalmente, parenti stretti di quelli che lo fanno. Si tratta di selezionare con cura gli interlocutori. Affinché il prezzo pagato in cambio di un aiuto contro il terrorismo, non sia troppo alto, non sia tale da allontanare, in capo a qualche anno, l’Europa da se stessa, dalla propria storia, dai propri principi. Prima cominciamo a parlarne e meglio è. Terrorismo. Non avere paura di farsi qualche domanda di Luciana Castellina Il Manifesto, 20 agosto 2017 Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando "no tinc por". E bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso, oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato fatto a quello che viene chiamato il "nostro libero modello di vita". E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati. So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo. E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto (no, non "legale", per carità!); chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali. La nostra orgogliosa riaffermazione "non abbiamo paura" ha certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e, anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere controproducente. Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che, anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile. La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza. Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia. Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo, anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. ( Ha ragione Ben Jelloun che si è chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista). E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra, fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio. Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma - ripeto - per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità. Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo un impegno politico al "non abbiamo paura". L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione. Terrorismo. Una minaccia sulla Rete: "Ora tocca all’Italia" di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 20 agosto 2017 Comunicazione captata su Telegram da specialisti americani dopo Barcellona. Verifiche sull’attendibilità Una decina gli appelli già intercettati dai nostri 007 in due settimane. Espulsi due marocchini e un siriano. Nuove minacce terroristiche all’Italia rimbalzano sui social riconducibili all’Isis. "Il prossimo obbiettivo è l’Italia", è il senso del messaggio rivelato dal sito statunitense Site, specializzato in monitoraggio delle comunicazioni dei terroristi islamici sul web. Una minaccia che non suona nuova e che non sposta la sostanza delle misure di controllo e prevenzione già varate dal Viminale, ma che non viene sottovalutata e raggiunge comunque l’obbiettivo di seminare altri timori all’indomani della strage di Barcellona. Gli analisti dell’intelligence italiana hanno intercettato nel web almeno una decina di messaggi analoghi nelle ultime due settimane. Appelli a "colpire ovunque". Una sorta di chiamata alle armi, l’ennesima, dei fondamentalisti. L’"annuncio", sulla cui attendibilità sono in corso le verifiche d’obbligo, è passato su uno dei canali Telegram ai quali si appoggia lo Stato Islamico. Non ci sarebbero nella minaccia riferimenti specifici a luoghi o circostanze, ma solo una scansione temporale che individua l’Italia come prossimo obbiettivo dopo la Spagna e la Russia (sette persone accoltellate ieri a Surgut, in Siberia, con rivendicazione dell’Isis). Analoghe informazioni, come detto, vengono quotidianamente vagliate dall’intelligence italiana e d’altronde il riferimento al nostro Paese come meta finale dell’offensiva jihadista compare sul frontespizio della rivista ufficiale dell’Isis, che si chiama non a caso Rumiyah (Roma) "sotto i cui ulivi si fermerà l’avanzata dei mujaheddin". L’allerta in Italia è al "livello due", ossia il gradino antecedente l’"attacco terroristico in corso". Come ha spiegato il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nel Comitato di ordine e sicurezza di ferragosto e nella riunione straordinaria del Comitato di analisi strategica antiterrorismo convocato venerdì per analizzare l’attacco in Catalogna, "il quadro della minaccia rimane alto, ma non c’è un pericolo imminente". Aggiungendo che "nessun Paese è immune" e che a occupare gli investigatori italiani è soprattutto il rischio che l’attentato sulla Rambla possa essere imitato da terroristi "improvvisati". Il rinnovo delle minacce via web ha forse anche questa finalità: spingere all’azione jihadisti o aspiranti tali. Nell’attività di prevenzione del Viminale, intanto, ieri sono stati espulsi due marocchini e un siriano di 38, 31 e 29 anni che erano già detenuti a vario titolo a Modena, Alessandria e Vibo Valentia. In cella festeggiavano gli attentati di Stoccolma e Manchester, provavano a imporre il loro integralismo ad altri detenuti e uno di loro (con problemi mentali) il 4 luglio aveva anche rubato un minibus per finalità non chiare. Salgono così a 70 i rimpatri motivati dall’antiterrorismo nel 2017, rispetto ai 37 di un anno fa. islamisti hanno in mente il Califfato virtuale che se non può rimpiazzare l’occupazione di Mosul offre ai jihadisti europei - e non solo a loro - l’idea che c’è comunque un punto di riferimento ideologico e militare. Gli "ufficiali" dell’organizzazione, usando il web in modo remoto, sono in grado di pilotare gli affiliati, persino chi ha scoperto solo di recente la guerra santa. Sempre la Rete diventa il cordone ombelicale con i cattivi maestri, elementi esperti e imam radicali che possono mettere insieme un nucleo, come avvenuto a Barcellona. Il rischio è che dando spazio a ogni parola pronunciata dai pro-Isis non solo gli si conceda luce, ma si trasmettano, in modo indiretto, ordini d’attacco. Terrorismo. Il nostro Medio Oriente è nelle periferie abbandonate di Fulvio Scaglione Avvenire, 20 agosto 2017 Se vogliamo farci un’idea più chiara di quanto è successo a Barcellona, e insieme di quanto negli ultimi anni succede nelle grandi città d’Europa (Parigi, Nizza, Berlino, Londra), dobbiamo dimenticare le rivendicazioni di Daesh. Le residue milizie dal Califfato sono schiacciate in pochi angoli di Siria e Iraq e hanno ben altro a cui pensare. Il terrorismo che ci colpisce, dunque, non è più importato, forse non è più nemmeno ispirato dall’esterno. Siamo di fronte, ormai, a un terrorismo compiutamente europeo, nel senso che nasce qui e ha caratteristiche che rispondono alla situazione dei nostri Paesi. Che agisca nel nome dell’islamismo non cambia nulla: colpisce qui perché qui sta il suo interesse a colpire. Non perché voglia aiutare la causa di qualcuno che combatte in Medio Oriente o in Nord Africa. È un fenomeno nuovo, di cui ci siamo forse accorti con ritardo. A cui ha fatto da levatrice, però, la serie di accordi economici e politici raggiunta nel 2016 tra la Russia impegnata a soccorrere Bashar al-Assad in Siria e la Turchia ancora scossa dal fallito colpo di Stato. Tra impegni sui gasdotti e sul commercio, Vladimir Putin e Recep Erdogan trovarono l’intesa politica che portò la Turchia a chiudere il confine con la Siria. Cioè a bloccare la via maestra che aveva fin lì portato a Daesh ricambi e rifornimenti. Da quel momento, non a caso, iniziò il declino del califfato e delle sue milizie. Per quanto riguarda noi, chiudere quel confine significò impedire ai volontari europei di raggiungere le truppe jihadiste sui fronti di Siria e Iraq. Non fu una conseguenza di poco conto: dei circa 70mila foreign fighters che partirono da decine di Paesi diversi per mettersi al servizio di al-Baghdadi, almeno 6-7 mila (secondo le stime più prudenti) erano arrivati dall’Europa, il che vuol dire soprattutto Francia, Regno Unito e Germania. A quelli che non poterono partire dall’Europa si sono aggiunti, negli ultimi tempi, i superstiti e i reduci. Cioè quei foreign fighters europei che sono sopravvissuti alle guerre del Medio Oriente e sono tornati a casa. Uomini allenati all’odio, induriti dalla battaglia, abituati a uccidere, esperti nell’uso delle armi e delle tattiche della guerriglia. Così, in Europa, oggi abbiamo una certa quantità di persone fanatiche, che un tempo si sarebbero trasformate in militanti e avrebbero magari preso la via del Medio Oriente e adesso invece sono "bloccate" qui. Dove però, a differenza di prima, dispongono di ispiratori e istruttori: i reduci di Daesh, appunto. Nasce così il nuovo terrorismo europeo. Che infatti allinea una schiera quasi infinite di persone anonime, grigie, quasi sempre sconosciute ai servizi di sicurezza. Molto spesso immigrati in apparenza perfettamente integrati, come coloro che hanno colpito a Londra o a Levallois-Perret alle porte di Parigi. Individui, invece, pieni di frustrazione e rabbia, di colpo pronti a sacrificare la vita altrui e la propria in attentati che sono per loro natura, tra l’altro, pieni di spirito suicida. Che altro si può dire di chi prova a falciare turisti o soldati con un automezzo preso a noleggio? Sono queste le reclute del nuovo terrorismo europeo. E colpiscono nelle grandi città per due ragioni. Perché far scorrere il sangue nel centro di Parigi o accanto al Parlamento di Londra, sul lungomare di Nizza o sulla rambla di Barcellona affollati di turisti, vuol dire ottenere una risonanza mondiale per i propri gesti. Ma anche perché le metropoli sono il grande stagno in cui nuotano questi alieni contemporanei. Certo, non le strade piene di vetrine o i quartieri dei localini alla moda, ma quei non-luoghi che pure sono altrettanto tipici delle grandi città: le periferie abbandonate, i palazzoni dove si ammassa l’immigrazione più recente, le carceri dove al piccolo delinquente viene fornita una causa e una fede, i centri di raccolta dei fedeli dove la religione è manipolata ad arte. Il nostro Medio Oriente è lì. Il nostro terrorismo anche. È lì che dobbiamo vincere la buona battaglia. Migranti. Sgomberato il palazzo dei rifugiati a Roma, mille persone per strada di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 20 agosto 2017 Palazzo Curtatone, occupato dal 2013, era la denuncia vivente del malfunzionamento del sistema dell'accoglienza. Ci vivevano rifugiati e richiedenti asilo eritrei a poche centinaia di metri dalla Stazione Termini. In quattro anni governo e comune non sono riusciti a trovare una soluzione all'emergenza. È lo sgombero più grande degli ultimi anni nella Capitale, il fronte interno della guerra ai migranti e ai poveri registra una nuova offensiva, mentre continua la strategia di respingimento nei centri di detenzione in Libia. Centinaia di agenti in tenuta antisommossa hanno sgomberato ieri all’alba il "palazzo dei rifugiati", un edificio di 32 mila metri quadri tra via Goito, via Curtatone e piazza Indipendenza, a poche centinaia dimetri dalla stazione Termini a Roma. Più di venti automezzi che hanno isolato il quadrante tra la stazione Termini e la biblioteca nazionale di viale Castro Pretorio a partire dalle prime luci del giorno. Un minimo tentativo di resistenza è stato respinto, con la minaccia dell’intervento dei camion idranti, in via Solferino. Palazzo Curtatone era stato occupato nel 2013, dopo la strage del 3 ottobre a Lampedusa dove hanno perso la vita 368 persone. Circa 800 migranti, almeno 250 famiglie con decine di minori, per la maggior parte eritrei richiedenti asilo e rifugiati, sono stati sostenuti dai movimenti per la casa nell’ambito dello "Tsunami tour", una campagna clamorosa per denunciare l’emergenza abitativa a Roma e dare un’abitazione a migliaia di italiani e immigrati. Un’occupazione scomoda quella di palazzo Curtatone, questo il nome dell’immobile. Sul lato opposto di piazza Indipendenza sorge la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, a trecento metri c’è il consolato tedesco, la redazione romana del Sole 24 Ore e il Corriere dello Sport. Finché ha resistito in questa zona centrale della città, il palazzo dei rifugiati è stato la denuncia vivente del mancato rispetto della Convenzione di Ginevra, del regolamento di Dublino e del malfunzionamento del sistema dell’accoglienza. Gran parte degli occupanti erano legalmente residenti in Italia, ma al riconoscimento del loro status non è seguita l’accoglienza in strutture che potevano garantire condizioni di vita dignitose. Mai, fino allo sgombero di ieri, è stata offerta una soluzione alternativa realistica. "Erano stati messi in mezzo alla strada, perché l’Italia non prevede per tutti l’accompagnamento fino alla reale autonomia delle persone" ha detto a maggio in una dichiarazione all’Agi Padre Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, l’agenzia che si occupa di assistenza ai rifugiati africani. Ora ci sono tornati, in strada. "Non ci hanno avvisato, non siamo riusciti e prendere niente né a fare le valigie, dentro abbiamo ancora tutto, anche i nostri documenti" ha raccontato una donna etiope cinquantenne che lavora in un albergo vicino. "Hanno spaccato la porta, senza preavviso o rispetto - ha raccontato un uomo eritreo di 37 anni - Sono qui dal primo giorno, avevamo occupato solo per chiedere i nostri diritti di rifugiati, ma non ci hanno detto nulla. Ora diventeremo ‘sporco per le stradè?". Ci sono almeno due donne incinte, di cui una in stato avanzato: "Non ci hanno offerto niente" ha detto una di loro. Un uomo sui 30 anni ha raccontato di essere arrivato a Lampedusa via Libia in barcone nel 2012, e di aver ottenuto asilo politico: "Ora non so dove andare" sostiene. Oltre all’esercito di poliziotti e finanzieri, ieri al primo piano dell’edificio costruito negli anni Cinquanta dagli architetti Aldo Della Rocca, Ignazio Guidi, Enrico Lenti e Giulio Sterbini è stato creato un "help-desk" della polizia, un servizio sanitario per anziani e bambini. L’amministrazione comunale guidata dalla pentastellata Virginia Raggi ha fatto sapere che sul luogo è intervenuta la sala operativa sociale di Roma Capitale. A piazza Indipendenza è arrivata anche l’Atac che ha messo a disposizione alcuni autobus a supporto dei cinque mezzi usati dalla polizia per trasportare i migranti al centro di identificazione di Tor Cervara. "Non ci sono vetture per i passeggeri, ma piena disponibilità per gli sgomberi" hanno polemizzato su twitter i Blocchi precari metropolitani (Bpm). È stato questo il discutibile contributo dell’azienda dei trasporti pubblici all’"operazione di bonifica". Questa dizione sconcertante è stata usata nei comunicati ufficiali. La sintesi è inquietante: un’emergenza sociale e umanitaria, creata dalla disapplicazione e dal malfunzionamento delle leggi, ridotta a un episodio igienico-sanitario. Un uso burocratico del linguaggio che richiama i peggiori incubi della storia del Novecento e fa parte del bagaglio semantico dell’ideologia del decoro usata per giustificare l’operazione. A una cinquantina di persone sarebbe stato accordato il permesso di passare la notte nel palazzo sgomberato. "Dove andremo adesso? Non lo sappiamo. Dormiremo per terra" dicono alcuni. Altri dormiranno da conoscenti o in altre occupazioni. Al destino incerto di centinaia di persone non collaborerà IDeA Fimit, la società alla quale il fondo Omega di Intesa, Enasarco e Inarcassa (la cassa degli ingegneri e degli architetti) ha affidato l’immobile nel 2011 che sarà trasformato in un albergo, in un centro commerciale e in una palestra. "Non esiste nessun impegno diretto nel ricollocamento degli occupanti - ha precisato in una nota IDeA Fimit - Non corrisponde al vero che alcuni gruppi di persone saranno ospitati in strutture individuate dalla proprietà". Lo sgombero, richiesto già nel 2013 e ribadito più volte fino al febbraio 2016, era stato previsto dal 12 aprile 2016 quando Francesco Tronca, ex commissario straordinario della Capitale, lo ha inserito tra le priorità. Lo aveva promesso anche l’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano in una risposta a un’interrogazione alla Camera. È avvenuto sotto il governo del suo successore, Marco Minniti. Il Comune, per bocca del vicesindaco Luca Bergamo, sostiene di avere concesso alcuni alloggi agli sgomberati. "L’accettazione di questa offerta è volontaria" ha precisato Bergamo che ha respinto la responsabilità sull’accaduto. Lo sgombero è stato deciso da Prefettura e Questura di Roma: "Quando si tratta di sgomberi di edifici privati il Comune viene coinvolto con un’informativa delle autorità di pubblica sicurezza, normalmente molto a ridosso dell’evento" ha precisato. Com’è ormai prassi nelle città italiane- l’ultimo episodio a Bologna con gli sgomberi di Làbas e Crash - l’autorità politica non sa e non vede. Ad agire sono il Viminale, le questure e i prefetti. È lo stato di emergenza: la politica è commissariata. Anche i Cinque Stelle, come in precedenza il sindaco Marino, subiscono questa supplenza. Ieri, mentre le destre attaccavano, e le sinistre rispondevano, sono rimasti muti. Le immagini dei bambini usciti dal palazzo con grossi trolley, borsoni, libri scolastici, tra paraventi e quadri di soggetto cristiano, insieme a quella di una donna incinta di otto mesi, costretta ad aspettare sotto il sole, seduta su una sedia, per recuperare gli effetti personali, hanno scosso il vuoto pneumatico del post-ferragosto romano. "Un altro sgombero senza una proposta di soluzione alternativa. Dove andranno ora i rifugiati eritrei che erano dentro?" ha chiesto il collettivo Baobab che ha accolto 35 mila migranti transitanti nella capitale e affronta quotidianamente sgomberi a ripetizione. Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani e senatore Pd, si è soffermato sul nodo politico: "Una situazione ben conosciuta da anni, e nota a tutte le autorità e all’amministrazione comunale, che si è deciso di affrontare e risolvere proprio ieri - sostiene - persone e interi nuclei familiari, regolarmente residenti nel nostro paese e per le quali, evidentemente, una città come Roma, con tre milioni di abitanti, non è stata in grado di trovare una più dignitosa collocazione". La soluzione del problema resta in mano al Comune che deve coordinarsi con la Prefettura: "È un’emergenza sociale - sostiene Marco Miccoli, deputato romano del Pd - Spero che mettano velocemente a disposizione soluzioni - Serve un piano di emergenza che eviti una tendopoli o situazioni inaccettabili per la dignità delle persone". Un piano di cui tuttavia non sembra esserci traccia. Mentre la destra ieri brindava al ritorno alla "legalità", anche dal Pd si sono levate voci consonanti. Per Stefano Pedica (Pd) bisogna andare avanti con gli sgomberi, perché "siamo in piena emergenza terrorismo". "Sono parole inaccettabili, da caccia alle streghe - sostiene Paolo Cento (Sinistra Italiana) - Il Pd cavalca la paura invece di fare fronte comune contro l’intolleranza". Va ricordato un episodio che più di ogni altro riassume lo spirito di un’occupazione attaccata ferocemente dalle destre e dai razzisti di ogni specie nelle ultime settimane, considerata sinonimo di "spaccio, degrado e prostituzione", nozioni ribadite ieri Giorgia Meloni di "Fratelli d’Italia". Sul lato monumentale del palazzo, quello che si affaccia su Piazza Indipendenza, per anni è rimasto esposto lo striscione: "Siamo rifugiati, non siamo terroristi" era scritto a caratteri cubitali. Una precisazione preventiva contro l’equazione "rifugiati=terroristi" che è tornata immancabilmente ieri a galla, con l’uso disonesto e incongruo dei gravi fatti accaduti a Barcellona. Quello striscione non è servito. Dopo quattro anni di scaricabarile tra governo e comune è arrivato solo lo sgombero, nonostante tutto. E tutti. La povertà va messa sotto il tappeto sul fronte interno della guerra contro migranti e poveri, mentre su quello esterno si rinchiudono i migranti nei centri di detenzione in Libia. Questo ripristino della "legalità" rischia di acuire i disagi di una città prostrata che non vede una soluzioni in un’emergenza che aumenta, sgombero dopo sgombero. "Ma davvero sindaco, prefetto, questore pensano che buttare le persone in mezzo ad una strada risolva il problema? - domanda Adriano Labbucci (Sinistra Italiana) - Lo si sposta e si rende ancora più precaria e insicura la città e la vita delle persone. Sgomberare non è governare". Nell’agosto romano più blindato, e desolato, degli ultimi anni, quello di ieri è stato lo sgombero più grande, il terzo dell’estate dopo Casetta, il secondo nell’ultima settimana. Il 10 agosto in via Quintavalle a Cinecittà sono state arrestate 11 persone e una sessantina di famiglie sono state sgomberate da un edificio ex Inps, proprietà della società immobiliare di una banca. Ora sono accampate nel portico della Basilica dei Santi XII Apostoli, nella piazza di fronte alla Prefettura. Ieri pomeriggio, a piazza Santi Apostoli, è stato organizzato un sit-in di protesta dove ai bambini è stata data l’opportunità di giocare e fare il bagno in piscine gonfiabili. I blocchi precari metropolitani hanno denunciato l’arresto di due attivisti accusati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Le forze dell’ordine avevano chiesto di rimuovere le piscine. "Una rappresaglia contro l’esercizio della solidarietà e il rifiuto di nascondere la povertà sotto il tappeto" denuncia il movimento per la casa. In questo clima di repressione e rappresaglie, dove trionfa la città della rendita, a Roma è prevista una manifestazione di protesta il prossimo 26 agosto. La questione degli sgomberi e degli sfratti è sentita in tutto il paese, come dimostrano i dati del 2016. Il 9 settembre è confermato il corteo nazionale a Bologna dopo gli sgomberi dei centri sociali Làbas e Crash. Stati Uniti. Tennessee, sconto di pena ai detenuti che si sterilizzano di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 20 agosto 2017 Trenta giorni di carcere in meno. Tanto vale una vasectomia in una piccola contea del Tennessee dove la scorsa primavera il giudice Sam Benningfield del tribunale della città di Sparta ha offerto ai detenuti uno sconto di pena in cambio della sterilizzazione per gli uomini e dell’impianto del metodo contraccettivo Nexplanon che dura dai 3 ai 5 anni per le donne. Un’iniziativa che ha destato scandalo sulla stampa nazionale e internazionale che ha accusato la cittadina di praticare l’eugenetica. A luglio il programma è stato sospeso su pressione del ministero della Sanità. Ora i detenuti che hanno accettato la procedura faranno causa. "Lo sceriffo Oddie Shoupe, il suo vice Donna Daniels e il giude Sam Benningfield devono aver pensato di essere Dio quando hanno fatto questa offerta ai detenuti" ha detto Mike Donovan, il presidente del gruppo Nexus Services Inc. che finanzierà l’azione legale. Deonna Topllison è una delle donne che ha accettato l’impianto del metodo contraccettivo perché il pensiero di essere rispedita in carcere per aver violato la libertà vigilata andando al supermercato la gettava nel più totale panico. "Ci hanno trattato come delle cavie perché sapevano che avremmo fatto di tutto per uscire - ha raccontato alla Bbc - Io sono una madre single di tre bellissime bambine e ho anche un nipote, mia madre è disabile, mia sorella è disabile. Dipendono tutti da me". Un’altra detenuta, Christel Ward, non vede l’ora di farsi togliere il dispositivo che le hanno inserito nel braccio: "Non voglio questa roba dentro il mio corpo ma non ho i 250 dollari necessari per estrarla". Al programma si sono sottoposte 35 donne e 42 uomini. "Qui non c’entra il controllo delle nascite - ha detto ancora Donovan - ma il desiderio dello sceriffo di decidere chi debba procreare e chi no. Tutto ciò è disgustoso". Il giudice, però, dice di non aver cambiato idea: "Il ministero della sanità ha ceduto alle pressioni ma io volevo solo aiutare pluripregiudicati a prendersi le proprie responsabilità e avere una possibilità senza essere appesantiti da nuovi figli". Schiavi come prima in Giamaica di Flavio Bacchetta Il Manifesto, 20 agosto 2017 A 55 anni dall’indipendenza, il sistema coloniale delle caste basato sul colore della pelle costringe ancora i neri a usare creme schiarenti per trovare lavoro. Sognando un’uniforme. Unica novità del millennio l'emergere di una classe media. E con essa la figura di un nuovo "house nigger". I re africani, dal XVI al XIX secolo, furono ben felici di vendere, con la mediazione dei mercanti arabi, a portoghesi, spagnoli e in seguito inglesi, non solo i prigionieri delle tribù nemiche, ma anche loro stessi sudditi, appartenenti a caste inferiori. Gli schiavi neri, più robusti e dotati di organismi resistenti alle patologie, erano la merce ideale. Uomini e donne. In Giamaica, dopo il totale annientamento dei nativi Arawak a causa soprattutto delle epidemie di vaiolo, tubercolosi, morbillo che l’uomo bianco si portò dietro (gli indios non avevano anticorpi), furono importate le etnie che secondo i mercanti di uomini eraro fisicamente più resistenti, Mandingo e Ashanti. Gli uomini per i lavori nei campi di canna da zucchero e cacao; le donne per faccende domestiche e pratiche sessuali, anche a fine procreativo, onde ottenere discendenti con Dna modificato dal seme del master. Lo scopo finale era creare un sistema di classi sociali basate sul colore della pelle; più chiaro, meglio è. Non tutto andò per il verso giusto; gli schiavi fuggiaschi di origine africana, i Maroons, insediatisi nell’entroterra del Cockpit Country, ancora oggi impenetrabile, sfruttando il mimetismo sotto la guida della regina ashanti Nanny e del capo Cudjoe, impegnarono le truppe inglesi in una guerriglia che inflisse a Sua Maestà perdite enormi, fino a costringerla nel 1738 alla concessione di una forma di autonomia e di una nuova capitale, Accompong, ai ribelli. Solo che in cambio i colonizzatori chiesero e ottennero dai Maroons il loro supporto in caso d’invasioni, e soprattutto la repressione dei focolai di rivolta, che esplodevano ovunque. Gli inglesi abolirono ufficialmente la schiavitù nel 1833 con un trattato (Slavery Abolition Act) che assicurava agli schiavisti una compensazione di 20 milioni di sterline, il 5% del Pil di allora, che corrispondono a oltre 2 miliardi di oggi. La linea del colore. Durante tutto il periodo coloniale si andò selezionando un terziario basato sulle gradazioni meno accentuate del nero della pelle. Gli impiegati presso uffici, banche e hotel sono per lo più mulatti; nel dialetto patois, sono soprannominati brownie, marroncini. Avere la pelle chiara è uno status-symbol talmente ambito che molte donne e ragazzi utilizzano micidiali creme "schiarenti" che sovente lasciano macchie permanenti sull’epidermide; quest’abitudine è conosciuta come bleaching, "candeggiare". In alternativa si può sempre sposare un bianco, straniero o appartenente all’upper class locale. Schiavitù mentale. The mental slavery, come la chiamava Bob Marley in una delle sue celeberrime canzoni, inizia dall’infanzia: le bambine più nere giocano con Barbie, ovviamente quella della versione "caucasica" classica, con gli occhioni azzurri e i ciglioni biondi come i capelli. Le ragazze nella maturità sessuale cominciano a stirarsi i capelli; averli crespi è considerato poco sexy, difatti i maschi puntano subito le brownie, coetanee che hanno la pelle più chiara di loro, e la chioma liscia. I gigolò sono comunque adulati, perché vanno con le turiste bianche, muovendo il business di ristoranti e hotel. Dopo la cosiddetta indipendenza concessa dagli inglesi il 6 agosto 1962, il sistema coloniale è rimasto integro: una classe dirigente formata da giamaicani ricchi, il 5% della popolazione, che detiene il 90% di aziende, mezzi di produzione, attività commerciali, che paga per i propri figli costose scuole e università private. Largo al ceto medio. La novità del nuovo millennio, consiste nella formazione di un ceto medio che negli ultimi 10 anni si è allargato e consolidato, grazie agli insediamenti esterni; i nuovi dirigenti hanno bisogno di interporre tra loro e la manovalanza un filtro/barriera che sia in grado di risparmiargli i conflitti passati; per cui ai vecchi Mr, Chin locali, si sono aggiunti manager e imprenditori stranieri, residenti in Giamaica, coadiuvati dai subalterni della classe media nativa. Mr Chin, è un nome tanto diffuso quaggiù, da diventare sinonimo di proprietario di negozi e supermercati dai tratti cinesi, però nato in Giamaica. Il suo migliore alleato, il supervisor, la cui mansione-chiave è di riferire al padrone il comportamento dei lavoranti. E controllare che non rubino. Una figura per la quale Malcolm X aveva coniato un termine azzeccato, house nigger; ai tempi della schiavitù era la spia che in ogni casa denunciava al master bianco le tresche dei servi. All’ingresso degli hotel, in entrata e in uscita, la security tuttora usa perquisire le borse delle dipendenti, e passare il metal-detector sugli uomini. Il sistema delle caste. La Giamaica è dominata da un vero e proprio regime a caste, che detiene il controllo di finanza, scuola, polizia, sistema giudiziario e produttivo. O meglio, per dirla alla Bauman, una non-società sulla quale regna il settore privato, il cui fine unico è la vendita del prodotto; non esistono più individui, solo consumatori, nell’ambito di uno Stato che abdica dal suo ruolo storico, si defila dai suoi impegni di welfare, e svanisce dalla vita dei cittadini. In fondo alla scala sociale, il 60% della popolazione, utilizzata per lavori di fatica, e per fornire personale a supermercati, alberghi, banche e uffici; tutti inquadrati nelle loro uniformi inamidate e sgargianti, con orari che sovente sforano i limiti prestabiliti, senza sindacati rompiscatole che chiedano aumenti salariali, la cui media corrisponde a circa 50 euro settimanali. Quando le housekeepers (colf) scioperarono per ottenere un adeguamento al salario minimo, dovettero cedere per fame, ignorate da unions, governo e datori di lavoro. Uniforme che passione. L’uniforme denota il senso d’appartenenza a un’azienda privata, un’istituzione statale, o più semplicemente un corso scolastico; come dire: "Io l’indosso, per cui faccio parte di un ingranaggio del sistema, quindi esisto". Il re del Marocco grazia 14 jihadisti: "Si sono pentiti e ravveduti" Corriere Adriatico, 20 agosto 2017 A meno di 48 ore dall'attentato di Barcellona, causato da alcuni jihadisti di origine maghrebina, fa senz'altro discutere la decisione del re del Marocco, Mohammed VI, di concedere la grazia a 14 persone che avevano fatto parte di gruppi islamisti. In occasione del 64mo anniversario della Rivoluzione del re e del popolo, si festeggia cioè la fine del colonialismo in Marocco, segnata dal rientro dall'esilio di re Mohammed V, il 20 ottobre del 1956. Come d'abitudine in questa occasione, Mohammed accorda la grazia reale. Questa volta è toccato a 415 detenuti condannati per ogni tipo di reato, da tutti i tribunali del regno alaouita. Ma di questi, 14 sono condannati per terrorismo, 13 in stato di detenzione per pene inferiori ai 30 anni, e uno condannato a morte.