Calano i reati, sale la paura: colpa della televisione di Filippo Facci Libero, 19 agosto 2017 È colpa dei telegiornali italiani se aumentano le paure degli italiani in tema di sicurezza: non quindi della quantità di reati, che è in calo al di là dello spazio che notiziari e programmi di cronaca vi dedicano con spazio crescente. A dire questo non è solo il buon senso comune, ma una serie di fonti piuttosto difficili da confutare. Uno è l’ultimo rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza (che pure risale a febbraio) secondo il quale la televisione italiana si occupa di criminalità almeno il doppio di Germania e Francia e un terzo più del Regno Unito; nel 2017 ci ha superato solo la Spagna, e pare brutto evidenziarlo proprio ora. Si legge nel rapporto: "La componente dell’insicurezza derivante dalla rappresentazione della criminalità è un dato strutturale che caratterizzata l’informazione televisiva italiana. Negli anni presi in esame, la criminalità è mediamente la seconda/terza voce dell’agenda tematica complessiva dei notiziari". Insomma, è così da molto tempo (il dato complessivo è che la nostra informazione evidenzia i temi di criminalità il 54 per cento più della media europea) così come è tradizione che da noi ci si occupi poco di quella che secondo il Rapporto è la prima preoccupazione degli italiani: l’economia, o meglio l’insicurezza economica. La criminalità invece è solo la terza preoccupazione, dopo i pericoli globali come il terrorismo e le calamità naturali, e appunto dopo i temi di economia. Ma parlavamo di fonti: c’è poi la conferenza stampa di ferragosto del ministro Minniti, secondo la quale i reati della prima metà di quest’anno sono calati rispetto all’anno scorso: meno omicidi ma in particolare meno furti, un genere di reato, ossia, che durante le crisi economiche tende ad aumentare. Ma siccome siamo il Paese del "percepito", a questo si affianca una generale impressione che tutto viceversa vada sempre peggio. I reati denunciati, però, sono complessivamente calati del 12 per cento, gli omicidi del 15 (da 245 a 208, record storico) e con essi anche gli omicidi specifici di donne. Mentre sul perdurare degli omicidi "familiari", il cui tasso proporzionale si mantiene costante, Libero ha dedicato un articolo proprio l’altro ieri. A calare, come detto, sono stati anche rapine e furti (nonostante la crisi) e nel dettaglio le rapine sono scese da 19 mila a 17 mila, e i furti da 783 mila a 702 mila. Persino gli incidenti stradali sono diminuiti. Sull’aumentare delle paure potrebbe aver influito l’immigrazione, o almeno questo sostiene il citato rapporto dell’Osservatorio europeo: "Cresce il timore verso gli immigrati. Il 78% degli intervistati continua a ritenere che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni fa, tuttavia fa osservare 3 punti in meno del 2016 e 10 rispetto al 2007". E torniamo alla questione iniziale: c’è un legame - domanda - tra i timori dell’opinione pubblica e il modo che hanno i media di raccontarli? Secondo il Rapporto, sì: questo alla luce dei dati citati e della riproposizione di programmi di cronaca giornalisticamente scadenti e dal taglio popolaresco ("Chi l’ha visto?", "Quarto grado", "Profondo nero") senza contare gli approfondimenti che nei programmi di mattina e pomeriggio vengono dedicati a casi di sangue eternamente riproposti. Uno studio dell’Osservatorio di Pavia e del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, benché datato 2015, registrò circa tre ore al giorno di cronaca nera, concentrate però su pochi casi riproposti con serialità; il tutto con una "raffigurazione strumentale del dolore, che se inessenziale ai fini informativi, diventa un mero strumento di accrescimento del pathos" con racconti che "spostano la missione dall’informazione all’intrattenimento". A cui si aggiunge la malsana abitudine di parlare e straparlare di singoli casi con frotte di ospiti e senza conoscere le carte processuali, anzi, spesso istruendo processi paralleli che si autoalimentano: un giornalismo che se la canta, se la suona e soprattutto se la risuona con nuovi arrangiamenti. Sino alla nausea, e, come detto, con la famigerata "percezione" di vivere a Caracas o in qualche favelas sudamericana, e non in uno dei paesi occidentali a più basso tasso di criminalità. Addio Adriana Tocco, maestra di dignità per le carceri campane di Riccardo Polidoro Il Dubbio, 19 agosto 2017 Si è battuta per i diritti degli ultimi come aveva fatto nella scuola. E anche con la collaborazione della Camera penale di Napoli ha saputo inventare iniziative nonostante le ridottissime risorse. La sua scomparsa lascia un grande vuoto innanzitutto tra i detenuti. Dal 17 agosto i detenuti della Campania sono ancora più soli. La morte improvvisa di Adriana Tocco, Garante dei loro diritti, ha interrotto il rapporto unico ed eccezionale che si era creato tra i reclusi e lei, pronta sempre ad ascoltare gli innumerevoli e crescenti problemi che affliggono le nostre carceri. Le sono stata vicina già nei primi anni della sua nomina e ne ho apprezzato l’interesse immediato verso le miserie, le sofferenze e le ingiustizie di quel mondo da lei ancora non conosciuto a fondo. Aveva sino ad allora combattuto in prima linea per migliorare la scuola, continuando un percorso che la vedeva sempre al fianco degli ultimi, alla continua ricerca di una giustizia sociale. Fu una felice intuizione nominarla Garante, all’epoca non da tutti compresa in quanto estranea al mondo dell’esecuzione penale. Ma la grande Maestra, che aveva fatto crescere generazioni di studenti, divenne in pochissimo tempo un’importante risorsa per le associazioni di volontariato che lavoravano nel carcere e per il carcere, un interlocutore attento e finalmente interessato davvero al rispetto dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario. Da presidente, all’epoca, de "Il Carcere Possibile", Onlus della Camera penale di Napoli, ho frequentato gli uffici del Garante, istaurando con Adriana un rapporto di stretta collaborazione, che grazie alla sua tenacia, nonostante le ridotte risorse economiche, ha dato vita a nuove iniziative e ha consentito la prosecuzione di quelle già avviate. Ancora oggi vi sono attività in corso che sono dovute al suo impegno e al suo sostegno. La sua scomparsa lascia un vuoto enorme tra il volontariato e l’Amministrazione penitenziaria. Hanno perso il loro punto di riferimento anche le madri, i padri, le mogli e i parenti dei detenuti ammalati, che nonostante siano portatori di gravi patologie, non ottengono il trasferimento in strutture sanitarie adeguate. Adriana si faceva carico di queste e di tante altre problematiche, portandole all’attenzione delle istituzioni, riuscendo, a volte, ad ottenere straordinari risultati, e quando ciò non accadeva era pronta a denunciare le molteplici carenze del sistema penitenziario. Grazie Adriana. Se n’è andata Adriana Tocco, garante dei diritti dei detenuti di Franco Corleone L’Espresso, 19 agosto 2017 Sono attonito. La notizia della morte di Adriana Tocco mi ha colpito e mi lascia incredulo. Era garante dei diritti dei detenuti della Campania e abbiamo avuto per tanti anni una consuetudine di lavoro intensa, quasi quotidiana per discutere dei problemi del carcere e delle iniziative da assumere. È stata fondatrice del Coordinamento dei garanti regionali e comunali ed è sempre stata presente alle riunioni offrendo un contributo intelligente, appassionato e risolutivo alle questioni sul tappeto. L’ironia costituiva spesso la cifra dei suoi interventi, mitigando la durezza della denuncia degli orrori che constatava durante le sue visite negli istituti penitenziari. Il candore con cui manifestava incredulità per la mancata soluzione di casi drammatici, spesso di detenuti con gravi patologie, non era affatto frutto di ingenuità, ma il segno di una profonda umanità. Sono tanti i ricordi del suo impegno. Non posso dimenticare il suo ruolo per favorire gli incontri al Quirinale dei garanti con il Presidente Napolitano per affermare la presenza di una figura di tutela dei diritti degli ultimi. Ha organizzato incontri significativi. Penso a un dibattito a Napoliper presentare il libro Recluse sulla detenzione femminile con Grazia Zuffa e al convegno per presentare la ristampa del volume di Igino Cappelli "Gli avanzi della giustizia: diario del giudice di sorveglianza". Ha fatto parte del tavolo sulla affettività durante gli Stati Generali e teneva particolarmente che questa riforma si realizzasse. Nell’ultima telefonata avevamo messo a punto un seminario a Napoli sulle misure di sicurezza legate alla chiusura degli Opg e alle Rems, per settembre. Adriana Tocco, una donna speciale, mancherà certamente ai detenuti, ai garanti che hanno condiviso la sua intransigenza e la sua indignazione e agli amici e a chi le ha voluto bene. Cara Adriana, la tua scomparsa nella amata Stromboli, ci costringe a raddoppiare l’impegno, a non mollare, per realizzare i tuoi sogni. Caso Cucchi: nessun depistaggio. Assolto il dirigente penitenziario di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 ore, 19 agosto 2017 Il dirigente della polizia penitenziaria Claudio Marchiandi, accusato di aver coperto le prove del pestaggio ai danni di Stefano Cucchi, non era a conoscenza delle reali condizioni di salute del geometra di 32 anni, deceduto dopo sei giorni di ricovero nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La Corte di cassazione, con la sentenza 39219 depositata oggi, chiarisce le motivazioni con le quali ha respinto il ricorso del procuratore generale della Corte d’appello e dei familiari di Stefano Cucchi, contro la sentenza della Corte territoriale con la quale, nel 2016, il funzionario del Prap era stato assolto dai reati di falso ideologico, abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. Cucchi, 8 anni di attese - La sentenza è allineata con la piega che attualmente ha preso il caso Cucchi: sotto accusa ci sono solo cinque carabinieri tra quelli che si sono occupati del trentenne dopo che era stato fermato per droga. I carabinieri sono stati rinviati a giudizio lo scorso 10 luglio. I medici e gli agenti penitenziari coinvolti, invece, finora sono stati assolti in vari gradi di giudizio; ma il 19 aprile scorso la Cassazione ha disposto un nuovo processo di appello per i medici, accusati di omicidio colposo. Secondo l’accusa, Marchiandi avrebbe istigato il medico di turno al Pertini a dare indicazioni false nella cartella clinica sulle condizioni di ingresso di Cucchi, che era in stato di detenzione. Il tutto per creare le condizioni previste dal protocollo organizzativo della struttura protetta per il ricovero del paziente. Lo scopo, sempre secondo l’accusa, era aiutare gli agenti di polizia penitenziaria autori del reato di lesioni e abuso di autorità in danno di Cucchi, ad eludere le indagini. Una tesi accusatoria respinta dalla Cassazione. Per la Suprema corte, correttamente il giudice del rinvio, ha sottolineato che le condizioni di Cucchi risultavano da una cartella clinica dell’ospedale Fatebenefratelli che non evidenziava malattie infettive, le sole per la quale il protocollo d’intesa esclude espressamente il ricovero nella struttura protetta. Le lesioni sul corpo del giovane erano, per quanto all’epoca da lui stesso dichiarato, di natura accidentale, non c’era dunque ragione di sospettare connivenze del direttore del carcere e di Marchiandi. L’imputato non aveva - sottolineano i giudici, competenze sanitarie e doveva limitarsi, nel concedere l’autorizzazione all’ingresso al Pertini, all’esame formale delle informazioni disponibili. Per i giudici, nessuna prova era emersa che l’imputato fosse a conoscenza del fatto che le lesioni sul corpo di Cucchi potessero essere il risultato di una violenta aggressione da parte degli agenti di polizia penitenziaria o di terzi. L’imputato non poteva neppure aver agito per "isolare" il geometra e impedirgli di comunicare. Mentre Stefano Cucchi era, infatti, piantonato al Fatebenefratelli ma non lo era al Pertini, dove c’era un "contenimento esterno dell’intera struttura". Nella sentenza si legge dunque che "Marchiandi, al di là dei sospetti e illazioni (basati sui contatti con i vertici dell’amministrazione che sono qualificati nella sentenza di primo grado come "ingiustificati", senza che se ne spieghi la ragione visto che si tratta di un funzionario incaricato proprio di occuparsi della gestione extra carceraria dei detenuti) non è risultato avere alcuna consapevolezza delle reali condizioni di salute di Cucchi. Uno Bianca. Occhipinti in vacanza premio. Lo sdegno dei famigliari: "Che giustizia è?" La Repubblica, 19 agosto 2017 Condannato per l'omicidio della guardia giurata Carlo Beccari. Invitato in un hotel a quattro stelle in Valle d'Aosta per una iniziativa promossa da Comunione e Liberazione che si difende: "Esercizi spirituali". De Maria (Pd): "Vengono prima le ragioni delle vittime". Marino Occhipinti, condannato all'ergastolo per uno degli omicidi dei fratelli Savi della Uno bianca e attualmente sottoposto al regime della semilibertà dal 2012, ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Padova, dove è detenuto, la possibilità di trascorrere una settimana in un albergo a quattro stelle a Breuil. Secondo quanto riporta il Gazzettino, Occhipinti sarebbe stato invitato nella località valdostana in relazione ad una iniziativa promossa da Comunione e Liberazione e dalla Cooperativa Giotto, alle cui dipendenze lavora ormai da oltre 15 anni. Occhipinti sarebbe ospite dell'albergo dove viene organizzato l'evento. Nella richiesta trasmessa al Tribunale di sorveglianza l'iniziativa viene indicata come un'occasione "di aggregazione e di arricchimento per i detenuti". Due le prescrizioni fissate dai giudici: il regime di libertà vigilata e il divieto assoluto di intrattenersi con persone estranee all'iniziativa. Occhipinti venne condannato per l'omicidio della guardia giurata Carlo Beccari, compiuto durante l'assalto ad un furgone portavalori davanti alla Coop di Casalecchio di Reno il 19 febbraio 1988. Il clamore suscitato dalla "vacanza" valdostana raggiunge anche gli esponenti padovani di Comunione e Liberazione, responsabili della Cooperativa Giotto dove l'ex poliziotto della Uno Bianca lavora da 15 anni. Per ora non ci sono repliche ufficiali. Negli ambienti di Cl però trapela un certo disappunto per l'articolo che ha riportato la notizia. Fonti di Cl inoltre precisano che Occhipinti, come già accaduto in passato, sta partecipando a una vacanza comunitaria e che dunque la sua presenza nell'hotel di lusso va contestualizzata, in quanto si tratta di una settimana a base di raccoglimento ed esercizi spirituali. La rabbia dei familiari delle vittime: "Che giustizia è?" - "Rimango allibita. Perché non mi aspettavo una cosa di questo genere. Non è giusto, che giustizia è?". Così reagisce Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della banda della Uno bianca, commentando il permesso accordato a Marino Occhipinti. "Noi come associazione - ha detto la presidente - siamo dispiaciuti di questa cosa. Non la troviamo giusta. Sinceramente non ci fa bene sentire che 20 anni dopo fanno questo. I nostri morti non possono fare quello che vogliono. Sono molto arrabbiata non trovo che sia giusta una cosa così. Che giustizia è?. L'ergastolo deve essere a vita". Proprio dei permessi ai killer della uno bianca, Zecchi - che ha spiegato all'Ansa come quello in corso non sarebbe il primo di questo tipo per Occhipinti - ha detto di averne parlato anche al ministro della Giustizia Andrea Orlando, ospite, due mesi fa a una Festa dell'Unità a Bologna: "Era alla Festa del'Unità delle Due Madonne e sono andata a parlarci. Lui ci ha detto di stare calmi perché dopo 20 anni possono avere permessi. Ma un permesso come questo di una settimana mi sembra eccessivo... Occhipinti Sarà cambiato? Io spero solo che non faccia altri atti violenti. Tutelare la società civile non interessa a nessuno". Le reazioni politiche - Una notizia che desta "non poche perplessità", reagisce il deputato bolognese Pd, Andrea De Maria. "Già in occasioni precedenti ho avuto modo di sottolineare come nella vicenda drammatica della Uno Bianca per me vengono sempre prima le ragioni delle vittime, a cui prima di tutto lo Stato ha il dovere di rispondere. Alla ripresa della attività parlamentare intendo assumere una iniziativa in merito per approfondire in sede istituzionale le notizie di stampa di oggi". La presidente dell'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna, Simonetta Saliera, esprime "vicinanza ai familiari di Carlo Beccari e a tutti quelli delle vittime della Banda della Uno Bianca e alla Presidente della loro Associazione Rosanna Zecchi per notizie che, inevitabilmente riaprono vecchie ferite e antichi dolori in tutta la nostra comunità". Messina: recluso di 38 anni muore suicida a Barcellona Pozzo di Gotto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 agosto 2017 Continua la mattanza in carcere. Si è suicidato un recluso di 38 anni nell’ex Opg, convertito in carcere, di Barcellona Pozzo di Gotto. Ne ha dato notizia il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, spiegando che si tratta di un uomo con problemi psichiatrici. A pochi giorni dall’attuazione del nuovo piano per prevenire i suicidi redatto in collaborazione con le aziende sanitarie locali, si è giunti al 33esimo suicidio dall’inizio dell’anno, per un totale di 70 decessi. Numeri che non sono stati ignorati, tanto che il ministro Orlando, il 2 agosto scorso, aveva convocato i capi del Dap e della giustizia minorile per fare il punto sul piano di prevenzione dei sucidi di in carcere. Per quanto riguarda l’ex Opg siciliano, va ricordato l’altro suicidio avvenuto l’anno scorso: era un 40enne con problemi psichici che doveva essere ricoverato in una Rems. Firenze: Hendel "più che un altro stadio alla città servirebbe un nuovo carcere" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 agosto 2017 La delegazione del Partito Radicale ieri ha visitato Sollicciano. "Il carcere è al di fuori del dettato costituzionale", questo è in sintesi il problema riportato dalla delegazione dell’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" durante la conferenza stampa di ieri tenutasi al termine della visita del carcere fiorentino di Sollicciano. "I ventilatori sono finalmente arrivati, ma non sono ancora attivi perché ci vuole l’autorizzazione della Asl che deve verificare a chi dare la priorità", ha spiegato il radicale Massimo Lensi che aveva sollecitato, assieme al cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, degli interventi per far fronte al caldo torrido che rende il carcere una vera e propria fornace. "A Sollicciano manca tutto - ha proseguito Lensi, in questo modo è difficile restituire la dignità delle persone recluse o ripristinare i percorsi rieducativi". Massimo Lensi ha parlato della necessità di creare un ponte tra il carcere e le istituzioni. Un ponte che si è intravisto con la risposta della regione Toscana nel far recapitare i ventilatori. "Un ponte - ha concluso Lensi - che si deve mantenere per far rientrare la legalità nel carcere". Alla visita del penitenziario effettuata dalla delegazione dei radicali, ha partecipato anche il comico toscano Paolo Hendel. "Spero che i ventilatori non si attivino a dicembre", ha denunciato ironicamente Hendel. Poi poi ha spiegato che è la sua prima visita ufficiale al carcere di Sollicciano assieme al partito radicale e ne è rimasto scioccato per le condizioni nel quale riversano i detenuti, tanto da dire che "a Firenze, invece che fare il nuovo stadio, sarebbe importante fare un nuovo carcere". Alla visita ha partecipato anche Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale. "Quello di Sollicciano è uno dei tanti penitenziari che non rispettano il dettato costituzionale - ha sottolineato la Bernardini, perché il carcere dovrebbe avere la finalità rieducativa della pena. Qui il tempo lo trascorrono nell’ozio, ci sono categorie sociali come i tossico dipendenti, persone poverissime e malati psichiatrici che non dovrebbero essere reclusi". L’esponente del Partito Radicale ha fatto l’esempio di due persone affette da patologie psichiatriche che dovrebbero essere ospiti delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma restano "sequestrate" in carcere perché non ci sono posti disponibili. "La cosa che mi fa più male - ha proseguito Rita Bernardini - è il personale che lavora qua dentro. Sono servitori dello Stato, ma è lo stesso Stato che li obbliga a violare la sua stessa legalità". La radicale ha concluso spiegando che i detenuti stanno reagendo a questa illegalità di Stato attraverso la non violenza. Si riferisce al Grande Satyagraha (proseguimento di quello portato avanti per anni da Marco Pannella) iniziato mercoledì scorso e che consiste nel digiuno, lo sciopero della spesa e il rifiuto del carrello. In alcuni istituti penitenziari, come quello del carcere di Trieste, i detenuti hanno ottenuto che i loro pasti siano devoluti alle mense per i poveri. Firenze: i ventilatori per il carcere? Speriamo non li diano a dicembre di Dario Pagli quinewsfirenze.it, 19 agosto 2017 I ventilatori tanto attesi sono arrivati nel carcere di Sollicciano a Firenze ma per l’installazione c’è ancora da aspettare il via libera della Asl e per alleviare il caldo torrido nelle celle ne servirebbero almeno duecento. Lo hanno detto i componenti della delegazione dell’associazione radicale "Andrea Tamburi" che hanno incontrato detenuti e personale del penitenziario fiorentino. Presenti il cappellano del carcere Don Vincenzo Russo, il presidente della Camera penale di Firenze Eriberto Rosso, il consigliere di "Firenze riparte a sinistra" Tommaso Grassi. A guidare la delegazione radicale il segretario del partito Rita Bernardini e Massimo Lensi dell’associazione Luca Coscioni. Con loro anche il comico Paolo Hendel che anche a Sollicciano non ha rinunciato alla sua ironia. Hendel ha infatti auspicato che "questi benedetti ventilatori non glieli diano a dicembre perché sennò invece di risolvere il problema del caldo faranno venire il raffreddore ai detenuti. Ci sono delle condizioni di caldo spaventose dentro questo carcere che è tutto in cemento e completamente esposto al sole". "Sappiamo che i ventilatori della Regione sono arrivati - ha detto Massimo Lensi - e sono già dentro il carcere ma non sono attivi. Adesso siamo in attesa che la Asl dia l’autorizzazione per poterli usare e stili una graduatoria dei detenuti con problemi che ne hanno maggior bisogno di ventilazione. Abbiamo potuto constatare anche oggi che il caldo dentro il carcere è veramente torrido. Qui manca tutto, e mi chiedo come sia possibile in questo modo recuperare la dignità delle persone, e dare un senso a strutture come questa". Dal sopralluogo sono emerse ancora una volta condizioni di vita difficili per i detenuti che mettono a rischio la finalità stessa del carcere. "Più che fare un nuovo stadio a Firenze ci sarebbe da fare un nuovo carcere. Ma i fratelli Della Valle non credo che avranno molto interesse in questo - ha incalzato, ironizzando, Paolo Hendel - Si sbaglia moltissimo a pensare che il carcere non riguardi tutti noi. Ci si può capitare tutti nella vita e bisognerebbe fare di tutto perché in questi luoghi ci siano condizioni umane dignitose". "Quando uno viene condannato al carcere la sentenza non prevede la tortura e la sofferenza". ha concluso. Trieste: protesta in carcere, l’appello del provveditore Sbriglia di Laura Tonero Il Piccolo, 19 agosto 2017 Continua lo sciopero dei pasti nelle celle. Il provveditore: "Il governo ora acceleri sulle riforme. E serve più personale". Lo "sciopero del carrello", così nelle carceri viene denominato il rifiuto del cibo per protesta da parte dei detenuti, è continuato anche ieri nella casa circondariale del Coroneo. Ad aderire tre quarti delle persone recluse che, per non far passare inosservato il loro gesto di denuncia, alle 12 e poco dopo le 17.30, nella mezz’ora che precede la somministrazione dei pasti, sbattendo posate e pentole sulle sbarre delle celle e urlando hanno richiamato l’attenzione sull’esigenza dell’approvazione di un nuovo ordinamento per le carceri e di interventi sull’edilizia. "Se le manifestazioni di protesta continueranno mantenendo l’alveo pacifico e il civismo dimostrato finora - commenta Enrico Sbriglia, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto e ora anche per l’Emilia Romagna e le Marche - sarà un modo corretto di protesta, rispettoso anche di una figura come quella di Marco Pannella, vero guerriero delle battaglie civili e della nonviolenza". Sbriglia fa notare che se la protesta all’interno del Coroneo è stata pacifica è frutto anche di un rapporto proficuo, di confronto e di dialogo, tra il personale che opera nella casa circondariale e le persone recluse. Lo sciopero indetto a livello nazionale dai Radicali (parte dei detenuti che sta rifiutando i pasti a Trieste vi ha aderito), è previsto prosegua fino al 21 agosto. Sbriglia è stato immediatamente avvisato della contestazione al Coroneo, struttura che ha diretto per ben 22 anni. "Ho attenzione per i detenuti - dichiara il provveditore - e comprensione e solidarietà per il personale sul quale vengono scaricate tensioni e difficoltà, che si sta dimostrando capace di non perdere l’autocontrollo e di mantenere, nel rispetto delle regole, l’ordine e la legalità. Auspico che la protesta non degeneri - aggiunge - e per questo servono risposte concrete: il ministro Orlando, con i suoi sottosegretari, si sta impegnando, ma ciò non basta evidentemente, alcune riforme vanno fatte in tempi rapidi". Due, secondo il provveditore, gli interventi più urgenti: "Va rafforzato il numero degli operatori penitenziari specialistici come educatori, mediatori, psicologi e medici - sottolinea - oltre naturalmente a quello degli agenti di polizia penitenziaria, e va migliorata la qualità della vita all’interno del carcere anche attraverso interventi edilizi, immaginando nuove architetture e progettualità che consentano ai detenuti un miglior mantenimento delle relazioni famigliari e sociali, e agli operatori di lavorare in condizioni logistiche più favorevoli". Nei mesi scorsi il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha costituito diversi tavoli di lavoro, i cosiddetti "Stati generali dell’esecuzione penale", per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. "Ne sono discese tre commissioni costituite da esperti qualificati - spiega Sbriglia - che hanno il compito di redigere schemi di decreti legislativi, riguardanti tra l’altro modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza, dell’assistenza sanitaria, del lavoro e dell’edilizia penitenziaria". Secondo Sbriglia le strutture penitenziarie vanno modificate. "Anche nella pietra dev’esserci un’anima - fa notare - non devono essere pensate come strumenti contenitivi ma di rieducazione, e a quanti contestano eventuali investimenti sulle strutture penitenziarie faccio notare che, se certi reati sono diminuiti, è anche grazie all’importante lavoro svolto dal sistema carcerario che, nonostante le sue pecche, e grazie agli sforzi del personale che vi opera con passione e coraggio, è indirizzato a far rialzare le persone e non a distruggerle. Spendere per le istituzioni penitenziarie - conclude - significa investire in sicurezza e prevenzione". Quanto ai prossimi giorni di sciopero Sbriglia confida anche nell’intervento dei Radicali per "accendere il civismo e spegnere qualsiasi forma di protesta barbara e vendicativa". Sulla protesta in atto al Coroneo interviene anche il garante dei diritti dei detenuti, l’avvocato Elisabetta Burla. "Nella struttura di Trieste - suggerisce - bisognerebbe intanto intervenire in tempi ragionevoli per implementare le attività formative e lavorative, come richiesto anche dai detenuti, e per agevolare i rapporti familiari andrebbe inoltre resa più accogliente e a misura di bambino la sala dei colloqui". Burla precisa inoltre che si sta lavorando a una ripresa del sistema che consentiva ai detenuti di parlare, attraverso Skype, con le persone loro care ma distanti e che era stato introdotto solo come progetto a tempo determinato. Napoli: i detenuti di Poggioreale e Secondigliano al terzo giorno di sciopero della fame Cronache di Napoli, 19 agosto 2017 Protestano contro le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere: emergenza sovraffollamento. Nonostante gli sforzi del direttore e dell’amministrazione penitenziaria di Poggioreale. ci sono ora anche due interi padiglioni in ristrutturazione: quindi alla nuova impennata del sovraffollamento va aggiunta questa enorme indisponibilità di posti letto della struttura. C’è anche questa cronica emergenza sovraffollamento alla base della decisione dei detenuti di Poggioreale dì aderire alla grande iniziativa dì protesta "non violenta" indetta su scala nazionale dal partito Radicale. Oggi è il terzo giorno di sciopero della fame, e oltre ai detenuti di Poggioreale ci sono anche in fibrillazione le carceri di Secondigliano e di altri istituti di pena della Campania: adesioni sono arrivate dai detenuti dì Santa Maria Capua Velere, Fuorni (Salerno) e dall’Icatt di Eboli (Salerno). Ma torniamo a Napoli. Nel carcere dì Poggioreale il padiglione ospedaliero "San Paolo" da sempre non riesce a garantire i Livelli essenziali di assistenza (Lea). E poi c’è il problema dei permessi chiesti ai magistrali di sorveglianza. che a causa dì una persistente carenza di organico non riescono a far fronte alle risposte in maniera efficiente. Problema che riguarda tutta Italia e che. a dire la verità, a Napoli vede in genere adottare comportamenti più "umani" rispetto a quelli dì altri colleghi di altri tribunali. Lo scopo principale dell’iniziativa Radicale (il cosiddetto Satyagraha di pannelliana memoria) è dì ottenere ì decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario promessi dal ministro Orlando: "Sono urgentissimi - dicono i Radicali, da emanare da subito, entro l’estate". Allo sciopero della fame i detenuti stanno affiancando anche un’altra tipica forma dì protesta: quella di far tintinnare contro le sbarre pentole, posate e altri materiali metallici. I detenuti chiedono che vengano migliorate le condizioni dì reclusione e per questa ragione hanno aderito con convinzione alla protesta nazionale indetta dai Radicali (protesta che terminerà ufficialmente lunedì 21 agosto). Una protesta che segue il lungo sciopero della fame terminato qualche settimana fa dalla leader radicale Rita Bernardini (peraltro seguito da un ricovero d’urgenza per problemi cardiaci): al centro di questa battaglia ci sono i ritardi nell’applicazione della riforma che dovrebbe portare a sensibili miglioramenti delle condizioni detentive. anche per quanto riguarda il calcolo degli sconti di pena e delle liberazioni anticipate. Dati ufficiali ancora non sono arrivati al partito radicale, ma stando ai primi rilevamenti pare che almeno la metà dei detenuti di Poggioreale stiano aderendo al Satyagraha. L’azione non violenta sta riguardando tutti e quattro i padiglioni: Napoli. Salerno, Milano e Livorno. Genova: carcere di Marassi, allarme per le zecche e un detenuto affetto da Tbc genovatoday.it, 19 agosto 2017 La situazione nel carcere di Marassi è sempre più complicata. Dopo le pulci, ora sono le zecche ad avere invaso una cella. E c’è apprensione anche per un detenuto isolato d’urgenza per tubercolosi polmonare. "Ancora allarme a Marassi", a dirlo è Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa polizia penitenziaria. "Dopo aver rilevato la presenza di pulci all’interno della prima sezione nel carcere Marassi di Genova, stamani sono state, invece, le zecche a impadronirsi di una camera detentiva, sempre in prima sezione". Ma ci sono anche altri gravi problemi. "Sempre nella giornata odierna - prosegue Pagani - un detenuto tunisino è stato isolato d’urgenza per tubercolosi polmonare. Al momento è ristretto all’interno della sesta sezione, ma è stato in camera con altri detenuti e in contatto con la polizia penitenziaria. Si spera vivamente che le competenti autorità del Provveditorato e del Dipartimento, nonché le autorità sanitarie locali, si attivino con immediatezza per garantire prevenzione, controllo e tutte le necessarie attività disinfestanti presso l’istituto penitenziario di Marassi". "Pericoloso caso di Tbc, zecche e prima cimici da letto: è del tutto evidente che in una situazione igienico sanitaria già compromessa dal sovraffollamento ogni ulteriore elemento critico potrebbe far precipitare la situazione, al limite della sopportabilità - conclude il segretario - è doveroso monitorare, prevenire ed eliminare tutti i possibili focolai patologici, auspicabilmente attraverso azioni sinergiche tra autorità penitenziarie e autorità sanitarie e non costringere al sacrificio e al rischio esclusivamente gli uomini e le donne della polizia penitenziaria". Vigevano (Pv): emergenza carcere; risse, autolesionismi e pochi agenti di Luca Rinaldi Corriere della Sera, 19 agosto 2017 Ferimenti, aggressioni, atti di autolesionismo e risse. L’ultima nella serata dello scorso tredici agosto tra gruppi di italiani e di marocchini nel carcere di Vigevano. A darne notizia il sindacato di polizia Osapp, che tramite il suo segretario Leo Beneduci fa sapere di una contesa forse nata per motivi di "territorio" all’interno del carcere. Teatro del fatto, confermato al Corriere da fonti interne all’istituto, la sezione di transito che ospita, al massimo per un mese, i detenuti in attesa di collocazione nel penitenziario. Una sezione delicata "in cui le gerarchie tra i detenuti, non sempre sono chiare proprio perché in continuo cambiamento vista la temporaneità della sistemazione", spiega un poliziotto penitenziario. Del resto per capire la difficile situazione del penitenziario vigevanese è sufficiente dare uno sguardo ai numeri forniti dal ministero della Giustizia. Nel mese di luglio 382 detenuti su 242 posti disponibili: un tasso di sovraffollamento del 157%, a fronte di una media regionale del 132. Non va meglio sul fronte dell’organico: sui 265 agenti previsti gli effettivi in servizio sono 194. A mancare sono anche gli educatori (8 previsti, 5 in servizio) e gli amministrativi: solo 3 su 18. Disagi dunque per i detenuti e per chi nel carcere ci lavora. A confermare le difficoltà sono pure i numeri che riguardano gli eventi critici: nell’ultimo anno si sono verificati nel penitenziario vigevanese un tentativo di suicidio, 131 atti di autolesionismo (molti di questi per richiedere il trasferimento al carcere di Bollate, più all’avanguardia), 21 ferimenti e 17 risse. A finire sotto accusa per i sindacati è la "sorveglianza dinamica", cioè la possibilità per i detenuti di trascorrere la giornata a celle aperte svolgendo attività all’interno delle carceri. Per la maggioranza dei sindacati di polizia, dallo stesso Osapp al Sappe, la mancanza di personale e la circolazione dei detenuti fuori dalle celle, non sempre unita ad attività lavorativa, culturale o sportiva, favorisce gli episodi violenti anche nei confronti del personale del carcere. Tuttavia una recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) diretto da Santi Consolo sottolinea che "il fenomeno è maggiormente presente laddove è in vigore un regime cosiddetto chiuso, mentre la percentuale di aggressioni è nettamente inferiore nelle sezioni dove è applicata una gestione aperta". Intanto i penitenziari lombardi tra sovraffollamento, inadeguatezza degli organici, emergenza sanitaria data dai casi psichiatrici e detenuti tossicodipendenti e scarse possibilità di inserimento lavorativo sono in sofferenza. Lo sottolinea anche il libro bianco sulle carceri lombarde presentato dai Radicali e Socialisti italiani dopo un anno di visite negli istituti di pena in regione. Da qui l’invito al governo "per procedere subito all’emanazione dei decreti attuativi sull’esecuzione penale". Sulmona (Aq): Melilla in visita al carcere "più attenzione da istituzioni locali e regionali" reteabruzzo.com, 19 agosto 2017 "Occorre che le istituzioni locali e regionali collaborino a tutti i livelli per garantire la sicurezza, l’integrazione e la migliore qualità del penitenziario sulmonese, realtà importante dell’amministrazione penitenziaria italiana e abruzzese". Lo ha dichiarato il deputato Gianni Melilla (Mdp Articolo uno) che questa mattina ha visitato la casa di reclusione in via Lamaccio, accompagnato dal direttore Sergio Romice e dalla comandante degli agenti penitenziari Sarah Brunetta. "Il carcere di Sulmona è uno dei più importanti istituti di pena di alta sicurezza del nostro Paese. La sua costruzione risale al 1992, ma a distanza di 25 anni ha bisogno di un investimento urgente sulla video sorveglianza, sulla elettrificazione delle porte, e sulla sicurezza antisismica" ha poi precisato il deputato. I posti regolamentari del carcere sono 304, ma i detenuti presenti sono 422. "Dunque vi è già un sovraffollamento che diventa molto più serio se si considera che i 165 ergastolani non hanno una stanza singola ma sono detenuti in due in ogni stanza. Vi sono reclusi, detenuti che hanno fatto parte di grandi organizzazioni criminali e per questo si sono macchiati di gravi delitti di mafia - ha continuato Melilla - su 420 detenuti ben 165 hanno la condanna all’ergastolo ostativo, cioè non potranno mai uscire dal carcere. Per loro vale il "fine pena mai". A differenza dell’ergastolo semplice che consente ai detenuti l’accesso ai benefici di legge (ad esempio permessi premio, lavoro esterno, misure alternative di pena, detenzione domiciliare) quello ostativo è un regime eccezionale che non prevede nessun beneficio: carcere a vita, per tutta la vita, fine pena mai. Vi è un detenuto che ha già fatto 42 anni consecutivi di carcere (un record nazionale), molti hanno superato i 30 anni. Per loro non c’è alcuna speranza di uscire dal carcere. È evidente come questa condizione disperata segni la vita del carcere di Sulmona e complichi enormemente anche il lavoro dei 320 dipendenti statali che vi operano di cui 254 agenti di polizia penitenziaria. Non a caso negli anni passati in questo Carcere erano frequenti i casi di suicidi e di autolesionismo grave dei detenuti. Fortunatamente quei tempi sono passati e oggi non si registrano più quei tristi fenomeni. Vi è anche una sezione speciale per 22 collaboratori di giustizia sempre relativi a delitti di mafia, camorra, ndrangheta, sacra corona unita". Il parlamentare quindi si è soffermato sulle carenze di organico del carcere, con personale ridotto e costretto a turni straordinari di lavoro. Occorrono almeno altre 21 agenti, per evitare turni stressanti e tensioni. L’assistenza sanitaria ai detenuti ed un servizio specialistico di psichiatria e per le tossicodipendenze è garantito. Scelta importante della direzione del penitenziario è stata quella di puntare al lavoro attivando diversi laboratori che garantiscono anche un reddito a beneficio dei detenuti, come calzolai, sarti, cuochi, agricoltori. All’ interno del carcere c’è anche un Istituto Agrario frequentato da 50 detenuti, oltre che corsi di scuola dell’obbligo. In autunno saranno poi avviati i lavori di costruzione del nuovo padiglione che porterà a settecento i posti disponibili nel penitenziario peligno, che diverrà per dimensioni il terzo carcere nel centrosud, dopo Roma e Napoli. Isernia: raccolta di beni di prima necessità per i detenuti e le loro famiglie di Tonino Atella futuromolise.com, 19 agosto 2017 Iniziativa di altissima umanità e profondo senso sociale da parte dei Frati Minori Cappuccini della Basilica di San Nicandro di Venafro. Tali religiosi, all’unisono con l’appello della Pastorale Carceraria Diocesana, hanno diffuso un volantino perché si proceda alla raccolta di beni di prima necessità a favore dei detenuti del carcere di Isernia e delle loro famiglie in difficoltà. L’appello è rivolto a tutti, con la puntualizzazione che le offerte potranno essere consegnate nella sagrestia della stessa Basilica o presso la portineria dell’attiguo Convento Francescano. "Urge raccogliere - scrivono i Frati Minori Cappuccini della Basilica di San Nicandro di Venafro- per i detenuti maschi dentifricio, spazzolini, shampoo-doccia, deodorante ascellare, ciabatte e scarpe da ginnastica dal 40 al 46, t-shirt, slip - solo nuovi per motivi di igiene, taglia dalla M alla XXL, camicie, pantaloni e pantaloncini senza cintura, asciugamani ed accappatoi senza cappuccio. Per le loro famiglie servono invece omogeneizzati, pannolini, biscottini, latte, vestiti per bambini, zucchero, pasta e prodotta in scatola a lunga conservazione". Una raccolta di beni, questa a favore dei detenuti della casa circondariale isernina, che rappresenta un impegno socio/umanitario nuovo per la famiglia monastica venafrana mai prima d’ora attiva in tal senso. Sempre in merito ai Frati Minori Cappuccini cui da oltre cinque secoli è affidata la custodia delle spoglie mortali del Patrono di Venafro e Protettore della Diocesi d’Isernia/Venafro, San Nicandro, resti che riposano nella Cripta sottostante la stessa Basilica venafrana, c’è da dire che l’attuale Superiore e Guardiano, Fr. Cosimo, è stato appena confermato alla guida dello stesso luogo di culto per il prossimo triennio. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. "Non è la crudeltà delle pene che frena i delitti" di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 19 agosto 2017 Una delle pene abituali dell’epoca di Beccaria era il bando, che veniva irrogato a coloro che venivano riconosciuti colpevoli di delitti dotati di particolare disvalore sociale, e che producevano un turbamento della pubblica tranquillità. Si trattava ad una pena simile a quella dell’esilio, tradizionale negli ordinamenti europei del diritto comune e che, a sua volta, traeva ispirazione dall’antichissimo istituto dell’ostracismo, vale a dire da quel referendum al quale erano chiamati i cittadini ateniesi allo scopo, appunto, di bandire dalla città un soggetto considerato indesiderabile. Beccaria non crede alla utilità sociale del bando e, ancor meno, a ciò che inevitabilmente ne era la conseguenza giuridica forse più penalizzante: la confisca dei beni del soggetto bandito. Infatti, tale confisca gli appare inaccettabile per almeno due motivazioni. Innanzitutto, perché finisce col colpire anche soggetti diversi da quello colpito dal bando, vale a dire il coniuge, i figli e in genere i parenti o coloro che avrebbero potuto godere di diritti sui beni confiscati. In secondo luogo, perché, privando costoro dei diritti ereditari sui beni confiscati, ne causa la completa rovina, collocandoli in una situazione di tale disperazione da indurli a commettere eventuali delitti allo scopo di sopravvivere o di vendicarsi del male ricevuto, senza che loro ne avessero commesso alcuno. Insomma, il bando e ancor più la conseguente confisca appaiono a Beccaria del tutto irrazionali e perciò inutili e dannosi alla compagine sociale. Nel tentativo poi di spiegare la cornice concettuale all’interno della quale nasce la propria avversione alle due pene sopra menzionate, Beccaria opera una lunga digressione di carattere non giuridico, ma sociologico o, forse, di filosofia sociale, dagli esiti tutt’altro che disprezzabili, e che testimoniano la versatilità del suo ingegno. In sintesi, Beccaria oppone una concezione angusta e asfittica di società - quella che la vede come la somma di più famiglie - ad una invece ampia e liberante - quella che la vede come l’insieme di molti esseri umani. La differenza non è di poco conto, in quanto se si considerano quali componenti sociali in prima istanza le famiglie, ne verrà che gli individui, prima ancora di essere parte della società, saranno parte della famiglia e perciò saranno sottoposti prima al capo della famiglia e soltanto dopo al potere dello Stato: una concezione familistica della società che Beccaria condanna duramente e senza mezzi termini, quale corrosiva del legame sociale autentico e universale. Per quanto certamente Beccaria nulla potesse sapere di mafia e di simili fenomeni sociali, la sua analisi rimane valida ancor oggi soprattutto in relazione ai legami familistici che, nell’ottica della cultura mafiosa, sono destinati sempre e in ogni caso a prevalere su quelli sociali e perfino a negarli o a combatterli. Beccaria insiste poi molto su una circostanza dettata dallo spirito utilitaristico a cui è improntata tutta la sua opera: la pena produce efficacia intimidatrice maggiore non in ragione della sua crudeltà, ma della sua certezza. Si tratta di una considerazione che il legislatore del nostro tempo dimentica in modo che direi perfino studiato e sistematico. Si pensi alle numerose occasioni in cui, dopo il ripetersi di un certo delitto, il parlamento si affretta ad aumentare la pena per esso prevista dal codice penale: Beccaria ne riderebbe sconsolato. E avrebbe perfettamente ragione. Infatti, mai si è visto che un soggetto si astenga dal delinquere - se ne abbia sufficiente spinta psicologica - per il timore della gravità della pena, se ragionevolmente possa ritenere che di fatto non la sconterà mai. Al contrario, anche una pena relativamente mite è in grado di scoraggiare il futuro delinquente, se questi sia ragionevolmente certo che ne sarà effettivo destinatario. Dal punto di vista della sua gravità, la pena otterrà il suo effetto - conclude il giurista milanese - sol che "il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto"; e, fedele al suo spirito matematizzante, aggiunge che in questo eccesso di male "dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe". Il legislatore del nostro tempo ignora completamente queste osservazioni assai calzanti e dotate di buon senso. E, forse, per indurlo a prestarvi attenzione, bisognerebbe fermasse il suo sguardo sulla conclusione finale di Beccaria il quale sagacemente annota: "Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico". Il nostro parlamento lo ignora. CAPITOLO XXV. BANDO E CONFISCHE Ma chi è bandito ed escluso per sempre dalla società di cui era membro, dev’egli esser privato dei suoi beni? Una tal questione è suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni è una pena maggiore di quella del bando; vi debbono dunque essere alcuni casi in cui, proporzionatamente à delitti, vi sia la perdita di tutto o di parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarà quando il bando intimato dalla legge sia tale che annienti tutt’i rapporti che sono tra la società e un cittadino delinquente; allora muore il cittadino e resta l’uomo, e rispetto al corpo politico deve produrre lo stesso effetto che la morte naturale. Parrebbe dunque che i beni tolti al reo dovessero toccare ai legittimi successori piuttosto che al principe, poiché la morte ed un tal bando sono lo stesso riguardo al corpo politico. Ma non è per questa sottigliezza che oso disapprovare le confische dei beni. Se alcuni hanno sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette ed alle prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene, non però sono sempre giuste, perché per esser tali debbono esser necessarie, ed un’utile ingiustizia non può esser tollerata da quel legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri, sprezzando l’esterminio futuro e le lacrime d’infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo e pongono gl’innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i delitti. Qual più tristo spettacolo che una famiglia strascinata all’infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirgli, quand’anche vi fossero i mezzi per farlo! CAPITOLO XXVI. DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche più illuminati, ed esercitate dalle repubbliche più libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato à piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età più verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtù nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società. Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtù che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto! A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene più piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circoscritti, al di là dè quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto. Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni dè suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo più forte le amicizie sono più durevoli, e le virtù sempre mediocri di famiglia sono le più comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della più parte dei legislatori. CAPITOLO XXVII. DOLCEZZA DELLE PENE Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del quale debbo affrettarmi. Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. A misura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che conoscono, e non su quelli che ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle quali, nella scala delle pene proporzionata alla scala dei delitti, la pena maggiore sia la schiavitù perpetua, e nell’altra la ruota. Io dico che la prima avrà tanto timore della sua maggior pena quanto la seconda; e se vi è una ragione di trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l’istessa ragione servirebbe per accrescere le pene di quest’ultima, passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti più lenti e più studiati, e fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni. Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sí facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe ai delitti più dannosi e più atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sí nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime. Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pè barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte la più sensibile nel vedere migliaia d’infelici che la miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine? Le nostre società attraversate dai fuggitivi nelle guerre tra poveri di Aldo Carra Il Manifesto, 19 agosto 2017 La globalizzazione ha seminato speranze e creato possibilità. Lo ha fatto nei paesi sviluppati (apertura dei mercati, importazioni a basso prezzo, possibilità di esportare e di produrre). Lo ha fatto nei più grandi paesi arretrati (afflusso di capitali, possibilità enormi di produrre ed esportare…). Insieme a merci e capitali si sono mosse anche persone (dall’est all’ovest dell’Europa, dai paesi asiatici verso l’Europa, dal sud al nord delle Americhe). Oggi questa fase espansiva si è arrestata. Nei paesi avanzati le speranze si sono tramutate in paure (perdita di lavoro, incertezze sul futuro, abbassamento dei salari) alimentando un bisogno di protezione ed una tendenza a chiudersi. Nei paesi arretrati si è consolidata un’area dei paesi fermi che hanno visto peggiorare le condizioni di vita dei loro popoli (guerre, condizioni climatiche….) ai quali non rimane che la speranza di una fuga disperata verso i paesi ricchi. La coincidenza temporale tra queste due opposte spinte determina quella che possiamo chiamare la grande contraddizione dei nostri tempi. Come governare una situazione così complessa? Ci vorrebbe un governo mondiale capace di varare un progetto di riequilibrio e di governo dei processi. Ci vorrebbe una grande ondata di solidarietà e l’assunzione del tema della redistribuzione come necessità storica di fronte alla grande stagnazione. La chiesa e Papa Francesco predicano e praticano con le loro missioni ed opere caritatevoli - sono le loro forme di azione - accoglienza e solidarietà. Due parole che appartenevano alla sinistra. Ma la sinistra di oggi sembra non avere le parole adatte per fronteggiare la grande contraddizione. Non le ha perché per la sinistra non è sufficiente dire parole giuste. Le parole non possono essere prediche, ma debbono essere strumenti di azione, strumenti che convincono, trascinano, impegnano a lottare per cambiare. Le parole della sinistra dovrebbero unire i poveri dei paesi ricchi con quelli che arrivano dai paesi poveri. Ma questo non avviene e la sinistra appare debole quando apprezza e fa proprie le giuste parole della Chiesa ed appare succube quando finisce per accodarsi alle parole della destra. Nel frattempo la destra con le sue parole che seminano paure ed odio fa opinione, alimenta chiusure, esplosioni di razzismo. Che fare allora? Non ci resta che sentirci impotenti e tagliati fuori dal corso degli eventi e della storia? Le risorse ci sono. Nelle tante forze giovanili ed impegnate nei movimenti per l’accoglienza, sono nelle tante persone che sanno cosa significano razzismo ed esclusione. Ma l’insieme di queste forze non riesce a fare massa critica, a creare opinione diffusa, a mobilitare. Il fatto che la sinistra tutta abbia più consensi nelle aree centrali e meno in quelle periferiche parla da solo e spiega perché essa non riesce a legare il disagio degli italiani a quello degli immigrati. Ma pensiamoci bene. Anche quelli che urlano contro i migranti e magari vivono in periferie desolate, senza lavoro e senza servizi, sono dei fuggitivi: sfuggono dai problemi che li assillano, riversando le colpe sui poveri che arrivano invece di lottare e semmai di unirsi a loro. E così gli ultimi si dividono, si contrappongono, si disarticolano. Ma non è colpa loro se questo accade. Chi dovrebbe fare questo, proporlo, organizzarlo se non la sinistra? Ecco allora il problema. La sinistra non può oscillare tra l’accogliere in nome della solidarietà gli ultimi che arrivano senza mettersi in regola con gli ultimi che stanno tra noi. Né può pensare di affrontare il problema sposando la linea dura per recuperare consensi. Su questo terreno vincerà la destra, perché l’ha detto per prima ed è più credibile. Quando parliamo di sinistra del futuro dovremmo parlare di queste difficoltà ad unire i tanti fuggitivi, interni ed esterni, in una grande battaglia per una più equa distribuzione, intanto, di quello che c’è, dei redditi, del lavoro, dei poteri. Altrimenti mentre noi parliamo di sinistra del futuro rischiamo di assistere al ritorno del passato, del razzismo, dei nazionalismi, della guerre. Ps. Mi ha stimolato a scrivere questo articolo la lettera al manifesto di Mauro Polidori di Acilia che ci invita a guardare alle periferie urbane ed anche, aggiungo, ai piccoli centri, dove una informazione tutta centrata sui migranti nasconde la crisi da abbandono che essi vivono. Quei diritti umani che richiedono una politica forte di R. Musacchio e R. Petrella Il Manifesto, 19 agosto 2017 Oggi è più che mai essenziale e indispensabile affermare e rispettare gli imperativi morali e politici dell’umanità. Ogni donna e ogni uomo compongono l’umanità, e convivono con le specie non umane. La memoria dei non più viventi e le speranze di coloro che attendono di vivere fanno parte della umanità. L’umanità e ogni singola donna e ogni singolo uomo hanno il diritto alla vita come bene comune e il dovere di curarla per sé, per tutti e per ciascuno, umani e non umani. L’umanità ricerca l’eguaglianza, il valore delle differenze, la giustizia, la fratellanza e la sorellanza, la felicità. Nessun potere può violare i principi "costituzionali" della umanità… da scrivere. Si tratta di principi utopici e realizzabili, bisognerebbe provare a scrivere una Costituzione dell’umanità, proprio perché sembra tragicamente impossibile. Tutto ciò che di costituzionale esiste viene stracciato, giorno dopo giorno. Tutto ciò che di umano sta nelle nostre vite viene negato, contraddetto quotidianamente. Ciò che si sostituisce alle Costituzioni, e alla umanità, è la potenza della mercificazione, che parte dal mercato per andare oltre il mondo delle merci, per rendere merce l’intero mondo, umanità e vita compresi. La potenza del pensiero unico, che rende impensabile, o illegale, l’idea stessa di qualcosa che sia altro da sé. Libertà, uguaglianza, fraternità sostituite con la trimurti controrivoluzionaria di dipendenza (al mercato), competitività (per il mercato), odio (per chi pensi possa minacciare il tuo posto nel mercato). Eppure c’è stato un momento in cui l’idea di una democrazia dell’umanità si è affacciata. Dopo la seconda guerra mondiale, l’orrore totale del nazismo disposto all’olocausto per sostituire l’umano con l’ariano e i funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki, l’Onu provò a indicare un cammino. Se leggiamo nelle sue carte troviamo ad esempio che c’è un diritto di asilo universale per donne e uomini che fuggono dalle guerre. E c’è un diritto universale a muoversi senza confini per cercare lavoro e una vita migliore. Sono diritti dell’umanità che si chiedeva alle istituzioni del mondo di recepire e di far vivere. D’altronde era viva la coscienza delle centinaia di milioni di persone che avevano migrato nel 900 delle guerre e dell’edificazione del capitalismo moderno. A vedere la realtà di oggi non si può che provare angoscia e rabbia, per come questi due diritti scritti siano oggi calpestati. Anzi, vilipesi perché di vilipendio si tratta in quanto si straccia ciò che scriveva una coscienza democratica che provava a farsi democrazia globale. I profughi con le guerre militari e commerciali, i migranti schiavizzati nel mercato globale della merce lavoro: il capro espiatorio per i nuovi lager. E sempre dell’Onu è figlia la Carta di Kyoto per la salvezza del pianeta. Il Protocollo di Kyoto nato dalle conferenze sulla Terra e cioè dal provarsi dell’umanità a prendere atto delle proprie responsabilità di specie, chiamando il potere a risponderne. Tuttavia le Resistenze ci sono. I grandi movimenti alter-globalisti, pacifisti e dei beni comuni. Il "restiamo umani" con cui Vittorio Arrigoni ci ha illuminato sull’esistenza di un irriducibile cui appellarsi. Il "rivolgersi al Mondo degli scarti" come leva di liberazione di Papa Francesco. Ma la politica appare invece morta, suicidata. Eppure essa ci manca, dovrebbe aiutarci ad affrontare i problemi giganteschi dell’epoca nostra, quelli di una umanità che rischia di essere breve parentesi della vita del pianeta. Ma la politica, che si è suicidata, può rinascere solo se si dà un imperativo categorico, un apriori non negoziabile, il solo capace di riportarla in vita. E questo imperativo vale per tutti e per ciascuno e cioè è politico in quanto singolarmente e collettivamente irrinunciabile. È la rottura con la mercificazione della vita e la militarizzazione del mondo. È la riconciliazione dell’umano con il vivente. Ci dice Papa Francesco che la chiesa stessa non può più "accompagnare" la politica come ha sempre, e spesso colpevolmente, fatto. Perché l’umano per riemergere da scarto deve resuscitare la politica ripartendo dal proprio essere irriducibile a tornare a farsi costituente. Costituente di un nuovo potere della comunità umana, del popolo, una democrazia dell’umanità planetaria. Che si dona la propria carta da scrivere insieme e che inizia con "L’umanità ripudia le guerre e dichiara illegale la povertà (e non i poveri)". Terrorismo. Dopo Barcellona l’allerta in Italia non cambia di Francesco Grignetti La Stampa, 19 agosto 2017 L’attenzione è "altissima", ma in fondo era già così e quindi il livello di allerta delle nostre forze di polizia e d’intelligence non cambia. È stata lunga e minuziosa la riunione straordinaria al Viminale del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo dedicata al dopo-Barcellona, alla presenza anche di due ufficiali spagnoli, rappresentanti della sicurezza di Spagna a Roma. Scontata la più "ferma condanna per l’atto terroristico", il cordoglio per le vittime, l’augurio di una pronta guarigione per le persone rimaste ferite. L’Italia si sente dunque minacciata al pari degli altri Paesi europei. E di questo hanno parlato nel corso della riunione: della dinamica spagnola, dello scenario internazionale in evoluzione, del nostro Paese. La conclusione è che "il livello della minaccia non cambia per l’Italia". Se Barcellona insegna qualcosa, è che i luoghi affollati di turisti sono obiettivi privilegiati del terrorismo jihadista. Ormai colpiscono nel mucchio solo per fare più vittime innocenti. E colpiscono con mezzi rudimentali: un furgone lanciato sulla folla, un coltello da cucina. La prevenzione c’è ed è attenta. Ma se si può migliorare ancora, è sulla strada. Perciò il ministro Minniti ha chiesto formalmente di "tenere elevato il livello di vigilanza", rafforzando ancor di più le misure di sicurezza a protezione degli obiettivi ritenuti più a rischio, ad esempio non lesinando sugli ostacoli fissi che possono bloccare la corsa di un automezzo tra i passanti, "nonché verso i luoghi che registrano particolare affluenza e aggregazione di persone". In fondo è quello che si è visto all’opera in occasione del maxi concerto di Vasco Rossi. I terroristi puntano ai luoghi di aggregazione. Vogliono insanguinare le vacanze degli europei. Ed è nei luoghi di svago, sui viali della movida, nelle città d’arte, che bisogna essere più vigili che mai. Verrà emanata presto una nuova circolare ai prefetti affinché, attraverso i comitati provinciali per l’ordine e sicurezza pubblica, si faccia un ennesimo monitoraggio degli eventi in programma, magari anche quelli minori, che dovranno poi essere esaminati con cura dalle questure per tutti gli aspetti della sicurezza. A queste riunioni, provincia per provincia, saranno quindi invitati anche i sindaci (che ben conoscono il territorio, i luoghi di ritrovo, gli appuntamenti di fine estate). Ci si aspetta anche una buona sinergia con le polizie locali. Tutti sono chiamati a dare una mano e soprattutto a scambiarsi informazioni: il radicalismo è in agguato dappertutto, sarebbe un delitto lasciar correre qualche segnale inquietante. Il furto di un furgone, per dire, può essere opera di un balordo, oppure il segnale di qualcosa di più grave in preparazione. Sindaci e vigili urbani, specie nei piccoli centri, possono diventare preziose sentinelle. Terrorismo. Controllo del territorio ed espulsioni, così l’Italia lotta contro il radicalismo di Francesco Grignetti La Stampa, 19 agosto 2017 La strategia di sicurezza del nostro Paese si basa su una rete investigativa capillare. Digos nelle moschee e polizie locali con le orecchie aperte: 67 islamisti espulsi nel 2017. Nell’Italia dei mille campanili, dove per fortuna non esistono santuari fuori controllo (vedi le banlieu parigine), molta lotta al radicalismo islamico si fa ancora alla vecchia maniera, cioè con i marescialli dei carabinieri che tengono occhi e orecchie aperte. O con gli investigatori delle Digos che sono di casa nelle moschee. Prima di tante diavolerie tecnologiche, che pure si utilizzano a piene mani, l’Antiterrorismo in salsa italiana procede soprattutto con il fattore umano. Con l’ascolto di tutto e di tutti. Con gli spifferi dal basso come con le segnalazioni dall’alto. Il tutto confluisce nel famoso Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo. Un tavolo riservatissimo dove si confrontano gli esperti delle polizie e dei servizi segreti, più le forze armate. Si è riunito anche ieri in forma straordinaria, alla presenza del ministro Marco Minniti, con ospiti due ufficiali dell’Antiterrorismo spagnolo, e al termine il Viminale ha comunicato che "anche se l’attenzione rimane altissima, il livello della minaccia non cambia per l’Italia". Verrà presto emanata una circolare da parte del Capo della polizia, però, per ricordare a questori e prefetti di vigilare come non mai sugli obiettivi più a rischio, i luoghi dove c’è particolare affluenza di turisti, i centri di aggregazione giovanile, le città d’arte, gli eventi estivi. I risultati della vigilanza si vedono dai numeri: al 31 luglio, sono stati 67 gli islamici che il ministro dell’Interno ha espulso per motivi di sicurezza dello Stato. Quella di espellere gli stranieri sospetti, riaccompagnandoli a casa e affidandoli alla polizia locale, è una vecchia strategia con ormai quindici anni di applicazione. Risale ai tempi dell’allora ministro Beppe Pisanu. Ma mai come con Minniti si è spinto il pedale dell’acceleratore, essendo aumentate dell’81% in un anno. E fa impressione leggere che in sette mesi sono state controllate 190.909 persone (contro 77.691 dello stesso periodo nel 2016) e sono stati ispezionati 65.878 veicoli (contro 19.693). Controlli mirati. Ecco, la strategia italiana è questa: passare di continuo le reti nell’acqua dove i terroristi islamisti potrebbero nuotare. Si esplora incessantemente l’area grigia. S’interviene immediatamente a spegnere focolai di radicalizzazione. Ogni espulso - perché esultava dopo un attentato, perché esprimeva odio verso gli infedeli, perché inneggiava alla Jihad - può essere un aggregatore di altri soggetti, magari deboli, magari psicolabili, magari sbandati, che poi di punto in bianco si trasformano in assassini. Gli italiani, come racconta una qualificatissima fonte del settore che preferisce l’anonimato, si sono distinti fin dagli Anni Novanta nel reprimere le reti logistiche di quello che all’epoca era il gruppo terroristico più preoccupante, il Gia (Gruppo Islamico Armato), un movimento insurrezionale che in Algeria era sul punto di prendere il controllo del Paese. In Italia furono sgominate cellule algerine, tunisine, egiziane. "E gli algerini non se ne sono mai dimenticati". Si sottintende che molte preziose informazioni arrivano da lì come da altri Paesi arabi i cui regimi sono nel mirino: Tunisia, Egitto, Marocco, Giordania. Nel tempo, poi, i gruppi islamisti sono mutati. C’è stata la fase contrassegnata da Al Qaeda, poi dal Califfato. "Ma ora che Isis sta perdendo il controllo del territorio, non dobbiamo più guardarci da uno Stato terrorista, con impressionanti capacità di propaganda proselitismo e addestramento". Il pericolo, per come la vede chi opera sul campo, è essenzialmente di 3 tipi: le cellule strutturate che prendono ordini dalla casa madre, i reduci che prima o poi cercheranno di rientrare in Italia, i "lupi solitari" che fanno tutto da soli chiusi davanti a un computer. Per le cellule, si cerca di ricostruire le loro reti di comunicazione: è quello il punto debole. Per i reduci, si fa opera di prevenzione e di intelligence classica. Per i solitari, "è indispensabile cogliere l’attimo in cui mutano atteggiamento e compagnie. Abbiamo visto che spesso sono malavitosi comuni o comunque persone occidentalizzate che velocemente tagliano i ponti con il passato. Qui l’Italia dei campanili ci aiuta perché un segnale del genere è più facile da intercettare nella scuola, o sul luogo di lavoro, o nella piazza del paese". A quel punto scattano indagini mirate, pedinamenti, intercettazioni. L’esito finale spesso sono le espulsioni. E il giorno dopo si ricomincia. Migranti. La strategia di Minniti per fermare gli arrivi che va da al-Sisi fino al clan dei Tebu di Floriana Bulfon L’Espresso, 19 agosto 2017 Il governo di Roma punta sull’etnia che controlla il deserto libico sudoccidentale per arginare i flussi. Ma, come spiega l’Espresso in edicola da domenica 20 agosto, c’è un filo rosso che porta fino all’Egitto e a Regeni. Cinquemila chilometri di sabbia che segnano il confine con Algeria, Niger e Ciad. Un’area di deserto e roccia grande quanto due volte l’Italia, in cui vivono tribù rivali in lotta per il controllo delle risorse economiche. La popolazione fatica, mancano medicine, scuole e lavoro e in tanti si danno al contrabbando: petrolio, armi ed esseri umani permettono profitti per migliaia di dollari al mese. Questo è il Fezzan, la porta d’accesso dell’Africa sub-sahariana verso l’Europa. Da qui, mentre nel Mediterraneo infuria la polemica sulle Ong, con tanto di uso politico dell’odio e della paura dei migranti, l’Alta Commissione della tribù dei Tebu, ha comunicato "per la durata di un mese il fermo impegno e la seria intenzione di annientare i criminali e di contrastare l’immigrazione clandestina e il terrorismo nelle zone delle frontiere". Il "popolo della roccia" che vive lungo il confine meridionale della Libia l’ha definita "una coraggiosa decisione" mettendo in chiaro il loro ruolo: "la chiave della soluzione dei problemi della migrazione si trova nelle nostre mani e da nessun’altra parte". È un segnale rispetto al tortuoso percorso intrapreso dal ministro dell’Interno Marco Minniti nel territorio del Sud. Non a caso i Tebu hanno citato la visita del marzo scorso a Roma, quando in un’atmosfera top secret nella sala del consiglio del Viminale le tribù trovarono un accordo di pace. L’incontro segnò la riconciliazione tra i Tebu e gli Awlad Suleyman. Insieme ai Tuareg hanno garantito di unire le forze contro trafficanti e terroristi. L’hanno ribadito anche a maggio, tanto che Minniti ha parlato di "rapporto di reciproca fiducia" con i guardiani del deserto del Sahara. Migranti. Il boom di razzismo nell’estate degli sbarchi in calo di luigi la spina La Stampa, 19 agosto 2017 La contraddizione, anche senza scomodare Hegel, è rivelatrice di una realtà in modo più significativo di una banale coerenza. Questa osservazione, che la comune esperienza di vita insegna meglio di qualunque teoria filosofica, si potrebbe davvero applicare alla contemporanea comparsa di due notizie. La prima riguarda l’accentuarsi, in agosto, di quella tendenza a una forte diminuzione di sbarchi d’immigrati sul nostro territorio. Se a luglio, infatti, era calata di oltre il 50 per cento rispetto all’anno scorso, i dati delle prime due settimane del mese indicano che il fenomeno non solo sembra confermato, ma si rafforza ulteriormente. Non bisogna, naturalmente, utilizzare questi numeri per frettolose conclusioni, perché le ondate migratorie seguono ritmi determinati da varie cause, ma l’impressione che le iniziative del ministro Minniti sul fronte libico incomincino a dare qualche frutto potrebbe essere fondata. Di fronte a cifre un po’ più rassicuranti sull’affollamento di migranti che cercano di arrivare sulle coste italiane, sembrano infittirsi i casi di razzismo, più o meno velato, più o meno ipocritamente giustificato, che le cronache ferragostane ci raccontano. Dopo il rifiuto di far cantare al "Verona Music Festival" una ragazzina di cittadinanza italiana, ma di colore, ieri si è saputo che a Margherita di Savoia, nel Barese, è stata negata la casa a coniugi italiani, ma di origine cubana. Nei giorni scorsi, si erano ripetuti altri casi di donne escluse dal mondo del lavoro a causa del colore della loro pelle. La sensazione che l’intolleranza a sfondo razziale sia in aumento nel nostro Paese, se dovesse essere confermata nei prossimi mesi, è piuttosto allarmante, perché è sicuramente falsa l’opinione che il fenomeno migratorio sulle nostre coste si possa fermare. Il problema è di così vaste e complesse dimensioni che potrà e dovrà essere controllato e regolamentato sia in sede governativa, sia e soprattutto, auspicabilmente, in sede europea. Ma concepire e divulgare l’idea che sia praticabile un completo blocco di tali ondate migratorie vuol dire alimentare colpevolmente nell’opinione pubblica una illusione foriera di gravi pericoli. Lo scarto, allora, tra una tendenza alla diminuzione degli arrivi e l’impressione di una più diffusa intolleranza verso gli immigrati, anche quelli con la cittadinanza italiana, si può spiegare, innanzi tutto, con i tempi, molto più allungati, tra reale andamento dei flussi in arrivo dall’Africa e percezione che gli italiani hanno dell’attuale tendenza. La diversa consapevolezza del fenomeno, però, non basta a rassicurare su un futuro miglioramento del clima d’accoglienza in Italia. È necessario, perché davvero si possa raggiungere tale risultato, che a una efficace azione governativa si affianchi una più generale opera di sensibilizzazione culturale di tutta la classe dirigente del nostro Paese. Una campagna di opinione, seria e responsabile, che, come ha scritto sul nostro giornale il professor Orsina qualche giorno fa, riconosca e affronti i due opposti aspetti dell’immigrazione nelle conseguenze per la società italiana: da una parte, il valore per il sostegno alla nostra economia e il mantenimento dell’attuale welfare pensionistico e, dall’altra, il rischio di un aggravamento delle condizioni di sicurezza per i cittadini. Senza ipocrisie buoniste, ma pure senza una irresponsabile propaganda di dati falsi per alimentare immotivate paure xenofobe, il fenomeno migratorio può essere controllato fino all’obbiettivo sperato, cioè che quella contraddizione si risolva favorevolmente, con minori arrivi e più disponibile accoglienza. Nigeria. "Se non ci convertivamo, ci davano fuoco. Così siamo sopravvissute a Boko Haram" di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 19 agosto 2017 In un diario il racconto di alcune delle 276 ragazze tenute prigioniere dai miliziani jihadisti. "Se non vi convertite all’Islam, vi cospargiamo di benzina e vi diamo fuoco". Si apre così il diario scritto da Naomi Adamu e Sarah Samuel, due delle 276 liceali rapite dal gruppo jihadista Boko Haram nel villaggio di Chibok nel Nord-est della Nigeria nell’aprile del 2014. Naomi, dopo una lunga trattativa tra il Governo ed i miliziani, è stata liberata lo scorso maggio insieme ad altre 80 delle "Chibok girls" e si trova ora in un "centro di recupero" nella capitale Abuja. Un luogo segreto dove sono sottoposte a cure psicologiche e a programmi di de-radicalizzazione, dato che alcune di loro sono state indottrinate dal gruppo terrorista. Al contrario Sarah, privata per giorni di acqua e cibo, per evitare di morire di fame e sete ha accettato di sposare uno dei guerriglieri e si crede sia ancora ostaggio nella foresta di Sambisa, roccaforte di Boko Haram. "Eravamo in preda al panico, ma non volevamo convertirci, ci hanno buttato un liquido addosso, poi sono scoppiati a ridere e abbiamo capito che non era benzina ed eravamo salve", scrivono Naomi e Sarah, nelle pagine del diario ottenuto in esclusiva dalla Thomson Reuters Foundation. Un racconto quotidiano, realizzato sui quaderni in cui avrebbero dovuto trascrivere i testi coranici e che nascondevano sotto il velo nero oppure interravano per evitare che i propri carcerieri lo trovassero. "Un giorno, cinque di noi sono scappate, ma i militanti le hanno riprese, legate, e dopo aver scavato una fossa mi hanno dato una sciabola e ordinato di tagliar loro la testa, altrimenti l’avrebbero fatto a me - scrive Naomi nel suo diario -. Li ho supplicati in ginocchio e le hanno graziate". Dalle pagine scritte in parte in inglese in parte in hausa, lingua simile all’arabo parlata nel Nord-est della Nigeria, emerge la durezza della prigionia: abusi sessuali, lavori forzati, addestramento militare ed indottrinamento religioso. Di notte, il pensiero fisso delle liceali era la fuga, sapendo di rischiare la vita. "Dopo vari tentativi alcune ragazze sono riuscite a scappare; arrivate in un negozio hanno chiesto aiuto presentandosi come le ragazze di Chibok, ma il proprietario, dopo averle tranquillizzate, a tradimento le ha riportate nella foresta spiegando loro che sono di proprietà di Abubhakar Shekau (il leader sanguinario di Boko Haram, ndr). I miliziani per punizione le hanno picchiate quasi a morte" - racconta Naomi nel diario. "Per noi è stato uno strumento di conforto, di speranza, l’unico momento di svago, quando una di noi era stanca, passavamo carta e penna ad un’altra che continuava a scrivere", ha detto Naomi dal centro di riabilitazione. E pensare che il rapimento delle "Chibok girls", trasformatosi nell’evento che, grazie alla mobilitazione dell-ex first lady Michelle Obama con l’hashtag #bringbackourgirls, ha messo sotto i riflettori Boko Haram, non era affatto programmato. Dalle pagine raccolte dalla Thomson Reuters Foundation emerge, infatti, che i guerriglieri erano alla ricerca di materiale per la costruzione dei loro accampamenti militari. Imbattutisi nelle ragazze dopo una serrata discussione avrebbero deciso di rapirle e di lasciar decidere le loro sorti al leader del gruppo jihadista Shekau. Oltre alle 82 liceali liberate a maggio dopo uno scambio con alcuni dei miliziani arrestati negli anni passati, altre 21 ragazze erano state rilasciate ad ottobre 2016. All’appello mancherebbero ancora 113 ragazze, le cui sorti sono ancora un mistero. A cui va aggiunta la testimonianza di Zannah Mustapha, avvocato e mediatore nelle trattative tra governo e guerriglieri. "Alcune di loro sarebbero potute essere liberate, ma hanno deciso di rimanere con i jihadisti, forse perché sono state indottrinate, oppure per la vergogna di tornare a casa", ha detto Mustapha alla Thomson Reuters Foundation. Una linea di demarcazione sempre più difficile da tracciare, resa ancora più vaga dalla recente denuncia dei vertici dell’esercito nigeriano, secondo cui alcuni genitori avrebbero donato le proprie figlie al gruppo terrorista come contributo alla causa per cui nacque Boko Haram: redistribuire le ricchezze nelle regioni povere Nord-orientali. Probabilmente ignari della deriva presa dal gruppo jihadista con l’arrivo al potere di Shekau, hanno di fatto condannato a morte le proprie figlie, dato che più di cento sono state usate come bombe umane nei numerosi attentati nei mercati e nei villaggi. Il Presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari ha più volte ripetuto di aver "tecnicamente sconfitto" Boko Haram. Ma i miliziani, soprattutto nelle ultime settimane, dopo la scissione in due fazioni del gruppo jihadista, una guidata dal più "clemente" Abu Musab Al-Barnawi, hanno ripreso a terrorizzare i villaggi del Nord-est del Paese entrando anche nei campi di sfollati interni dove sono rifugiate due milioni di persone. Dal 2009 ad oggi il numero delle vittime ha superato quota 25mila. Venezuela. L’assemblea costituente di Maduro esautora il Parlamento di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 19 agosto 2017 L’organismo voluto fortemente dal presidente ha assunto tutte le funzioni e i poteri legislativi. Intanto dalla Colombia l’ex procuratore Ortega Diaz denuncia: "Ho le prove di casi di corruzione che coinvolgono il presidente". Il cerchio è chiuso. Con un decreto disposto dalla presidente Delcy Rodríguez, già tumultuosa ministro degli Esteri e fedele chavista, la neonata Assemblea Costituente azzera le competenze del Parlamento venezuelano e si assume il potere di legiferare su temi di ordine pubblico, sicurezza nazionale, diritti umani, sistema socio-economico e finanze. Sarà il vero organo legislativo del Paese e diventa nei fatti una sorta di Consiglio dei ministri alle dirette dipendenze del presidente Nicolás Maduro. Un passaggio contestato dagli Stati Uniti La decisione è stata annunciata dalla stessa Rodríguez nel corso di una sessione del nuovo organismo deliberante. Come gesto di facciata, la presidente aveva convocato alla riunione i membri della Giunta Direttiva dell’Assemblea nazionale (il Parlamento) puntando in questo modo a far accettare anche ai deputati eletti democraticamente nel dicembre del 2015 nell’emiciclo dominato dall’opposizione quello che Maduro, poco prima aveva definito "l’unico potere plenipotenziario, sovra-costituzionale e originale" della Costituente. Come era prevedibile, gli esponenti del Parlamento non hanno accettato la provocazione e non si sono presentati all’appuntamento. Pochi minuti prima che iniziasse la sessione hanno emesso un comunicato nel quale spiegano che "non compariremo davanti alla fraudolenta assemblea nazionale costituente e non avalleremo una chiara violazione della Costituzione del 1999". La Rodríguez non si è scomposta. Anzi, di fronte al boicottaggio, ha fatto promulgare il decreto che prevede una "convivenza" tra i due organismi. Poi ha avvertito: "Ma questo non lo faremo per prestare il fianco alla destra". Il termine "convivenza" appare nel testo del provvedimento. Ma si tratta di un eufemismo, visto che il vero potere per deliberare sui temi chiave della vita del Paese è affidato esclusivamente all’Assemblea costituente appena eletta. Il Parlamento non viene sciolto ma il suo ruolo viene sterilizzato ad un semplice foro di dibattito. Nel migliore dei casi. Chi varerà i provvedimenti su materie fondamentali, come la sicurezza interna, i diritti umani e detterà le linee di politica economica e finanziaria saranno i 545 membri insediati due settimane fa, dopo 4 mesi di battaglie furibonde in tutto il Venezuela, oltre 130 morti e 5.000 detenuti politici. Il decreto, nei fatti, porta a termine quello che alla fine del marzo scorso aveva cercato di imporre il Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ), quando l’idea di un’Assemblea Costituente non era ancora nei piani di Maduro. Varato e subito revocato per l’intervento del procuratore generale Luisa Ortega Díaz che lo considerava incostituzionale, il provvedimento era stato svuotato del suo contenuto e aveva continuato a lasciare intatte le prerogative del Parlamento. I diversi tentativi di esautorare il potere legislativo in mano all’opposizione erano già iniziati pochi mesi dopo le ultime elezioni politiche. Il presidente del Venezuela aveva dichiarato ineleggibili sei deputati dello Stato dell’Amazzonia e il Tribunale Supremo Elettorale, legato al regime, gli aveva dato ragione. Il Parlamento è rimasto così confinato in un limbo di incertezza, senza poter legiferare, fino a quando l’opposizione, con un voto unanime ha incorporato nuovamente i deputati esclusi. Il resto è cronaca. L’inizio delle proteste, le durissime repressioni, i morti, i feriti, la valanga di arresti. Fino alla destituzione del procuratore ribelle, la proposta di una nuova Assemblea nazionale costituente, le elezioni-farsa. Oggi, l’ultimo passaggio del progetto: la fine del Parlamento. Ma intanto in un video l’ex procuratore Luisa Ortega Diaz ha detto oggi che dispone di prove su casi di corruzione legati alla multinazionale brasiliana Odebrecht "che coinvolgono Nicolas Maduro e il suo entourage". Il messaggio di Ortega Diaz, che è braccata dalla polizia di Maduro e si è rifugiata in Colombia fuggendo in barca, è stato inviato al vertice dei capi delle Procure dell’America Latina, che si è appena aperto oggi a Puebla, in Messico. Ortega Diaz ha sostenuto che i vertici chavisti "sono molto preoccupati, perché sanno che ho tutte le informazioni, i dettagli di ogni operazione e il nome di chi si è arricchito". L’ex procuratrice è fuggita insieme al marito, il deputato chavista German Ferrer, e due suoi collaboratori della Procura, tutti ricercati dalle autorità venezuelane. Ortega Diaz e Ferrer hanno prima raggiunto la costa caraibica del Venezuela e dalla penisola di Paraguanà hanno raggiunto in barca Aruba, da dove hanno preso un aereo privato che li hanno portati a Bogotà. Yemen. Arrestato attivista che racconta la guerra civile sui social di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 agosto 2017 Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto la liberazione immediata e senza condizioni di un attivista impegnato a nel diffondere notizie della guerra civile in Yemen, arrestato il 14 agosto a Sanaa dalle milizie sciite e Houthi e da quelle loro alleate fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh. Entrambe le organizzazioni per i diritti umani affermano che a Hisham al Omeisi è impedito ogni contatto con la famiglia o con un legale dal momento dell’arresto. Al Omeisi, 38 anni, è diventato famoso in Yemen grazie alla sua copertura sui social media prima degli eventi che nel 2011 portarono alla deposizione di Saleh, e poi del conflitto civile che oppone le truppe degli Houthi e di Saleh a quelle del governo riconosciuto internazionalmente del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi. Dallo scorso anno, denuncia Amnesty, lo Yemen ha visto un forte aumento di arresti arbitrari e sparizioni ad opera delle varie fazioni in guerra.