Crescono pericolosamente sovraffollamento e suicidi di Marta Rizzo La Repubblica, 1 agosto 2017 L’Associazione Antigone denuncia un tasso di affollamento carcerario del 113,2% in Italia. Ogni detenuto non dispone neanche di quei 3 mq di spazio personale previsti dalla legge. I suicidi sono già arrivati a 32, dall’inizio dell’anno. Le carceri italiane tornano ad essere sovraffollate. La realtà del sistema penitenziario è rinnegata e oscura. Gli istituti di pena destano, invece, nuove e pericolose preoccupazione in chi, da sempre, si batte per osservare e denunciare il reale stato delle cose. L’Associazione Antigone, che a giugno aveva intitolato in modo eloquente il suo rapporto annuale #TornailCarcere, segnala l’elevato numero di suicidi e il nuovo sovraffollamento. Tempi lunghi dei processi, condizioni igienico-sanitarie inadeguate, mancanza di lavori e contatti esterni e familiari, determinano l’abbrutimento di persone colpevoli di reati, ma i cui diritti vanno difesi perché, se violati, producono fenomeni di autolesionismo, di una maggiore diffusione della violenza, suicidio: questi ultimi sono già 29 da inizio 2017. Il rischio di una nuova condanna da Strasburgo. Il tasso di affollamento delle prigioni è paurosamente cresciuto, negli ultimi mesi, ed è giunto al 113,2%. In alcune carceri, si torna a scendere sotto lo spazio minimo previsto di 3 mq per detenuto: questo emerge dal pre-rapporto 2017 che Antigone ha presentato a fine luglio presso la Camera dei Deputati, frutto dei primi sei mesi di visite degli Osservatori dell’unica Associazione, Antigone appunto, che entra e può controllare il sistema di difesa di tutti i diritti umani da garantire a ciascun detenuto. Già nell’ultimo rapporto si era posta l’attenzione sul ritorno del sovraffollamento con tassi di crescita che, se continuassero all’attuale ritmo, potrebbero portare l’Italia ai livelli che costarono la condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel gennaio 2013, infatti, questo Paese veniva denunciato per violazione dei diritti dei detenuti. La Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo condannava l’Italia per trattamento inumano di 7 detenuti, per i quali Strasburgo dispose che lo Stato li risarcisse di 100 mila euro per danni morali. Gli infiniti tempi dei processi penali. Tra i principali, eterni, irrisolti motivi del sovraffollamento carcerario sta (stolidamente) il numero enorme di processi penali pendenti: oltre 1,5 milioni, di cui più di 300.000 dalla durata irragionevole e quindi prossimi alla violazione della legge Pinto (che, dal 2001 e con aggiornamenti successivi, prevede e disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo). I tempi dei processi, denuncia Antigone, incidono sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare che continua a crescere arrivando all’attuale 34,6%, quando solo due anni fa era al 33,8%. Detenzioni indecenti e (quasi) nessun educatore. Altri dati rilevanti che determinano le insopportabili condizioni delle carceri di un Paese Civile come l’Italia, riguardano lo stato generale delle condizioni di detenzione. Nel 68% degli istituti visitati dagli Osservatori di Antigone nei primi mesi del 2017, ci sono celle senza doccia (come invece richiesto dall’art.7 del DPR - decreto del presidente della Repubblica - del 30 giugno 2000), e solo in uno, a Lecce, e solo in alcune sezioni, è assicurata la separazione dei giovani adulti dagli adulti, come richiesto dall’art. 14 dell’Ordinamento penitenziario. Inoltre, l’Italia è uno dei paesi dell’UE con il più basso numero di detenuti per agenti (in media 1,7), mentre ciò che manca sono gli educatori: a Busto Arsizio, per esempio, ce n’è uno ogni 196 detenuti e a Bologna uno ogni 139. Scarso il lavoro esterno. Elemento fondamentale è anche quello della salute in carcere. In tal senso sarebbe utile per i medici disporre della cartella clinica informatizzata, che garantirebbe che le informazioni sanitarie del detenuto si spostino facilmente assieme a lui da un istituto all’altro, ma questa è disponibile solo nel 26% degli istituti visitati da Antigone. Per quanto riguarda il lavoro abbiamo osservato che lavora circa il 30% dei detenuti. Ma nel 26% degli istituti non ci sono datori di lavoro esterni, nel 6% non ci sono corsi scolastici attivi e nel 41,5% non ci sono corsi di formazione professionale. Uno sguardo viene posto anche ai contatti con l’esterno ed ai rapporti con la famiglia, di cui si riconosce l’utilità per il reinserimento sociale e la prevenzione di atti di autolesionismo. Ebbene, in uno solo degli istituti presi in esame da Antigone nel 2017, il carcere di Opera (MI), sono possibili i colloqui con i familiari via Skype e in uno solo, nella Casa di Reclusione di Alessandria, è possibile per i detenuti una qualche forma di accesso ad Internet. Lo strazio dei suicidi: già 32 da inizio 2017. Il suicidio avvenuto il 30 luglio scorso, nel carcere di Montacuto ad Ancona, è il trentaduesimo dall’inizio del 2017. Al di là delle motivazioni che hanno portato a quest’ultimo episodio, c’è necessità risollevare l’attenzione di società e istituzioni sulla questione carceraria. "Vanno subito assunti provvedimenti diretti a migliorare le condizioni materiali di detenzione - sostiene Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Inoltre, da un lato, vanno rispettate le indicazioni ministeriali sulla prevenzione dei suicidi e, dall’altro, vanno individuate riforme da subito realizzabili. Per esempio, una maggiore apertura nell’uso delle telefonate per i detenuti non soggetti a censura che, garantendo un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. Bisogna poi rivedere tutte le forme d’isolamento: giudiziario, disciplinare, ma anche quello per ragioni cautelative. L’isolamento, qualunque sia la ragione sia lo produce, è sempre devastante per la psiche della persona. I numeri della popolazione carceraria che crescono rendono le persone sempre più invisibili agli operatori (educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, direttori) i quali, invece, non aumentano di numero. Andrebbe infine ridotto in generale l’uso alla carcerazione". Dopo l’ultimo suicidio Orlando convoca i vertici del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2017 Il Garante dei detenuti: quattro in una settimana, trentadue nel 2017. Occorrono interventi urgenti. Il Guardasigilli incontrerà domani alle 15, i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria e quelli del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità per fare il punto sul piano di prevenzione. In carcere si continua a morire, soprattutto per suicidio, e il ministro della giustizia Andrea Orlando convoca d’urgenza, per domani alle 15, i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e quelli del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità per fare il punto sul piano di prevenzione dei suicidi in carcere. Gli ultimi decessi sono avvenuti nel giro di un giorno nello stesso carcere. Domenica pomeriggio, infatti, nel istituto anconetano di Montacuto, un detenuto tunisino non definitivo di 33 anni (per la sentenza di primo grado avrebbe finito di scontare la pena nel 2020) si è ucciso inalandosi il gas utilizzato per l’accensione del fornello presente nella cella. Sul posto sono arrivati i volontari della Croce Gialla di Ancona e il medico che hanno tentato il tutto per tutto, ma dopo 40 minuti di massaggio cardiaco il medico non ha potuto far altro che decretarne il decesso. Sempre domenica, questa volta la mattina, un recluso italiano di 44 anni dello stesso carcere, è morto all’ospedale regionale di Torrette dopo che giorni fa si erano aggravate le sue condizioni di salute e per questo trasferito d’urgenza all’ospedale. Era un uomo condannato per spaccio di stupefacenti e avrebbe finito di scontare la pena l’anno prossimo. Con queste due morti, si allunga ancora di più la lista dei decessi dall’inizio dell’anno: 32 suicidi per un totale di 68 morti. Tenendo ben presente che uno si è suicidato in una Rems (la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria della quale è competente il ministero della Salute) e l’altro, Marco Poli, si era tolto la vita durante l’esecuzione penale esterna: quindi fuori dal carcere di Verona dove era recluso in regime di semilibertà. Sembra non arrestarsi quello che oramai risulta un vero e proprio bollettino di guerra. Alla luce dell’ultimo suicidio, è intervenuto nuovamente il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. In attesa della riunione convocata per domani dal guardasigilli, il Garante ha dichiarato: "Quattro suicidi in una settimana, trentadue dall’inizio dell’anno. Numeri che non possono non interrogare e che richiedono interventi urgenti volti a migliorare il sistema di prevenzione messo a punto dal ministero della Giustizia". Palma ribadisce il proprio impegno a intervenire - in quanto titolare della tutela dei diritti delle persone detenute - come parte offesa nelle indagini relative a tutti i casi di suicidio. Per questo sono già state contattate tutte le competenti Procure per chiedere informazioni sullo stato dei procedimenti relativi ai 32 suicidi del 2017. Sempre Mauro Palma fa notare che le due persone che si sono tolte la vita nella casa circondariale Rebibbia di Roma, erano recluse nella sezione G9. Proprio quel reparto che è stato oggetto di una visita ad hoc del Garante che Il Dubbio ha potuto documentare tramite il rapporto redatto dal suo ufficio. "Nel corso della visita - denuncia Mauro Palma, il reparto G9 era stato trovato in condizioni strutturali e igienico- sanitarie del tutto inaccettabili, con umidità che trasudava dalle pareti e acqua che cadeva dal soffitto, ambienti sporchi e deteriorati, vetri rotti nei corridoi, riscaldamento non funzionante. Condizioni che - come scritto nel Rapporto pubblicato sul sito del Garante nazionale - potrebbero essere considerate di per sé violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani (Cedu). Per tale motivo il Garante nazionale ne aveva raccomandato l’immediata chiusura, necessità condivisa peraltro dalla direttrice dell’Istituto e dalla Provveditrice regionale del Lazio". Mauro Palma conclude con una considerazione: "Sono molti e diversi i fattori che spingono una persona a compiere un gesto estremo come quello di togliersi la vita e prevenire tali eventi è certamente difficile. Ma garantire ambienti rispettosi dei diritti e della dignità delle persone è possibile e necessario". All’indomani del 29esimo suicidio avvenuto al carcere romano di Rebibbia, è intervenuto anche il presidente di Antigone Patrizio Gonnella: "Vanno subito assunti provvedimenti diretti a migliorare le condizioni materiali di detenzione. Inoltre, da un lato, vanno rispettate le indicazioni ministeriali sulla prevenzione dei suicidi e, dall’altro, vanno individuate riforme da subito realizzabili. Ad esempio una maggiore apertura nell’uso delle telefonate per i detenuti non soggetti a censura che, garantendo un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. Bisogna poi rivedere e residualizzare tutte le forme di isolamento: giudiziario, disciplinare, ma anche quello per ragioni cautelative. L’isolamento, qualunque sia la ragione che lo produce, è sempre devastante per la psiche della persona". Molti di questi punti rientrano nella riforma dell’ordinamento penitenziario approvata a giugno. Ma mancano i decreti per attuarla. Anche per questo il Partito Radicale, Rita Bernardini in primis, ha annunciato il "grande Satyagraha collettivo" di metà agosto per rendere effettiva la riforma. Giustizia riparativa. "Per tutti e in ogni grado del processo": la proposta di Ceretti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 1 agosto 2017 Dalle commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario e delle misure di sicurezza, i suggerimenti per trasformare le sperimentazioni in legge. Adolfo Ceretti (Bicocca): "Incoraggiare un maggiore coinvolgimento della collettività". Programmi di giustizia riparativa fruibili da tutti e in ogni grado e stato del processo penale. Gli esperti delle commissioni nominate dal ministro Andrea Orlando per formulare le proposte per la riforma dell’ordinamento penitenziario e del sistema delle misure di sicurezza, ripartono dal lavoro degli Stati generali sull’esecuzione penale. Adolfo Ceretti, ordinario di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca, componente della Commissione Cascini e del Comitato scientifico degli Stati generali, spiega a Redattore Sociale i punti al centro della riforma in tema di giustizia riparativa. "Affiancare la Giustizia riparativa al trattamento e alla rieducazione": cosa deve cambiare nelle norme per renderlo possibile? Il primo convegno sulla "mediazione penale" si è tenuto in Italia nel 1995, più di 20 anni fa. Da allora il dibattito intorno alla Giustizia riparativa e alla "mediazione reo-vittima" è cresciuto in modo esponenziale, anche per accompagnare le esperienze operative che spontaneamente sono sorte a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale. Le sperimentazioni hanno riguardato e riguardano, in primo luogo, l’applicazione di questo istituto nell’ambito del processo penale minorile. In assenza di una norma di carattere generale che permetta l’accesso ai Centri di Giustizia riparativa su tutto il territorio nazionale in ogni stato e grado del giudizio e per qualunque tipologia di reato, con molta prudenza e non poche resistenze, negli ultimi anni sono stati avviati interventi anche nell’ambito dell’esecuzione penale interna ed esterna, seppure entro spazi normativi molto circoscritti. La legge 67/2014, che introduce l’istituto della messa alla prova nel procedimento penale a carico di soggetti adulti, costituisce un primo sguardo normativo per promuovere la mediazione reo-vittima all’interno di quei percorsi. Per ora, a dire il vero, con risultati molto modesti. Abbiamo dovuto così attendere il 2015 e gli Stati Generali sull’esecuzione penale per vedere, finalmente, riconosciuta alla Restorative Justice l’attenzione che merita. Che cosa è emerso dal lavoro degli Stati generali? Il Tavolo 13 ha potuto sancire l’autonomia di questo paradigma di giustizia e il suo carattere di complementarietà con il sistema penale tradizionale. Ma ciò che più conta, è che è stato avviato, per la prima volta, un ragionamento ampio e sistematico sulla possibile realizzazione pratica di programmi di mediazione reo-vittima nell’ambito dell’esecuzione della pena. Ragionamento che si è già tradotto in una fruttifera sensibilizzazione culturale di molti magistrati, operatori penitenziari e assistenti sociali. In estrema sintesi, il Tavolo di lavoro e il Comitato scientifico degli Stati Generali hanno condiviso che affinché la Restorative Justice, che apre a logiche differenti da quelle della rieducazione e del trattamento, possa ambire ad avere pari dignità e pari rango rispetto a queste ultime è necessario agire principalmente in due direzioni: prevedere una norma generale ad hoc per la Giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione, con l’auspicio che il legislatore possa presto introdurre un’analoga norma nella fase di cognizione. E correggere il testo di norme che introducono forme di Giustizia riparativa senza il rispetto dei requisiti minimi che la caratterizzano, primo fra tutti la volontarietà, o determinando possibili rischi di vittimizzazione secondaria. La Commissione che tratterà la riforma potrà partire da questi snodi per lavorare in modo più ampio su aspetti che attendono, da anni, risposte strutturate. "Accesso ai programmi di Giustizia riparativa per tutti e in qualsiasi momento dell’esecuzione": quali sono i punti su cui siete intervenuti e quali resistenze potrebbero arrivare? La professoressa Claudia Mazzucato ha recentemente coniato una felice formula che aiuta a rispondere a una parte della sua domanda: "La Giustizia riparativa è per tutti ma non è da tutti". Significa che questo paradigma di giustizia è potenzialmente rivolto a qualunque vittima e a qualunque autore di reato che desideri entrare nel suo logos. In realtà, sul piano della prassi non possiamo pensare che ogni soggetto sia necessariamente adatto a impegnarsi in un programma riparativo. Fatta salva la regola aurea della volontarietà ed esclusa l’ipotesi di individuare categorie di reati più adeguati di altri a essere mediati, per conseguire esiti positivi occorre ragionare sulle singole e concrete circostanze che hanno condotto alla consumazione di un fatto di reato e al contesto in cui si inscrivono determinate forme di criminalità. Questa operazione permette di far emergere in quali episodi criminosi un lavoro sulla verità e sulla memoria può essere indispensabile per ricostruire la fiducia interindividuale e ideali autenticamente democratici. Per tutti, significa anche per i reati considerati "particolarmente odiosi"? Sì. In un’epoca in cui la paura del diverso viene giocata da alcune forze politiche per alimentare forme estreme e perverse di giustizialismo e di dominio, l’opinione pubblica potrà rimanere fortemente perplessa quando a mediare saranno invitati i responsabili di reati particolarmente odiosi, quali per esempio gli autori di violenze sessuali. Su questo aspetto occorrerà lavorare con molta pazienza, informando correttamente su ciò che avviene in un iter di mediazione. Prendervi parte, infatti, non significa mai dribblare o sottrarsi alla pena concretamente inflitta, come generalmente si reputa. Al contrario, permette a chi ha commesso il fatto di iniziare ad auto-riflettere sulle conseguenze che il suo gesto deviante ha generato nell’esistenza di un’altra persona, promuovendo l’assunzione di una responsabilità non solo ‘per aver commessò un reato, ma ‘verso qualcunò, cioè la propria vittima. Quali risultati si aspetta dal lavoro delle commissioni? Lapidariamente, e forse in modo un po’ ingenuo, l’attesa è che le principali linee di politica criminale tracciate dagli Stati Generali si traducano in un articolato normativo che la Politica possa, in tempi brevissimi, tradurre a sua volta in leggi. La mia aspettativa, innanzitutto, è volta all’introduzione di inedite misure di comunità che incoraggino un maggiore coinvolgimento della collettività e una responsabilizzazione del condannato verso il contesto sociale nel quale punta a reinserirsi. Questo aspetto è stato trattato con molta cura dal Tavolo 12. Parallelamente, si dovrebbe provvedere al contenimento di tutte quelle sanzioni e misure penali, pure alternative al carcere, ma che nei fatti rispondono a semplici istanze di neutralizzazione. I giudici-precari in guerra con lo Stato di Angelo Allegri Il Giornale, 1 agosto 2017 Oggi lavora in Norvegia, guida un progetto europeo per una multinazionale dell’hi-tech. Un paio d’anni fa fu coinvolto in un piccolo incidente stradale a Milano: una cosa da poco, ma le parti non riuscirono a mettersi d’accordo. Alla metà di luglio è stato convocato di fronte a un giudice di pace del capoluogo lombardo e ha dovuto sobbarcarsi un viaggio di più di 2mila chilometri. Una volta in udienza, a lui e agli avvocati presenti, il magistrato ha confessato che non aveva tempo e che non sarebbe riuscito ad ascoltarli visto che in un’unica giornata era stato costretto ad affastellare una quantità di cause indifferibili. Risultato: se ne riparlerà a dicembre. E a dicembre il manager italiano, sempre meno nostalgico della Penisola e dei suoi disservizi, prenderà un altro aereo e tornerà in un’aula di tribunale per una causa da poche migliaia di euro, in pratica quanto sta pagando in viaggi. La storia è minima, ma per avere un’idea della sua portata si può tranquillamente moltiplicare per migliaia e migliaia di volte, quanti sono i procedimenti giudiziari "terremotati" dall’ultimo sciopero dei magistrati onorari, durato in pratica per tutto luglio e che ha ridotto la loro attività a una udienza la settimana. Nel mirino c’è la legge di riforma del settore che di fatto ha abolito la "carriera" dei giudici di pace e che cambierà equilibri e abitudini del mondo giudiziario. Grandi numeri - Il termine "onorario" sembra richiamare un’idea di gratuita irrilevanza. Ma agli oltre 5mila tra giudici di pace, giudici onorari di tribunale e vice procuratori onorari (queste le dizioni ufficiali delle norme sull’ordinamento giudiziario) negli ultimi 25 anni è stata affidata tutta o quasi la manovalanza dei tribunali italiani: liti fino a un valore di 5mila euro, o fino a 20mila se la controversia riguarda la circolazione stradale, reati come le percosse e le lesioni personali, la minaccia o i furti punibili a querela dell’offeso. Processi che non finiscono sui giornali ma che, se si guarda ai grandi numeri, rappresentano il grosso dell’attività giudiziaria. Ai magistrati onorari, ha detto il Procuratore di Torino Armando Spataro in una audizione parlamentare, è affidato più o meno l’80% dei procedimenti avviati. La loro storia inizia di fatto all’inizio degli anni Novanta, quando la giustizia italiana è costretta a fare i conti con l’aumento del contenzioso e l’incapacità di tener dietro all’accumularsi degli arretrati. I concorsi per aumentare il numero dei giudici sono lenti e macchinosi, le procedure bizantine, la produttività degli uffici non elevatissima. La pensata è quella i farsi aiutare da esperti della materia, avvocati soprattutto, nominati con una procedura abbreviata dal Csm che esamina i titoli presentati dai candidati senza che questi vengano sottoposti a un concorso per esami come avviene per i giudici togati. Naturalmente, viste le procedure semplificate di selezione, a loro vengono affidati i piccoli casi, quelli che all’apparenza richiedono competenze giuridiche meno sofisticate. E sempre naturalmente, il loro ruolo e il loro inquadramento sono considerati sin dall’inizio temporanei, in attesa di una legge destinata a regolamentare l’attività dei giudici di pace, una figura presente, sia pure con altre caratteristiche, in altri Paesi europei. Sentenze a cottimo - In omaggio al principio generale che informa la vita della Penisola ("nulla in Italia è più definitivo del provvisorio"), le norme e le nomine degli anni Novanta, all’inizio fissate per tre o quattro anni sono via via prorogate. Così ci sono giudici di pace che "in via provvisoria" scrivono sentenze da 20/25 anni. E anzi, il peso degli "onorari", dal punto di vista formale un semplice supporto dell’attività giudiziaria, è andato aumentando con il tempo. Alcune circolari del Csm hanno allargato le loro competenze. E vista la crisi che ha colpito le categorie forensi, chi era riuscito a farsi nominare giudice onorario ne ha fatto spesso una professione. Con una retribuzione che ha una particolarità: gli "onorari" sono gli unici magistrati il cui guadagno dipende dalla produttività. A parte una piccola indennità mensile (258 euro) un giudice riceve 36 euro per udienza e 56 euro per una sentenza o per un altro atto che definisce un procedimento. Somme non straordinarie, ma sufficienti per portare a casa uno stipendio. Non trattandosi di una professione riconosciuta non sono previsti contributi pensionistici o altri istituti previdenziali come maternità o malattia. E la cosa ha già provocato numerosi ricorsi. Insomma, un pasticcio che ha del paradossale: negli ultimi decenni il mondo della giustizia, per definizione solenne manifestazione della sovranità statale, si è affidato a figure che agivano in un limbo non regolamentato, precari di codici e pandette senza diritti riconosciuti a qualsiasi lavoratore. La delega e il decreto - La vicenda è tipica dell’approssimazione e della faciloneria con cui viene gestita la cosa pubblica in Italia. A far precipitare la situazione è stato però il fatto che la legge attesa più o meno da 20 anni, quella destinata a disciplinare l’attività dei magistrati non togati, è finalmente arrivata per iniziativa del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Prima, nel 2016, sotto forma di delega approvata dal Parlamento. Poi, nelle settimane scorse, come decreto delegato. E il principio di base di tutta la normativa è quello delle origini: l’attività dei giudici onorari non può che essere temporanea e a tempo parziale. Anzi, per essere ancora più chiari, le nuove norme fissano dei paletti per il part-time: in nessun caso il giudice potrà lavorare più di due giorni alla settimana (tre se è tra quelli prorogati), divisi tra udienze e attività di ufficio. E per evitare che a qualcuno venga l’idea di fare il giudice di pace per professione nessuno potrà superare un tetto di guadagni annui fissato poco sopra i 30mila euro annui. Un sostanziale "taglio" rispetto al tetto fissato attualmente (intorno ai 72mila). Per ridurre i contraccolpi il testo prevede un periodo di rodaggio ragguardevole visto che molte norme sono destinate a entrare in vigore nel 2021. Quanto agli onorari attualmente in servizio ancora una volta la parola magica è "proroga". In alcuni casi potranno continuare a svolgere la loro attività per quattro anni prorogabili per quattro volte. Una durata "monstre" di 16 anni che sembra probabilmente motivata dalla cattiva coscienza di chi sa di aver lasciato "incancrenire" per decenni una situazione insostenibile. Per far fronte alla massa di procedimenti gestiti dagli "onorari" attualmente in servizio il ministero pensa a nuovi massicci reclutamenti di giudici laici. Una necessità tanto più urgente se si pensa che lo stesso decreto prevede un rilevante aumento delle loro competenze (vedi anche altro pezzo in pagina). Lotta continua - Di fronte al testo firmato dal presidente Mattarella un paio di settimane fa le proteste dei magistrati onorari sono state furibonde. Oltre agli scioperi, destinati a continuare, le associazioni di settore hanno annunciato la formazione di team di giuristi e professori universitari incaricati di sfidare le nuove norme sia con ricorsi interni sia appellandosi alle Corti europee. A protestare non sono però stati solo gli interessati. Un centinaio di Procuratori e presidenti di Tribunale hanno chiesto di essere ascoltati dalle commissioni parlamentari che dovevano dare un parere sul decreto legislativo. Tutti erano d’accordo con il già citato Spataro che è arrivato a parlare di possibile "disastro" della giustizia se l’attività dei giudici di pace si bloccherà. "Le statistiche su arretrati e produttività dimostrano che siamo l’unico settore della magistratura che funziona", si sfoga Maria Flora Di Giovanni, presidente dell’Unione nazionale giudice di pace. "Non ne hanno tenuto minimamente conto". La magistratura malata di correntite di Massimo Adinolfi Il Mattino, 1 agosto 2017 Nessuno dei motivi ripresi nel comunicato - due, essenzialmente: la maggiore anzianità in servizio di Cafiero de Raho, e la vicinanza di Melillo al governo, avendo avuto un legame fiduciario con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, di cui è stato capo di Gabinetto fino a poco tempo fa - è in realtà rimasto fuori dalle considerazioni svolte nella discussione al Csm. Tuttavia i vertici di "Unità per la Costituzione", insoddisfatti e per nulla persuasi, hanno voluto ribadirli. E, nel ribadirli, hanno: ricordato le qualità di Cafiero de Raho che, a loro dire, lo rendevano preferibile per il ruolo di procuratore; mostrato apprezzamento per la compattezza dei propri rappresentanti in seno al Consiglio; preso atto della scelta diversa operata non solo dai membri laici del Csm ma anche dai "prorogati componenti di diritto", che è un modo obliquo e reticente per dire che la nomina di Melillo è stata, per Unicost, voluta dalla politica, e dai magistrati che devono ringraziare la politica per essere ancora in carica; espresso, infine, perplessità, per la scelta di quei membri togati che hanno preferito Melillo a De Raho (nonostante, è il poco gentile sottinteso, la toga che portano). Il comunicato termina con un augurio di buon lavoro al nuovo procuratore, che dopo tutto quel che si è letto fin lì, suona puramente di circostanza. Ora, è chiaro che dopo la spaccatura del Csm, Melillo dovrà lavorare per stabilire un clima di collaborazione, di fiducia e di rispetto reciproco, il che è peraltro indispensabile per il buon funzionamento di qualunque struttura complessa. È chiaro pure che le sfide di un territorio come quello napoletano "pervaso da potenti organizzazioni criminali" - come scrive Unicost nell’ultimo rigo del suo comunicato - richiedono anzitutto unità di intenti, e le polemiche non sono certo il miglior viatico per il nuovo capo della Procura. Ma il commento critico che Unicost non ha saputo evitare di dettare fa soprattutto questo effetto, di ricordare anche al più distratto dei suoi lettori qual è il peso delle correnti in magistratura e quali sono le logiche con cui si muovono. Gli esponenti di Unicost nel Csm si sono mostrati compatti, e il presidente e il segretario del loro partito esprimono grande apprezzamento, proprio come il capo di una corrente democristiana d’antan poteva congratularsi con i propri esponenti all’indomani di un voto in Parlamento. Tutto il fulcro del ragionamento ruota intorno all’imparzialità che il magistrato deve assicurare: non solo essere, ma anche apparire imparziale. E Melillo, per via dell’incarico a via Arenula, non avrebbe questo fondamentale requisito. La qual cosa, ovviamente, non viene detta così: chiara e tonda; ma lasciata intendere, come nel più tradizionale teatrino delle dichiarazioni che i politici rilasciano a margine di un congresso, o di una riunione di direzione. Dopodiché, però, più della rivendicazione della necessaria distanza dalla politica, quel che si sente distintamente, nelle parole usate dalla corrente, è non una rivendicazione di indipendenza ma una rivendicazione di appartenenza, uno spirito di corpo: i miei e i tuoi, gli amici egli avversari, quelli che stanno con me e quelli che stanno con gli altri, o si fanno comprare dagli altri. Non è mai troppo tardi per accorgersi della politicizzazione della magistratura e della sua degenerazione correntizia, naturalmente. Ma quando (e se) ce ne si accorge, più che prendersela con il prescelto della corrente avversa, sarebbe bene che si provasse a mettere mano seriamente a una riforma dell’istituzione. E invece l’unica riforma che, in materia di giustizia, non ha fatto nessun passo, né in avanti né indietro, né in bene né in male, è la riforma del Csm. Per forza: il governo ha deciso di aspettare l’autoriforma. Campa cavallo. Così il Consiglio superiore della magistratura può limitarsi a emanare serissime e più stringenti circolari, per esempio in materia di incarichi, per poi applicarle, disapplicarle o diversamente applicarle a seconda delle esigenze. E, sempre a seconda delle esigenze, o meglio degli interessi in gioco, troverà quelli che ne lamentano l’applicazione, quelli che ne lamentano la disapplicazione, e quelli che ne lamentano la diversa applicazione. In un festival dell’ipocrisia, per cui stavolta sobbalza Unicost, la prossima volta si inalbera Area, e la volta ancora dopo chissà chi. Non è, come si vede, questione di come possa lavorare Melillo a Napoli e di quale clima troverà in Procura, ma, purtroppo, di come funziona la giustizia italiana. Colombo-Davigo, doppio incontro sulla giustizia italiana di Massimiliano Boschi Corriere dell’Alto Adige, 1 agosto 2017 Gherardo Colombo, settantuno anni portati magnificamente, è noto per essere uno dei magistrati del pool di "Mani pulite" ma la notorietà, si sa, è grossolana. In trentatré anni di carriera, Colombo ha, infatti, indagato anche su molto altro (P2, delitto Ambrosoli...) e da un decennio, da quando ha lasciato la magistratura, si è dedicato ad un lavoro "culturale" che lo ha portato a girare l’Italia per parlare, soprattutto ai più giovani, di legalità e giustizia. Non meraviglia quindi, che insieme al suo ex collega del pool di "Mani pulite", Piercamillo Davigo, abbia dato alle stampe La tua giustizia non è la mia (Longanesi), una diagnosi lucida e sincera dei mali della giustizia italiana. Questa sera Gherardo Colombo sarà al Centro congressi di Lavarone (ore 21.15) proprio per presentare questo volume su cui tornerà in due incontri altoatesini: il 17 agosto in Alta Badia (Sala conferenze di La Villa alle 17.30) e il giorno successivo alla stessa ora a Ortisei nella sala "Luis Trenker". (Entrambi gli incontri in compagnia di Davigo). Il volume scritto da due dei protagonisti della stagione di "Mani pulite" è anche, e soprattutto, un dialogo sulla Giustizia, quella con la "G" maiuscola e, forse proprio per questo, l’analisi non si limita alle aule dei tribunali ma si interessa anche di quelle scolastiche. Perché lì si formano ed educano i cittadini. Come scrive Colombo: "La scuola insegna anche la frode, l’ipocrisia, ma succede perché è gestita e organizzata in quel modo proprio perché non ha come fine l’educazione alla libertà (essere capaci di scegliere autonomamente)". Un ragionamento meno banale di quel che sembra da cui Colombo decide di far partire l’intervista: "Sarebbe molto importante che la scuola educasse alla libertà perché solo le persone libere possono interpretare e gestire la democrazia. Democrazia vuol dire governo del popolo, ma se il popolo non è capace di usare la propria libertà, potremmo dire di discernere e di saper distinguere tra il bene e il male, come può funzionare la democrazia?". Vengono a mancare le fondamenta per una democrazia compiuta? "Sì, perché il presupposto necessario per il funzionamento della democrazia consiste nella capacità di gestire la propria libertà da parte dei cittadini. Tornando alla domanda precedente, la scuola che cosa fa? Stimola lo spirito critico dei ragazzi? Io credo che generalmente non lo faccia, anche se ci sono eccezioni, insegnanti che sono capacissimi di farlo e che lo fanno. Ma il trend generale è diverso e succede spesso che, al contrario, gli studenti vengano stimolati a ripetere a memoria le parole degli insegnanti o quelle dei libri che hanno scelto per loro". Passando all’attualità, le polemiche sui vaccini sembrano dimostrare come molti cittadini non considerino più legittime le decisioni del governo, verrebbe da dire che non considerano più legittimo lo Stato italiano. È un effetto di decenni di scandali politici? "Non credo. Penso che ai cittadini italiani, nel loro complesso, non piacerebbe che la giustizia funzionasse. Secondo me continua ad essere determinante il fatto che non abbiamo uno spirito di comunità, non siamo comunità e ognuno va per la propria strada. Non abbiamo ancora capito la Costituzione perché la maggior parte degli italiani non la conosce. Così siamo ancora a re e sudditi, abbiamo mantenuto questo rapporto per ragione storiche ben precise di contrapposizione nei confronti delle istituzioni a cui chiediamo la concessione di privilegi più che il riconoscimento di diritti. Credo che questo spieghi anche la questione vaccini. Nel senso che non si ha presente quale sia l’interesse comune della collettività e si guarda all’interesse immediato. Credo che troppi abbiano approfondito l’argomento su informazioni approssimative, molto approssimative. Ripeto, perché la libertà possa essere esercitata consapevolmente è necessario essere davvero informati sull’oggetto della decisione, è impossibile scegliere senza conoscere. La riprova sta nel fatto che ciascuno di noi, più volte nella vita ha detto a voce alta, o dentro di sì, se l’avessi saputo mi sarei comportato diversamente. Se lo sapevo non l’avrei fatto". Ma questo vale da settant’anni a questa parte. In tempi recenti le cose non sono peggiorate? "Siamo in un periodo di passaggio in cui le modifiche dei punti di riferimento, in particolare sotto il profilo degli strumenti di comunicazione, stanno sostanzialmente trasformando la società. Per questo dobbiamo trovare nuovi equilibri, in alternativa si tornerà a quelli vecchi che valutavano positivamente le discriminazioni. Qualche decennio fa la società era più ordinata perché si pensava che la discriminazione fosse giusta, che fosse giusto che il marito comandasse in casa ed era accettato che il ricco continuasse ad essere ricco e che il povero continuasse ad essere povero". Da "La tua giustizia non è la mia" emerge chiaramente quanto il pool di Mani pulite fosse composto da persone molto diverse, con mentalità e orientamenti differenti. Era questa la sua forza? "Credo di sì, credo che sia servito. Le differenze sono un valore e non un peso, contrariamente a quello che pensano in molto. Credo che proprio attraverso il confronto di idee diverse si possano raggiungere risultati che vanno al di là del trascinamento di posizioni tradizionali. E nel pool di Mani pulite di confronti ce ne sono stati tanti". Rapporto Zoomafia 2017: ogni 57 minuti un nuovo fascicolo per reati contro animali La Stampa, 1 agosto 2017 In Italia si aprono circa 25 fascicoli al giorno, uno ogni 57 minuti, per reati a danno di animali con una persona indagata ogni 80 minuti circa. È quanto emerge dal rapporto Zoomafia 2017 della Lav analizzando i dati forniti da 104 Procure Ordinarie su 140 (74%) e di 28 Tribunali per i minorenni su 29 (pari al 96%). Dal quadro generale emerge che sono in aumento in Italia le denunce per i combattimenti fra cani, come pure quelle per traffico di cuccioli dai paesi dell’est. Non si fermano le corse clandestine di cavalli, il traffico internazionale di specie protette e il bracconaggio. E non spariscono neppure i furti di bestiame e di cani e la pesca di frodo. Il reato contro gli animali più contestato l’anno scorso è maltrattamento (33,95%), quindi uccisione (31,25%), reati venatori (17,45%), abbandono e detenzione incompatibile (14,67%). La procura più attiva in questo tipo di reati è Brescia, sul cui territorio è fortissimo il bracconaggio. Seguono Foggia, Udine, Napoli, Roma, Verona e Torino. Nel 2016 per i combattimenti fra cani sono stati sequestrati 133 animali (+189% rispetto al 2015) e sono state denunciate 29 persone (+38%). Per le corse clandestine di cavalli ci sono stati 8 interventi delle forze dell’ordine, 3 gare bloccate, 36 persone denunciate, 24 persone arrestate, 22 cavalli sequestrati, 4 stalle e un maneggio sequestrati. Aumentano le denunce per il traffico di cuccioli importati illegalmente dai Paesi dell’Est Europa. Negli anni 2015 e 2016 sono stati sequestrati 964 cani e 86 gatti (dal valore complessivo di 717.800 euro). Sono 107 le persone denunciate nel 2016, in gran parte cittadini di paesi dell’est. Per il traffico di animali e piante protetti, l’ex Corpo Forestale dello Stato ha accertato 78 illeciti penali e 194 illeciti amministrativi, per un totale di 516.430 euro, e compiuto 100 sequestri. Il bracconaggio non demorde, l’abbattimento o la cattura di specie particolarmente protette è diventato un fenomeno diffuso: lupi, orsi, Ibis eremita, cicogne, rapaci. Non si ferma neppure l’abigeato: ogni anno spariscono nel nulla circa 150.000 animali, che alimentano macelli clandestini. In mare i pescatori di frodo imperversano, spesso gestiti dalle mafie locali: nel 2016 sono state sequestrate tonnellate di tonno rosso, di pesce spada, di molluschi, di novellame, di anguille, insieme a migliaia di ricci e a quintali di datteri di mare e oloturie. Su internet infine non si trovano solo commercio illegale di cuccioli e scommesse su gare clandestine, ma anche video di sevizie e uccisioni di animali, diffusi spesso da minorenni. Sorelle Giustizia. "Lottiamo insieme per avere la verità su Denis e Stefano" di Francesco Ceniti La Gazzetta dello Sport, 1 agosto 2017 Il colore della giustizia è azzurro, come gli occhi di Donata e Ilaria. La strada che porta alla verità è tortuosa, come quella che s’inerpica tra le colline marchigiane dove si trova la casa di campagna dell’avvocato Fabio Anselmo. Ci aspettano due donne d’acciaio, come quest’angolo d’Italia: non si è spezzato neppure dinnanzi alle spallate del terremoto che hanno sconquassato la vita di molti. Pure quelle di Donata e Ilaria sono state stravolte, ma la natura non c’entra. Roba di uomini e di uno Stato che dovrebbe proteggere i cittadini, ma qualche volta si gira dall’altra parte. Ecco, Donata Bergamini e Ilaria Cucchi si sono ritrovate sole e abbandonate. E con un fratello morto senza motivo. Denis era un calciatore (in Serie B, a Cosenza), Stefano aveva commesso alcuni sbagli, ma nulla che giustificasse un tragico epilogo. Non c’è stato tempo per le lacrime, Donata e Ilaria hanno dovuto fare i conti con "verità" da incubo. "Bergamini? Un suicidio, si è tuffato sotto un camion". "Cucchi? Overdose, poi troppo magro, celiaco e non voleva farsi curare". La battaglia in salita e controvento di due sorelle (diventate figlie uniche) in nome dei fratelli è iniziata così. Donata "pedala" dal 1989, Ilaria dal 2009. Dal 2015 condividono percorso e legale. Ed è sbocciata un’amicizia profonda. Che ci raccontano, mentre Anselmo è impegnato alla griglia. La prima volta - "Ho visto Ilaria in tv che gridava il nome di Stefano e chiedeva giustizia. Mi sono rivista: avevo più o meno la sua età quando è accaduto di Denis. Ho pensato: "Speriamo che non debba tribolare anni". Poi ci siamo incontrate per la prima volta a una manifestazione in memoria di Federico Aldrovandi (lo studente ucciso nel 2005: condannati in via definitiva 4 poliziotti. La famiglia del ragazzo è stata difesa da Anselmo, ndr) ed è scattato qualcosa. Ci siamo appartate e abbiamo parlato delle nostre vite. Feeling immediato, saldato dall’incarico a Fabio. Sembrava finita nel 2015 dopo la chiusura della seconda inchiesta. E invece…". L’altalena di sentimenti è un’altra cosa in comune con Ilaria: "Proprio così: salite e discese. Un anno fa sono stati assolti tutti gli imputati in Appello. C’era il nostro avvocato in lacrime: mio padre lo consolava, accarezzandogli la testa. È stato un attimo, poi ci siamo detti: "Da dove ricominciamo?". Risposta trovata in pochi minuti. "Vado da Pignatone (il Procuratore Capo di Roma, ndr)". L’inchiesta bis è scattata così, da un pianto a dirotto. A Donata dissi: "Adesso tocca a te". E infatti…". Incrocio di sguardi, si riparla di Bergamini: "L’archiviazione è stata una mazzata, poi il vento è girato. A Castrovillari è cambiato il procuratore capo (Eugenio Facciolla al posto di Giacomantonio, ndr) e siamo tornati alla carica. Perché in fondo noi crediamo nella giustizia, pensiamo che in sorte ci sia toccata una parte malata. Ma lo Stato saprà rimediare". Ilaria aggiunge: "Proprio così: ho tanti amici tra carabinieri e poliziotti. E se ho un problema mi rivolgo a loro senza paura. Chi disonora la divisa o la toga deve averla. E provare vergogna. Noi in fondo siamo state fortunate: la gente ci dà forza. Il ruggito dell’opinione pubblica fa la differenza, ma quanti casi Bergamini e Cucchi non conosciamo? Quante persone rinunciano a combattere perché non hanno i mezzi per farlo? Specie gli ultimi. Ecco, siamo la loro voce. In giro tanti mi fermano per ringraziarmi: ho capito che la questione dei diritti calpestati è una piaga della nostra società. Mia figlia a 3 anni mi ha detto: "È normale che tutti ti cercano: sei una supereroe". Lo sono diventata mio malgrado. E non va bene". Casi mediatici - C’è chi accusa le sorelle di speculare sulla morte dei fratelli. E c’è chi punta il dito sull’avvocato Anselmo: "fa processi mediatici". Lui non si tira indietro: "Da soli non si va da nessuna parte. Se un cittadino entra nel tunnel della medicina legale e di altre questioni delicate, deve farsi il segno della croce. Ecco perché bisogna parlarne, coinvolgere i giornalisti, far conoscere le storture del sistema. La foto di Stefano mostrata al processo è valsa più di mille peri- zie. Chi da casa ha visto il volto tumefatto ha smesso di avere dubbi, si è schierato dalla nostra parte". Donata: "Stefano aveva viso e corpo devastato e alla famiglia hanno detto che non era accaduto nulla. Denis era integro e ci hanno spiegato che non potevamo vederlo perché era stato maciullato dal camion. Magari hanno invertito i referti". Traguardo - La rincorsa continua, il traguardo sembra più vicino. Il destino ci ha messo un carico: lo scorso 10 luglio è stata eseguita a Ferrara la riesumazione del cadavere di Bergamini (Isabella Internò, l’ex fidanzata, è indagata per omicidio premeditato e volontario), mentre a Roma sul caso Cucchi sono stati rinviati a giudizio 5 poliziotti con l’accusa di omicidio preterintenzionale. "Volevamo stare una accanto all’altra in quel momento, non è stato possibile. Ilaria è venuta tante volte con me a Castrovillari… Quel giorno non poteva: ho rivisto mio fratello dopo oltre 28 anni. L’ho sognato solo una volta, era appena morto. Però gli parlo spesso. Questa battaglia devo farla pure per i miei genitori: sono allo stremo. Per fortuna ho Ilaria vicino". Le mani di due sorelle si stringono: "Non riesco a sognare Stefano. Ma poco dopo la tragedia è apparso a un nostro amico missionario. Sorrideva, aveva un messaggio per me: "A Ilaria fai sapere che sto bene. Deve continuare a lottare. Ci saranno sorprese". Sì, nonostante tutto sono ottimista: io e Donata avremo giustizia". Giallo-Contrada: chi ordina le irruzioni? Continue, inutili e forse illegali di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio, 1 agosto 2017 "Sabato il mio assistito Bruno Contrada ha ricevuto un’ulteriore visita da parte della polizia giudiziaria, stavolta alle 8 di mattina. Solo dopo 5 ore, quando mi sono precipitato a casa sua, ho potuto accertare che il mandato non esisteva. Contro questo abuso presenteremo un esposto alla Procura di Palermo, al Csm e ai ministri competenti". Lo dice al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex numero 2 del Sisde, dopo l’incredibile nuova irruzione degli agenti. Ieri intanto Contrada ha incontrato i dirigenti radicali, che si sono presentati a loro volta a Palermo per una "perquisizione" dimostrativa, al termine della quale l’ex 007 si è iscritto al partito e ha tenuto una conferenza stampa con Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Le perquisizioni sono addirittura tre. Una alle 4 di mattina del 26 luglio, mercoledì. Un’altra sabato, in orario appena meno teatrale, le 8 antimeridiane. Ma nell’intervista al Dubbio di sabato scorso, Bruno Contrada ha rivelato che un’ulteriore irruzione della polizia si era verificata sempre mercoledì 26 nell’abitazione napoletana in cui l’ex numero due del Sisde conserva la residenza anagrafica. Ha aperto suo fratello 80enne, sempre alle 8 del mattino. Di tutta la sconcertante vicenda si è occupato ieri anche il Corriere della Sera, con Pierluigi Battista che le ha dedicato la sua rubrica "Particelle elementari". Di tutti, l’aspetto più grave è che la seconda visita fatta dagli agenti nella casa palermitana di Contrada non fosse accompagnata da for- male autorizzazione. "Una irruzione senza titolo di perquisizione né delega", ha spiegato il difensore dell’ex 007, l’avvocato Stefano Giordano, "la polizia giudiziaria è stata fatta allontanare dal sottoscritto". Non è il primo caso recente di sfacciata disinvoltura delle forze dell’ordine che, in base all’articolo 109 della Costituzione, dovrebbero essere assoggettate all pubblico ministero. A parte la discutibile ipotesi, avanzata dalla Procura di Reggio Calabria, secondo cui Contrada potrebbe custodire informazioni illuminanti su "Faccia di mostro" Giovanni Aiello, e consentire così di scoprire se quest’ultimo fosse tra i mandanti dell’omicidio di due carabinieri avvenuto trentacinque anni fa, il dato allarmante è appunto la (tentata) irruzione illegittima di sabato scorso. Un arbitrio a cui il legale di Contrada è riuscito a porre fine solo quando ha composto il 112 per chiedere ai carabinieri di imporre la legge ai tre poliziotti. E che ora, come spiega il difensore, "sarà oggetto di un esposto che invieremo a Procura di Palermo, Csm, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, affinché siano valutati tutti i possibili profili penali e disciplinari". La Procura di Reggio Calabria non ha comunicato nulla sui fatti di sabato. Il questore Raffaele Grassi invece ha dichiarato che "non sono stati eseguiti perquisizioni o interrogatori". Affermazione che Giordano smentisce: "Sono in possesso di prove che è stato compilato un verbale di sommaria informazione". Sabato mattina i tre uomini della Polizia di Stato hanno indotto Contrada a consentire la copia di file e documenti dai suoi archivi in nome della "colleganza". Cinque ore dopo, quando finalmente ha saputo di quanto avveniva a casa del suo assistito e si è precipitato sul posto, il difensore ha ottenuto che le copie digitali fossero cancellate. Nell’esposto si chiederà di valutare anche se "sussistessero i requisiti di urgenza per effettuare in orario notturno la perquisizione del 26 luglio". La legge prevede che debba appunto esserci una giustificazione per derogare agli orari ordinari. Il caso segnala ancora una volta un dato generale gravissimo: la polizia giudiziaria sembra muoversi sempre più spesso in un quadro di assurda autonomia dal- la stessa magistratura inquirente. Sempre nelle ultime ore, domenica scorsa, Matteo Renzi è tornato sulle "manomissioni" compiute, anche ai danni di suo padre, nel corso dell’indagine Consip. Anche in quella vicenda sono affiorati segni di probabile arbitrio da parte dei militari impiegati nell’attività investigativa. Indizi di un’azione sollecitata non solo dalle mere disposizioni della magistratura ma anche da tensioni e contrasti tutti interni ai carabinieri. Così come nel caso di Contrada è difficile tenere lontano il sospetto che antiche ruggini interne alla Polizia di Stato abbiano quanto meno favorito i modi spicci con cui è stata condotta la pseudo- perquisizione di sabato. L’interrogativo è se in Italia esista un problema di controllo delle forze dell’ordine impiegate nelle indagini penali. E se non sia opportuno rafforzare in tutte le maniere possibili l’assoggettamento di queste ultime alla magistratura. Può non essere espulso l’immigrato disabile al 100% di Giovani Negri Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 31 luglio 2017, n. 38041. Può non essere espulso il cittadino extracomunitario colpito da disabilità. Le ragioni del divieto di espulsione indicate nel Testo unico sull’immigrazione non sono infatti tassative e vanno invece lette, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale, alla luce della necessità di garantire il diritto alla salute. Lo sostiene la Corte di cassazione con la sentenza n. 38041della Prima sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Perugia con la quale era stata respinta l’opposizione della difesa di un cittadino extracomunitario al provvedimento di espulsione. L’uomo è in condizioni di grave disabilità, invalido al 100%, per la perdita di una gamba. Il Tribunale nel motivare la fondatezza dell’espulsione aveva messo in evidenza come le cause che impediscono l’espulsione sono assolutamente tassative e, quanto alla rilevanza da dare all’inabilità fisica, questa è presa in considerazione solo con riferimento alle modalità di esecuzione del provvedimento di rimpatrio con l’obiettivo di assicurare la dignità della persona, ma senza che la stessa abbia alcun peso come causa di impedimento con valore assoluto. Una posizione che non è stata però condivisa dalla Cassazione. Che ha invece fatto notare come la norma del Testo unico (articolo 19 commi 1 e 2 del decreto legislativo n. 286 del 1998) va invece interpretata alla luce di quanto è stato affermato dalla Corte dei diritti dell’uomo e della Consulta. Quest’ultima, in particolare, ha già ricordato (sentenza n. 252 del 2001), per quanto riguarda il diritto alla salute, come la normativa sugli stranieri non esclude, anzi impone, che il provvedimento di espulsione pronunciato nei confronti di un clandestino può non essere eseguito quando dalla sua esecuzione deriva un pregiudizio irreparabile per la salute. Non ha poi un peso particolare, nella lettura della Corte, il fatto che il diritto alla salute non sia stato in questo caso declinato come classico diritto a ricevere cure urgenti ed essenziali, quanto invece mettendo in evidenza come il ritorno nel Paese di origine, dal quale l’uomo è assente da più di 30 anni, lo priverebbe di qualsiasi sostegno economico, senza la possibilità di usufruire di aiuto da parte di altre persone. La Corte costituzionale, piuttosto, invita l’autorità giudiziaria a valutare caso per caso, tenendo conto del complesso della disposizioni del Testo unico e, quindi, anche della parte dedicata alla protezione delle categorie vulnerabili. Processo civile, troppe 51 pagine per un ricorso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Corte di cassazione, Terza sezione civile, sentenza 31 luglio 2017, n. 18962. Narrazione sì, ma senza esagerare. Metterci 51 pagine per esporre i fatti di causa in un ricorso è senza dubbio eccessivo. Tanto da costare l’inammissibilità dell’impugnazione. In questo modo infatti non è certo soddisfatto quanto chiede il Codice di procedura civile che all’articolo 366, comma 1, n. 3), invita a un’"esposizione sommaria". Queste le conclusioni della Corte di cassazione con la sentenza n. 18962 depositata ieri. La Cassazione ricorda innanzitutto che, sulla base di un’ormai consolidata giurisprudenza, il fatto che deve essere esposto in maniera sintetica è di natura sostanziale (le reciproche pretese delle parti) sia di natura processuale (relativo cioè a quanto accaduto nel corso del giudizio, per esempio alle domande ed eccezioni formulate dalle parti, ai provvedimenti del giudice). Quanto poi al requisito della sommarietà che deve caratterizzare l’esposizione, il ricorso deve contenere il racconto esauriente, senza essere troppo analitico e particolareggiato, degli elementi essenziali della controversia: serve alla Cassazione per acquisire una conoscenza sia pure sommaria del processo, in maniera tale da potere procedere alla lettura dei motivi di ricorso comprendendone il senso. Di conseguenza, l’impugnazione deve essere considerata inammissibile per esposizione insufficiente quando non permette alla Corte di valutare l’attualità delle questioni sollevate. La sentenza sottolinea come una delle più deteriori prassi che configurano l’eccesso di esposizione ha a che fare con la tecnica della "spillatura" o dell’assemblaggio, nella riproduzione cioè di una serie di atti processuali all’interno del ricorso. Una modalità che evita qualsiasi elemento di narrazione della vicenda processuale e che si traduce piuttosto in una sorta di comodo "copia e incolla". Ora, nel caso esaminato in Cassazione, questo rischio è stato sì evitato, non innestando nel corpo del ricorso la riproduzione di atti processuali, ma il ricorso ha poi "peccato" per eccesso in un altro senso, riportando in modo meticoloso ogni singolo evento processuale, sia pure con una narrazione propria, ma senza necessità. La vicenda oltretutto non era di particolare complessità (una fideiussione a favore di un istituto bancario), tuttavia erano servite ben 51 pagine per spiegare l’intero svolgimento dei gradi di merito. In questo modo è del tutto evidente alla Corte come sia stato eluso il requisito della sommarietà dell’esposizione. "Una tale tecnica espositiva - censura la sentenza - ha reso particolarmente "indaginosa" l’individuazione delle questioni da parte di questa Corte, impropriamente investita della ricerca e della selezione dei fatti (anche processuali) rilevanti ai fini del decidere". E alle parti la Cassazione non presenta un conto solo processuale, affondando il ricorso, ma anche economico, condannando i ricorrenti a 13mila euro di pagamento delle spese oltre a un rimborso forfettario del 15% dell’importo e a una cifra ulteriore pari a quella versata a titolo di contributo unificato. Il magistrato non può offendere il sindaco di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 31 luglio 2017 n. 18987. La commissione disciplinare del Csm non può evitare la "punizione" al magistrato che dal suo profilo Facebook offende il sindaco di Roma, considerando il fatto di fatto di scarsa rilevanza, perché il primo cittadino non aveva percepito lo scritto come offensivo. Ai fini disciplinari pesa, infatti, la lesione che deriva all’immagine del magistrato da un fatto-reato. La Cassazione (sentenza 18987) accoglie il ricorso Pm contro la decisione del Csm di escludere l’illecito a carico del magistrato, per scarsa rilevanza, come previsto dall’articolo 3 bis del Dlgs 109/2006 che regola la responsabilità disciplinare dei magistrati. I "probi viri" avevano aperto il procedimento dopo che l’incolpata aveva scritto sul social network la frase "Non ho mai visto un sindaco plaudire bea(o)tamente per essere stato messo sotto tutela...". Il post era stato poi ripreso dal quotidiano la Repubblica. La Commissione disciplinare, ammettendo sia la consumazione del reato di diffamazione, sia il pregiudizio all’immagine del magistrato per la risonanza dell’episodio aveva ritenuto, con un giudizio ex post, che nel suo complesso il fatto era di scarsa rilevanza. Sulla decisione aveva inciso soprattutto, una dichiarazione del sindaco che aveva "minimizzato" e il buon "curriculum" professionale dell’incolpata. Non è d’accordo il Pm, secondo il quale non si poteva applicare l’articolo 3-bis, perché la contestazione riguardava un illecito disciplinare in conseguenza di un reato. Ipotesi che rientra nel raggio d’azione dell’ articolo 4 del Dlgs 109/2006, che impone di "punire" il magistrato, anche se il reato è estinto o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita, perché con il reato viene sempre lesa l’immagine delle toghe. La Cassazione accoglie in parte il ricorso dell’accusa ed annulla la sentenza impugnata rinviando al Csm per un nuovo giudizio. Non è vero - spiega la Cassazione - che, in caso di un fatto reato non è mai applicabile l’articolo 3-bis. La tesi si rifà a u un orientamento che si è formato prima dell’entrata in vigore dell’articolo 131-bis del Codice penale, sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto. Una norma che ha certamente effetto sull’interpretazione dell’ articolo 3-bis e sull’articolo 4 del Dlgs 109. Spetterà al giudice disciplinare valutare se, alla particolare tenuità del fatto come disegnata dal Codice penale, corrisponda una particolare tenuità anche a livello disciplinare. Nel caso esaminato però, la Cassazione ritiene che abbia sbagliato il Csm a "liquidare", in presenza di un reato, come scarsamente rilevante l’illecito disciplinare. Quello che conta è l’immagine del magistrato, lesa a prescindere dal fatto che le parole diffamatorie non sono state percepite in tal senso dal destinatario. È spesso difficile prendere decisioni sul plagio: il caso Isgrò di Gloria Gatti Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Il Tribunale di Milano con ordinanza cautelare del 24 luglio 2017 ha ritenuto che la copertina e il materiale grafico a corredo dell’opera musicale, "Is this the life whe really whant?"di Roger Waters, ex bassista e voce dei Pink Floyd, il cui titolo emerge su più righe da un testo parzialmente coperto da cancellature nere, costituissero violazione dei diritti d’autore dell’artista Emilio Isgrò, artista concettuale siciliano appartenete all’avanguardia degli anni 60 e in particolare dell’opera "Cancellatura" del 1964, le cui opere di arte/scrittura emergono anch’esse da un testo parzialmente cancellato in nero e ne ha inibito la riproduzione e la commercializzazione. Nella motivazione si legge che i principi che hanno fondato la decisione della corte ambrosiana sono stati quello, pacifico in causa, di ritenere che "non è l’idea della cancellatura ad essere oggetto di monopolio e di protezione, ma la forma espressiva rappresentata dall’autore Emilio Isgrò attraverso le sue opere artistiche", e ciò in conformità alla classica dottrinale e giurisprudenziale che ritiene oggetto di tutela da parte del diritto d’autore non l’idea, ma la "forma espressa dell’ideazione" e che la "copertina" di un opera musicale abbia mere finalità "commerciali, per conseguire un profitto e divulgare con tale mezzo espressivo il supporto fonografico". Ogni qualvolta un giudice è chiamato a pronunciarsi su un caso di contestato "plagio" il suo compito è arduo e le sue decisioni sono spesso controverse e discusse come in questo caso. Il confine tra "arte appropriativa" e sfruttamento illecito della forma espressa dalla creatività di un altro artista è molto labile, così com’è complessa la comparazione di due opere per valutare se l’una costituisca riproduzione dell’altra. Il Tribunale di Milano, aveva affrontato il tema dell’arte appropriativa in un precedente analogo caso che aveva coinvolto le "Giacometti Variations" di John Baldessari e aveva stabilito che le opere d’arte "che reinterpretano immagini preesistenti tratte dall’arte e dalla cultura di massa, cambiandone totalmente il significato" fossero uso lecito dell’opera originaria ex art 18 legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941, n. 633) in quanto configuranti una "parodia" dell’opera originaria e che conseguentemente, quindi, lo sfruttamento economico dell’opera originaria, in assenza di consenso, non fosse una violazione del diritto esclusivo dell’autore (ordinanza del 13 luglio 2011). Quando l’artista rielabora in chiave personale un’opera d’arte altrui, caduta in pubblico dominio, sino a farla diventare essa stessa una nuova opera d’arte suscettibile di autonoma tutela e "sfruttabile" senza il consenso dell’autore della prima e senza il dovere di corrispondergli un compenso per il suo sfruttamento. Si pensi all’opera d’arte ready-made di Marcel Duchamp L.H.O.O.Q. più nota come Gioconda coi baffi, esempio di scuola di Appropriation Art. Il caso de quo, tuttavia, si discosta dal precedente poiché non coinvolge "un’opera d’arte", ma la copertina di un disco, che ben potrebbe essere un’opera d’arte o d’ingegno, ma che nel caso de quo è stata ritenuta avere una valenza artistica marginale residuale rispetto all’opera d’arte musicale che accompagna essendo prevalente la sua finalità commerciale. Benché le cancellature siano le opere iconiche per artista siciliano, più opinabile, è invece, ritenere che tale forma espressiva costituisca un suo diritto esclusivo. Isgrò nasce come poeta e fa uso sapiente della cancellazione di un testo preesistente (un’enciclopedia, un romanzo, una mappa) per far emergere dei versi, un messaggio o una nota musicale. Si tratta di opere ready-made in cui l’autore interviene su un libro o su una pagina scritta da altrui, facendolo proprio e coprendo i testi dell’autore originario lasciando in vista solo alcune parole. Si rammentano ad esempio l’Enciclopedia Treccani e la Costituzione cancellata. Anche l’opera Cancellatura del ‘64 di cui si contestato il plagio in causa è realizzata cancellando sapientemente un articolo di un non meglio identificato giornale, con della china nera. Aderendo, quindi, alla tesi del Giudice, parrebbe, a sommesso parere di chi scrive, appare tortuoso considerare illecita l’ispirazione della copertina del disco all’opera di Isgrò, che a sua volta si era appropriato di un articolo di giornale, scritto da un altro autore, facendone lecitamente un’opera di "arte appropriativa" dopo essersi ispirato all’opera "Poema ottico" o "Poesia senza parole" realizzata da Man Ray nel 1924 che fu il primo artista a fare della cancellatura una forma espressiva d’arte. Carta prepagata, ricettazione per chi non giustifica la provenienza dell’accredito di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Corte d’Appello di Trento - Sezione 3 - Sentenza del 3 marzo 2017 n. 65. Scatta il reato di ricettazione per chi accedendo abusivamente al sistema di gestione online di una carta Postepay, sottragga dal conto di un terzo una somma di denaro, accreditandola sulla propria carta, senza essere in grado di fornire una giustificazione soddisfacente dell’operazione. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Trento, sentenza del 3 marzo 2017 n. 65, rigettando il ricorso dell’imputato. Il Tribunale di Trento, ritenuta la particolare tenuità delle condotta, aveva condannato ad un mese di reclusione e 200 euro di multa l’imputato ritenendolo colpevole di aver ricettato sulla carta elettronica a lui intestata la somma di 498 euro. La carta aveva avuto una durata di soli 15 giorni, dal 5 al 20 gennaio 2011, ed era servita per "plurime operazioni, compreso l’accredito abusivo". Interrogato, l’imputato aveva dichiarato la propria estraneità, avendo denunciato lo smarrimento della carta il 20 gennaio: "la segnalazione di smarrimento e le condizioni precarie di vita rendano probabile che egli sia estraneo alla vicenda - ha sostenuto l’avvocato in appello -, con lo stesso grado di probabilità espresso dal tribunale per esprimere la colpevolezza". In subordine il legale ha chiesto le attenuanti generiche viste le condizioni personali del soggetto: "senza casa e senza lavoro". Per il Collegio, il giudizio di "alta probabilità" espresso dal Tribunale è un "concetto improprio per una pronunzia di colpevolezza", tuttavia esso può essere corretto in un giudizio di "piena prova ai sensi dell’art. 533 comma 1 cpp". Infatti, prosegue, "è pacifico che la somma sia transitata sulla carta elettronica dell’imputato, il quale non ha saputo dare alcuna spiegazione del fatto". In altri termini, prosegue la decisione, "il denaro pacificamente provento del delitto di uso abusivo di una carta prepagata è stato per un certo periodo nella piena disponibilità dell’imputato, sul quale grava perciò solo l’onere probatorio di dare una giustificazione che escluda il reato contestatogli". Vale infatti in materia l’antico principio da ultimo così ribadito dalla Cassazione: "Ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione, la mancata giustificazione del possesso di una cosa proveniente da delitto costituisce prova della conoscenza della illecita provenienza. (n. 52271/2016). L’imputato invece ha dichiarato "solo di avere smarrito la carta e di avere fatto la relativa denunzia". "Troppo poco", argomenta la Corte, considerato, da un lato, che egli stesso ha ammesso di avere tre carte postepay; dall’altro che la dichiarazione di smarrimento "non solo è posteriore di una intera settimana all’accredito, ma non contiene alcun dato identificativo della carta che si assume smarrita, rendendo così impossibile stabilire di quale delle tre carte si asserisca lo smarrimento". In altri termini, continua, "l’assoluta genericità della dichiarazione alla Questura di Prato ne rende palese l’intento strumentale e preventivo". Tanto è vero che esistono prelievi Atm "immediatamente posteriori al 13 gennaio, data dell’accredito in questione, e ben superiori nel complesso all’accredito stesso, nell’assoluto silenzio dell’imputato, che non si duole di alcun danno subito". In definitiva, conclude la decisione, la condotta dell’imputato si manifesta di "spessore non trascurabile", e "impedisce di riconoscere attenuanti generiche, peraltro su un trattamento sanzionatorio già particolarmente mite". Né tantomeno le dedotte "condizioni di vita" possono essere "ulteriormente valorizzate, trattandosi pur sempre di soggetto che gode di strumenti idonei a manovrare con disinvoltura movimenti on line di denaro sporco, sia pure per operazioni di piccolo cabotaggio (a quanto consta)". Pronuncia confermata dunque con condanna alle spese. L’impedimento del difensore affetto da malattia. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2017 Difensore - Impedimento del difensore - Legittimità dell’impedimento - Criteri di valutazione. A sostegno dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento, dovuto a malattia, o altro evento imprevedibile, il difensore deve provare con idonea documentazione la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione. L’impedimento deve essere giustificato da circostanze improvvise e assolutamente imprevedibili, tali da impedire anche la tempestiva nomina di un sostituto che possa essere sufficientemente edotto circa la vicenda in questione. Resta fermo, ai fini del differimento dell’udienza, l’apprezzamento riservato al giudice di merito circa la serietà, l’imprevedibilità e l’attualità del dedotto impedimento, e la relativa valutazione deve essere sorretta da una motivazione adeguata, logica e corretta. Inoltre, il difensore impedito a causa di serie ragioni di salute o da altro evento non prevedibile o evitabile non ha l’onere di designare un sostituto processuale o indicare le ragioni dell’omessa nomina. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 31 gennaio 2017 n. 4530. Richiesta di restituzione in termini - Proposizione di impugnazione - Stato di malattia come causa di forza maggiore - Richiesta - Gravità - Impedimento dello svolgimento di qualsiasi attività - incidenza sulla capacità di intendere e di volere. La malattia del difensore assente certificata come "sindrome depressiva su base reattiva" non può ritenersi assoluta e di tale gravità da impedire non solo la redazione dell’atto, ma anche il ricorso a rimedi alternativi o sostituivi, ricercabili dallo stesso difensore, non risultando che la stessa fosse invalidante al punto da impedire al legale di allontanarsi dal proprio domicilio, di nominare un sostituto per la presentazione dei motivi di impugnazione o di informare l’imputato. Considerato, peraltro, che ogni imputato conserva il potere di proporre impugnazione autonoma e il dovere di controllare il rispetto del mandato conferito, l’uso dell’ordinaria diligenza sia da parte del difensore che dell’imputato avrebbe potuto evitare il vano spirare del termine per impugnare. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 15 giugno 2016 n. 24852. Difensore - Legittimo impedimento (nozione) - Alterazione stato fisico - Esclusione. Impedimento rilevante è solo quello In grado di determinare l’assoluta impossibilità a comparire del difensore. Non è dunque sufficiente che questi sia affetto da una qualsiasi alterazione dei suo stato di salute perché consegua l’obbligo per il giudice di disporre il differimento dell’udienza, ma è invece necessario che l’interessato prospetti e documenti una patologia tale da configurare un effettivo impedimento nei termini descritti dalla legge processuale. In tal senso non è in dubbio che l’assoluto impedimento a comparire non richieda necessariamente l’impossibilità in senso fisico di raggiungere la sede giudiziaria ma deve comunque risolversi in una situazione tale da impedire all’interessato di partecipare all’udienza se non a prezzo di un grave e non evitabile rischio per la propria salute. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 6 novembre 2013 n. 44845. Impedimento a comparire - Certificato medico attestante lo stato di avanzata gravidanza del difensore - Legittimo impedimento - Esclusione. È legittima la decisione con cui il giudice affermi l’insussistenza del legittimo impedimento del difensore ex articolo 420-ter, comma 5, c.p.p., qualora esso sia dovuto allo stato di avanzata gravidanza dello stesso difensore, in quanto il solo stato di avanzata gravidanza non può di per sé costituire, in assenza di specifiche attestazioni sanitarie indicative del pericolo derivante dall’espletamento delle attività ordinarie o professionali, causa di legittimo impedimento. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 17 maggio 2013, n. 21262. Campania: barbaro sovraffollamento delle carceri, il nostro non è uno Stato di diritto di Aniello De Crescenzo linkabile.it, 1 agosto 2017 In Campania il sovraffollamento delle carceri è una silenziosa e sanguinosa sconfitta di civiltà. Lo stato di civiltà di un paese, si evince in maniera inequivocabile dalle condizioni delle carceri e dai sistemi di repressione criminale adottati. In virtù di ciò, l’Italia e la Campania fanno dell’inciviltà la loro strada maestra. La Campania è la seconda regione carceraria dietro la Lombardia, con una popolazione carceraria di 6887 unità, a fronte di una capienza di circa 6114 unità (dati aggiornati a dicembre 2016). Il sovraffollamento diviene quindi l’arma di annullamento e distruzione della dignità umana, coadiuvata dal clamoroso disinteresse generale delle principali forze politiche del Paese. L’articolo 27 della Costituzione, stabilisce in maniera netta ed inequivocabile, che la pena inflitta al condannato debba essere diretta alla rieducazione sociale dell’individuo, poiché in una società in cui la perfezione è divina, l’errore umano è una costante. L’individuo che commette un reato merita di essere punito, ma la punizione deve essere proporzionata alla colpa e non deve in nessun caso avere come fine esclusivo l’afflizione e la perpetua violazione dei diritti e della dignità umana. Una società che costringe un carcerato a defecare e mangiare nello stesso metro quadro sovraffollato, diviene quindi più barbara di qualsiasi efferato reato. Il carcere di Poggioreale a Febbraio 2017 ha nuovamente superato la soglia critica di 2000 detenuti, in una struttura che può ospitarne circa 1600, nello stesso mese un 38 enne si è tolto la vita in carcere andando ad aggiungersi alla folta schiera di anime disperate morte suicida in carcere (Più di 2200 dal 2000 al 2013). Donato Capece responsabile generale del Sappe, il sindacato penitenziario, ha dichiarato che negli ultimi 20 anni, la polizia penitenziaria ha sventato più di 21mila suicidi. Dati come questi, non sono altro che l’ennesima dimostrazione di uno Stato che non può definirsi di diritto. La rieducazione sociale è impossibile se non hai neanche lo spazio per respirare in cella, se il sistema penale non vara una più ampia rivalutazione delle pene alternative alla detenzione. Inoltre una cultura di massa che inneggia al carcere come unico strumento di risoluzione della criminalità, non comprende che un sistema carcerario sarà tanto più efficace nella lotta alla criminalità, quanto più giuste saranno le condizioni delle persone condannate. Questo perché il condannato, che vive il carcere come una condizione di cattività non tornerà di certo migliore nella società. Il carcere di Secondigliano ha una capienza di circa 1.000 unità e una popolazione carceraria di 1.300 detenuti, con celle singole che spesso diventano doppie. Sempre a Poggioreale il 30 percento dei detenuti è condannato o in attesa di giudizio per reati di droga, spaccio di droga eseguito per i clan camorristici, che sempre più spesso utilizzano per il traffico di stupefacenti, soggetti irregolari, privi di residenza, che quindi non possono ottenere misure alternative alla detenzione. Inutile dire quindi, quale prorompente e benefico effetto potrebbe derivare da un sistema di liberalizzazione delle droghe leggere. Per non parlare della carenza di personale medico e strutture sanitarie, che rendono anche un semplice esame medico una lunga procedura interminabile. Bisogna anche ammettere che Antonio Fullone, direttore della casa circondariale di Napoli Poggioreale, negli ultimi anni ha profuso sforzi non indifferenti per migliorare la condizione logistica di Poggioreale, con la costruzione di una palestra ad esempio, ma tutto ciò non basta. La situazione delle carceri della Campania è di emergenza cronica, nel pieno contesto di un problema di sovraffollamento nazionale, al quale fino ad oggi le istituzioni non hanno saputo fornire nessuna risposta, impossibile da dare, quando non si giunge neanche ad ascoltare determinate problematiche. Ivrea (To): muore in carcere a 37 anni, forse per abuso di farmaci. Denuncia del Garante di Jacopo Ricca La Repubblica, 1 agosto 2017 Nuova bufera sul carcere di Ivrea. Dopo la denuncia delle violenze sui detenuti da parte degli agenti della polizia penitenziaria, un nuovo caso scuote l’istituto eporediese dove il mese scorso un ragazzo di 37 anni è morto d’infarto, probabilmente per abuso di farmaci. La vicenda è finita sul tavolo del procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando, che ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti e disposto l’autopsia sul corpo del tunisino, da tempo residente nel Novarese. Del caso si è infatti interessato il garante dei detenuti di Ivrea, Armando Michelizza: "Da tempo ci siamo accorti che c’è un eccessivo uso di medicinali, in particolare di farmaci, all’interno del carcere" è la sua denuncia. Il giovane sembra si sia sentito male improvvisamente, senza avere in passato lamentato particolari patologie cardiache. Quello che vogliono chiarire però gli investigatori è se la sua sia una morte naturale e se così non fosse se l’infarto sia stato provocato da sostanze che gli erano state prescritte o meno: "Che un 37enne muoia d’infarto non mi sembra così naturale - continua Michelizza. Da quello che sono riuscito a ricostruire c’è un traffico illegale di medicine all’interno del carcere. I detenuti riescono a scambiare tra loro i farmaci che gli sono stati prescritti". Questi sono gli aspetti che il pm Ferrando cercherà di approfondire dopo che il medico legale avrà depositato gli esiti dell’autopsia e dell’esame tossicologico. Intanto il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha chiesto e ottenuto di incontrare la responsabile della "Sanità penitenziaria" dell’Asl To4, Ornella Vota, che ha il compito di monitorare le terapie e le prescrizioni fatte ai detenuti del carcere di Ivrea: "Al di là del caso gravissimo di questo giovane, su cui speriamo faccia luce l’autorità giudiziaria vogliamo capire se ci sia un problema diffuso sull’abuso di farmaci. Non solo a Ivrea, ma in tutta Italia abbiamo più volte denunciato questo problema" spiega Mellano. Il tunisino morto a Ivrea era uno dei 1.811 detenuti stranieri presenti nelle 13 carceri piemontesi. Secondo quanto riportato dall’associazione Antigone, che ieri mattina ha presentato il rapporto sugli istituti di pena della Regione, il 45 per cento dei carcerati è straniero, un dato molto più elevato della media nazionale che si ferma al 34 per cento: "Sta crescendo anche il sovraffollamento, in un anno siamo passati dal 95 per cento al 102, un numero al ribasso rispetto alla situazione attuale perché comprende anche le sezioni non utilizzabili, ma conteggiate tra quelle disponibili" attacca Perla Allegri, una delle osservatrici di Antigone che ha monitorato le carceri piemontesi. "C’è poco personale, sia tra gli educatori che tra la polizia penitenziaria. Il sistema regionale è saturo - conferma il coordinatore Michele Miravalle - Abbiamo punte del 115 per cento a Torino, ma a Verbania si arriva anche al 139". Ancona: detenuti morti a Montacuto. Antigone Marche chiede più psicologi ed attività anconatoday.it, 1 agosto 2017 "Il problema non è nel sorvegliare le persone, ma nell’eliminare le cause che portano ad atti suicidari o di autolesionismo". "Due detenuti morti nello spazio di poche ore, uno per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute e l’altro per suicidio: è ora che si inizi a parlare seriamente di potenziare il personale medico e civile, innanzitutto degli psicologi, all’interno degli Istituti penitenziari e di risolvere le lacune della sanità penitenziaria. Così come di incentivare le misure alternative, le possibilità di lavoro intra ed extra murario, i corsi scolastici e di formazione, la presenza di volontari esterni e le attività rieducative che, nel periodo estivo, calano vertiginosamente, lasciando le giornate dei detenuti estremamente vuote e solitarie". Così Antigone Marche, l’associazione che si occupa di diritti nel sistema penale, sul caso dei due detenuti del carcere di Montacuto morti ieri. L’associazione è tornata da tempo a sottolineare la preoccupante crescita del numero dei detenuti anche nelle Marche. "Sappiamo bene che, nel periodo estivo, la situazione delle carceri tende a peggiorare - continua l’associazione - sia per una fisiologica carenza di attività e di corsi per i detenuti; sia per un altrettanto normale aumento della popolazione ristretta. Questo, però, va ad aggiungersi ad una realtà in cui assistiamo al ritorno del sovraffollamento e i due detenuti di Montacuto deceduti ieri ci dimostrano che un edificio ristrutturato non basta: ad esempio, il detenuto morto in ospedale aveva un fine pena al 2018, possibile che dovesse scontare la sua pena solo in carcere e in nessun altro luogo, vista anche la sua condizione di salute? Ecco perché, secondo noi, servono misure alternative e attività rieducative e, soprattutto, assistenza psicologica per chi si ritrova a vivere per mesi e anni in pochi metri quadrati". Sono già 67 i detenuti morti in tutta Italia quest’anno "di questi 31 sono i suicidi - spiega ancora l’associazione - e, secondo noi, il problema non è nel sorvegliare le persone, ma nell’eliminare il più possibile le cause che possano portare ad atti suicidari o di autolesionismo, così come, ad esempio, fu fatto negli Stati Uniti negli anni ‘80. Non solo. L’Italia è il Paese con uno dei più elevati dislivelli del tasso di suicidio tra popolazione libera e popolazione detenuta, in carcere infatti ci si suicida 20 volte di più che all’esterno: un problema di controllo o di sistema complessivo? Un dubbio che riguarda tutti, se vogliamo garantire un sistema pubblico, e dunque finanziato con i soldi dei cittadini, efficiente. Che crei sicurezza, e non morti". Cagliari: terrore a Is Arenas; il fuoco invade la Colonia penale, detenuti in spiaggia castedduonline.it, 1 agosto 2017 Altri agenti di Polizia penitenziaria fuori servizio sono stati bloccati mentre si recavano in carcere per dare una mano, impossibile passare, troppo pericoloso. Intanto ora sono impegnati anche molti elicotteri. Il fuoco è entrato nella Colonia penale la situazione inizia a farsi critica. In incendio questo pomeriggio ha invaso la Colonia penale e il carcere è stato evacuato. Sul posto è stato inviato personale dei Vigili del Fuoco del distaccamento di Ales (quello di Iglesias era già impegnato). Stanno operando molte squadre a terra Tra Forestale Regionale, Protezione Civile e molti altri volontari. Altri agenti di Polizia penitenziaria fuori servizio sono stati bloccati mentre si recavano in carcere per dare una mano, impossibile passare, troppo pericoloso. Intanto ora sono impegnati anche molti elicotteri: sono almeno cinque quelli impegnati nello spegnimento. Allertata anche la Capitaneria di Porto per un appoggio in mare vicino alla spiaggia mentre i pochi agenti in servizio, circa una ventina, si sono divisi in tutto il territorio della Colonia per controllare i vari gruppi di detenuti che stanno operando per la messa in sicurezza del bestiame e per il controllo degli altri detenuti nella spiaggia. Roma: "Io, detenuta a Rebibbia tra i topi". Lettera dal carcere, sette mesi dopo di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 1 agosto 2017 Francesca Occhionero scrive per denunciare le condizioni inumane di detenzione. Sei recluso in attesa del processo: perdi il diritto ad essere curato? Ti è concessa un’ora d’aria: i topi in cortile fanno parte della misura? Domande che vengono a leggere la lettera aperta di Francesca Occhionero, arrestata il 9 gennaio 2017 assieme al fratello Giulio. Per quattro anni i due avrebbero spiato email, account, siti personali e istituzionali di personalità politiche e non solo: tra gli altri, Renzi e monsignor Ravasi, Mario Draghi e Mario Monti, vertici della finanza e dell’intelligence. Non sono molti i detenuti per reati informatici in carcere ma la posizione di Francesca Occhionero è un caso nel caso perché, nei suoi confronti, il pubblico ministero Eugenio Albamonte aveva dato parere positivo alla scarcerazione (mentre al fratello, Giulio, è appena stato negato anche l’utilizzo del pc pur scollegato alla rete internet). É stata la giudice del tribunale di Roma, Antonella Bencivinni, a respingerlo: Francesca, dice, è ancora pericolosa. La lettera, allora, riapre il dibattito sul diritto a una detenzione più umana per la quale, a volte, basterebbe poco: "Nel cortile della mia sezione - denuncia Francesca Occhionero -c’è una fogna a cielo aperto con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni". E ancora: "Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in isolamento sanitario per giorni senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto (arguibile dall’isolamento) del trattarsi di malattie infettive. Infatti il reparto Nido è stato isolato in quarantena per scabbia".Queste parole sollevano dubbi sulla reclusione delle 348 detenute che - secondo l’osservatorio Antigone - affollano Rebibbia con medie ben superiori a quelle nazionali. Ma non basta. Perché, dalla sua prospettiva, la detenuta rilancia vecchi sospetti. Che una certa brutalità, per fare un esempio, sia funzionale a ottenere la collaborazione del detenuto: "Quanto sopra sintetizzato - scrive la Occhionero - induce a sospettare che le disumane condizioni carcerarie, rispetto alle quali non si coglie il segno di alcuna reazione vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto collabori. Non posso accettare l’idea che tale sospetto possa avere un lontano fondo di verità: sarebbe a dir poco avvilente e irrispettoso della intelligenza e della dignità umana e professionale di chi dovesse far uso di simili strategie". Avvilente e irrispettoso dice la donna assistita dall’avvocato Roberto Bottacchiari. Ma quali sono le condizioni di vita dietro le sbarre? "Una ragazza che lamentava da tempo l’insorgenza di piaghe sulle gambe, dopo un mese ha finalmente ricevuto una visita medica e le è stata diagnosticata una micosi infettiva (si è parlato di tigna). La stessa ragazza ha continuato a condividere i 9 metri quadri di cella con la sua coinquilina e a frequentare gli spazi comuni". Il diritto alla salute, al cibo, alle cure, perfino al rispetto di un decoro comune, in carcere, sono umiliati: "Sono obbligata - scrive - a nutrirmi mediante il vitto passato dal carrello ma con grande disgusto e sofferenza fisica ne ho capito il motivo quando altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto viene infatti "lavato" con spugnette bisunte e praticamente senza detersivi". Già l’igiene. "Non vi è mancata - annota - la presenza di scarafaggi e perfino un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento anziché essere sollevati. Il cibo si scongela e si ricongela". Gli odori: "Spesso i gabbiani attaccano i piccioni lasciando i cadaveri a marcire sui davanzali delle finestre. Facile immaginare gli odori e il vomitevole panorama". I servizi: "Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno (problema che aveva già interessato la cella a fianco). A nulla sono valsi i solleciti delle assistenti di sezione che ben poco potevano fare se non sollecitare a loro volta la manutenzione. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo". Francesca Occhionero conclude con un appello alla propria scarcerazione. Ignorato. Pescara: Hotel Rigopiano, riapre il sentiero grazie al lavoro di otto detenuti notiziedabruzzo.it, 1 agosto 2017 A sei mesi dalla tragedia dell’Hotel Rigopiano, riaprirà al pubblico giovedì 3 agosto alle ore 18.00 il sentiero del Vitello d’Oro di Farindola, uno dei sentieri più importanti del parco del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Riapertura resa possibile in tempi brevi grazie al lavoro di 8 detenuti del carcere di Pescara che hanno lavorato con impegno al recupero delle risorse naturalistiche e dei sentieri. Un progetto frutto di un protocollo d’intesa sottoscritto nel mese di giugno tra il Ministero della Giustizia, il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, l’Ente Parco del Gran Sasso e Monti della Laga e Comune di Farindola. Il Sentiero sarà intitolato alla memoria di Marco Riccitelli, ragazzo farindolese di 29 anni annegato il 24 agosto dello scorso anno nel mare di Punta Aderci a Vasto. All’inaugurazione saranno presenti il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli, l’on. Maurizio Lupi già ministro dei Trasporti dei governi Letta e Renzi, il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, il presidente del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga Tommaso Navarra. A seguire alle ore 19.00, presso la sala consiliare, la presentazione del libro fotografico "Il Colore del Gusto", volume che mostra con estrema bellezza le abitudini, la storia e le tradizioni culinarie della gente di Farindola. Alle ore 20.00, presso le vie del centro storico, l’inaugurazione dell’ottava edizione della Sagra del Pecorino di Farindola. Un pomeriggio all’insegna della rinascita e riscoperta di luoghi e tradizioni che gli eventi climatici e sismici di gennaio rischiavano di far sparire. Perugia: un solo laureato con 110 e lode, è un ex camorrista in cella da 23 anni di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 1 agosto 2017 Luigi Della Volpe, già boss alleato con i casalesi ha passato tutti gli esami con 30 e lode e ha discusso una tesi su Gramsci. "È in regime di massima sicurezza, non ha mai potuto usare internet nè il telefono". E lui dice "Mi sono scrollato la mia terra di dosso". Una sequenza ininterrotta di esami passati con il 30 e lode. Un en plein coronato con una tesi di laurea premiata - inevitabilmente - con un 110 e lode. Università di Perugia, facoltà di scienze politiche e della comunicazione, sessione di laurea di giugno 2017: un solo studente ha concluso il suo corso di studi a pieni voti, si chiama Luigi Della Volpe, ha 53 anni e non è un universitario come tutti gli altri. Da 23 anni è rinchiuso nel carcere di Spoleto, sezione di massima sicurezza, dove sta scontando una condanna per associazione a delinquere di stampo camorristico ed estorsione. "Mai capitato di vedere uno studente così determinato" dice di lui il professor Dario Biocca, il docente dell’ateneo di Perugia che lo ha affiancato nella stesura della tesi su Antonio Gramsci. Da Cutolo ai casalesi - Esistono un prima e un dopo nella vita di Luigi Della Volpe. Il prima arriva fino all’affacciarsi degli anni ‘90 e vede la famiglia Della Volpe, radicata ad Aversa, coinvolta in una delle più feroci guerre di clan scatenatesi in Campania. Storicamente fiancheggiatrice della nuova camorra di Cutolo, dopo l’arresto di "don Raffaele" i Della Volpe transitano armi e bagagli con il gruppo emergente dei Casalesi e diventano tra i più fidati alleati di "Sandokan" Schiavone. Non è un passaggio indolore, basti dire che il fratello di Della Volpe scampa miracolosamente a un attentato. Come viveva Luigi quel periodo? "Non sono mai stato in grado di capire, vivevo lo Stato e le leggi come nemici...sono andato avanti facendo a spintoni" ha scritto lui stesso al sito "Urla del silenzio" che raccoglie le testimonianze dei carcerati. "Mi scrollo la mia terra di dosso" - Ma è lo Stato a presentargli il conto: Della Volpe finisce arrestato in una operazione anti camorra e viene condannato a qualche decennio di carcere. Ma nella cella di Spoleto comincia la nuova vita di Luigi; che giuridicamente non è un collaboratore di giustizia ma si getta alle spalle il mondo di cui ha fatto parte. Hanno un ruolo decisivo le attività culturali organizzate a Spoleto e l’incontro con una volontaria della casa di detenzione, Rita Cerioni, una ex giudice che intuisce le potenzialità di Luigi e lo incoraggia. Ma come avviene il salto tra il prima e il dopo? "All’inizio ogni detenuto è impegnato a difendersi, a sostenere la sua battaglia giudiziaria - racconta il professor Biocca - poi subentra il momento della rassegnazione, quando ti rendi conto che dovrai passare tanti anni privato della libertà". Da questo momento Della Volpe troverà il suo riscatto nello studio. Ecco ancora come lui stesso racconta la sua esperienza nella lettera a "Urla del silenzio": "Sono cresciuto in terre violente, anche i miei sentimenti sono stati violenti...mi sento ricoperto dalle mie terre, dovrò scrollarmele di dosso". Laurea senza internet nè telefono - Ma non è come dirlo. Il regime carcerario a cui Della Volpe è sottoposto è durissimo. "Tenete conto - rimarca ancora il professor Biocca - che lì è impedito qualsiasi accesso a internet, le telefonate sono proibite e Luigi non ha mai visto in vita sua un telefono cellulare. Di permessi di uscire all’esterno, neanche a parlarne. Dunque non poteva usufruire dei più semplici servizi universitari benché pagasse in pieno le tasse all’ateneo. Ci siamo impegnati noi a fargli avere i testi in pdf ma se lo studente aveva qualche dubbio, non poteva interpellare il docente come farebbe qualunque universitario". Nonostante queste difficoltà, Della Volpe inanella uno dopo l’altro i suoi 30 e lode, non si accontenta della laurea triennale ma punta a completare il corso di studi. La sua passione contagia i docenti. "Mi ha chiesto lui stesso di fargli da relatore per la tesi - prosegue Biocca - e insieme abbiamo scelto come argomento Gramsci e le sue lettere dal carcere. Sono andato di persona all’Archivio di Stato a Roma e ho recuperato dei documenti originali che gli ho portato dietro le sbarre". Il buio (forse) oltre la cella - Il coronamento di questo percorso è la discussione della tesi di laurea. L’amministrazione penitenziaria, però, nega ancora una volta il permesso di uscita a Della Volpe, la tesi viene discussa con la commissione che varca il portone del carcere di Spoleto. Unici ammessi sono i figli del laureando. Ma sesso, che prospettive esistono per l’ex camorrista diventato dottore? "Difficile capirlo, anche perché Della Volpe uscirà dal carcere quando non sarà più giovane. Dipenderà molto da chi gli sta intorno, da chi gli concederà fiducia. Lui intanto ha detto di voler proseguire gli studi. E questo è un’ulteriore dimostrazione della sua voglia di riemergere". Como: sport in carcere, al Bassone vincono i detenuti Giornale di Como, 1 agosto 2017 Si è svolta sabato la partita al Bassone di Como per l’iniziativa sport in carcere. A sfidarsi le squadre dei detenuti e della Navigazione Lago di Como. Si è svolta sabato al carcere Bassone di Como una nuova partita di calcio. A sfidarsi la squadra dei detenuti e quella ospite, formata dai dipendenti della Navigazione Lago di Como. Ad avere la meglio, questa volta, sono stati i detenuti che si sono aggiudicati il match per un 4 a 2. Niente falli, nessun cartellino giallo né tanto meno rosso, ma solo fair play e tanta voglia di stare insieme. L’iniziativa promossa dal Consigliere Segretario Daniela Maroni e supportata dalla direzione del carcere è stata sostenuta anche dal Coni Lombardia e di Como. Proprio per questa occasione è arrivato al carcere per vedere la partita sabato il Presidente regionale Oreste Perri. Oltre ai dipendenti della Navigazione lago di Como, ospiti alla casa circondariale comasca anche uno dei dirigenti del Menaggio Calcio, Mario Thomas Sbolli. Da lui è arrivata la donazione di cinque palloni e, a breve, consegnerà ai detenuti una nuova divisa. Presenti inoltre per il Coni di Como la delegata Katia Arrighi, Giovanna Tagliabue, Concetta Sapienza, Claudio Zanoni, Antonella Girardi e la responsabile marketing e comunicazione del Coni Lombardia Paola Pietrobelli. Quest’ultima ha già assicurato una nuova divisa per il prossimo quadrangolare da destinare alla polizia penitenziaria. Il commento di Daniela Maroni. "Un’iniziativa che si inserisce in un progetto ben più ampio sviluppato con la direzione del carcere e il Coni di Como di formazione e di avviamento allo sport sia per i detenuti che per la polizia penitenziaria - ha spiegato il Consigliere Segretario Daniela Maroni. Dal mio punto di vista credo che lo sport sia fondamentale per fissare principi e regole, per ridare fiducia a una persona e per rimettersi in gioco affrontando le sfide con grande serenità e soprattutto voglia di riscatto. Questi incontri di calcio che ho organizzato e continuerò a proporre riscuotono sempre un grande successo perché i giocatori dimostrano grande interesse e partecipazione, una dimostrazione che la Navigazione Lago di Como ha già chiesto di poter ripetere l’esperienza. In autunno sono previste nuove iniziative anche a sostegno e supporto della polizia penitenziaria che, attraverso il Coni, diventeranno parte attiva di un percorso". Migranti. Le Ong boicottano il piano del Viminale di Grazia Longo La Stampa, 1 agosto 2017 Alla riunione si presentano in 3 su 9. Solo due firmano il regolamento. Il governo: chi non lo accetta è fuori dal sistema. È rottura tra le Ong e il Viminale, fallisce il piano del governo per imbrigliare le associazioni di volontari in un codice di condotta. Contrarie all’obbligo della presenza della polizia giudiziaria a bordo e al divieto di trasbordo dalle navi. Ma soprattutto contrarie all’idea di fare parte di un "sistema" organizzato di salvataggio. Sono nove le Ong che operano nel Mediterraneo. Ieri erano tutte convocate al Viminale per firmare il regolamento di condotta. La riunione è stata disertata da sei di loro. Delle tre presenti, solo "Save the children" ha accettato di apporre la propria firma al codice ministeriale. Le altre, la tedesca "Jugend Rettet" e "Medici senza frontiere" non ne hanno voluto sapere. La piccola "Moas" di Malta, pure lei non presente, aveva dato la propria adesione via email nei giorni scorsi, mentre la spagnola "Proactiva open arms" ha annunciato l’intenzione di firmare ma a un patto: nel documento, deve essere evidenziato il rispetto dei diritti umani dei migranti costretti a ritornare in Libia. La sorpresa maggiore, per il ministero dell’Interno, è arrivata dal colosso delle Ong "Medici senza frontiere". Il suo diniego, trapela dal Viminale, va inquadrato nell’interesse della Ong a imporsi come leader, come faro, a livello internazionale, nel suo mondo di riferimento. Prevedibile, invece, era l’opposizione delle più piccole realtà che si configurano come una sorta di "Leoncavallo del mare". In ogni caso chi si è opposto "resta fuori dal sistema". Per il Viminale infatti "l’aver rifiutato l’accettazione del Codice di condotta pone quelle organizzazioni non governative fuori dal sistema organizzato per il salvataggio in mare, con tutte le conseguenze del caso concreto che potranno determinarsi a partire dalla sicurezza delle imbarcazioni stesse". È probabile, dunque, una seria attività di monitoraggio e controllo da parte della guardia costiera italiana e delle navi della Marina militare inviate nella missione di supporto ai libici sulle loro coste. Le Ong che non hanno aderito al codice di condotta, insomma, sono avvisate: dovranno avere tutte le carte in regola in materia di certificazione (a partire da quella sull’idoneità tecnica al quella sul numero di presenze a bordo) se non vogliono incorrere nel rischio di sequestro della nave. Per nulla scontata, inoltre, la possibilità che possano attraccare dove ipotizzano per ragioni di comodità. In altre parole, potranno continuare il loro impegno ma verranno considerate alla stregua di tutti gli altri mezzi, tipo i mercantili, che salvano i migranti nel Mediterraneo centrale. Tutto, va da sé, "nel rispetto della vigente legislazione internazionale e nazionale, nell’interesse pubblico di salvare vite umane, garantendo nel contempo un’accoglienza condivisa e sostenibile dei flussi migratori". All’incontro di ieri pomeriggio al Viminale, presieduto da Mario Morcone, capo di gabinetto del ministro Marco Minniti, hanno partecipato "Save the children", "Msf" e la tedesca "Jugend Rettet". Il rappresentante di quest’ultima Titus Molkenbur spiega: "Noi possiamo firmare soltanto nel caso in cui le nuove norme rendessero più efficiente il nostro lavoro e aumentassero la sicurezza dei nostri volontari: oggi non è così". Mentre il fondatore di "Moas", Christopher Catrambone sottolinea di aver accettato perché "la nostra missione è da sempre quella di salvare più vite possibili". Tra i 13 punti del codice il divieto di entrare nelle acque libiche e quello di spegnere i transponder. Viene chiesto alle Ong di avere a bordo "capacità di conservazione di eventuali cadaveri". Importante anche cooperare con il Centro di coordinamento marittimo eseguendo le sue istruzioni. Migranti. Ong divise, solo in due firmano il Codice-salvataggi di Carlo Lania Il Manifesto, 1 agosto 2017 Msf rifiuta le nuove regole: contrari alla presenza di agenti armati a bordo delle navi e al divieto di trasbordo dei migranti. Alla fine solo due Ong - Save the Children e Moas - hanno accettato di firmare il codice di comportamento messo a punto dal Viminale per i salvataggi in mare. Medici senza frontiere ha scelto infatti di non accettare le nuove regole e lo stesso ha fatto la tedesca Jugen Rettet. Tutte le altre Ong, Sea-eye, Sea Watch e Sos Mediterranée, peraltro assenti alla riunione di ieri pomeriggio al ministero degli Interni, starebbero ancora valutando il da farsi, mentre disponibilità a firmare il Codice sarebbe stata dichiarata via mail in serata dalla spagnola Proactiva open arms. L’accordo tra Ong e Viminale, che sembrava quasi raggiunto solo venerdì scorso, alla fine invece è saltato. E adesso le due parti si rimpallano la poca disponibilità a venirsi incontro. Due i punti principali di scontro, sempre gli stessi da quando la trattativa è cominciata: il divieto a effettuare i trasbordi dei migranti tratti in salvo e la presenza a bordo delle navi di agenti di polizia giudiziaria armati. Questioni dirimenti per le Ong, delle quali però l’ultima bozza inviata venerdì sera in visione dal ministero non avrebbe tenuto contro in maniera adeguata. "Ci preoccupa non aver ricevuto garanzie sul fatto che gli agenti salirebbero a bordo disarmati", spiega Tommaso Fabbri, capo missione di Msf Italia. "Se accettassimo, posso immaginare le ripercussioni che potremmo avere negli altri Stati in cui Msf opera e nei quali abbiamo mantenuto il principio di non avere con noi personale armato. Non dimentichiamo che siamo operatori umanitari". Stessa cosa per quanto riguarda la possibilità di trasferire i migranti salvati a bordo di navi più grandi, come quelle della missione europea Sophia. Le Ong operano spesso su mezzi non particolarmente grandi, adatti per i soccorsi perché possono accostare i barconi senza creare situazioni di pericolo, ma del tutto inadatte a trasferirli in Italia. Un’ipotesi accordo si era trovata sulla possibilità di effettuare i trasbordi sotto controllo e autorizzazione della Guardia costiera italiana, ma alla fine non se ne è fatto nulla. "Nel codice questa possibilità viene prevista come un’eccezione, senza alcuna garanzia per le Ong di non essere costrette a dover tornare verso l’Italia con i migranti a bordo", prosegue Fabbri. Cosa accadrà adesso è un’incognita per le organizzazioni umanitarie. Di sicuro a nessuna di loro verrà negato l’accesso ai porti, ma dal ministero degli Interni fanno capire che Moas e Save the Children, le due Ong che hanno accettato il Codice, diventeranno degli interlocutori privilegiati e entreranno di fatto nel sistema nel sistema istituzionale dei soccorso. Questo vuol dire che in caso di un barcone che si trovi in difficoltà la sala operativa della Guardia costiera chiamerà a intervenire prima di tutto loro. "Le altre - spiegano sempre al ministero - si assumeranno la responsabilità per quanto riguarda la sicurezza della navigazione e delle persone che si trovano a bordo". Molto probabilmente verso le Ong che non hanno firmato verranno effettuati dei controlli più serrati per quanto riguarda la strumentazione di bordo, ma è chiaro che l’assenza delle Ong di fronte alle acque libiche, magari perché costrette a trasportare i migranti in un porto italiano, rischia di aumentare il numero dei naufragi. Per Valerio Neri, direttore generale di Save the Children, Ong che invece ha accettato le nuove regole, "gran parte dei punti indicano cose che già facciamo e ci sono stati chiarimenti su un paio di punti che ci preoccupavano, quindi non abbiamo avuto problemi a firmare. Siamo convinti - ha aggiunto Neri - di aver fatto la cosa corretta e mi dispiace che altre Ong non ci abbiano seguito, ma evidentemente avevano altre sensibilità". Il mancato accordo con le Ong ha scatenato le reazioni del centrodestra. Per il capogruppo di Forza Italia alla Camera Renato Brunetta ha chiesto al ministro degli Interni Minniti "di chiudere i porti" alle Ong che non hanno sottoscritto le nuove regole, mentre Georgia Meloni, leader di FdI, ha chiesto al governo di sequestrare le loro navi. Migranti. Ong nel mirino per sporcare tutto di Luigi Manconi Il Manifesto, 1 agosto 2017 La controversia tra le Ong e il Governo italiano intorno al codice di regolamentazione dell’attività di salvataggio in mare è questione di grande importanza. Guai a pensare che in discussione sia la maggiore o minore severità dei controlli e la tassatività delle regole di ingaggio o la trasparenza di questo o quel finanziamento. Fosse così, col buonsenso di tutti i soggetti, le contraddizioni si risolverebbero in breve. Ma non è affatto così: e il motivo è che la posta in gioco è rappresentata dalla stessa categoria di salvataggio. Per questa ragione, il rifiuto da parte di un’organizzazione autorevole come Medici senza frontiere (premio Nobel per la Pace nel 1999) di sottoscrivere quel codice elaborato dal governo italiano, è un fatto estremamente serio. E male farebbe una persona esperta come il ministro dell’Interno Minniti a sottovalutarlo. Ma come si è arrivati a questo esito? Nei primi mesi del 2017, Frontex - agenzia europea della guardia di frontiera - solleva alcuni dubbi sull’operato delle organizzazioni non governative che partecipano all’attività di soccorso nel mare Mediterraneo. Si accende, così, una polemica sulle presunte relazioni tra le stesse Ong e le strutture criminali che gestiscono il traffico di migranti; e sui finanziamenti che alcune di quelle Ong riceverebbero da sostenitori sospetti perché interessati a "destabilizzare il quadro economico del nostro Paese". Come affermato dal capo della Procura di Catania, Carmelo Zuccaro. La Commissione Difesa del Senato decide, in base a ciò, di avviare un’indagine conoscitiva, conclusa da un documento che deve riconoscere come tutte le accuse nei confronti delle Ong non reggano alla verifica dei fatti. In quella sede, i più alti gradi della Marina militare, della Guardia costiera e della Guardia di finanza, escludono che siano mai emerse prove di rapporti tra Ong e trafficanti, sottolineando la piena collaborazione in quel tratto di mare tra organismi di coordinamento, imbarcazioni statuali e navi delle associazioni umanitarie. Anche la magistratura siciliana, nel corso delle audizioni, riconosce la sostanziale correttezza delle Ong. Il procuratore capo di Catania, Zuccaro, sostiene di non disporre di "alcun fondamento probatorio" che suffraghi le proprie ipotesi accusatorie. E tuttavia, nonostante la fermezza della Guardia costiera nel ribadire di avere il pieno controllo di quanto avviene nelle operazioni Sar (Search And Rescue), le conclusioni della Commissione Difesa insistono sulla necessità di un "coordinamento permanente" per razionalizzare "l’attività disordinata" in quel tratto di mare, che sarebbe dovuta alla presenza delle Ong. Se ne conclude che sarebbe necessaria "una contestuale riduzione delle relative imbarcazioni nell’area". Va detto che, nel corso di questa polemica, sono emersi umori assai pericolosi. In primo luogo, quella velenosa tendenza a "sporcare tutto", che è tanto più irresistibile quanto più il bersaglio del fango da gettare appare lindo, immune da brutture, privo di zone grigie e di ombre sospette. È l’antica pulsione a lordare ciò che è pulito (un muro, un’immagine, una reputazione), a degradare tutto e tutti al livello più basso, a omologare nell’infamia, a confondere nel disgusto universale. Se tutto è miserabile, la mia miseria risulta in qualche misura riscattata o, comunque, attenuata. Ma c’è anche dell’altro. In quei meccanismi di degradazione, risultano sfigurate, e comunque intaccate, anche quelle categorie che potevano considerarsi intangibili. Indurre a sospettare che il bene possibile, rappresentato da un’attività umanitaria, possa rivelarsi un male contagioso - i soccorritori alleati ai carnefici - contribuisce potentemente a ridurre in macerie principi fondamentali. Le insinuazioni, e la diffidenza che ne consegue, non solo sfregiano le Ong e ne deturpano il prestigio, ma ottengono l’effetto di erodere i valori cui si ispirano. La violenta polemica, pur conclusasi con un pugno di mosche, ma con una persistente ombra di diffidenza da cui nasce anche questa proposta di codice di regolamentazione, mette in discussione quelle categorie di soccorso, salvataggio e aiuto umanitario che rappresentano il fondamento stesso dell’identità umana. Soccorso e salvataggio, infatti, costituiscono il cuore della vita nel momento essenziale in cui quella stessa vita è messa a repentaglio. Gli uomini riconoscono di essere uniti da una obbligazione etica e sociale quando - innanzitutto quando - è dal rapporto di reciprocità che dipende la loro sopravvivenza. E il fatto che si evochi, in occasione dei salvataggi nel Mediterraneo, la cosiddetta legge del mare sottolinea l’ineludibilità di quel rapporto perché lo colloca geograficamente laddove lo spazio sembra raggiungere la sua assolutezza: il mare, appunto. È questo che può spiegare i connotati perenni e imprescindibili di quell’obbligo-diritto-dovere al soccorso e al salvataggio come valore irrinunciabile. Non una vocazione utopica né una tentazione profetica nell’affermare tutto ciò. Piuttosto l’esatto contrario: la volontà umile e ostinata di ritrovare - nel fondamento materiale di una mutua necessità - il senso della qualità umana. Migranti. Il Governo punta sulla missione in Libia per dimezzare gli sbarchi di Francesca Schianchi La Stampa, 1 agosto 2017 Oggi passaggio in Parlamento. Le navi italiane potrebbero vigilare sui volontari. Deluso dall’esito della trattativa con le Ong, il governo oggi conta sul passo avanti decisivo di un’altra iniziativa: la missione in Libia. Annunciata solo mercoledì scorso, rinnegata dal capo del governo libico al-Sarraj e poi riconfermata nella forma non di "un’invincibile armata", come dice il premier Paolo Gentiloni, ma di "una missione di supporto all’azione delle autorità libiche di controllo del proprio confine marittimo", stamane sarà illustrata dai ministri Alfano e Pinotti, Esteri e Difesa, alle commissioni competenti di Camera e Senato perché la votino. Domani, poi, il passaggio in Aula a Montecitorio, che dovrebbe autorizzare con una maggioranza più ampia di quella di governo le nostre navi nelle acque libiche. Operazione vissuta con grandi speranze nelle stanze di Palazzo Chigi, Farnesina, Viminale e Difesa: potrebbe persino, rivelano, dimezzare i flussi verso l’Italia. E intrecciarsi in qualche modo al fallimentare tentativo di dialogo con le Ong: interpretando in modo estensivo l’accordo con Tripoli, facendo leva sulla clausola secondo cui la Libia può chiedere ogni aiuto in caso di emergenza, potrebbero essere proprio le navi italiane - al momento relegate a fare da scorta a quelle libiche - a vigilare perché le Ong restino in acque internazionali e non entrino in quelle di Tripoli. Dati alla mano, nei ministeri che si stanno occupando del dossier hanno notato una flessione negli arrivi. A inizio luglio erano circa il 20 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2016; una settimana fa, l’aumento si era ridotto al 5,7 per cento, sceso all’1,1 ieri. Una variazione che può essere legata a molti fattori, ma che dal governo non esitano ad attribuire in buona parte a interventi più incisivi della Guardia costiera libica, che agisce con quattro motovedette consegnate dall’Italia e che entro fine estate ne avrà altre sei: oltre a un’azione deterrente sulle partenze, sono tredicimila le persone che hanno riportato sulle proprie coste dopo averle intercettate in mare. Il mese di luglio fa registrare un dato sbalorditivo: 10.781 arrivi contro i 23.552 dell’anno scorso, la metà. Se questo è il risultato dell’azione dei soli libici, ragionano nel governo, l’affiancamento italiano potrebbe portare a stabilizzare la tendenza. L’ultimo passaggio necessario prima della partenza della missione - entro pochi giorni - è il via libera delle Camere. A cui nel governo guardano con tranquillità: sanno che dentro Mdp, che sostiene l’esecutivo, c’è qualche mal di pancia ("ombre sulla missione: il governo ci rifletta", invita Arturo Scotto), e infatti oggi i parlamentari si riuniranno per discuterne, ma ai voti della maggioranza si aggiungerà con buone probabilità Forza Italia. La Lega vincola il suo sì a un mandato chiaro per "una politica di rinforzo ai respingimenti", come dice Giancarlo Giorgetti, mentre dal M5S Luigi Di Maio anticipa che "valuteremo tutte le proposte: se saranno l’ennesima presa in giro per gli italiani voteremo no". L’obiettivo è quello dichiarato da Gentiloni al Tg5, "rendere più governabili e, se possibile, ridurre come è necessario i flussi organizzati dai trafficanti di esseri umani". Anche se chi se ne sta occupando ha già in mente i problemi successivi. A cominciare dalle garanzie necessarie sul trattamento delle persone riportate in Libia, su cui è importante coinvolgere l’Onu con l’Unhcr. E poi si sa bene che, chiusa una rotta, i trafficanti ne trovano un’altra: per questo, oltre che col governo di Tripoli, sarebbe utile, si dicono nel governo, stringere un accordo anche con il generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Nei giorni scorsi è intervenuto tramite portavoce con parole non concilianti, interpretando la nostra iniziativa come volta a fare "abortire" quella francese di pochi giorni prima. Contatti con lui ci sono, ma sottotraccia: non si è mai voluto dargli lo standing di interlocutore al pari del premier riconosciuto dall’Onu al-Sarraj. Ma l’invito di Macron a Parigi della settimana scorsa potrebbe aver cambiato la prospettiva. Pena di morte, in Bielorussia due condannati e in Somalia esecuzioni extragiudiziarie La Repubblica, 1 agosto 2017 Ventotto condanne capitali in Egitto. Mentre in Florida (Usa) e in Bangladesh si commutano esecuzioni in pena carceraria. La Corte regionale di Mahilyow, in Bielorussia - si apprende da uno dei periodici report di Nessuno Tocchi Caino - ha condannato Ihar Hershankow e Syamyon Berazhny a morte dopo averli riconosciuti colpevoli di sei omicidi legati ad una truffa immobiliare. Gli imputati si sarebbero presentati come agenti immobiliari persuadendo anziani proprietari di case a vendere loro gli appartamenti a prezzi scontati, prima di ucciderli. Le esecuzioni in Bielorussia, unico Paese dell’Unione Europea dove ancora si pratica la pena di morte - avvengono uccidendo i condanni con un colpo alla nuca. L’Ue ha criticato queste due ultime condanne a morte in Bielorussia, dicendo che "violano il diritto alla vita". "L’Unione europea si oppone fortemente alla pena capitale e si aspetta che il diritto di appello per i condannati sia pienamente garantito, ha detto la portavoce UE Maja Kocijancic. Somalia - Esecuzioni extragiudiziarie nella prigione di Gedo. Quattro prigionieri sono stati fucilati nella regione di Gedo, in Somalia, dopo essere stati accusati di appartenere al gruppo degli Al-Shabaab. Le forze di sicurezza avevano catturato i quattro nel distretto di Beled-Hawa e li avevano portati nella locale stazione di polizia per interrogarli. Successivamente, di notte, i quattro sarebbero stati condotti dalle forze di sicurezza in una piazza della città, dove sono stati giustiziati. Le autorità non hanno rilasciato alcuna dichiarazione riguardo queste esecuzioni, né c’è stato un processo o condanna contro i quattro uomini. I residenti hanno detto ai giornalisti che i quattro erano coinvolti negli omicidi di membri delle forze governative ed erano stati catturati nel corso di operazioni contro gli Al-Shabaab. In passato, esecuzioni extragiudiziarie sarebbero state compiute dalle forze di sicurezza nelle regioni di Juba e Gedo contro sospetti appartenenti al gruppo islamista legato ad Al-Qaeda. Egitto - Ventotto condanne capitali per l’omicidio di un Procuratore. Un Tribunale egiziano ha condannato 28 persone a morte in relazione all’assassinio del procuratore generale del Paese, secondo una fonte giudiziaria locale. Il Procuratore generale Hisham Barakat fu ucciso in un attacco con auto-bomba contro il suo convoglio al Cairo nel giugno 2015. Le autorità egiziane hanno processato 67 persone per aver complottato l’omicidio e per l’appartenenza alla Fratellanza Musulmana, che il governo ha messo fuorilegge nel 2013. Nel suo verdetto, il tribunale del Cairo ha condannato a morte 28 imputati, ha detto la fonte a condizione di anonimato perché non autorizzata a parlare ai media. Il Tribunale ha anche condannato altri 15 imputati all’ergastolo, otto a 15 anni in carcere e 15 a dieci anni, ha detto la fonte. Uno degli imputati è morto durante il processo, ha aggiunto la fonte. I verdetti possono ancora essere oggetto di appello. Le autorità egiziane hanno accusato la Fratellanza Musulmana e il gruppo palestinese Hamas di coinvolgimento nell’attentato, un’accusa respinta da entrambi i gruppi. Barakat è stato la più alta carica nel Paese ad essere uccisa in un attentato dal 2013. Bangladesh - A due islamisti commutata la condanna capitale. Un’Alta Corte del Bangladesh ha commutato in ergastolo le condanne a morte di due militanti islamisti del fuorilegge JMB per il loro coinvolgimento negli attentati esplosivi del 2005 a Shariatpur. I due condannati sono Kamruzzaman alias Swapan, 31 anni, e Malek Bepari alias Malek Zehadi, 32. La commutazione è stata decisa dai giudici Jahangir Hossain Selim e Jahangir Hossain dell’Alta Corte. I magistrati hanno considerato che Kamruzzaman e Malek sono in carcere da 12 anni, che per le esplosioni non ci furono feriti e che i due imputati erano molto giovani all’epoca degli attentati, avvenuti il 17 agosto 2005, ha detto al Daily Star l’avvocato difensore Abu Hanif. L’avvocato ha aggiunto che Kamruzzaman e Malek, entrambi attualmente detenuti a Kashimpur, devono trascorrere in carcere 30 anni dal giorno del loro arresto. Kamruzzaman e Malek erano stati condannati a morte in primo grado da un tribunale di Shariatpur il 28 gennaio 2013. Florida (Usa) - Un condannato esonerato dal braccio della morte. Ralph Wright, 48 anni, nero, è stato scarcerato. Diventa il 159° prosciolto della lista degli "esonerati" dal braccio della morte negli Usa tenuta dal Death Penalty Information Center, il cui conteggio inizia nel 1973. Wright è il 27° "esonerato" dal braccio della morte della Florida. La Florida ha il più alto numero di "esonerati" degli Stati Uniti, e questo, secondo diversi commentatori, dovrebbe indurre ad un ripensamento dell’intero sistema della pena capitale nello stato. Wright era stato condannato a morte da una giuria popolare delle contee di Pinellas e Pasco, che il 7 febbraio 2013 aveva votato 7-5 per la massima punizione dopo averlo ritenuto colpevole di aver ucciso, il 6 luglio 2007, l’ex fidanzata Paula ÒConner, 39 anni, e il figlio di 15 mesi, Alijah, che aveva avuto dalla donna. Secondo l’accusa, Wright, che nel frattempo aveva sposato un’altra donna, non voleva pagare le spese di mantenimento del bambino che la ex fidanzata stava chiedendo attraverso un’azione legale. Un giudice aveva formalizzato la condanna a morte il 15 agosto 2014, ma l’11 maggio 2017 la Corte Suprema della Florida ha annullato il verdetto di colpevolezza, e nel rimandare il caso alla Corte di 1° grado dispose che il capo d’accusa dovesse essere ritirato, ed eventualmente riformulato, visto che allo stato attuale risultava basato su prove "puramente circostanziali". Libia. La Guardia Costiera viene pagata con i soldi della Cooperazione di Ludovica Jona La Repubblica, 1 agosto 2017 Le frontiere esterne dell’Unione Europea si blindano usando fondi destinati allo sviluppo. Dalla polizia del Niger, alle milizie che presidiano i confini in Sudan fino ai militari che controllano le coste del Paese nord africano. La missione Onu per la Libia (Unsmil) in un rapporto parla delle carceri libiche come luoghi di estorsioni e violenze. Gli aiuti arrivano in Africa sì, ma finiscono dentro le caserme dei militari del Niger, tra le guardie di confine del Sudan, nei centri di detenzione in Libia e - come ha comunicato una nota della Commissione Europea venerdì scorso - persino nelle imbarcazioni della Guardia Costiera del paese Nord Africano. Una dopo l’altra, negli ultimi due anni, le forze armate dei paesi di origine e di transito dei migranti sono state foraggiate dall’Unione Europea, interessata a blindare i propri confini esterni. Senza badare a regimi repressivi o accuse di violazioni dei diritti umani. E usando fondi stanziati proprio per tutelare quei diritti. Il "trucco" nelle risorse per la lotta alla povertà. Nel solo 2016 la Commissione Europea ha stanziato per progetti finalizzati alla "gestione delle migrazioni" in Africa circa 600 milioni di euro, principalmente provenienti dal Fondo Europeo di Sviluppo, la più importante fonte di risorse per la lotta alla povertà nelle ex colonie. Il "trucco" usato per cambiare la destinazione dei fondi si chiama Fondo Fiduciario Europeo di Emergenza per l’Africa, generalmente abbreviato con il termine inglese "Trust Fund". Istituito nel 2015 al vertice euro-africano de La Valletta con l’obiettivo di "affrontare le cause profonde delle migrazioni", il Trust Fund è stato riempito con 2,9 miliardi di euro di cui solo 214,7 milioni sono contributi aggiuntivi dei paesi membri. Tutto il resto (quasi 2,6 miliardi di euro) sono soldi destinati a dall’Unione a programmi di Cooperazione internazionale e allo sviluppo che vengono così in parte usati per iniziative militari di controllo delle frontiere, come ha documentato l’inchiesta "Diverted Aid" finanziata dal Centro Europeo di Giornalismo. La condanna del Parlamento Europeo. Il dirottamento dei fondi della lotta alla povertà per il controllo delle frontiere è stato esplicitamente condannato dal Parlamento Europeo che con una risoluzione del 13 settembre 2016 ha evidenziato, tra l’altro, il rischio che, concentrando i fondi nei paesi di origine e transito dei migranti vengano ridotte le risorse per i paesi più bisognosi. Tuttavia nel 2017 la tendenza denunciata dall’Europarlamento non si è interrotta, anzi. In aprile è stata adottata l’azione finanziariamente più rilevante del Trust Fund: 90 milioni destinati a "gestire le migrazioni in Libia attraverso attività di protezione e sviluppo economico", in particolare in 23 centri di detenzione per migranti clandestini controllati dal governo di Al Serraj e nei punti di sbarco dove la guardia costiera libica riporta le persone intercettate in mare. È di ieri la notizia che il Trust Fund ha adottato una nuova azione da realizzare in Libia: 46 milioni di euro per sostenere l’Italia nell’equipaggiare sia la guardia costiera del governo di Tripoli che i guardie poste a presidiare il confine sud ovest, la regione del Fezzan, nel cuore del deserto del Sahara. L’Onu: "Luoghi di estorsioni e violenze". L’azione del Fondo Fiduciario è prevista negli stessi centri di detenzione governativi che la missione Onu per la Libia (Unsmil) in un rapporto pubblicato a dicembre ha descritto come luoghi di estorsioni e violenze "in gran parte di fatto controllati da gruppi armati", mentre "membri delle istituzioni partecipano alle attività di traffico di esseri umani". Oim e Unhcr - che hanno firmato due contratti con il Trust Fund rispettivamente di 54,8 e di 13 milioni di euro - dichiarano di opporsi alla detenzione di migranti e rifugiati e di fare pressione sul governo di Tripoli per trovare sistemi di accoglienza alternativi, ma per il momento non risultano aperture in questo senso. S’ignora quanta gente è detenuta in centri di detenzione non ufficiali. Il personale internazionale delle due agenzie per motivi di sicurezza lavora al momento dalla Tunisia e si avvale di associazioni locali per portare avanti le attività. Ovvero, ad oggi: visite mediche e distribuzione di abbigliamento, biancheria, materassi e cuscini ai migranti nei punti di sbarco dove i migranti vengono portati dalla Guardia Costiera prima di essere spostati nei centri di detenzione; assistenza medica, distribuzione di cibo e lavoro di pressione a favore dei migranti più vulnerabili nei centri di detenzione e - per quanto riguarda l’Oim - rimpatri volontari assistiti nei paesi di origine dei migranti (nel 2017 ne risultano effettuati 5000, mentre sono previsti 15mila con l’attuale finanziamento). L’Oim si occupa anche di un sistema per tracciare i flussi migratori nel paese: ad oggi, secondo l’organizzazione, sono quasi 395mila i migranti in Libia. Dai 4 ai 7mila tra questi sono detenuti nei circa 30 centri di detenzione ufficiali mentre non si ha notizia del numero di persone detenute nei centri di detenzione non ufficiali, dove le condizioni di vita e le violenze sono molto peggiori. I due "Fondi" attorno alla Libia. Michael Koehler, membro del consiglio direttivo del Trust Fund e Direttore per il confine Sud della Direzione delle politiche di Vicinato della Commissione precisa a Repubblica che i progetti del Fondo Fiduciario in Libia sono finanziati prevalentemente con fondi provenienti dal Fondo per le Politiche di Vicinato, a differenza dei progetti negli altri paesi che sono finanziati dal Fondo Europeo di Sviluppo. Il Fondo per le Politiche di Vicinato ha comunque come obiettivi la promozione dei diritti umani e della giustizia, lo sviluppo economico e sociale, la mobilità e l’integrazione regionale dei paesi del confine meridionale e orientale d’Europa. "Sostenere i paesi partner per meglio affrontare le cause delle migrazioni è una parte integrante della politica europea di Sviluppo e Cooperazione - afferma Koehler - come dichiarato nell’Agenda 2030 per gli obiettivi di sviluppo sostenibile, dove le migrazioni sono riconosciute come un fattore di sviluppo". "Così si alimenta un sistema di detenzione inaccettabile". "Lo stanziamento di una tale quantità di denaro da parte dell’Unione Europea ci preoccupa per il fatto che la Libia possa essere considerata una soluzione: è un paese in guerra con un sistema di detenzione completamente inaccettabile" dichiara la direttrice Medici Senza Frontiere, Vickie Hawkins, che recentemente è andata nel paese nord africano, dove l’organizzazione umanitaria svolge assistenza medica proprio nei centri di detenzione governativi. "In questo modo l’Ue sta alimentando il sistema invece che cercare vie alternative per provvedere accoglienza con standard accettabili e permettere alle persone di chiedere asilo direttamente dalla Libia", aggiunge. "In un centro di detenzione governativo ho incontrato una donna che stava da 10 mesi in detenzione come migrante clandestina anche se suo marito lavora in Libia da 8 anni: lei lo è andato a trovare dopo 4 anni ed è stata subito messa in carcere senza un processo. In questi mesi ha potuto fare solo una telefonata al marito. È tuttora intrappolata in questo sistema di detenzione che è alimentato da finanziamenti europei!" Gran Bretagna. Il Social Impact Bond del carcere di Peterborough ripagherà gli investitori di Raffaela De Felice Vita , 1 agosto 2017 Nel carcere inglese ridotta la recidiva del 9% rispetto ad un gruppo di controllo nazionale. Ciò ha significato un superamento del 7,5 % rispetto al target individuato dal Ministero della Giustizia. Così i 17 investitori del Peterborough Social Impact Bond riceveranno un ritorno pari al capitale investito a cui andrà sommato un ulteriore 3% annuo per il periodo dell’investimento. Social Finance e One Service hanno annunciato il successo del primo Social Impact Bond di Peterborough volto a ridurre il tasso di recidiva tra i detenuti. Il ritorno a delinquere è stato un problema persistente per il sistema penitenziario britannico con un tasso nazionale di recidiva tra i detenuti condannati a pene brevi di circa il 60%, nel momento in cui l’iniziativa di Peterborough è stata lanciata. Il Peterborough Social Impact Bond ha ridotto la recidiva del 9% rispetto ad un gruppo di controllo nazionale. Ciò ha significato un superamento del 7,5 % rispetto al target individuato dal Ministero della Giustizia. Ulteriore risultato è stato che i 17 investitori del Peterborough Social Impact Bond riceveranno un ritorno pari al capitale investito a cui andrà sommato un ulteriore 3% annuo per il periodo dell’investimento. David Robinson, Presidente del Peterborough SIB Advisory Board, ha così commentato i risultati: "Il Social Impact Bond ci ha dato l’opportunità di realizzare un intervento articolato in grado di offrire un’assistenza reattiva di lungo termine ai detenuti bloccati nel loop della recidiva. Sono felice sia del risultato sociale che finanziario: ci ricompensano dei rischi presi con i partner e soprattutto dimostrano il potere rivoluzionario del sostegno individuale e duraturo nei confronti di persone in difficoltà". David Hutchison, Ceo Social Finance da parte sua ha aggiunto: "Il Peterborough Social Impact Bond ha catturato l’immaginazione delle persone con la semplice premesse che è possibile investire in interventi su problemi sociali di difficile soluzione. I risultati di oggi riflettono il duro lavoro, impegno e tenacia di tutti coloro che hanno collaborato lavorando con il gruppo dei detenuti, per aiutarli a ricostruire le loro vite. Sono immensamente grato a tutti i partner, per l’impegno profuso in questi sette anni. Abbiamo imparato che l’impact investment può condurre verso un vero cambiamento e ad un rafforzamento delle comunità, inducendo un ripensamento sul come risolvere le sfide sociali". Nel 2010 Social Finance ha raccolto 5 milioni di sterline da trust e fondazioni per lanciare il primo Social Impact Bond volto a ridurre la recidiva tra i detenuti condannati a pena breve, che stavano lasciando il carcere di Peterborough. È stata così creata One Service, un’organizzazione ombrello fondata per rispondere alle complesse necessità dei detenuti al fine di aiutarli ad uscire dal circolo della criminalità. Per oltre cinque anni di attività, il sostegno di One Service è stato fornito a due gruppi di 1000 detenuti uomini, condannati a scontare una pena breve, per un periodo non più lungo di 12 mesi dal rilascio. Il coinvolgimento è stato volontario ma tutti i gruppi sono stati inclusi nella misurazione dei risultati. La maggior parte degli assistiti dalla One Service risultavano recidivi prima di cominciare il percorso e per molti il rilascio su cauzione non aveva agito da deterrente. Presentavano forti necessità: una buona porzione soffriva di problemi mentali e di abuso di sostanze stupefacenti. Molti erano senza dimora, in stato di povertà e indebitati, senza avere i requisiti necessari per trovare un impiego. Durante le sue attività, la One Service era parte integrante del Safer Peterborough Partnership e ha lavorato a stretto contatto con la Polizia, il carcere, l’autorità locale, il volontariato. È diventata una elemento importante di supporto per Peterborough. Questa infine la chiosa di Sir Ronald Cohen, Presidente del Global Steering Group on Impact Investment: "È molto gratificante osservare il primo Social Impact Bond al mondo che, realizzato nel modo giusto fa del bene, aiutando le persone detenute a migliorare le loro vite, ripagando al risultato il capitale degli investitori con un ritorno considerevole e favorendo un risparmio del denaro pubblico. È la strada del futuro". Venezuela. Dopo il voto Maduro esulta e minaccia opposizioni, Parlamento e Procura La Repubblica, 1 agosto 2017 Le elezioni dell’Assemblea costituente accompagnate da un bagno di sangue. I manifestanti: alle urne solo 2 milioni e mezzo di persone. Il presidente del Parlamento: "Non cederemo l’Aula". Gli Usa prospettano sanzioni e condannano la violenza. La replica: "Che c... ce ne importa di Trump". Per Nicolas Maduro il voto di ieri è stato un successo e una vittoria, per l’opposizione un fallimento. In Venezuela l’elezione dell’Assemblea costituente voluta dal presidente conferma e, se possibile, accentua la profonda spaccatura del Paese latinoamericano sconvolto da violenze e da un numero impressionante di morti: sono 120, infatti, le vittime da aprile nelle proteste contro il governo. Nel suo primo discorso pubblico il presidente venezuelano ha annunciato che l’organismo servirà per prendere misure contro il Parlamento, la Procuratrice Generale, i dirigenti dell’opposizione e la stampa indipendente. Il leader dell’opposizione Henrique Capriles ha parlato di un "giorno nero" e ha accusato il presidente per quella che definisce un’"ambiziosa malattia". Il decreto con il quale Maduro ha convocato l’Assemblea Costituente prevede che questo organismo lavori nella sede del Parlamento, e il numero due del chavismo Diosdado Cabello ha già annunciato che intende occupare la sede legislativa "per riportare i ritratti di Chavez" che l’opposizione ha tolto un anno e mezzo fa. Ma il presidente del Parlamento, Julio Borges, avverte che si sta andando verso "uno scenario molto probabile di scontro violento", perché l’opposizione non intende cedere le sede del potere legislativo all’Assemblea Costituente eletta ieri, di cui non riconosce la legittimità: "Dobbiamo fare valere un fatto fondamentale, che è che questo Parlamento, eletto da oltre 14 milioni di venezuelani, è l’unica autorità eletta e legittima nel paese. Ci tocca difendere la legge e la Costituzione". L’affluenza - Fonti ufficiali parlano di un’affluenza superiore al 41 per cento, mentre per le opposizioni, che avevano chiesto ai cittadini di boicottare la tornata, i dati reali sull’affluenza di ieri sono ben più bassi. Per il deputato Henry Ramos Allup del tavolo dell’unità democratica (Mud) solo 2,5 milioni di aventi diritto si sono recati alle urne sui circa 19,4 milioni di elettori, ovvero "l’88 per cento ha deciso di asternersi" e su Twitter ha ironizzato gridando al "miracolo della moltiplicazione degli elettori e dei voti".. Persone in coda per votare - Ma secondo l’Autorità elettorale, in alcune parti del Paese vi sono state persone in coda per votare fino alle 22,30 locali (4,30 del mattino in Italia), come nel caso dello Stato occidentale di Merida, dove si sono registrate anche violente proteste. Tra i candidati eletti,che ora saranno incaricati di redigere una nuova Costituzione, c’è anche la first lady, Cilia Flores; il primo vicepresidente del partito socialista di governo, Diosdado Cabello, e l’ex ministra degli Esteri, Delcy Rodríguez. "Il bilancio è estremamente positivo perché ha vinto la pace", ha dichiarato Lucena, perché "nonostante la violenza, nonostante le minacce" i venezuelani "hanno potuto esprimersi". Le vittime - Dati contrastanti, ma comunque pesantissimi, anche sugli incidenti: il governo ha evitato di fornire bilanci delle vittime, mentre per l’opposizione negli ultimi due giorni ci sono stati 16 morti e la procura ha parlato di 10 persone uccise solo ieri, tra queste due minori e un candidato all’assemblea costituente. Una ragazza di 15 anni che era rimasta ferita ieri da uno sparo di arma da fuoco al torace è morta oggi a San Cristobal, capitale dello stato Tachira, nell’ovest del Venezuela. Secondo il fidanzato, la ragazza non stava partecipando ad alcuna protesta, ma è passata accanto a un corteo dell’opposizione proprio mentre un gruppo di chavisti ha iniziato a sparare contro i manifestanti. Le minacce di Maduro - "Ora con la Costituente si ritornerà all’ordine pubblico e si imporrà la giustizia per ritornare alla pace", ha dichiarato Maduro annunciando nuove misure contro il Parlamento, la Procura, i leader dell’opposizione e i media privati nel suo primo intervento dopo il referendum di ieri. In un discorso televisivo ha ribadito che la Anc prenderà il potere nelle prossime ore e se l’opposizione seguirà nella sua "pazzia", con le sue proteste contro il governo, alcuni dei suoi dirigenti "finiranno in una cella e altri in un manicomio". E per i deputati saranno tempi duri perché "l’Assemblea revocherà loro ogni immunità", oltre ad agire "contro la borghesia parassita" per trovare una soluzione alla crisi economica. Maduro ha criticato inoltre la copertura concesso al voto dai media privati venezuelani accusandoli "di censurare le elezioni" e ha chiesto un’indagine contro il canale Televen per "apologia di reato". "Siamo in una guerra di comunicazione contro le menzogne della televisione, attenzione". "Cosa dovrebbe fare ora la Costituente con la Procura?", si è poi chiesto il presidente. "Di certo bisogna ristrutturarla immediatamente" e "dichiararla in stato di emergenza", si è risposto dopo che la procuratrice generale, Luisa Ortega, ha respinto il cambiamento della Costituzione. Maduro l’ha accusata di non aver agito davanti alla violenza di cui lui stesso viene accusato dall’opposizione in quasi quattro mesi di proteste contro il governo: manifestazioni spesso represse nel sangue e che hanno causato già 119 morti da aprile. "Nessuno è al di sopra del potere costituente", ha ribadito Maduro. "È arrivato il tempo di una nuova storia", ha aggiunto. Le accuse degli Usa - Gli Stati Uniti, accusati dal capo dello Stato di complottare per destituirlo, hanno condannato con toni durissimi il voto e hanno prospettato sanzioni. "Gli Usa condannano l’elezione imposta il 30 luglio per l’Assemblea costituente nazionale, concepita per rimpiazzare l’Assemblea nazionale legittimamente eletta e per minare il diritto del popolo venezuelano all’autodeterminazione", ha detto la portavoce del dipartimento di Stato americano, Heather Nauert, in una nota. Nel comunicato del dipartimento di Stato, gli Usa si dichiarano "a fianco del popolo del venezuela e dei loro rappresentanti costituzionali, nella loro volontà di far tornare il loro Paese allo stato di prospera democrazia". Quindi, aggiunge la portavoce a nome degli Stati Uniti, "continueremo ad assumere azioni veloci e forti contro gli architetti dell’autoritarismo in Venezuela". "Al Venezuela non si danno ordini né lo si comanda da fuori", ha replicato Maduro nel discorso pronunciato in Plaza Bolívar, a Caracas, sottolineando che il suo Paese si distingue da altri governi "subordinati" a Washington che si trovano nella regione, tra i quali ha menzionato Colombia, Messico e Perù. "Che c... ce ne importa di quello che dice Trump - ha detto Maduro - Ci importa di quello che dice il popolo sovrano del Venezuela". Preoccupazione di Ue e Italia - Anche l’Ue ha condannato l’elezione voluta da Maduro, come pure l’hanno criticata vari Paesi della regione, dall’Argentina, al Brasile al Messico. Fuori dal coro Bolivia, Salvador e Nicaragua che hanno formalmente riconosciuto l’Assemblea Costituente riconfermando il proprio sostegno a Maduro. Preoccupazione dall’Italia per le sorti di un Paese in cui i nostri connazionali sono numerosissimi: "Quanto sta accadendo in Venezuela ci preoccupa fortemente", dichiarano per esempio i deputati del Movimento 5 Stelle. "È evidente che in questa fase tutte le parti coinvolte stanno portando avanti uno scontro ideologico, politico e anche fisico per cui la unica vittima è con ogni evidenza il popolo venezuelano. L’auspicio è che si metta immediatamente fine ad ogni violenza, e soprattutto che governo e opposizioni si siedano al tavolo del dialogo per individuare un percorso comune che immetta il Paese sul binario della stabilità e della democrazia". Anche per il ministro degli Esteri Angelino Alfano è urgente "un dialogo costruttivo" con l’opposizione, sulla base delle quattro condizioni poste dalla Santa Sede. Nuove proteste - Il muro contro muro intanto continua: il fronte anti-Maduro ha invitato la popolazione a insistere con le proteste, di nuovo oggi e poi mercoledì, giorno dell’insediamento dell’Assemblea costituente chiamata dal presidente a cambiare la carta fondamentale, con un ridimensionamento del ruolo del Parlamento a favore di organismi assembleari locali. Siria. Nel campo dei bambini dell’Isis orfani dei jihadisti e senza patria di giordano stabile La Stampa, 1 agosto 2017 A 55 chilometri da Raqqa vivono con le madri vedove dei foregin fighter. Dopo l’indottrinamento a 11 anni doveva cominciare l’addestramento militare. Ziad sbuca dalla tenda che chiude la porta della sua casupola nel campo profughi di Ain Issa, 55 chilometri a Nord di Raqqa. Ha tre anni, i capelli lunghi fino alle spalle, castano chiari, e occhi che guardano dritti verso il nuovo mondo. Da meno di due mesi vive in questa distesa di ghiaia bianca infuocata, dove le tende in pieno giorno si trasformano in forni. Ziad e un’altra decina di bambini se ne stanno un po’ in disparte, nella casetta in muratura, accanto a quella dell’amministrazione. Sono i "bambini dell’Isis", nati nel Califfato, figli di combattenti stranieri e spose della jihad, senza patria e senza padri, tutti morti o fatti prigionieri. Dietro la tenda c’è una porta in metallo e le quattro mura assomigliano a una prigione. Ci sono tre donne in rigoroso niqab nero, con la veletta sul naso. Gli sguardi bastano a raccontare molto. La fine di un’utopia folle e sanguinaria che ha trasformato in vittime anche i suoi seguaci, a partire da donne e bambini. La mamma di Ziad è una libanese di 25 anni, Nur al-Hoda. Il padre, tunisino, si è consegnato ai combattenti curdi all’inizio dell’assedio di Raqqa, assieme a due compagni e alle famiglie. Ora sono in un limbo, in attesa di poter tornare in patria, con i figli che non hanno una nazionalità. I bambini del califfato, che hanno visto la luce sotto i tre anni e passa di regno di Abu Bakr al-Baghdadi, sono centinaia di migliaia, e forse diecimila quelli nati dai foreign fighters. Al campo di Ain Issa se ne stanno per i fatti loro isolati. I segni del trauma della guerra sono evidenti. Lo sguardo duro, l’aggressività fra di loro, la diffidenza verso lo "straniero". "Cercavamo il Paradiso in terra e abbiamo trovato solo il male". A parlare è Kaddouja Homri, tunisina di 29 anni, la leader del piccolo gruppo: "Quelli volevano soltanto tre cose: l’imarat, l’argent e les femmes", cioè il potere, i soldi e le donne. Quelli sono i capi dell’Isis, una "mafia" formata dagli sceicchi della tribù locale degli Shawir e dagli emiri stranieri, maghrebini, iracheni e del Golfo. Kaddouja parla un francese fluente, imparato "chiacchierando su Skype con le mie cognate in Francia". Per definire l’Isis però usa una parola araba, Daula, cioè lo "Stato", perché nel califfato l’Isis era semplicemente lo "Stato". È una scelta significativa. Potrebbe usare il dispregiativo Daesh, ma non lo fa. Kaddouja è arrivata in Siria nel 2013 con suo marito, "professore di matematica". Tutti e due nati e cresciuti a Tunisi ma "senza il sogno di un avvenire". La "rivoluzione" siriana diventa il loro orizzonte: una società islamica giusta e "uguale per tutti". Abu Baraka, il marito, si unisce subito all’Isis e tutti e due si trasferiscono ad Aleppo, dove nasce la loro figlia Baraa. Daula, lo "Stato", controllava allora "quasi tutta Aleppo ma poi sono cominciati gli scontri con Ahrar al-Sham e Jyash al-Khor, l’Esercito libero siriano". Abu Baraka muore in battaglia e Kaddouja si ritrova da sola nel califfato nascente. Raqqa, invece, è appena stata conquistata e trasformata in capitale ed è lì che Kaddouja viene trasferita. "Ci tenevano segregate al Panorama, un grande albergo. C’era un’emira, marocchina, Um Adam, a dirigere tutto. Ci controllava, picchiava, e decideva tutto per noi, anche chi dovevamo sposare, il nostro primo compito era dare figli al califfato". Kaddouja, tramite un’amica, riesce a risposarsi con un altro combattente tunisino e insieme hanno tre figli: le piccole Sajada e Aysha, e Daoud, un anno appena, il maschio. Al Panorama ci sono anche due italiane. Una nata da genitori maghrebini, un’altra, Silian, con padre italiano. "Ora sono scappate a Mayadin - racconta Kaddouja - i capi di Daula sono tutti là assieme agli "immigrati" e le famiglie". A Raqqa è rimasto soltanto "il wali, il governatore della provincia, Abu Loqman Shawir, della tribù locale". Ma dentro la città vecchia, nascosti dentro i tunnel, ci potrebbero essere ancora "migliaia" di combattenti. E migliaia e migliaia di civili, compresi tantissimi bambini. "Daula controllava tutto, ed era interessantissimo ai bambini. C’erano scuole private, al costo di 4 mila lire siriane (8 dollari) al mese. Tutto era sorvegliato, prepararsi alla jihad era la prima cosa, poi lo studio del Corano, poi matematica, arabo, ma anche inglese e francese. C’erano anche le scuole normali, dove andavano i locali, ma sempre con lo stesso programma". La realtà delle scuole del califfato è però ben diversa. I bambini non imparano nulla, se non la preparazione ideologica alla jihad. A poche decine di metri dalla casupola dei figli dei foreign fighters c’è la tenda della famiglia di Ahmad Ahmad, 42 anni, piccolo commerciante del quartiere di Al-Jalah a Raqqa. Ahmad è fuggito un mese fa dai combattimenti, ha cinque figli, il più piccolo di tre anni. Nessuno di loro è in grado di leggere e scrivere. "Daesh all’inizio sembrava debole, poi ha conquistato Raqqa in due ore, non ci potevano credere. La prima cosa che hanno fatto è stato chiudere le scuole e arrestare tutti gli insegnanti che non si adeguavano alle loro idee. Potevi mandare i figli solo nelle loro madrase. Io sono riuscito a tenerli a casa. Meglio analfabeti che educati in quel modo, a uccidere". L’indottrinamento - L’Isis "stava sempre addosso ai bambini, a quattro anni cominciavano "i corsi" per imparare "il vero islam", a partire da 11 anni li portavano nei loro campi, per prepararli alla jihad e insegnarli a sparare, le famiglie hanno lottano per tenerli con sé, ma non tutti ce l’hanno fatta". Molti bambini "partivano per il fronte senza nemmeno salutare i genitori, sembravano impazziti, l’onore più grande era diventare "martiri" ma il vero martirio lo abbiamo vissuto noi padri". Fin dalla sua nascita, nell’aprile del 2013, l’Isis ha portato avanti il suo progetto di indottrinamento. Per un ex combattente, ora "pentito" e in carcere, "ancora due anni così e si formerà un esercito di adolescenti che nessuno potrà più recuperare". La corsa a liberare Raqqa, e quel che resta del califfato in Siria e Iraq, è anche una corsa contro il tempo, prima che la legione dei "bambini dell’Isis" diventi adulta.