Perché molti detenuti stanno facendo lo sciopero del vitto nelle carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 18 agosto 2017 In alcune carceri hanno chiesto e ottenuto che i loro pasti siano devoluti a mense che si preoccupano di gente povera. Molte donne e uomini detenuti nelle galere italiane stanno digiunando o facendo lo sciopero del vitto. In alcune carceri hanno chiesto e ottenuto che il loro vitto sia devoluto a mense che si preoccupano di gente povera. Il digiuno è stato proposto dal Partito Radicale, che denuncia l’affollamento irrisolto e chiede in particolare la firma dei decreti di attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, che rischia altrimenti di essere rinviata fino a essere affossata. È una tradizione radicale quella di santificare le feste, e in particolare il Ferragosto, nelle carceri. Non so se l’iniziativa riuscirà a muovere qualcuno e qualcosa, e nemmeno se e quanto arriverà a essere conosciuta. Fra i risultati che merita di ottenere c’è l’eventualità che le persone comuni, anche quelle che vanno in vacanza e che non sono carcerate né carcerieri né Radicali, siano indotte per un momento a chiudere gli occhi, come si dice, per immaginare che cosa voglia dire un digiuno inaugurato in un carcere il 16 di agosto. A volte bisogna davvero chiudere gli occhi per vedere che cosa c’è dall’altra parte. Per "merito" dei giornali nessuno saprà che la criminalità è in calo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 agosto 2017 I giornali ignorano i dati del Ministero sui reati, perché questi dati smentiscono tutto quello che è stato raccontato nell’ultimo anno. L’Italia è diventato un Paese dove l’apparato dell’informazione è grandissimo, ma non informa. Avevamo scommesso, ieri - rischiando poco - che i giornali non avrebbero dato grande spazio alla notizia del giorno. La notizia del giorno (come può confermarvi qualunque giornalista straniero, se glielo chiedete) era quella sul crollo del tasso di criminalità in un paese nel quale da diversi anni tutti i mass media gridano sempre all’aumento inarrestabile del tasso di criminalità. Siccome i manuali del giornalismo dicono che è notizia quando uomo morde cane e non quando cane morde uomo, l’altro giorno, con i dati forniti dal ministero che dicono che i reati sono scesi del 15 per cento, uomo ha morso cane. Comunque noi abbiamo perso la scommessa, perché eravamo certi che i giornali avrebbero dato poco spazio alla notizia (dato che un po’ conosciamo i nostri colleghi) e invece è successo che i giornali non hanno dato nessuno spazio alla notizia. Quasi tutti la hanno ignorata. Righe zero. Non solo i giornali dichiaratamente populisti, a partire dal Fatto, ma anche i grandi giornali indipendenti. E siccome ieri ci eravamo raccomandati, un po’ ingenuamente, che qualcuno informasse di questi dati il professor Ernesto Galli della Loggia il quale recentemente ha scritto un articolo disperato sul "Corriere della Sera" lamentando il fatto che lo Stato ha perso ogni controllo del territorio, a favore della delinquenza e dell’illegalità - ci siamo rimasti male. Nessuno lo ha informato. Noi volevamo solo fare in modo che sapesse che invece il controllo del territorio, in pochi giorni, è stato ampiamente riconquistato. Niente da fare. O il professor Galli della Loggia legge Il Dubbio, e la cosa ci farebbe molto piacere, e sarebbe in fondo anche utile, oppure resterà all’oscuro del nuovo scenario e continuerà a spiegare ai suoi studenti che l’Italia è un paese dove la criminalità dilaga. E non è un bene per i suoi studenti ricevere informazioni inesatte. Sì, d’accordo, stiamo scherzando, anche perché in realtà - nonostante questo tono polemico - abbiamo una notevole stima per il professor Galli, che quando non si lascia prendere dalla tentazione del lamento da bar, dice e scrive cose molto interessanti sul nostro paese e sulla sua classe dirigente e sulla sua storia intellettuale. Però stiamo scherzando fino a un certo punto. Non è un piccolo problema quello di un paese che dispone di un enorme apparato informativo ma non dispone di informazioni. Giornali e Tv sono diventati della appendici a pagamento dei social, e i social sembrano sempre di più la nuova dimensione del gossip. Persino le università, da quel che si capisce, entrano in questo vortice, e così, a parte pochi istituti di studio - che si applicano a conoscere e valutare la realtà ma che non hanno nessuna interfaccia mediatica - non esistono strutture in grado di fornire una informazione veritiera e approfondita sulla realtà sociale. Di conseguenza nasce una contrapposizione tra realtà reale e realtà percepita - come diceva l’altro giorno proprio il ministro Minniti - che crea dei veri e propri corti circuiti nel funzionamento fluido dell’opinione pubblica. Il risultato è uno spirito pubblico malato. E uno spirito pubblico malato produce populismo malato. Il problema non è l’esistenza di movimenti populisti, che sono sempre esistiti e che in genere svolgono una funzione utile, di critica e di sentinella del potere. Il problema è la degenerazione del Dna del populismo. E questa degenerazione è provocata dalla frattura tra realtà e percezione sociale. E non solo. Anche da veri e propri elementi di disonestà intellettuale, come quelli segnalati nell’articolo di Francesco Damato che pubblichiamo qui sopra. Il quale osserva come i nostri organi di informazione moltiplichino ogni clamore quando qualcuno viene arrestato, e spengano il loro interesse se viene scarcerato o assolto. Di chi è la responsabilità maggiore? Del giornalismo ovviamente, che sembra proprio essersi venduto l’anima, come non era mai successo dai tempi del fascismo. E della politica, dove vince la timidezza e talvolta la vigliaccheria. La colpa non è di Grillo. Grillo nuota assai bene in questa melma prodotta dalla assenza di informazione. Ma non ha creato lui la melma. Grillo insulta i giornalisti e i politici, ma i giornalisti e i politici sono i suoi funzionari più fedeli. Se poi li scarcerano niente prima pagina... di Francesco Damato Il Dubbio, 18 agosto 2017 Alfredo Romeo viene scarcerato, il caso Consip perde appeal e quasi nessuno ne dà notizia, mentre il fatto incalza l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi sulla vicenda Regeni. Quella della scarcerazione di Alfredo Romeo, disposta dal tribunale di sorveglianza di Roma su rinvio della Cassazione, dopo cinque mesi e mezzo fra detenzione in carcere e a casa, per la intricatissima vicenda Consip, non è stata considerata degna della prima pagina, neppure per un richiamo minimo, di quelli di poche righe, né dal Corriere della Sera, né da Repubblica, né dalla Stampa, né dal Messaggero, né dal Giornale, né da Libero, né da La Verità, né dal Tempo, né dai giornali del gruppo Monti Riffeser - Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione - né da Avvenire, né dal Manifesto e tanti altri. Scusate la lunghezza e puntigliosità dell’elenco, ma il problema mi sembra abbastanza serio per richiedere una certa precisione. E per riproporre l’ormai antica e sempre più grave questione del rapporto fra informazione e giustizia. Che non è meno grave della questione dei rapporti fra politica e giustizia, o viceversa. Se confrontiamo le prime pagine dei quotidiani di quando Alfredo Romeo fu arrestato, e presentato come un imputato chiave delle indagini sugli appalti della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, e quelle sostanzialmente omissive della scarcerazione, c’è davvero da chiedersi che cosa è diventata la professione di giornalista, se la vogliamo chiamare ancora così, come vorrebbe l’esistenza di ordini, albi e quant’altro. L’arresto fece notizia soprattutto per la speranza, coltivata nel solito intreccio di redazioni e procure della Repubblica, di vedere più compromessi nelle indagini, anche con misure clamorose, personaggi ancora più attenzionati, come si dice in un gergo assai brutto, a cominciare naturalmente dal padre di Matteo Renzi, Tiziano. Di un incontro col quale Romeo era sospettato per fare o subire affari relativi alla Consip sulla base di un’intercettazione rivelatasi poi farlocca, anzi manipolata, di cui dovrà rispondere un capitano dei carabinieri che lavorava col pubblico ministero, a Napoli, Henry John Woodcock. Oltre a noi del Dubbio e ai colleghi del Foglio hanno avvertito la necessità di sistemare in prima pagina la notizia della scarcerazione di Alfredo Romeo, che negli ultimi quarantacinque giorni di arresti domiciliari aveva peraltro anche il divieto di ricevere o fare telefonate ai figli, nella redazione del Fatto Quotidiano. Dove probabilmente è stata avvertita l’opportunità di un minimo di decenza informativa, dopo tutto quello che il giornale diretto da Marco Travaglio ha scritto dell’inchiesta Consip disponendo di informazioni, diciamo così, di prima mano necessariamente provenienti dagli uffici inquirenti o dintorni. Ma a questo scrupolo informativo, tradottosi in un titolo discorsivo sistemato sulla testata, Il Fatto Quotidiano ha ritenuto di aggiungere una versione delle ragioni della scarcerazione di Romeo a dir poco parziale. Una scarcerazione quasi ovvia, scontata perché l’imputato "non può più inquinare le prove, né delinquere", cioè ripetere i reati contestatigli di corruzione, né voglia di fuggire. In realtà, secondo anche le valutazioni della Corte di Cassazione che hanno obbligato il tribunale del riesame di Roma a riaprire una questione che aveva sbrigativamente liquidato in prima battuta, la scarcerazione di Romeo è avvenuta per la insufficienza e contraddittorietà degli elementi di accusa. Ma questo naturalmente ai lettori, almeno di prima pagina, non andava e non va raccontato. Va invece raccontato che "l’inchiesta a Roma prosegue, si spera", come si legge appunto nel titolo discorsivo del Fatto Quotidiano, con quel "si spera" che la dice lunga sulla sproporzione fra le attese del giornale di Travaglio e gli sviluppi reali della vicenda Consip. Costretti a ripiegare sulle pagine interne, i giornali attratti dalla moda di intrecciare cronache giudiziarie e politiche hanno nel frattempo trovato spazio per un altro processo mediatico da improvvisare, avendo come obiettivo non certamente casuale lo stesso personaggio che era e un po’ è ancora rimasto il convitato di pietra della vicenda Consip. È naturalmente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, cui proprio Il Fatto ha rivolto le solite domande da pubblica accusa sulla vicenda di Giulio Regeni, sulle informazioni ricevute a suo tempo dal governo americano circa le responsabilità egiziane nell’assassinio del giovane ricercatore italiano e infine sul ruolo che può avere avuto, dietro le quinte, il segretario del Pd nella decisione di ripristinare normali rapporti diplomatici con un governo e un Paese dove si stanno decidendo cose che toccano l’Italia da vicino, molto da vicino. Come chiodo schiaccia chiodo, così un processo mediatico schiaccia l’altro. Il web, gli insulti e le sanzioni di Andrea Orlando* Corriere della Sera, 18 agosto 2017 Che il tema dell’hate speech sia controverso lo prova un fatto. Tempo fa, intervenendo sul Foglio, fui accusato non solo dai troll della rete e dal sacro blog, ma persino da un esponente del governo, di volere la censura. Le stesse considerazioni proposte nell’intervista al Corriere hanno suscitato un commento di Severgnini, che mi accusa di abdicare al contrasto all’odio. Come ho detto nell’intervista, bene ha fatto la Boldrini a denunciare gli odiatori e sono convinto "che gli strumenti della repressione penale devono adeguarsi al cambiamento". Da ministro l’ho indicato alla Scuola della magistratura come uno degli obiettivi. Se vogliamo fare progressi, però, bisogna dire quali sono i limiti che la giustizia incontra sulla rete. La conclusione di un processo, anche in Paesi con tempi più celeri dei nostri, giunge, per assicurare le necessarie garanzie, quando gli effetti dei contenuti si sono già diffusi in rete in modo virale. I reati che più spesso vengono commessi online sono a querela di parte. Cioè, bisogna che il soggetto interessato sappia di aver subito un danno. Non sempre è così. E non si può pensare, per l’immenso numero dei contenuti potenzialmente offensivi, che il pm possa procedere d’ufficio. Inoltre, sulla rete esistono spesso problemi di competenza territoriale per la natura transazionale del web e l’incertezza delle identità. Questo non ci esonera dal dare nuovi strumenti alla giustizia, ma ci spinge verso altre strade. Per questo, la Commissione Ue ha stipulato, su impulso nostro e della Germania, un accordo per la rimozione dei contenuti e l’eliminazione dei profili. E ciò significa affermare la responsabilizzazione dei gestori della rete, che non sono solo dei veicoli e devono assumere il controllo di ciò che mettono in circolazione. Ad integrazione e non in sostituzione della giustizia. Peraltro, nessun patto sociale si regge solo sulla paura delle sanzioni. I comportamenti, non sono solo determinati dai codici, sono la conseguenza del senso comune e del sistema di convenienze che connotano la società. E queste, a loro volta, sono il frutto di azioni sociali, politiche e culturali. Se è vero che la rete riflette ed è parte della realtà, allora non sfugge a questo dato. *Ministro della Giustizia Gentile signor Ministro, nell’intervista al Corriere (15 agosto) lei ha detto che "le Istituzioni devono restarne fuori". Leggendo questa lettera, vedo che ha capito: le Istituzioni, in questa brutta faccenda, sono dentro fino al collo. Nessuna società può reggere se un uomo incita allo stupro di una donna, firmando con nome e cognome, senza subire conseguenze. Le sanzioni non risolvono tutto; ma qualcosa sì. Vedrà che dopo le prime condanne penali, i malvagi digitali si calmeranno. Facebook & C. collaborano poco? Facciamo come la Germania: milioni di euro di multa. Vedrà se non cambiano atteggiamento. Laura Boldrini, perfetto capro espiatorio di Bia Sarasini Il Manifesto, 18 agosto 2017 Sono solidale, ma. Dopo l’annuncio della presidente della Camera Laura Boldrini di voler procedere alla denuncia di chi la riempie di insulti di speciale ferocia sessista sul web, questo è l’esercizio più diffuso, tra politici e opinionisti. Solidarietà ma di malavoglia. L’elenco dei perché, fa cadere le braccia. Quasi di più degli auguri di stupro di gruppo, magari da parte di immigrati, e altro, tutti insulti pesantemente sessuali, i peggiori che si possano rivolgere a una donna. E che lei stessa, con coraggio e con sfida, ha ripreso, e ripubblicato, nel suo twitt. E si fa perfino sfoggio di cultura (Nicola Porro su Il Giornale), si scomoda la strega a propria insaputa descritta da Thomas Mann nelle pagine del Doktor Faustus, per dire che se lo va a cercare, tutto questo odio. Che lei non è consapevole di se stessa. Insomma, lo stereotipo della "maestrina", di chi pretende di guidare e non è capace, l’insopportabilità di una donna che dirige, esercita il proprio ruolo, manifesta le proprie opinioni. Esercizio di misoginia al massimo livello, espressione del maschilismo politico italiano mai venuto meno, fin dai tempi della Costituente. E mentre ribadisco qui tutta la solidarietà senza se e senza ma a Laura Boldrini, Presidente della Camera, istituzione della Repubblica - è inconcepibile che venga tollerato e alla fine giustificato che una donna che fa politica debba subire simili attacchi - rimane un mistero da sciogliere. Perché questi attacchi convergenti? Laura Boldrini è una donna pubblica. Non solo, è una donna pubblica che dal 2013 è stata eletta dalla Camera dei deputati a propria presidente. Sono questi i dati reali da tenere presente, per comprendere l’accanimento e la violenza degli attacchi che le sono rivolti. Via web e non solo. Tv, carta stampata, manifestazioni non si risparmiano. È sotto un tendone a Soncino, in provincia di Cremona, che nell’ottobre 2016 Matteo Salvini, il capofila dei suoi detrattori, presentò una bambola gonfiabile come una sua sosia. Prima di essere eletta Presidente della Camera, terza in Italia ad avere questo ruolo, dopo Nilde Jotti nel 1979 e Irene Pivetti nel 1984, Laura Boldrini era già nota, spesso in tv per il suo lavoro, come responsabile della comunicazione dell’Uhncr, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati. C’è da supporre che già allora in tanti non fossero d’accordo con lei. Ma è solo da quando è entrata, eletta da Sel, a far parte dell’odiata casta, e poi, eletta presidente, ha deciso di mettere se stessa, la propria posizione pubblica, a sostegno della causa delle donne, che si è scatenato il livore. Si è dichiarata donna e ha preteso di essere riconosciuta come tale. Non un neutro presidente, ma "la" presidente. E tutto quello che ne segue. Motivo di odio costante, per chiunque, nonostante le nuove norme per la lingua italiana dell’Accademia della Crusca. Insieme all’impegno contro il femminicidio, la riscrittura della storia comune facendo emergere anche nei simboli parlamentari la fondamentale presenza delle donne in politica. L’altra colpa è non avere mai dimenticato la propria storia e il proprio impegno, il sostegno ai migranti. La miscela è esplosiva e imperdonabile, in questa estate 2017. L’obiezione, sempre pronta, è: lei è la presidente, non sono d’accordo con le sue opinioni, e voglio poterlo dire. Ecco, queste sono critiche politiche, benvenute in democrazia e dialettica parlamentare. Richiedono argomenti, discussioni, riflessioni. Cosa c’entra con quello che twitta Rosangela Federici, sì, una donna: "Io la tua presidente della camera la farei i* dai suoi amici clandestini che protegge tanto"? Sessismo violento, cieco, impastato di razzismo, che attacca la donna importante, proprio in quanto donna. La vuole ricondurre all’ordine, sottoporla al dominio dei maschi a cui si sottrae. Il web, è ovvio, rende tutto più evidente e insopportabile, a mio parere esaspera ma non è la causa. Il punto è che questi sentimenti - mi sembra eccessivo chiamarli pensieri - esistono. È necessario guardarli, stabilire un limite. Per questo sono grata a Laura Boldrini, al coraggio delle sue denunce, #iostoconLaura. I "pentiti" di mafia? Utili, ma da maneggiare con cura di Vito Conte La Repubblica, 18 agosto 2017 Nell’ormai secolare "lotta" alle organizzazioni mafiose insistenti sul territorio italiano, un peculiare, ma al contempo decisivo, strumento di aggressione ai sistemi criminali è dato dai collaboratori di giustizia. L’utilizzo di tale ultima espressione si fa preferire in quanto l’unica deputata ad individuare compiutamente la posizione giuridica di quel soggetto che, indipendentemente dalle dinamiche etico-morali sottostanti alla decisione di "saltare il fosso", fornisce all’autorità giudiziaria elementi idonei a smantellare a colpi di sentenze i sodalizi criminali in questione, o comunque necessari a sostenere l’accusa negli instaurandi procedimenti penali. Si tratta a ben vedere di apporti conoscitivi spesso dirimenti nel processo accusatorio, vuoi per la centralità assunta dalla prova orale in tale sistema, vuoi per l’insondabilità delle logiche e delle strategie criminose mafiose, caratterizzate da un elevato sistema di impermeabilità datogli dalla durezza-solennità delle dinamiche di affiliazione e dalla forte radicazione nei territori in cui insistono. Tali caratteri inducono spesso a considerare le mafie come granitici sistemi di potere, mali inestirpabili a cui rassegnarsi, con cui imparare perlomeno a convivere. Ebbene, oggi come ieri il vero tallone d’Achille di questi "sistemi" quasi perfetti, sono i collaboratori di giustizia. Ciò perché la portata delle loro rivelazioni assume una centralità strategica per lo Stato, tanto in termini di aggressione giudiziaria, come detto, quanto come "lotta" sociale alle piaghe mafiose. Non bisogna sottovalutare infatti la portata dirompente delle verità emerse da quei racconti spesso agghiaccianti sulla fredda logica criminale. Testimonianze che hanno scosso a fondo l’opinione pubblica e le comunità interessate costituendo i germogli di quegli anticorpi mafiosi di cui tanto necessita la nostra nazione. Eppure, i pentiti erano e restano "un rimedio da maneggiare con cura", vuoi per quella naturale posizione di diffidenza da cui tanto il magistrato, quanto l’uomo comune, partono nell’approcciarsi a questi soggetti, vuoi per i rinnovati pericoli di strumentalizzazione provenienti da più fronti. Le motivazioni sono essenzialmente due. In primo luogo l’oggettiva difficoltà insita nel sondare l’animo umano: quale canone certo, o perlomeno apprezzabile da un punto di vista giuridico, può dirci se un soggetto è realmente pentito o ha fatto una mera scelta di convenienza? Per il secondo aspetto invece occorre evidenziare una carenza sistematica: l’irreversibile fino ad oggi, connotazione emergenziale del fenomeno. Uscire dall’impasse non è impossibile. Vi è un momento fondamentale infatti, in cui i due profili di doglianza vanno ad intersecarsi: la fase di reinserimento sociale. Solo il reingresso in società potrà disvelare la natura delle scelte, ci dirà in sostanza se quel dato collaboratore abbia agito per meri interessi premiali (sconti di pena, sussidi, protezione) oppure fosse determinato ad un reale cambiamento. Ma per essere attrattivo in questa definitiva scelta di campo lo Stato dovrà essere credibile; dovrà saper includere, sostenere chi fino a ieri viveva al di fuori di ogni principio democratico. Nella guerra di trincea che si combatte alle mafie insomma, nessuna strategia è più proficua del sottrarre uomini al nemico. Il tutto sta nell’approntare i mezzi giusti affinché tale mossa risulti vincente, cosa che purtroppo ad oggi sembra lontana dal concretizzarsi. No alle misure alternative al mega evasore che ripara con una cifra "ridicola" di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2017 Non merita le misure alternative alla detenzione chi, avendo evaso decine di milioni di euro, è disposto a riparare il danno solo con 10 mila euro. L’offerta di una cifra irrisoria dimostra che non c’è alcuna revisione critica del proprio passato, mentre al contrario, il "ravvedimento" può essere desunto anche dalla parziale riparazione al vulnus arrecato alla collettività con le proprie condotte. La Corte di cassazione, con la sentenza 39186 depositata ieri, respinge il ricorso dell’imputato che chiedeva di espiare presso i servizi sociali o ai domiciliari la pena seguita alla condanna per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di false fatturazioni e dichiarazioni fraudolente relative a operazioni inesistenti. Il no del Tribunale era fondato sull’indisponibilità del ricorrente a risarcire il danno cagionato con l’evasione alcune decine di milioni di euro. Secondo il Tribunale i guadagni conseguenti all’evasione non potevano essere andati tutti dispersi. E non era realistico pensare che la cifra messa a disposizione dell’erario dipendesse solo da una scarsa disponibilità economica e non fosse piuttosto il segnale di una totale assenza di "pentimento". Per il tribunale, infatti, il condannato intendeva gli strumenti di esecuzione alternativa della pena, non come un percorso di rieducazione ma solo, in un’ottica del tutto strumentale, come un modo per sottrarsi alla carcerazione. Il ricorrente da parte sua si rammarica per il fatto che il Tribunale di sorveglianza abbia dato tanto importanza al denaro, invece di valorizzare la sua disponibilità a fare volontariato. Secondo la difesa del condannato però l’errore maggiore commesso dal Tribunale della libertà, era stato quello di disattendere il costante orientamento della Suprema corte, secondo la quale il mancato o non integrale risarcimento del danno non può, di per sé, impedire la concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Inoltre, oltre a non aver approfondito le sue condizioni economiche, i giudici non avevano considerato la particolare natura della persona offesa: il fisco che non aveva avanzato alcuna richiesta di risarcimento. La Cassazione respinge il suo ricorso. I giudici della prima sezione ricordano che per il via libera all’affidamento in prova non basta l’assenza di indicazioni negative ma servono anche "indicatori" positivi. E tra questi c’è l’esistenza di un processo di revisione critica del proprio passato delinquenziale e l’intento di risocializzazione. Nella valutazione del giudice, non pesa solo la gravità dei reati commessi ma anche il comportamento del reo dal quale desumere una positiva evoluzione della personalità. Il ricorrente, offrendo pochi "spicci", ha dimostrato di non avere la volontà di riparare, neppure in parte, all’enorme evasione fiscale. Per i giudici i profitti del ricorrente non potevano essere, verosimilmente, inferiori ai 250mila euro. La Cassazione esclude il presupposto per tutte le misure alternative, domiciliari compresi. Scarcerazione per motivi di salute, il Tribunale deve incaricare indagini mediche autonome di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2017 Corte di Cassazione, Prima sezione penale, sentenza 39187 depositata il 17 agosto. Per decidere l’eventuale differimento di pena per motivi di salute - con la concessione degli arresti domiciliari - il tribunale deve disporre approfondimenti medici ulteriori e autonomi rispetto a quelli allegati dalle parti. La Corte di Cassazione, dopo il caso di Totò Riina, torna sul tema della compatibilità della detenzione con lo stato di salute determinato da varie patologie senili, annullando l’ordinanza che rigettava il beneficio per un 90enne "leader carismatico" delle cosche di Platì e di San Luca. Il tribunale di sorveglianza di Bologna, competente sul penitenziario di Parma, aveva accolto le conclusioni dell’Ufficio sanitario del carcere che, pur rilevando una serie di patologie degenerative del detenuto, ne aveva poi stabilito la compatibilità con la permanenza nell’istituto, anche in considerazione della disponibilità di cure presso strutture vicine e collegate. Inoltre il giudice di merito allegava i trascorsi criminali del condannato, a dimostrarne la pericolosità sociale, oltre a un episodio di gestione di conflitti tra cosche (durante l’incarcerazione, fatto risalente però al 2007) per chiudere con la totale assenza di segnali di pentimento o quantomeno di "revisione critica del suo passato". La Prima penale della Cassazione -sentenza 39187/17 - ha però nuovamente censurato questo percorso apodittico, contestando al Tribunale, in sostanza, di aver respinto senza adeguato contradditorio scientifico le conclusioni della perizia pro veritate depositata dalla difesa. Perizia che, tra l’altro, sottolineava la mancata attualizzazione da parte del carcere delle diagnosi sulle malattie dell’anziano capobastone, oltre ad alcuni lamentati ritardi nell’inizio delle terapie per rallentarne il corso. Per la Prima, di fatto, è fondamentale il bilanciamento tra il diritto del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenza di tutela della collettività, percorso che deve necessariamente svilupparsi attraverso ulteriori e autonome indagini sia sullo stato di salute sia sulla effettiva persistenza della pericolosità sociale. Da qui l’annullamento con rinvio per un nuovo esame del ricorso. Per il furto dovuto all’impalcatura responsabile anche il condominio committente di Mario Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2017 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 20 giugno 2017 n. 15176. In linea di principio, è da escludere, in caso di furto reso possibile dalla omessa adozione delle necessarie misure di sicurezza in relazione alla impalcatura di proprietà e/o installata dall’appaltatore per effettuare lavori nello stabile condominiale, possa automaticamente affermarsi sussistere a carico del condominio committente - ai sensi dell’articolo 2051 Cc - una responsabilità oggettiva o presunta da custodia della struttura, della quale questo ultimo ha solo consentito la installazione, laddove si riconosca a carico dello stesso appaltatore (proprietario e/o quantomeno diretto installatore e utilizzatore della predetta struttura) esclusivamente una responsabilità ordinaria per colpa ai sensi dell’articolo 2043 Cc. In una siffatta ipotesi la responsabilità del condominio committente può essere affermata esclusivamente ai sensi dell’articolo 2043 Cc, in concorso con quella dell’appaltatore, per omissione degli obblighi di vigilanza sulla attività di questo ultimo. Costituisce questione di fatto, stabilire in quali limiti e in quali termini lo stesso condominio disponga, nella vicenda concreta, di tali poteri di vigilanza e eventualmente anche in che termini e in che limiti sia comunque esigibile, secondo l’ordinaria diligenza che, nell’affidamento a terzi di lavori in appalto da svolgersi sulle parti comuni dell’edificio, esso si riservi in ogni caso siffatti poteri, a tutela dei condomini e dei terzi ai quali dai lavori stessi possano derivare eventuali pregiudizi. È quanto ha stabilito la sezione III della corte di Cassazione con l’ ordinanza 20 giugno 2017 n. 15176. I precedenti contrari - Diversamente, per l’affermazione che nella ipotesi di furto in appartamento condominiale, commesso con accesso dalle impalcature installate in occasione della ristrutturazione dell’edificio, è configurabile la responsabilità dell’imprenditore ex articolo 2043 Cc, per omessa ordinaria diligenza nella adozione delle cautele atte ad impedire l’uso anomalo dei ponteggi, nonché la responsabilità del condominio, ex articolo 2051 Cc, per l’omessa vigilanza e custodia, cui è obbligato quale soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura, Cassazione, sentenze 19 dicembre 2014, n. 26900, in Guida al diritto, 2015, f. 8, p. 45 e 6 ottobre 1997, n. 9707, in Foro.it, 1998, I, c. 100 (secondo cui con riguardo al danno derivante dal furto consumato da persona introdottasi in un appartamento servendosi delle impalcature installate per lavori di riattazione dello stabile condominiale è configurabile ai sensi dell’articolo 2043 Cc la responsabilità dell’imprenditore che si sia avvalso di tali impalcature per l’espletamento dei lavori, ove siano state trascurate le ordinarie norme di diligenza e non siano state adottate le cautele idonee ad impedire un uso anomalo delle suddette impalcature; è altresì configurabile la responsabilità del condominio ex articolo 2051 Cc, atteso l’obbligo di vigilanza e custodia gravante sul soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura). Sempre in termini opposti alla pronunzia ora in rassegna, si è affermato, in giurisprudenza: - del danno patito da persona il cui appartamento sia stato svaligiato da ladri, introdottivisi attraverso ponteggi installati per il restauro del fabbricato e privi sia di illuminazione che di misure di sicurezza, possono essere chiamati a rispondere non solo l’impresa che ha realizzato i ponteggi stessi, ma anche il condominio, per un duplice titolo: sia quale custode del fabbricato, ai sensi dell’articolo 2051 Cc, sia per culpa in vigilando od in eligendo, allorché risulti che abbia omesso di sorvegliare l’operato dell’impresa appaltatrice, ovvero ne abbia scelta una manifestamente inadeguata per l’esecuzione dell’opera, Cassazione, sentenza 19 marzo 2009 n. 6435, in Guida al diritto, 2009, f. 16, p. 69, con nota di Picco I., Per il furto in casa attraverso le impalcature responsabile anche il condominio committente; - nell’ipotesi di furto in un appartamento, ad opera di ladri che vi si siano introdotti servendosi di un’impalcatura per lavori edilizi installata lungo la facciata di un contiguo edificio condominiale, e configurabile, a carico di tale condominio, la responsabilità prevista dall’articolo 2051 Cc, la quale, presunta iuris tantum, sul presupposto di un potere di fatto sulla cosa e del correlativo obbligo di vigilanza, può peraltro essere esclusa mediante la prova, incombente al soggetto tenuto alla custodia, che l’evento dannoso e dipeso dal fortuito, inteso in senso lato e comprensivo, quindi, del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato, Cassazione, sentenza 9 febbraio 1980, n., 913, in Foro padano, 1982, I, p. 256, con nota di Bessone M., "Fortuito", causa ignota e responsabilità civile per cose in custodia; - in tema di responsabilità civile ex articolo 2051 Cc, allorquando un ponteggio sia sistemato in aderenza ad un fabbricato per la esecuzione di lavori di riparazione in tale edificio, per ciò stesso questo ponteggio si trova a ricadere nell’ambito della custodia dei proprietari dell’edificio, cui accede, salvo prova contraria, Cassazione, sentenza 10 marzo 1972, n 691. Per altri riferimenti e, in particolare, nel senso che nel caso in cui una persona subisca un furto nel proprio appartamento ad opera di ladri, che vi si siano introdotti attraverso impalcature per lavori edilizi, lasciate incustodite presso l’appartamento stesso, il proprietario dei ponteggi non può essere ritenuto civilmente corresponsabile del furto. Infatti, la sua responsabilità non può essere ritenuta sussistente per esercizio di attività pericolose (ai sensi dell’articolo 2050 Cc), poiché le attività pericolose danno luogo a responsabilità specifica solo se il danno si sia prodotto durante il loro espletamento, e non quando gli strumenti ad esse necessari non vengano adoperati per essere le attività sospese; né per cose in custodia (in virtù dell’articolo 2051 Cc), poiché le cose in custodia non danno luogo a responsabilità quando i danni siano stati cagionati dall’attività illecita di terze persone; né, infine, per omissione di cautele (rispetto alla norma generale prevista dall’articolo 2043 Cc), perché la responsabilità civile per omissione sorge solo se si sia contravvenuto ad uno specifico obbligo di fare, nella specie inesistente; Cassazione, sentenza 8 ottobre 2005, n. 20133, in Diritto & Giustizia, 2006, f. 2, p. 43, ove la precisazione, altresì, che tale principio, applicabile al proprietario delle impalcature, deve ritenersi applicabile, a maggior ragione, nei riguardi del portiere di uno stabile condominiale. La responsabilità dell’appaltatore - In margine alla responsabilità dell’appaltatore, si è precisato, tra l’altro: - in caso di furto in appartamento consumato avvalendosi dei ponteggi installati per lavori di ristrutturazione dello stabile, dev’essere affermata, a titolo extracontrattuale, la responsabilità dell’appaltatore che per tali lavori si sia avvalso di ponteggi custoditi, negligentemente, in modo inidoneo a impedirne l’uso anomalo anche ad opera di terzi, essendo irrilevante che dette impalcature siano state montate dalla stessa impresa o da altra da essa incaricata, bastandone, invece, la loro avvenuta installazione nell’ambito dell’appalto, Cassazione, sentenza 30 settembre 2016, n. 19399; - in tema di furto consumato da persona introdottasi in un appartamento avvalendosi dei ponteggi installati per i lavori di manutenzione dello stabile, è configurabile la responsabilità, ai sensi dell’articolo 2043 Cc., dell’imprenditore che per tali lavori si avvale dei ponteggi ove, violando il principio del neminem laedere, egli abbia collocato tali impalcature omettendo di dotarle di cautele atte ad impedirne l’uso anomalo, Cassazione, sentenze 10 gennaio 2011, n. 292, in Guida al diritto, 2011, f. 14, p. 57; 12 aprile 2006, n. 8630, che, dopo aver affermato il riportato principio, ha cassato la sentenza di merito per aver ritenuto l’uso dei ponteggi da parte dei ladri sulla base della astratta possibilità di tale utilizzo, senza alcun accertamento in concreto, come la rottura dei vetri delle finestre in corrispondenza del ponteggio e 25 novembre 2005, n. 24897 che ha confermato la sentenza di merito che aveva motivatamente escluso - in quanto inattendibile - l’ipotesi che l’accesso fosse avvenuto per vie diverse dal ponteggio, quali il montacarichi o l’ascensore condominiali. Campania: morta Adriana Tocco, garante dei detenuti. Una vita in difesa dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2017 È morta Adriana Tocco, garante dei detenuti della Regione Campania. Una donna stimata per la sua sensibilità e tenacia nell’affrontare le problematiche dei detenuti che imperversano negli istituti penitenziari campani. L’ultima sua denuncia - riportata anche da Il Dubbio - riguarda la mancanza di acqua nel carcere di Santa Maria Capua Vetere presentando un esposto alla Procura della repubblica sammaritana. "È un trattamento inumano e degradante - aveva dichiarato -, credo che se qualcuno si rivolgesse alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo l’Italia verrebbe condannata per questo". Donna di profonda cultura, si è sempre battuta per la rieducazione dei detenuti nell’ottica della solidarietà laica e cristiana, nonché di sicurezza sociale. Importante la sua frase in calce alla home della pagina istituzionale dedicata alla garante: "Se pur colpevoli dei reati più odiosi i detenuti sono titolari di diritti costituzionalmente garantiti. Il significato stesso della giustizia è garantire il trattamento leale, morale e imparziale di tutte le persone". La Tocco era apprezzata e stimata da tutti. Parole di cordoglio provengono da tutte le persone che ricoprono incarichi istituzionali, a partire dal capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo: "La dott. ssa Tocco - scrive nel messaggio di cordoglio il capo del Dap - lascia un’impronta profonda nel mondo penitenziario per il suo continuo impegno nell’affermazione e nella tutela dei principi di umanità, di rispetto e di solidarietà". Parole che esprimono una grande perdita e un grande dolore giungono dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma: "Sul piano personale ci legava un’amicizia lunga una vita - scrive il garante, su quello dell’impegno politico ci hanno legato negli grandi temi di impegno sociale e politico: da quello del diritto alla conoscenza e, quindi, del disegno del sistema d’istruzione a quello delle periferie, nella sua Napoli e nella mia Roma, fino a quello dei diritti delle persone private della libertà e i nostri ruoli di garanti. Il carcere in particolare è stato il nostro ultimo terreno comune e la coerenza della detenzione con la fisionomia della pena delineata dalla Costituzione l’impegno che ha accompagnato ogni suo giorno fino a oggi". Parole di cordoglio giungono anche dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris: "Donna di grande sensibilità, sempre in lotta per i diritti, soprattutto per le persone i cui diritti sono deboli - scrive il primo cittadino. Ad Adriana ero legato per forte stima istituzionale e per un profondo affetto. Scompare una donna con una grande sete di umanità. Unica consolazione è quella che ritroverà in cielo la sua dolcissima amata figlia Daniela. Ciao Adriana, voglio ricordarti con un sorriso dolce". Cordoglio anche dal Partito Radicale giunte tramite le parole di Rita Bernardini che dedicherà il grande Satyagraha - l’iniziativa in atto non violenta da parte dei detenuti - anche a lei. Campania: il cordoglio di Napolitano per la morte di Adriana Tocco La Repubblica, 18 agosto 2017 Si è sentita male a Stromboli, dove si recava spesso in vacanza. Sgomento e dolore per una donna stimata da tutti. I messaggi del presidente emerito della Repubblica, del ministro Orlando, del sindaco de Magistris e del presidente della Regione, De Luca. È scomparsa Adriana Tocco, garante dei detenuti della Regione Campania. Ha avuto un improvviso malore nella sua casa di vacanza a Stromboli, dove si rifugiava appena poteva, con la famiglia. L’improvvisa morte di Adriana Tocco lascia un enorme vuoto. Donna di eccezionale umanità e sensibilità, aveva consacrato la sua esistenza alla difesa dei diritti dei più deboli. Era stimata e apprezzata da tutti per la grande discrezione con cui svolgeva il suo ruolo. Personalità di sinistra dai profondi valori etici, non aveva alcuna smania di protagonismo. Le interessava difendere gli altri, quelli che non avevano voce. Un’esistenza sobria, segnata da lutti e sofferenze sopportati con dignità e coraggio. Nella sua attività di garante aveva costantemente denunciato le condizioni di disagio nelle carceri. L’ultimo caso, sollevato su "Repubblica" a fine luglio: la mancanza di una condotta per l’acqua nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A ciascun detenuto era stata consegnata una bottiglia di due litri d’acqua al giorno. Contro questa incredibile situazione la garante aveva anche presentato una denuncia. La scomparsa di Adriana Tocco, amica di antica data del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha provocato dolore e sgomento negli ambienti della politica. "La repentina crudele scomparsa di Adriana Tocco - afferma Napolitano - addolora profondamente quanti ne hanno conosciuto la molteplice personalità, il talento e l’inesauribile passione. Alla sua ricchezza umana si è unita in ogni campo l’espressione della sua generosità. Così nella vita politica e nell’impegno pubblico, tradotto negli ultimi anni in uno straordinario ruolo rivolto all’umanizzazione delle carceri e per i diritti dei detenuti. Gli sono stato in ogni suo impegno vicino e solidale come meritava". "Esprimo il più profondo cordoglio, Adriana Tocco è stata in questi anni una figura fondamentale per il processo di umanizzazione del carcere". Lo scrive il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Da Garante dei detenuti - prosegue Orlando - ha operato con tenacia e intelligenza per il miglioramento delle condizioni dei detenuti in quel contesto. Sempre attenta ai processi di riforma è stata per me un costante stimolo in questi anni. Ci mancherà la sua profonda umanità, la sua determinazione e la sua passione generosa. Rivolgo a tutti i suoi cari le mie condoglianze". "Dolore profondo per la morte di Adriana Tocco" viene espresso dal sindaco Luigi de Magistris. "Donna di grande sensibilità, sempre in lotta per i diritti, soprattutto per le persone i cui diritti sono deboli - scrive il primo cittadino. Ad Adriana ero legato per forte stima istituzionale e per un profondo affetto. Scompare una donna con una grande sete di umanità. Unica consolazione è quella che ritroverà in cielo la sua dolcissima amata figlia Daniela. Ciao Adriana, voglio ricordarti con un sorriso dolce". "Cordoglio e commozione per la scomparsa di Adriana Tocco", dice il presidente della Regione, Vincenzo De Luca. "Ricordiamo il suo impegno sociale, la passione civile, la grande sobrietà dentro e fuori le istituzioni". "Adriana cara amica di sempre - scrive su Fb l’ex parlamentare Graziella Pagano - Ci siamo conosciute nella mitica commissione scuola del Pci e non ci siamo mai perse di vista. Un pezzo della mia vita va via con te". Dolore è stato espresso anche dall’assessore regionale Amedeo Lepore: "Adriana era un’altra maestra della nostra gioventù, con la quale abbiamo poi condiviso molte scelte di vita". "Apprendo la tristissima notizia dell’improvvisa scomparsa della garante dei detenuti - scrive Stefano Albamonte. Ho collaborato con Adriana per circa 8 anni ed è stata un’esperienza bellissima, dove ho conosciuto il mondo penitenziario sotto ogni sfumatura. La sua umanità, il senso del dovere, la vicinanza ai più deboli, mancherà a tutti. Mancherà soprattutto a me". "Donna di grande valore e di profonda umanità, che ha dedicato gran parte della sua vita ai detenuti, la dottoressa Tocco lascia un’impronta profonda nel mondo penitenziario per il suo continuo impegno nell’affermazione e nella tutela dei principi di umanità, di rispetto e di solidarietà, nella ferma e nobile convinzione che i detenuti, riprendendo una delle sue citazioni, se pur colpevoli dei reati più odiosi sono titolari di diritti costituzionalmente garantiti. Il significato stesso della giustizia è garantire il trattamento leale, morale e imparziale di tutte le persone". È il ricordo del Capo del Dipartimento, Santi Consolo, e dell’Amministrazione penitenziaria. "Ho appreso la triste e dolorosa notizia dell’improvvisa scomparsa della Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco. Esprimo profondo cordoglio a nome di tutto il Consiglio regionale della Campania e siamo vicini ai familiari ai quali vanno le nostre più sentite condoglianze". Così la presidente del Consiglio regionale della Campania, Rosetta D’Amelio. "La ricordiamo - continua D’Amelio - come una donna da sempre impegnata sul fronte dei diritti, prima a tutela del mondo della scuola come sindacalista della Cgil e poi come massimo riferimento della battaglia civile per l’affermazione e il rispetto dei diritti dei detenuti campani". "Piangiamo insieme per l’improvvisa scomparsa della professoressa Adriana Tocco: nostra grande amica e maestra, amica delle persone fragili, amica delle nostre battaglie, amica dei diritti inviolabili delle persone. Cara Adriana, ci hai insegnato tanto. Soprattutto con il tuo esempio ci hai mostrato come l’autonomia e la libertà di pensiero siano il significato stesso della vita umana". Così Annamaria Palmieri, assessore alla Scuola del Comune di Napoli. "La scomparsa di Adriana Tocco ci angoscia e ci riempie di tristezza. La sua visione della detenzione ha fatto fare progressi alla Campania. Sotto la spinta di iniziative inedite e di prospettiva tanti giovani hanno potuto sperimentare percorsi di formazione professionale che hanno fatto da apripista a carriere e si sono dimostrate valide politiche di reinserimento sociale". Lo scrive Ermanno Russo, vicepresidente del Consiglio regionale della Campania. Campania: il Conams esprime profondo cordoglio per la scomparsa di Adriana Tocco Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2017 Il Coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza esprime profondo cordoglio per la scomparsa di Adriana Tocco, Garante dei detenuti della Campania, ruolo che ha ricoperto con tenacia e determinazione nella battaglia di civiltà per l’affermazione dei diritti dei detenuti e la ricorda anche quale amica del Conams, animatrice e partecipe attenta e appassionata di numerosi convegni ed incontri pubblici. Sempre attenta al mondo della sorveglianza ed alla giurisdizione per la tutela dei soggetti deboli, ha saputo svolgere, con generosità e determinazione, un’opera di costante stimolo intellettuale per tutti noi. Lascia un grande vuoto. Esprimiamo alla famiglia le nostre più sentite condoglianze. Il Comitato Esecutivo Conams: Antonietta Fiorillo (Coordinatore) Marcello Bortolato (Segretario) Monica Amirante Linda Arata Roberta Cossia Riccardo De Vito Fabio Gianfilippi (Tesoriere) Nicola Mazzamuto Marco Puglia Lombardia: le carceri scoppiano "i maiali hanno più spazio" di Martina Carnovale Il Giorno, 18 agosto 2017 I risultati di un anno di visite nel libro bianco di Radicali e Socialisti. "Le leggi sulla messa a terra dei maiali riservano più spazio" di quello che viene destinato ai detenuti. È il giudizio tranchant che Gianni Rubagotti esprime sullo stato delle carceri lombarde documentato nel ‘Libro Biancò presentato ieri dal partito Radicale e dal partito Socialista. È il risultato di un anno di visite nelle case circondariali e di detenzione della regione, tra cui San Vittore, l’Icam (istituto a detenzione attenuate per le donne con bambini) e le carceri di Brescia, Como, Busto Arsizio e Monza. Il problema principale è quello del sovraffollamento: San Vittore ospita 153 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare di 750 posti, per un totale di 903 persone. Lo stesso avviene a Brescia dove, nonostante i posti disponibili siano 189, le persone presenti sono 313 e a Monza dove 596 sono gli ospiti nonostante i posti siano solo 403. A Como il sovraffollamento tocca la percentuale record dell’83% con 405 detenuti in una struttura che potrebbe contenerne massimo 221. Busto Arsizio si ferma ‘solò al 55% con 369 ospiti su 238 posti disponibili. La situazione è aggravata dal fatto che molti di loro - a San Vittore 758, a Brescia 151, a Monza 596, a Como 161, a Busto Arsizio 200 - sono in attesa di giudizio, dunque potenzialmente innocenti. Questi numeri, in parte giustificati dal fatto che quelle analizzate sono case circondariali e quindi destinate proprio ad ospitare i detenuti senza una condanna definitiva, segnalano però l’inefficienza del sistema giudiziario, come specifica Lorenzo Cinquepalmi del partito socialista. "Tenere in carcere così a lungo una persona in attesa di un giudizio - spiega - comporta, oltre all’elevato costo sociale, anche le spese giudiziarie, quelle per il mantenimento in carcere e per il risarcimento in caso di assoluzione". Ad aggravare la situazione contribuisce anche l’alto numero di casi psichiatrici e tossicodipendenti accolti in queste strutture. Sono 479 i tossicodipendenti a San Vittore e 254 quelli con problemi psichiatrici, a Brescia rispettivamente 128 e 100, a Monza 263 e 318, a Como 168 e 44. "Queste strutture - attacca Rubagotti - si trasformano a volte in veri e propri ospedali" senza essere adeguate per gestire queste situazioni. Sebbene la Costituzione prescriva che le pene debbano "tendere alla rieducazione del condannato", il lavoro in carcere è un miraggio: a San Vittore solo 2 detenuti usufruiscono di questa possibilità, a Brescia 3, a Monza nessuno, a Como 35 e a Busto Arsizio 7. Se la situazione dei detenuti si presenta difficile, non diversa appare quella degli agenti di polizia penitenziaria, spesso in numero molto inferiore al necessario: tenendo conto del sovraffollamento, dal rapporto emerge che a Brescia mancano 128 unità, a Monza ben 265, a Como 294 e a Busto Arsizio 163. "Se il sistema penitenziario funziona i costi che la società deve sostenere diminuiscono", assicura Cinquepalmi facendo l’esempio della percentuale di recidiva tra coloro che hanno preso parte a programmi di rieducazione che si attesta intorno a 3%, mentre di solito è del 30-50%. Da qui la richiesta al ministro della Giustizia Andrea Orlando: varare immediatamente i decreti attuativi e delegati per rendere operativa la riforma dell’esecuzione penale. Abruzzo: presto il Consiglio regionale potrà eleggere il Garante dei detenuti di Lucilla Di Marco Corriere Peligno, 18 agosto 2017 Il Consiglio regionale abruzzese nel corso della sua ultima riunione avvenuta alla vigilia di ferragosto ha approvato un apposito provvedimento (primo firmatario il Capogruppo del Pd Sandro Mariani) che consente ora di superare alcuni aspetti procedurali relativi al quorum per l’elezione di questa figura. Dopo anni di polemiche e di decisioni rinviate (era fra gli argomenti residui del lavori dell’Aula da oltre due anni) finalmente ora si potrà procedere, forse già a settembre, con la ripresa delle attività dell’Assemblea dopo la pausa feriale Presto, probabilmente già alla ripresa dei lavori dopo la pausa feriale previsti per la metà del prossimo mese di Settembre, anche il Consiglio regionale potrà eleggere il Garante dei detenuti un problema che da alcuni anni attende una soluzione. Ora sarà possibile grazie al superamento di una normativa rigorosa e complicata che finora ne ha impedito la soluzione sollevando molte polemiche mentre dopo questa recente decisione tutto sarà più semplice Ora dopo l’approvazione della nuova normativa avvenuta alla vigilia di ferragosto questo obiettivo potrà essere raggiunto con la modifica del quorum necessario alla quarta votazione con la maggioranza semplice. Soddisfazione ha espresso il Capogruppo del Pd nell’assemblea abruzzese, Sandro Mariani, primo firmatario dell’iniziativa "La nostra proposta - spiega Mariani - non stravolge alcun principio democratico ma prevede semplicemente un nuovo quorum dopo la terza votazione al fine di agevolare la nomina del Garante dei detenuti che finora non ha trovato una larga condivisione anche per i meccanismi che prevedevano un quorum dei due terzi dei voti favorevoli espresso in aula dai Consiglieri". Perché arriva solo ora la decisione della Regione Abruzzo? La Regione Abruzzo per la verità si è già mossa da tempo per la Istituzione della figura del Garante. Anche se ancora oggi pochissime altre Regioni non hanno ancora affrontato il problema e alcune altre hanno proposte legislative in itinere. L’Abruzzo o ha fatto con la Legge regionale 23 agosto 2011, n.35 riguardante Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria. C’è infatti l’art. 6 di questa legge che prevede proprio la Istituzione dell’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Art. 6 È istituito, presso il Consiglio regionale, l’Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, di seguito denominato Ufficio del Garante, al fine di contribuire a garantire i diritti di tali persone nell’ambito delle materie di competenza regionale in conformità ai principi di cui agli artt. 2, 3, 4 e 27 della Costituzione. Ai fini dell’applicazione della presente legge si considerano persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale: i soggetti presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori o comunque sottoposti a misure restrittive della liberà personale, le persone ospitate nei centri di prima accoglienza, le persone trattenute nei centri di assistenza temporanea per stranieri, le persone presenti nelle strutture sanitarie in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. Il Garante opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione. L’Ufficio del Garante è Ufficio monocratico costituito dal Garante scelto: a) tra persone che abbiano svolto attività di grande responsabilità e rilievo in ambito sociale e che conoscano a fondo le problematiche della reclusione e del rapporto mondo esterno - mondo interno, con attenzione particolare al dettato costituzionale del reinserimento dei detenuti; b) tra personalità con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, scienze sociali e dei diritti umani e con esperienza in ambito penitenziario; c) tra professori universitari ordinari di materie giuridiche o sociali, che abbiano svolto ricerche sulle tematiche penitenziarie e detentive; d) tra personalità di alta e riconosciuta professionalità o che si siano distinte in attività di impegno sociale; e) tra candidati che hanno ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilità e rilievo e che hanno una indiscussa e acclarata competenza nel settore della protezione dei diritti fondamentali, con particolare riguardo ai temi della detenzione. Il Garante è eletto dal Consiglio regionale con la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli, nei novanta giorni successivi al suo insediamento e decade con lo scioglimento del Consiglio regionale. In sede di prima applicazione l’Ufficio del Garante è costituito entro i novanta giorni successivi all’entrata in vigore della presente legge. La carica di Garante [e di Coadiutore] è incompatibile con quella di: a) membro del Parlamento, ministro, consigliere ed assessore regionale, provinciale e comunale; b) amministratore di ente pubblico, azienda pubblica o società a partecipazione pubblica, nonché amministratore di ente, impresa o associazione che riceva, a qualsiasi titolo, sovvenzioni o contributi dalla Regione. Art. 6 bis L’Ufficio di Garante è altresì incompatibile con l’espletamento di attività libero-professionali che possano determinare situazioni di conflitto di interessi con l’Ufficio ricoperto. Qualora, successivamente alla nomina, venga accertata una delle cause di incompatibilità di cui al comma 6, il Presidente del Consiglio regionale invita l’interessato a rimuovere tale causa entro quindici giorni e, se questi non ottempera all’invito, lo dichiara decaduto dalla carica e ne dà immediata comunicazione al Consiglio regionale al fine della sostituzione. Il Consiglio regionale, con le stesse modalità previste per l’elezione, può revocare il Garante [e i due Coadiutori] per gravi o ripetute violazioni di legge. Il Garante che subentri a quello cessato dal mandato per qualsiasi motivo dura in carica fino alla scadenza del mandato di quest’ultimo. Al Garante è attribuita un’indennità di funzione mensile pari al 35 per cento dell’indennità mensile di carica spettante ai Consiglieri regionali, ed è riconosciuto il rimborso delle spese debitamente documentate nella misura prevista per i Dirigenti regionali. Alla dotazione organica, ai locali, ai mezzi necessari per il funzionamento dell’Ufficio provvede, l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale. Il Garante può inoltre avvalersi, quando necessario, di esperti da consultare su specifici temi e problemi, nonché della collaborazione di associazioni di volontariato e di centri di studi e ricerca senza ulteriori oneri a carico del bilancio regionale. Il Garante adotta un apposito regolamento che disciplina il funzionamento dell’Ufficio. Roma: caldo e cimici, è allarme igiene nelle celle piene di Rebibbia di Enrico Bellavia La Repubblica, 18 agosto 2017 Nel caldo agostano che non dà tregua, con i lavori in corso a Rebibbia, il G9 è un carnaio e l’emergenza igienico sanitaria è già una realtà. Detenuti stipati e le cimici a rendere invivibili le celle. Il sovraffollamento, costante nelle carceri romane che contano una popolazione di quasi tremila persone, qui ha condizioni d’allarme rosso, nonostante il lavoro di agenti e addetti. Emerge dal giro compiuto dalla Garante dei detenuti del Campidoglio, Gabriella Stramaccioni, che nel weekend di Ferragosto ha visitato gli istituti di reclusione con Daniele Frongia, assessore allo sport e delega per il Garante, con un passato da volontario di Emergency proprio nelle carceri. Sul G9 è già partita una richiesta di intervento urgente indirizzata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero di Grazia e giustizia. Urge una disinfestazione e una distribuzione più equa dei detenuti. Il complesso di Rebibbia ospita al suo interno 4 istituti, tra cui il femminile che è il più grande d’Europa con 340 detenute. Tra queste nel corso della visita sono state incontrate anche le donne fermate e poi rilasciate durante lo sgombero di Cinecittà due. Gli uomini erano invece a Regina Coeli e anche loro dopo la direttissima hanno lasciato le celle con l’obbligo di firma. Tutte le strutture cittadine accusano problemi di capienza. Con Regina Coeli che ha una popolazione di 906 detenuti contro 622 posti sulla carta. Il nuovo complesso di Rebibbia ha invece un’eccedenza di 96 persone su 1100 previste. Al femminile, a fronte di 269 brande ce ne sono 345. Dal rapporto sullo stato delle carceri, oltre al sovraffollamento emerge la grave situazione della gestione del disagio psichico con gli istituti costretti a contenere uomini e donne che le residenze sanitarie assistite non possono ospitare. È il caso di un giovane egiziano al quale è stata riconosciuta una malattia mentale con la commutazione della pena in un anno da trascorrere in una struttura di riabilitazione (Rems). Ma il posto non si trova e il giovane rimane in carcere. La sua storia marca ancora la distanza che separa la realtà penitenziaria da quella della salute mentale in ambito penale. Nel nuovo complesso di Rebibbia, al reparto medico, tra i detenuti c’è anche Marcello Dell’Utri. Chi lo ha incontrato racconta che confida ancora nella possibilità che venga riesaminata la sua condizione clinica e che gli sia permesso di lasciare il carcere. Intanto studia storia per l’esame universitario di settembre all’Università di Bologna e tiene impegnate le sue giornate come tutor di altri detenuti aspiranti laureati. Sembra lievemente migliorata la situazione al G8 dove le trans recluse stanno anche realizzando un murales. Frongia ha annunciato un potenziamento degli interventi sullo sport di in carcere, d’intesa con le federazioni: scacchi e pallavolo per iniziare con l’obiettivo di eventi all’esterno. Sul fronte del lavoro dovrebbe partire a breve il protocollo per la formazione di 50 detenuti giardinieri da parte di Ama da destinare alla cura del verde. Capitolo a parte la situazione del Cie di Ponte Galeria. Lì l’emergenza è soprattutto per le donne che sono 77. Bagni insufficienti e una condizione di promiscuità degradante fanno il resto. Ma su tutto c’è un problema di tempi di permanenza fino a otto mesi. Pur con una gestione migliorata da quando il centro è gestito dalla società francese Gepsa resta una struttura totalmente inadeguata a un sistema di accoglienza in linea con gli standard di non carceri che fatalmente lo diventano. Napoli: carcere di Poggioreale sovraffollato, la protesta dei detenuti di Nico Falco Il Mattino, 18 agosto 2017 Sciopero della fame e "battitura" "Vogliamo un carcere più umano". Il tintinnare e i colpi sordi si sentono tre volte al giorno dai padiglioni, è il rumore di pentole, posate e oggetti metallici che vengono sbattuti contro le sbarre. È la "battitura", il metodo con cui, dal 15 agosto, i detenuti del carcere di Poggioreale stanno manifestando contro le condizioni di reclusione in adesione alla protesta nazionale indetta dai Radicali negli istituti italiani da mercoledì 16 a lunedì 21 agosto. I problemi sono quelli endemici del sistema carcerario, ai quali si uniscono i ritardi nell’applicazione della riforma che prevede sensibili miglioramenti delle condizioni detentive anche in termini di sconti di pena. Si parte dal sovraffollamento, con 2.100 detenuti ospitati al fronte di una capienza di 1.500 persone e con una media di 20/30 nuovi accessi al giorno. "Alla protesta ha aderito circa il 50% dei detenuti e una parte ha rifiutato il vitto e provveduto autonomamente ai pasti - spiega Antonio Fullone, direttore del carcere di Poggioreale. La natura è pacifica: chiedono l’attuazione della riforma ma c’è da dire che in questo periodo si soffre sia per l’estate molto calda, sia perché il numero di detenuti è ripreso a salire dopo un periodo in cui il problema era più contenuto". Dei 2.100 carcerati di Poggioreale, soltanto 400 sono quelli che hanno una condanna definitiva, e tra loro ci sono anche 150 persone che, con una pena superiore a 5 anni, dovrebbero essere in una casa di reclusione e non in una casa circondariale quale è Poggioreale ma che restano nel penitenziario per esigenze legate alla tipologia di detenuto e al supporto sanitario necessario. Dei circa 1.700 restanti, 1.300 sono quelli già condannati e in attesa del terzo grado di giudizio o con posizione mista, ovvero condannati e con più procedimenti a carico, e 400, infine, sono i detenuti raggiunti da custodia cautelare ma ancora in attesa di processo. Il "popolo penitenziario" è diviso in base alle esigenze personali e al tipo di reato commesso, in modo da tutelare sia l’ordine sia la salute del detenuto; i padiglioni Milano, Salerno e Napoli, per esempio, raccolgono la maggior parte di persone in attesa di giudizio o con posizioni miste, mentre quelle con condanna definitiva sono nel Livorno. "Al momento i padiglioni Genova e Venezia sono chiusi - continua Fullone - il primo dovrebbe riaprire a breve, aspettiamo i collaudi del ministero. I lavori erano cominciati nel 2009 ma la ditta affidataria era fallita e la pratica si era arenata. La ristrutturazione era ripresa nel 2015 ed è stata ultimata a fine 2016. Per il Venezia, invece, siamo nella fase iniziale, i lavori non sono stati ancora affidati. Anche nel padiglione Roma sono in corso ammodernamenti ma, trattandosi di interventi meno radicali, abbiamo potuto provvedere noi senza l’intervento del ministero. Il Genova conterrebbe circa 70 detenuti. Non cambierà la situazione generale di sovraffollamento, ma saranno comunque dei posti moderni e in linea con il concetto di detenzione più aggiornato". Ma i problemi ci sono anche sull’organico, e sulla possibilità di svolgere le varie attività previste avendo a disposizione soltanto 750 agenti per un carcere che ne richiederebbe 1.060; la mancanza di 300 poliziotti, spiega Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Uspp, "insieme ai limiti strutturali e al sovraffollamento, crea una situazione di forte disagio per il personale che rimarrà anche dopo il periodo estivo". "La carenza di organico - dice Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione "La Mansarda" - si ripercuote sul lavoro, sul rapporto con i detenuti, sugli orari interni, sulle aperture delle celle e per le varie iniziative. In alcune celle, anche con otto o nove detenuti, ci sono materassi a terra per il sovraffollamento. Le motivazioni dell’agitazione sono di natura diversa. Una parte dei detenuti protesta contro "il sistema", altri per le condizioni di vita e per un loro riequilibrio in tutti i padiglioni; la maggior parte aderisce all’iniziativa indetta dalla parlamentare radicale Rita Bernardini per sollecitare il Governo ad approvare i decreti attuativi sulla riforma dell’ordinamento penitenziario". Parma: i parlamentari, in visita al carcere, chiedono più spazio per i detenuti parmaquotidiano.info, 18 agosto 2017 "Nel carcere di Parma, oltre ad essere ospitati poco meno di 600 detenuti, lavorano centinaia di persone e altre prestano la loro opera volontaria: quello che svolgono è un servizio essenziale, funzionale al reinserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena. Alcuni episodi recenti hanno richiamato l’attenzione dei media alla vita carceraria; la nostra visita, un appuntamento annuale che sentiamo parte del nostro dovere istituzionale, è stata l’occasione per accertare le condizioni di vita e lavoro nell’istituto penitenziario di via Burla con l’intento di riportare in sede parlamentare e ministeriale le evidenze riscontrate". Queste le parole dei parlamentari Patrizia Maestri, Giuseppe Romanini e Giorgio Pagliari che questa mattina hanno visitato gli Istituti Penitenziari di Parma accompagnati dal Garante dei detenuti del Comune di Parma, Roberto Cavalieri. "Nel carcere di Parma si pone ancora in modo preoccupante il problema del sovraffollamento che sta determinando in particolare, come evidenziato anche dal Garante nei giorni scorsi, la dislocazione nei reparti di isolamento anche di detenuti per i quali questa misura non è stata prescritta; così come critico rimane il numero dei ricoveri nel reparto ospedaliero che ripropone la necessità di portare a compimento il progetto di ampliamento del reparto che consentirebbe una risposta più adeguata ai tanti detenuti con problemi di salute, spesso legati all’età, e consentirebbe un migliore e più efficiente impiego delle risorse umane disponibili, purtroppo carenti. Sono situazioni per le quali solleciteremo un rapido interessamento del Ministero della Giustizia". "Quella cittadina è una struttura penitenziaria complessa che rischia di veder aggravate le proprie difficoltà a partire dall’inizio del prossimo anno quando aprirà la nuova ala che potrà ospitare ulteriori 200 detenuti. L’ampiamento, senza un’adeguata integrazione dell’organico in servizio, anzitutto agenti di polizia penitenziaria ma non solo, rischia di aggravare le condizioni di vita e lavoro all’interno del carcere che potrebbero degenerare con evidenti conseguenze" - hanno spiegato al termine della visita. "Abbiamo inoltre rilevato la necessità che rapidamente il Ministero integri la composizione dell’assetto dirigenziale della struttura di via Burla: manca infatti ancora un vice direttore, figura necessaria soprattutto in questa fase di impegno parziale del direttore, recentemente incaricato, anche se in via provvisoria, di dirigere anche il carcere fiorentino di Sollicciano. Un assetto dirigenziale completo consentirebbe infatti di affrontare con maggiore incisività alcune delle problematiche che investono la vita quotidiana tra le mura del penitenziario". "Occorre poi portare a regime la progettualità avviata con il volontariato. Si tratta di importanti iniziative solidaristiche che possono contribuire a creare le condizioni per un effettivo reinserimento dei detenuti nella società anche se nel carcere di Parma stentano a diventare un’attività organica di dimensioni appropriate" - hanno concluso - "Su queste esperienze riteniamo si debba investire con maggiore vigore offrendo sostegno concreto a queste alle associazioni". Trieste: sciopero "del carrello" in carcere, 160 detenuti aderiscono alla protesta di Emanuele Esposito triesteprima.it, 18 agosto 2017 Sono circa 160 su un totale di 202 i detenuti che hanno preso parte allo sciopero che durerà 5 giorni. Continua la tensione nel carcere triestino di via del Coroneo: dopo l’episodio turbolento di ferragosto, va avanti lo "sciopero del carrello", ossia la particolare protesta che consiste nel rifiuto del cibo per protesta da parte dei detenuti; ad ampliare poi l’effetto, le persone recluse, due volte al giorno, alle 12 e poco dopo le 17 circa, nella mezz’ora che precede la somministrazione dei pasti, utilizzano posate e pentole per sbatterle contro le sbarre delle celle e urlando, ma anche incendiando dei fogli di carta. Le motivazioni - Metà degli aderenti non ha spiegato le ragioni - ha detto la direttrice Silvia Della Branca, escludendo collegamenti con l’episodio di Ferragosto che ha visto un detenuto con problemi psichici distruggere una cella appiccando anche un incendio. Alcuni invece protestano contro "il sistema", mentre altri ancora aderiscono all’iniziativa indetta a livello nazionale dalla parlamentare radicale Rita Bernardini per sollecitare il governo ad approvare i decreti attuativi sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. Milano: la storia di Franco "la mia vita rapinata dall’eroina" di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 18 agosto 2017 La galera è una spiaggia dove le tempeste della vita depositano persone. E alcune, come legni levigati, sembrano arrivare da molto lontano, da un’altra epoca. Franco è una di queste. Perché è vero che i tempi della giustizia e delle condanne finiscono per essere sfasati rispetto al presente. Ma lui ha l’aria di essere come fuori posto. Non solo per l’età: è un uomo di 56 anni, sposato, due figli di 16 e 17. Ma i segni che si porta addosso sono quelli di un’era quasi dimenticata: gli anni Ottanta, l’eroina che mieteva vite ogni giorno. In quegli anni - i più giovani non possono ricordarlo - i giornali avevano smesso di pubblicare le foto troppo viste di ragazzi morti su una panchina, su un marciapiedi, in un sottoscala, con la siringa ancora piantata nel braccio. Franco ha visto queste cose, è sopravvissuto, ed è qui a San Vittore che dice: "Sì, a me mi ha rovinato l’eroina". È un uomo tranquillo, riflessivo, intelligente, ironico. Tutto questo gli è rimasto, e infatti gli altri detenuti - molti potrebbero essere suoi figli - lo rispettano, anche se sembra un oggetto misterioso. Quella che ha buttato via, invece, era una vita comoda e benestante: "Stavo bene di famiglia. Mio padre, e prima di lui mio nonno, avevano uno stand di frutta e verdura ai mercati generali. Fin dal 1951". Lui, che abitava nella casa di famiglia a Porta Genova, era uno studente: "Liceo scientifico. Poi sono andato in California, a Palo Alto, per un corso di laurea breve che ho mollato sei mesi prima del termine. Ho anche lavorato alla General Electric". Poi il rientro in Italia, e il posto nell’attività di famiglia. E a ventun anni il primo buco". Lì comincia quella che Franco chiama la sua "doppia vita". "Ho cominciato a rubare per pagarmi l’eroina. I miei genitori quando se ne sono accorti mi hanno naturalmente tagliato i fondi. Io facevo la vita di strada, magari mi aggiravo per il parco Sempione in ciabatte, in crisi di astinenza. Poi mi facevo una doccia, prendevo la mia bella macchina e andavo a lavorare". Quindi sì, una parte di vita regolare, con la macchina e il lavoro, ben vestito ed efficiente. E una parte oscura: l’eroina costava cara, e se lo stipendio era "confiscato" dai genitori in ambasce, i soldi venivano dai furti. In quegli anni i tossici in astinenza erano quelli che ti fregavano l’autoradio. "Sono arrivate le prime condanne. Ma all’inizio voleva dire una settimana, massimo dieci giorni di carcere". Una cosa Franco, diciamo così, rivendica come un titolo di merito: "Non ho mai spacciato. Sarebbe stata la cosa più facile, ma è contraria ai miei princìpi. Io la morte non la venderei a nessuno. E poi, per dirla tutta, era anche rischiosa, perché il mondo dello spaccio è un mondo di serpenti". E Franco, con la sua doppia vita, ha conosciuto quel mondo e la vita di strada. Questo in qualche modo aiuta, in galera: "Qui mi trovo bene. Ho fatto la strada e ne conosco il codice. Mi barcameno. A volte rimango stranito se vedo piccole porcherie o paraculaggini. Sono stupidaggini. Così come vedo straniti altri che sono qui per il primo reato". Dalla sua ha anche la memoria, perché la carriera di Franco come tossico, ladruncolo, rapinatore è stata ben lunga. "E qua dentro vedo, con altre facce, quelli che vedevo per strada vent’anni fa". In carcere è ben voluto, disponibile: "Bravo, ma non tre volte, cioè non sono stupido. Però sono regolare e mi comporto bene". Non tocca più nessuna droga, dice, "dal 18 settembre del 2005". Quando lo presero per lo scippo di una borsa dal cestino di una bici. Che se la padrona della borsa e della bici se ne accorge ed è presente, diventa una rapina. A un certo punto l’avevano anche mandato a casa, agli arresti domiciliari: "Avevo l’obbligo dei controlli periodici al Sert, esame delle urine così via, per verificare che non ci fossi ricascato". Controlli che avevano un orario e un percorso obbligati, da casa al Sert e ritorno. Poi sotto Natale dell’anno scorso Franco è sceso due fermate prima dal tram: "Ho visto le luci di Natale all’Ovs, mi ha preso una voglia di andare a dare un’occhiata". Passavano degli agenti di polizia, gli stessi che controllavano i suoi arresti domiciliari, e hanno pensato che Franco stesse scappando. Così è tornato in galera, a finir di scontare la pena. Perché l’ha rovinato l’eroina, ma il colpo finale gliel’hanno dato le luci di Natale di un grande magazzino. Ferrara: visita di Ferragosto di una delegazione di Consiglieri comunali all’Arginone di Veronica Capucci La Nuova Ferrara, 18 agosto 2017 È stato sicuramente un Ferragosto diverso dal solito quello trascorso da una delegazione di consiglieri comunali di Ferrara, che, su invito della neo garante dei detenuti Stefania Carnevale, si sono recati in vista alla casa circondariale. I consiglieri hanno potuto vedere gli spazi comuni, la palestra, la chiesa, la cucina, l’orto, il laboratorio di artigianato, e parlare con i detenuti e gli operatori sanitari e della polizia penitenziaria. Le numerose attività che si fanno durante l’anno, anche di tipo ricreativo culturale, sono sospese durante l’estate mentre proseguono quelle auto gestite, come la coltivazione dell’orto, il teatro, il giornalino. Una visita che Stefania Carnevale ha organizzato per l’intero consiglio, perché "è importante avere uno sguardo politico sul carcere. Ho voluto invitare l’intero consiglio a entrarvi il giorno di Ferragosto per portare simbolicamente la città all’interno del carcere e nello stesso tempo, far uscire il carcere nella città, per ricreare quel flusso interno-esterno che durante l’estate si interrompe. Ho cercato di unire questi due mondi, perché in realtà la casa circondariale è una casa nella città. I detenuti mantengono loro diritti pur perdendo quello alla libertà, ed è importante su questo lo sguardo della politica", ha spiegato Stefania Carnevale. L’impressione che la Garante ha avuto dell’Arginone è quello di un luogo dove le coordinate spazio temporali sono invertite, ossia ci sono "spazi troppo pieni e tempi vuoti, mentre dovrebbe essere il contrario, con spazi più vivibili e tempi più pieni". Circa un centinaio i detenuti in più rispetto alla capienza del carcere; 365 quelli attuali, mentre la capienza regolamentare ne prevede 252 ma quella massima 472. Tuttavia, la comandante del carcere Annalisa Gadaleta ci tiene a precisare che "non si può parlare di sovraffollamento, ma più correttamente di quasi totale pienezza. I detenuti sono in celle doppie o singole, nessuno in tripla", mentre il vice comandante Valentino Bolognesi spiega che "attualmente il reparto più affollato è quello comune, ma il resto è in condizioni di normalità". Le attività fatte durante l’anno sono numerose, e decisiva è stata la svolta portata dall’istituto alberghiero, come raccontato dalla stessa comandante, alla quale poi è seguito l’istituto agrario. Altre attività sono i corsi di informatica, il laboratorio di artigianato e bricolage, di alfabetizzazione per stranieri, l’orto al quale si dedicano a turnazione 20 detenuti, e un progetto per la coltivazione della zucca violina, per il quale c’è l’idea di creare un cappellaccio con marchio dop del carcere. Per quanto riguarda le aggressioni, bisogna distinguere, secondo Valentino Bolognesi, tra quando il detenuto aggredisce il personale o il personale rimane coinvolto perché interviene. "Una è l’aggressione vera quest’anno - chiarisce Gadaleta - quelle segnalate 5, ma sono di rimando, perché il personale è intervenuto e si è fatto male". Ilaria Baraldi, consigliera Pd, ha evidenziato come "il lavoro della politica sia di prendere coscienza dei punti sui quali intervenire, dalla possibilità dell’uso di ventilatori per aiutare nei picchi di caldo alla possibilità di riempire le giornate dei detenuti per un reinserimento più agevole possibile". La delegazione consiliare era composta da Leonardo Fiorentini (SI), Ilaria Baraldi, Mauro Vignolo, Alessandro Talmelli, Dario Maresca, Davide Bertolasi, Giulia Bertelli, Elisabetta Soriani, Bianca Maria Vitelletti, tutti della maggioranza. Savona: a Finalborgo si spilla anche la birra prodotta in carcere di Marco Oliveri Il Secolo XIX, 18 agosto 2017 Si chiama "Pausa Cafè" e a produrla sono i detenuti del carcere di Saluzzo. Diventa anche un progetto sociale, la birra, a Finalborgo, nell’immediato entroterra di Finale Ligure, in occasione della rassegna "Birre in Borgo", svoltasi tra il 14 e il 16 agosto scorsi nella suggestiva cornice dei chiostri di Santa Caterina. Infatti, tra la dozzina di espositori presenti nei tre giorni, c’era anche questo particolare birrificio che trova spazio all’interno della casa circondariale piemontese e fa parte del piano di inserimento sociale a cui partecipano alcuni carcerati. A presentare il prodotto, per cui vengono utilizzate esclusivamente materie prime eco-solidali, lo staff della birreria "Al Rogo" di piazza San Biagio a Finalborgo, che ne è rivenditore: "Oltre alle birre, tra cui quella aromatizzata al cioccolato, i detenuti sfornano anche pane e grissini e producono caffè - spiega il titolare Alessandro Vaccari - si tratta di un’iniziativa di un ragazzo di Saluzzo che da quattro anni ha unito la passione per la birra con il lavoro di reinserimento dei detenuti". Una specie di gemellaggio tra Saluzzo e Finalborgo nato semplicemente: "Ci siamo conosciuti tramite un rivenditore - continua - abbiamo provato la birra, che abbiamo trovato subito eccezionale, ma a colpirci è stato soprattutto il valore sociale della proposta, così, pur avendo una sola birra artigianale nella nostra attività, abbiamo scelto questa per la doppia valenza". Sei i birrifici del Ponente ligure che hanno aderito alla manifestazione, organizzata per il primo anno dall’associazione Ad Hoc Italia, con il patrocinio della Regione Liguria e dell’Unione dei Comuni del Finalese. A completare la lista, altri sei da tutto il Piemonte e una selezione di birre estere proposte dal pub finalese "Sir Arthur". "Abbiamo studiato gli abbinamenti gastronomici della cucina del territorio con le varie birre - aggiunge l’organizzatrice e sommelier Laura Gaggero - l’idea è piaciuta, è nata per caso, da una mia visita a Finalborgo in primavera, ho notato la bellissima location dei chiostri di Santa Caterina e l’interesse locale sulle birre artigianali. Il pubblico ha apprezzato il tentativo di fare cultura con la birra". Rappresentano il piccolo borgo finalese le birre aromatizzate al chinotto di Savona e al frutto locale Mela Carla dell’azienda "Sensu", attiva dal 2010. La peculiarità è che tutti i prodotti sono coltivati dai responsabili negli spazi vicini ai chiostri dove si svolge l’evento, terreni disposti su fasce, dove un tempo sorgevano le carceri, concessi dal Comune. "La prima edizione di "Birre in Borgo" ha funzionato, bisogna però migliorare alcuni aspetti, come l’organizzazione e il coinvolgimento del pubblico - commenta Alessio Pamparino, titolare 35enne di "Sensu" - a cominciare dal periodo, è necessario cercare un mese diverso da agosto, quando in zona ci sono molti eventi in concomitanza e le persone pensano di più alle vacanze". Matteo e Shari sono due appassionati venuti apposta da Genova con il bambino e il cane per provare le birre artigianali, soprattutto quelle svedesi, dal gusto fuori dagli schemi e ascoltare il concerto dal vivo degli amici musicisti della Nocco Galvagno Orchestra,che hanno accompagnato la serata con cover di musica americana, da Bob Dylan a Leonard Cohen e Johnny Cash. "Per ogni birrificio presente c’è la possibilità di provare 4-5 birre diverse, c’è l’imbarazzo della scelta - dice Alberto, 31 anni, da Stella, presente per la prima volta con la moglie - dietro i micro-birrifici c’è gente più appassionata rispetto ai grandi marchi, che speculano maggiormente sulla qualità della birra". "Birre In Borgo" è una novità anche per la coppia piemontese Andrea e Margherita, rispettivamente di Torino e Cervera, in Provincia di Cuneo: "Non avevamo mai visto così tanti stand - affermano i ragazzi - ci sembra una manifestazione innovativa". Grande successo anche per la birra alla canapa, utilizzata inoltre per il "Birrito", gusto di gelato alla birra che nelle tre serate è andato a ruba: "S’ispira al tipico Mojito cubano, la differenza è la birra alla canapa al posto dell’acqua frizzante", conclude Andrea della Gelateria La Gourmandise di Borgaretto, vicino a Torino. Gelati con la birra per cui la materia prima è fornita da Giovanni del birrificio Edfil, anch’esso presente con uno stand. Ad attendere il pubblico al di fuori dal complesso di Santa Caterina, i banchetti di vinili, cd e musicassette d’epoca, libri, riviste, dvd e attrezzature vintage come i giradischi, che hanno ulteriormente colorato e animato la piazzetta adiacente fino a mezzanotte. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. "O i processi sono rapidi o le pene sono ingiuste" di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 18 agosto 2017 Carcerazione preventiva. Beccaria, questo sconosciuto (nei tribunali...). A questo punto Beccaria non evita di toccare un tasto dolente oggi più di ieri: la durata dei processi. Egli tiene a chiarire subito che se fra il delitto commesso e la pena irrogata attraverso la sentenza trascorre troppo tempo, allora tale pena sarà avvertita come ingiusta e il reo vi si opporrà con ogni moto dell’anima. Inoltre, la carcerazione preventiva va applicata in modo che essa duri il minor tempo possibile e che sia la meno dura possibile, proprio in quanto l’accusato va ritenuto innocente fino a sentenza definitiva. Non si può fare a meno di rilevare come tali preziosi avvertimenti siano ancor oggi assolutamente da ribadire e da tener presenti, per il semplice motivo che sembra che Beccaria non abbia mai scritto queste cose. Chiunque sa infatti che oggi la durata media di un processo penale è abnorme e che la custodia cautelare in carcere viene adoperata con eccessiva spregiudicatezza, nonostante nei convegni e nelle tavole rotonde si predichi il contrario. In certi casi sembra che senza il ricorso alla custodia cautelare non si possano fare i processi: peccato poi se, come accade in questi giorni in alcuni casi agli onori delle cronache, intervenga la Cassazione ad annullare un ordine di custodia emesso sei mesi prima. In buona sostanza, un essere umano viene arrestato preventivamente, rimane in carcere per sei mesi o più e poi la Cassazione gli dice che non potevano arrestarlo per mancanza dei presupposti di legge: e Beccaria? Un illustre sconosciuto! Questo illustre sconosciuto - che sarebbe bene oggi fosse studiato nei corsi universitari invece di perdere tempo con emerite sciocchezze - afferma ancora che i delitti commessi con violenza contro le persone vanno puniti con pene corporali, mentre quelli contro il patrimonio con sanzioni pecuniarie: evidenti ed insormontabili ragioni di simmetria formale impediscono a Beccaria di eliminare del tutto le pene corporali dal proprio orizzonte concettuale, pur limitandole a casi estremi. Molto interessante e testimone della libertà di pensiero di Beccaria è invece il fatto che egli critichi aspramente la possibilità, allora vigente, secondo cui le pene inflitte ai nobili fossero diverse - e assai meno aspre - di quelle inflitte invece al volgo. È noto infatti come la pena capitale inflitta ad un plebeo fosse accompagnata sempre da atroci supplizi sia precedenti, sia contestuali: la ruota, il taglio delle mani, il fuoco, ecc.; e basti in proposito por mente a quali atrocità furono sottoposti Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, condannati a morte in quanto untori, e di cui narra Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame. Invece l’esecuzione dei nobili era quanto mai rapida e indolore: una semplice decapitazione che nell’attimo in cui staccava la testa dal collo donava una morte celere e quasi inavvertita. Da qui evidentemente, la grande importanza attribuita alla capacità del boia che, se adeguatamente esercitato e competente, non doveva in alcun modo fallire il primo colpo di scure, perché, in caso contrario, avrebbe causato al condannato intollerabili sofferenze che invece dovevano ad ogni costo essergli evitate. Beccaria denuncia questa disparità come una inaccettabile diseguaglianza, mentre tutti, nobili e plebei, vanno considerati eguali davanti alla legge. E piace pensare - cosa del tutto probabile - che quando i giacobini ghigliottinavano i nemici della rivoluzione - venticinque anni dopo la pubblicazione dell’opera di Beccaria - indistintamente se fossero nobili o plebei, non esitando a farlo anche per il re e la regina, avessero proprio in mente la lezione di Beccaria. Del resto, è stato Hegel a notare - nelle Lezioni di Filosofia della storia - come il senso fenomenologico della ghigliottina sia proprio questo: parificare davanti alla morte tutti gli uomini, senza distinzioni di classi o di condizioni economiche. La ghigliottina insomma è la vera espressione della raggiunta democrazia giacobina. Sotto la lama affilatissima e cieca della ghigliottina non ci son più re o poveri diavoli, perché essa non distingue nessuno e tutti tratta allo stesso modo, destinandoli ad una morte rapida e pressoché indolore. Strano che se Beccaria influenzò a tal punto i giacobini rivoluzionari, non altrettanto sia riuscito a fare con tanti sedicenti giuristi ed esperti del nostro tempo. Ma certo non è colpa sua. CAPITOLO XIX. PRONTEZZA DELLA PENA Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile. Dico più giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza, che crescono col vigore dell’immaginazione e col sentimento della propria debolezza; più giusta, perché la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. Il minor tempo dev’esser misurato e dalla necessaria durazione del processo e dall’anzianità di chi prima ha un diritto di esser giudicato. La strettezza della carcere non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti. Il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili. Ho detto che la prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile. Egli è dimostrato che l’unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica dell’intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto più gli uomini si allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè quanto più sono volgari, tanto più agiscono per le immediate e più vicine associazioni, trascurando le più remote e complicate, che non servono che agli uomini fortemente appassionati per l’oggetto a cui tendono, poiché la luce dell’attenzione rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri. Servono parimente alle menti più elevate, perché hanno acquistata l’abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta, ed hanno la facilità di far contrastare molti sentimenti parziali gli uni cogli altri, talché il risultato, che è l’azione, è meno pericoloso ed incerto. Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l’idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di sempre più disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d’un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli animi degli spettatori l’orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena. Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre più l’importante connessione tra ‘ l misfatto e la pena, cioè che questa sia conforme quanto più si possa alla natura del delitto. Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev’essere tra la spinta al delitto e la ripercussione della pena, cioè che questa allontani e conduca l’animo ad un fine opposto di quello per dove cerca d’incamminarlo la seducente idea dell’infrazione della legge. CAPITOLO XX. VIOLENZE Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene corporali: né il grande né il ricco debbono poter mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che sotto la tutela delle leggi sono il premio dell’industria, diventano l’alimento della tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa: vedrete allora l’industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili quelle che la legge gli dà in suo favore. Questa scoperta è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega le azioni degl’incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni governi, che hanno tutta l’apparenza di libertà, la tirannia sta nascosta o s’introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e s’ingrandisce. Gli uomini mettono per lo più gli argini più sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che gli rode ed apre una tanto più sicura quanto più occulta strada al fiume inondatore. CAPITOLO XXI. PENE DEI NOBILI Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei sia utile in un governo o necessaria nella monarchia, se egli è vero che formi un potere intermedio, che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d’Arabia, e che, quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile o utile nelle società, sia vero altresì che ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl’individui, fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico, perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser debbono le medesime pel primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione sia negli onori sia nelle ricchezze perché sia legittima suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo abbiano detto: chi sarà più industrioso abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda nè suoi successori; ma chi è più felice o più onorato speri di più, ma non tema meno degli altri di violare quei patti coi quali è sopra gli altri sollevato. Egli è vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere umano, ma tali decreti esistono negl’immobili rapporti delle cose, non distruggono quei vantaggi che si suppongono prodotti dalla nobiltà e ne impediscono gl’inconvenienti; rendono formidabili le leggi chiudendo ogni strada all’impunità. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa per la diversità dell’educazione, per l’infamia che spandesi su di un’illustre famiglia, risponderei che la sensibilità del reo non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi è più favorito; e che l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l’infamia di una famiglia può esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza all’innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili formalità tengon luogo di ragioni al credulo ed ammiratore popolo? CAPITOLO XXII. FURTI I furti che non hanno unito violenza dovrebbero esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca d’arricchirsi dell’altrui dovrebbe esser impoverito del proprio. Ma come questo non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza, ma come le pene pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello dè delitti e che tolgono il pane agl’innocenti per toglierlo agli scellerati, la pena più opportuna sarà quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla colla propria e perfetta dipendenza dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma quando il furto sia misto di violenza, la pena dev’essere parimente un misto di corporale e di servile. Altri scrittori prima di me hanno dimostrato l’evidente disordine che nasce dal non distinguere le pene dei furti violenti da quelle dei furti dolosi facendo l’assurda equazione di una grossa somma di denaro colla vita di un uomo; ma non è mai superfluo il ripetere ciò che non è quasi mai stato eseguito. Le macchine politiche conservano più d’ogni altra il moto concepito e sono le più lente ad acquistarne un nuovo. Questi sono delitti di differente natura, ed è certissimo anche in politica quell’assioma di matematica, che tralle quantità eterogenee vi è l’infinito che le separa. CAPITOLO XXIII. INFAMIA Le ingiurie personali e contrarie all’onore, cioè a quella giusta porzione di suffragi che un cittadino ha dritto di esigere dagli altri, debbono essere punite coll’infamia. Quest’infamia è un segno della pubblica disapprovazione che priva il reo dè pubblici voti, della confidenza della patria e di quella quasi fraternità che la società inspira. Ella non è in arbitrio della legge. Bisogna dunque che l’infamia della legge sia la stessa che quella che nasce dai rapporti delle cose, la stessa che la morale universale, o la particolare dipendente dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni e di quella tal nazione che inspirano. Se l’una è differente dall’altra, o la legge perde la pubblica venerazione, o l’idee della morale e della probità svaniscono, ad onta delle declamazioni che mai non resistono agli esempi. Chi dichiara infami azioni per sé indifferenti sminuisce l’infamia delle azioni che son veramente tali. Le pene d’infamia non debbono essere né troppo frequenti né cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non il primo, perché gli effetti reali e troppo frequenti delle cose d’opinione indeboliscono la forza della opinione medesima, non il secondo, perché l’infamia di molti si risolve nella infamia. Le pene corporali e dolorose non devono darsi a quei delitti che, fondati sull’orgoglio, traggono dal dolore istesso gloria ed alimento, ai quali convengono il ridicolo e l’infamia, pene che frenano l’orgoglio dei fanatici coll’orgoglio degli spettatori e dalla tenacità delle quali appena con lenti ed ostinati sforzi la verità stessa si libera. Così forze opponendo a forze ed opinioni ad opinioni il saggio legislatore rompa l’ammirazione e la sorpresa nel popolo cagionata da un falso principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo l’originaria Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la natura invariabile delle cose, che non essendo limitata dal tempo ed operando incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti che da lei si scostano. Non sono le sole arti di gusto e di piacere che hanno per principio universale l’imitazione fedele della natura, ma la politica istessa, almeno la vera e la durevole, è soggetta a questa massima generale, poiché ella non è altro che l’arte di meglio dirigere e di rendere cospiranti i sentimenti immutabili degli uomini. CAPITOLO XXIV. OZIOSI Chi turba la tranquillità pubblica, chi non ubbidisce alle leggi, cioè alle condizioni con cui gli uomini si soffrono scambievolmente e si difendono, quegli dev’esser escluso dalla società, cioè dev’essere bandito. Questa è la ragione per cui i saggi governi non soffrono, nel seno del travaglio e dell’industria, quel genere di ozio politico confuso dagli austeri declamatori coll’ozio delle ricchezze accumulate dall’industria, ozio necessario ed utile a misura che la società si dilata e l’amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio politico quello che non contribuisce alla società né col travaglio né colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della vita attiva che è la necessità di custodire o di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno forti, tutta la loro energia. Non è ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle virtù dè propri antenati, e vende per attuali piaceri il pane e l’esistenza alla industriosa povertà, ch’esercita in pace la tacita guerra d’industria colla opulenza, in vece della incerta e sanguinosa colla forza. E però non l’austera e limitata virtù di alcuni censori, ma le leggi debbono definire qual sia l’ozio da punirsi. Sembra che il bando dovrebbe esser dato a coloro i quali, accusati di un atroce delitto, hanno una grande probabilità, ma non la certezza contro di loro, di esser rei; ma per ciò fare è necessario uno statuto il meno arbitrario e il più preciso che sia possibile, il quale condanni al bando chi ha messo la nazione nella fatale alternativa o di temerlo o di offenderlo, lasciandogli però il sacro diritto di provare l’innocenza sua. Maggiori dovrebbon essere i motivi contro un nazionale che contro un forestiere, contro un incolpato per la prima volta che contro chi lo fu più volte. Terrorismo. Il turno di Barcellona, l’orrore arriva ancora con un furgone di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 18 agosto 2017 Tredici morti e un’ottantina i feriti. L’Isis rivendica l’attacco nel cuore della città, affollatissima. Il presidente catalano Puigdemont e la sindaca Colau: "Resteremo la città dell’accoglienza". Il terrorismo è tornato a colpire la Spagna, a 12 anni dall’attentato su treni della stazione Atocha di Madrid dell’11 marzo del 2004. Verso le cinque del pomeriggio di ieri, un furgone bianco ha investito ad alta velocità i passanti della centralissima Rambla de Catalunya di Barcellona, uccidendo almeno 13 persone e ferendone un’ottantina. Dopo aver percorso circa 500 metri in direzione mare, prima sulla corsia destra e poi invadendo il marciapiede centrale, a quell’ora pieno di turisti e passanti, si è fermato quasi all’altezza del teatro dell’opera del Liceu. Una modalità che ricorda moltissimo la dinamica dei recenti attentati in altre grandi città europee. La Spagna temeva da tempo di poter essere uno dei prossimi obiettivi del terrorismo internazionale, e infatti il suo livello di guardia antiterrorismo è da anni a 4 su 5. Il massimo livello implica il pericolo di un attentato imminente e l’esercito per le strade. Alla chiusura del giornale, non era ancora stata presa alcuna decisione in merito. Lo Stato Islamico in serata ha rivendicato l’attentato secondo l’agenzia Amaq. Il presidente catalano Carles Puigdemont e la sindaca di Barcellona Ada Colau ieri sera in una conferenza stampa hanno confermato il numero delle vittime, e promesso: "Barcellona è una città che ha sempre accolto tutti. Continueremo ad agire in questo modo, i catalani sono persone che accolgono gli altri". Le autorità sarebbero in contatto con diverse ambasciate perché con tutta probabilità alcune delle vittime sono turisti stranieri. Per la Farnesina potrebbero esserci cittadini italiani. Appena si è saputa la notizia dell’incidente, in pochi minuti sono giunte sul posto le forze della polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, e della polizia municipale barcellonese, la Guardia Urbana. Ambulanze a sirene spiegate sono arrivate rapidamente sulla Rambla, mentre i moltissimi passanti, presi dal panico, correndo si sono rifugiati nei negozi e nei ristoranti lungo la via centrale della città, e nel mercato della Boqueria. Immediatamente è scattato il protocollo antiterrorismo. Sono state chiuse le fermate della metro e quelle dei treni urbani di tutta la zona centrale e sono state deviate tutte le linee dei bus; nel giro di mezz’ora, la zona fra la piazza dell’Università, piazza Catalogna, piazza Urquinaona e tutto il quartiere multietnico del Raval sono stati recintati e in un paio d’ore sono state fatte evacuare migliaia di persone. Poco dopo, l’immagine inusuale per l’ora e la stagione era quella di un centro deserto, con locali sprangati, i lavoratori mandati a casa. Un silenzio solo rotto dal suono delle sirene delle ambulanze. Neanche i residenti rimasti fuori dal recinto della polizia potevano accedere ai propri alloggi. Le principali vie d’accesso e di uscita alla città sono state presidiate dalla polizia. Un veicolo avrebbe cercato di evitare un controllo in uscita dalla città investendo alcuni agenti, il conducente è stato ucciso dalla polizia. Dopo un primo momento di cautela, si è iniziato a parlare di attentato verso le sei. Uno degli occupanti del furgone si sarebbe trincerato in un ristorante lì vicino, Luna d’Istanbul, forse con degli ostaggi. La polizia avrebbe cercato di negoziarne la resa, ma ieri alle 22 la notizia non era stata confermata. Di un secondo attentatore si sarebbero perse le tracce, e sarebbe questa la persona che la polizia ha cercato di trovare tutto il pomeriggio. Nel frattempo, si è saputo che la stessa persona che aveva affittato il furgone, ne avrebbe noleggiato anche un secondo, che è stato trovato in un parcheggio di Vic, cittadina un’ora a nord della capitale catalana. Un terzo veicolo collegato all’attentato sarebbe stato bloccato in un’altra cittadina nei pressi di Barcellona. All’interno del furgone abbandonato sulla Rambla sarebbe stata trovata la carta d’identità di un cittadino spagnolo di origine magrebina. Verso il tardo pomeriggio, la polizia ha diffuso la foto e il nome di un presunto terrorista ricercato, Dris Oukabir, e in serata è stato riferito del suo arresto, senza ulteriori informazioni sul suo eventuale ruolo nell’attentato. Ma più tardi - secondo quanto riportato da La Vanguardia - un uomo si è presentato alla polizia catalana presentandosi proprio come Driss Oukabir, denunciando il furto dei propri documenti. L’uomo avrebbe spiegato agli agenti che, vedendo la sua fotografia pubblicata dai media, ha capito cosa fosse successo ed è andato a denunciare il furto di identità alla polizia assicurando che al momento dell’attacco si trovava a Ripoll. Gli agenti stanno cercando di chiarire perché Oukabir non abbia denunciato prima il furto e sospetterebbero il fratello minore, Moussa. Ci sarebbe stato anche un secondo arresto e, secondo la polizia, ci sarebbero due persone in fuga. Uno dei due sarebbe morto per uno scambio di colpi di arma da fuoco con le forze dell’ordine. Il gabinetto di crisi catalano, presso il governo della Generalitat, ha riunito comune, governo catalano e i vertici delle forze di polizia. In serata sono arrivati in città il presidente spagnolo Mariano Rajoy, che ha interrotto le vacanze, la vicepresidente spagnola Soraya Sáenz de Santamaria e il ministro degli interni Juan Ignacio Zoido. I festeggiamenti estivi in città sono stati interrotti, gli spettacoli nei teatri catalani sono stati sospesi, così come il duro sciopero in corso da settimane nell’aeroporto di Barcellona. Fin da subito è scattata la solidarietà dei cittadini, che si sono recati a donare sangue e hanno aperto le loro case alle persone che non hanno potuto raggiungere le proprie. I taxi, Cabify e la metro hanno offerto corse gratis, e gli alberghi della città hanno invitato i turisti rimasti senza tetto a passare la notte in altri hotel. Oggi alle 12 minuto di silenzio. Terrorismo. L’attentato in Spagna e le illusioni che abbiamo perduto di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 18 agosto 2017 Ci stavamo illudendo, non ne avevamo motivo. Adesso Barcellona. Prima, Parigi. Prima ancora Londra, due volte. Andando indietro: Stoccolma, Londra, Berlino, Nizza. In poco più di un anno, otto attentati con la stessa tecnica, orribilmente semplice: falciare la folla con un mezzo a motore. Gli assassini non hanno fantasia; noi non abbiamo memoria. È umana e comprensibile, questa rimozione. Ma non ce la possiamo permettere. Le autorità di Barcellona hanno invitato i presenti a non diffondere foto e video della strage. Lo hanno fatto, in catalano, i Mossos d’Esquadra e in spagnolo la Policìa Nacional, attraverso Twitter. Non è servito. Internet è spietata. Ieri sera rimpallavano ovunque immagini raccapriccianti, girate da vicino: corpi a terra, soli, nei minuti sospesi terribili fra la fuga di massa e il ritorno della consapevolezza collettiva. Si vedono bambini e giovani donne immobili sulle onde bianche della pavimentazione delle Ramblas. Si vedono le pose innaturali dei corpi, i vestiti sollevati, le scarpe spaiate e smarrite, il sangue scarlatto che sembra finto, cinematografico. Si sentono pianti e lingue mescolate. Voci gridano piangendo "hijos de puta" ("figli di puttana") e "malditos" ("maledetti"). Ma cosa importa di tutto questo ai mostri distanti dell’Isis? La loro idea di guerra è uccidere ragazzi a passeggio, un giovedì sera d’estate. Se hanno un dio, chissà come si vergogna di loro. Alla nausea davanti all’orrore, s’aggiunge le vergogna colpevole della ripetizione. Cosa possiamo dire che non abbiamo già detto? Cosa possiamo raccontare che non abbiamo già raccontato? Le dirette televisive, i siti web, le immagini e le notizie sono simili a quelli che hanno segnato l’estate 2016, e poi l’autunno, e poi l’inverno, e poi la primavera del 2017. È il turno di Barcellona, insieme a Londra la città più europea d’Europa. La folla felice, le nazioni e le generazioni mescolate, il sole e la vacanza, il mare poco distante: il meglio del continente, in una giornata d’agosto. Poi i giovani immigrati invasati, il furgone, la strage fin troppo facile, la gente che piange e che corre. Le ipotesi, gli arresti, i conflitti a fuoco. Almeno 13 morti e 80 feriti, di cui 15 gravi. Fa bene il figlio adottivo più celebre della città, Leo Messi, a scrivere: "Barcellona, sii forte". Ma non basta. Barcellona, la Catalogna, la Spagna, l’Europa e tutti noi dobbiamo anche essere calmi. E capire se, per caso, non sbagliamo qualcosa. Può apparire crudele chiederselo ora: ma com’è possibile che un furgone possa infilarsi lungo le Ramblas, scendere a zig zag per 600 metri e falciare la folla, nel picco della stagione turistica? Mentre il livello di allerta in Spagna, da due anni, è 4 su 5? Com’è accaduto che la celeberrima passeggiata non fosse, in qualche modo, protetta? Il luogo è iconico: come Trafalgar Square a Londra, gli Champs Élysées a Parigi, il Colosseo a Roma, piazza del Duomo a Milano. E non c’è dubbio che i nostri nemici islamisti, attraverso i loro disgraziati manovali locali, cerchino proprio questo: colpire luoghi simbolici in città simboliche, in modo da amplificare il terrore. Questo non rende prevedibili gli attacchi. La prevenzione assoluta è impossibile, purtroppo. Ma l’orrendo modus operandi dei terroristi dell’Isis appare chiaro. Oltre ai luoghi simbolici, prendono di mira posti affollati: la passeggiata di Nizza, il mercato di Berlino, il concerto di Manchester. Oppure sale da concerto, stadi, chiese. In una sorta di spaventosa economia degli sforzi, vogliono fare molto male in poco spazio e in breve tempo. Sapere questo non ci rende invulnerabili, come abbiamo visto; ma un po’ meno vulnerabili forse sì. Una seconda considerazione, amara: le modalità dell’attentato descrivono i gesti disperati di una forza sconfitta. Non c’è niente di più facile che uccidere un essere umano con un mezzo a motore. È la banalità della strage, non per questo meno sconvolgente. Ma dimostra - una dimostrazione di cui avremo fatto a meno - che le forze di sicurezza europee stanno facendo un buon lavoro. Gli industriali del terrorismo sono fermi; al loro posto, gli artigiani del terrore. Di cui dovremmo aver capito i metodi. Quanto è accaduto ieri sera prova che non è così. Un’ultima considerazione, dolorosa e doverosa: un grande continente libero come l’Europa non può piegarsi davanti ai colpi di coda di un’ideologia primitiva, che sta perdendo territorio e consensi. Certo: anche questo lo abbiamo detto e ripetuto. Ebbene: in giornate come queste, dobbiamo ripeterlo ancora, con forza. Occorre capire come disinnescare le schizofrenie identitarie - gli assassini, anche stavolta, sembrano cresciuti tra noi - ma non c’è dubbio: il giorno in cui tutto questo sarà finito per sempre non è lontano. Ma non sappiamo quant’è vicino, purtroppo. Terrorismo. La Jihad che arriva dal Sahel di Maurizio Molinari La Stampa, 18 agosto 2017 La strage di Barcellona apre il fronte iberico dell’assalto jihadista all’Europa: tipologia dell’obiettivo, metodo adoperato, identità dei killer e scelta dei tempi descrivono i contorni di un’operazione terroristica che si nutre dell’ideologia del Califfato e si genera dal teatro di guerra del Sahel, roccaforte di più cellule islamiche in competizione fra loro. L’obiettivo delle Ramblas, l’area pedonale culla dei turisti della più popolare città spagnola, evoca il London Bridge colpito il 3 giugno, i Campi Elisi di Parigi bersagliati in 20 aprile, Westminster insanguinata il 22 marzo, i coltelli del Louvre il 3 febbraio e la mattanza sul lungomare di Nizza il 14 luglio dello scorso anno: si tratta di luoghi che sommano obiettivi facili - civili in vacanza, famiglie a passeggio - e hanno al contempo una forte valenza simbolica perché rappresentano per i terroristi l’identità stessa dell’Europa. I jihadisti combattono nel nostro Continente ma con la mentalità delle faide del deserto: non basta uccidere, bisogna umiliare l’avversario e per riuscirvi il metodo è offendere ciò che ha di più caro, i suoi simboli. Anche perché ciò contribuisce a reclutare nuovi adepti. La rivendicazione della strage sulle Ramblas da parte dello Stato Islamico accende i fari sulla cooperazione anti-terrorista fra Madrid e Rabat che, a inizio maggio, ha portato a smantellare una cellula proprio di Isis fra Tangeri e la Catalogna, composta di foreign fighters marocchini fra i 21 e i 32 anni reduci da Siria e Iraq. Dall’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington, il Marocco ha smantellato almeno 168 cellule jihadiste e nell’ultimo anno ha accresciuto la cooperazione con Ue e americani, concentrandosi sull’enclave di Ceuta, adoperata dai jihadisti come testa di ponte per infiltrarsi sulle coste settentrionali del Mediterraneo, ovvero l’"Andalusia" considerata parte integrante del Califfato pan-islamico essendo appartenuta ai successori del Profeta prima della riconquista cristiana. Si tratta della stessa matrice che nel marzo 2004 generò gli attacchi alla metropolitana di Madrid in cui perirono 192 persone con l’unica differenza che allora fu Al Qaeda a firmare l’attacco e ora a realizzarlo sono state le sue sanguinarie emanazioni. La matrice è quella dei Gruppi salafiti per la predicazione e il combattimento, formatisi in Marocco dopo la dissoluzione del Gia algerino, da cui prima è nata Al Qaeda in Maghreb, poi le cellule confluite in Isis e quindi una miriade di gruppi in competizione per imporsi nella guida della Jihad. È proprio tale gara efferata che partorisce il terrore di Barcellona in quanto ogni cellula, o anche singolo, punta a emergere realizzando la strage più orrenda, con il numero di vittime più alto. Se in giugno l’antiterrorismo Usa aveva avvertito Madrid sul rischio di attacchi "con auto sulla folla" - il metodo della "Car Intifada" inventato dai jihadisti contro Israele - "nell’area mediterranea" è perché il ritorno dei veterani di Isis da Iraq e Siria ha trasformato il Sahel nella nuova roccaforte jihadista. Lo spazio desertico fra il Maghreb e l’Africa Occidentale, a cavallo di confini desertici inesistenti fra Mali, Niger, Mauritania, Algeria, Libia e Ciad, è una piattaforma ideale dove riorganizzare le cellule dopo le sconfitte subite in Medio Oriente, facendo leva sulle entrate frutto dei traffici di sigarette, esseri umani e stupefacenti garantiti dalla corruzione delle tribù locali. Per la tattica jihadista dunque l’attacco di tre giorni fa a un ristorante per turisti in Burkina Faso - con 18 morti - appartiene allo stesso teatro di operazioni di Barcellona: sono, a Sud e Nord, gli estremi opposti del Sahel dove gli integralisti vogliono insediarsi, per realizzare la versione maghrebina del Califfato. Per questo considerano come primo nemico la Francia, che nel 2013 li cacciò dal Nord del Mali, vogliono rovesciare il re marocchino Mohammed VI considerandolo un "apostata" e puntano a insediarsi nel Sud della Tunisia e nel Fezzan libico per ricongiungersi alle cellule scampate alla sconfitta di Sirte. Migranti. Arrivi dimezzati, l’Onu critica Italia e Ue di Francesco Grignetti La Stampa, 18 agosto 2017 A luglio salvataggi diminuiti del 50 per cento, crollo in agosto. Dubbi delle Nazioni Unite sulla stretta. Il M5S esulta: fine dei "taxi del mare". Anche stavolta i numeri parlano chiaro. A luglio, rispetto a un anno fa, gli sbarchi di migranti provenienti dalla Libia si sono dimezzati (11.459 sbarcati contro 23.552). Ad agosto, il calo è stato ancor più vertiginoso. Nell’ultima settimana si contano 544 salvataggi contro 1750 dell’analogo periodo. Salta agli occhi che nella prima metà di agosto sono approdati in Italia in 2245; erano stati ben 21.294 in tutto l’agosto del 2016. La dottrina Minniti, insomma, fatta propria dalla Commissione europea e dai Ventotto, funziona. È un fatto - che ciò avvenga per il Codice di regolamentazione delle Ong, per il nuovo attivismo della Guardia costiera, per l’assenza di molte navi umanitarie dall’area, per un ripensamento di rotte da parte degli scafisti - che si stanno riducendo moltissimo gli arrivi perché sono calate le partenze dalla Libia (e di conseguenza anche il rischio dei naufragi nel Mediterraneo centrale). Piuttosto che renderne merito al titolare del Viminale, però, il grillino Di Maio rivendica a sé la svolta: "Questo primo grande risultato è stato ottenuto grazie al nostro pressing, che va avanti dall’aprile scorso". Intende la sua campagna contro i "taxisti del mare". A molti, però, questo confinamento dei migranti in Libia non piace. È di ieri un attacco frontale da parte di due esperti delle Nazioni Unite contro la Ue e contro il codice di comportamento. "Il nuovo piano d’azione europeo e il codice di condotta dell’Italia per le Ong - sostengono il relatore Onu per i diritti dei migranti, il cileno Felipe Gonzalez Morales, e quello contro la tortura, lo svizzero Nils Melzer - rischiano di portare a un aumento di morti nella traversata e violano i diritti dei migranti". I due, come già la collega Agnes Callamard, criticano l’Europa e il governo italiano perché stanno tentando di "intrappolare immigrati e rifugiati in Libia". L’accusa è innanzitutto per il ministro Marco Minniti, ispiratore delle nuove politiche. Non per caso, pur senza nominarlo, citano le sue parole sulla "frontiera europea che oggi è ormai spostata in Libia", ma per rovesciarne il senso. L’Italia e gli europei - accusano Gonzalez Morales e Melzer - stanno provando "a spostare le frontiere europee in Libia", contravvenendo però, secondo loro, al diritto internazionale. "La Libia, semplicemente, non può essere vista come un luogo sicuro per sbarcare richiedenti asilo, anche se la politica dell’Ue nega questo". Ricordano che i migranti in Libia sono soggetti a crudeli organizzazioni criminali di traffico di esseri umani, a detenzioni arbitrarie, violenze, stupri, tortura e morte. E criticano espressamente anche la missione tecnico-logistica della Marina militare italiana di sostegno alla Guardia costiera di Tripoli. "Attenzione che la presenza di una missione navale in acque libiche potrebbe essere considerata una violazione da parte dell’Italia del principio di non-respingimento e delle obbligazioni conseguenti". Effetto indiretto di una rotta migratoria che si chiude, un’altra rotta si apre. La Spagna si trova da qualche settimana sotto pressione: nel giro di 24 ore, la Guardia costiera ha salvato 600 persone nello Stretto di Gibilterra. E l’Unhcr lancia l’allarme: "La Spagna - ha detto Maria Jesus Vega, portavoce dell’ufficio iberico di Unhcr - non ha le risorse, né le capacità per far fronte all’ondata crescente di arrivi di migranti". L’organizzazione delle Nazioni Unite lamenta carenza di fondi delle forze di polizia, mancanza di interpreti e di alloggi per ospitare i nuovi arrivati. "Ci sono situazioni di sovraffollamento". Se però si va riducendo il dramma del mare, monta quello della terraferma libica. I campi di detenzione per migranti in Libia sono lager indegni. L’Unhcr e l’Oim, due agenzie delle Nazioni Unite, nei giorni scorsi hanno visitato il Nord e l’area di Cufra per organizzare nuovi campi di assistenza e progetti di rimpatrio volontario. Bruxelles li finanzia con un primo stanziamento di 47 milioni di euro. Il Viminale annuncia che a settembre andrà da quelle parti anche una delegazione italiana. Migranti. Il mare della Libia svuotato dalle navi delle Ong. Nuove rotte verso la Sicilia di Fabio Albanese La Stampa, 18 agosto 2017 Non sono solo i numeri del Viminale a descrivere la nuova situazione che si è creata nel Mediterraneo centrale: davanti alla Libia non c’è più nessuno; trafficanti e scafisti cominciano a sperimentare nuove rotte che coinvolgono ancora l’Italia, e sempre la Sicilia, ma anche la Spagna come testimoniano i recenti "sfondamenti" della frontiera nell’enclave spagnola di Ceuta, in Marocco, da parte di centinaia di migranti, gli ultimi appena ieri. Il mare davanti alla Libia, ieri pomeriggio: tante petroliere, diversi mercantili, alcuni pescherecci e due sole imbarcazioni delle Ong, la Phoenix della maltese Moas, impegnata a Est di Tripoli nel doppio salvataggio di 235 persone, e la Golfo Azzurro della spagnola Pro Activa Open Arms, di fronte a Tripoli ma in navigazione verso Malta. Se solo si recupera dall’archivio una immagine della stessa area a fine aprile, quando il caso Ong esplose, il raffronto è impietoso: allora di navi delle Organizzazioni non governative ce n’erano quattro proprio davanti alla costa della Libia, nella zona di Zuwara, a Ovest di Tripoli, una delle "capitali" dei trafficanti di uomini. Ieri, tutte le altre navi delle Ong erano nei porti o stavano per entrarci: sono a Catania la Vos Prudence di Medici senza Frontiere e la Aquarius di Sos Mediterranée; nel porto della Valletta, a Malta, ci sono la Open Arms della Pro Activa Opena Arms, la Vos Hestia di Save the Children, le due imbarcazioni della tedesca Sea Watch. La nave della Sea Eye era attesa a Malta in serata. Lo scenario è cambiato e, anche se è difficile dire se sia l’effetto della risorta Guardia costiera libica che usa minacce e armi per convincere gli scettici, se per via del codice del Viminale, se per strategie dei trafficanti o chissà per cos’altro, la realtà è questa. Se ne sono accorti pure ad Agrigento dove, dall’inizio dell’estate, sulle spiagge meno frequentate compaiono barche in legno con scritte in arabo, qualche bidone d’acqua e qualche tanica di carburante a bordo, abbandonate sulla battigia o incagliate in qualche secca. Spesso sulla spiaggia si incontrano vestiti inzuppati e resti di cibo. Le ultime tre barche sono state trovate tra mercoledì e ieri: una era tra Porto Empedocle e Realmonte, nei pressi della spettacolare parete rocciosa bianca della Scala dei Turchi; testimoni dicono che erano in dieci, sono sbarcati sulla secca e poi sono andati via. A Siculiana le altre due: prima nella notte una piccola barca poi nella mattinata di ieri un peschereccio da cui sarebbero scese 40 persone, 30 bloccate dai carabineri. La Procura di Agrigento ha già aperto "sei o sette fascicoli", anche se il riserbo è massimo: "Questo fenomeno è comparso da un paio di mesi - dice un inquirente - le barche di solito hanno 15-20 persone a bordo e arrivano in zone poco frequentate, gli occupanti percorrono a piedi distanze anche molto impegnative prima di far perdere le loro tracce". Chi sono, da dove vengono questi migranti che al momento sfuggono a qualsiasi statistica? "Stiamo lavorando sul fatto che possano essere persone in fuga da Tunisia e Libia - spiega la fonte - gente che ha una ingente disponibilità di denaro, con un’organizzazione completamente diversa da quelle delle grandi partenze dalla Libia, e che probabilmente ha contatti a terra in Sicilia". Le "barche fantasma" di Agrigento, come le hanno battezzate i volontari dell’associazione Mareamico che segnala di continuo le nuove imbarcazioni abbandonate sulle spiagge, si trovano più spesso tra Realmonte e Siculiana, dove arrivano probabilmente dalla Tunisia dopo aver attraversato il Mediterraneo, superando le barriere di Frontex, le navi dell’operazione Sophia, e anche gli avvistamenti delle Ong. Arrivano su coste che non è facile vigilare, addirittura nelle aree protette, spesso non servite da strade ma al massimo da qualche sentiero: "È un fenomeno su non larga scala - confida la fonte - dire "élite" è forse una parola sbagliata, ma certo si tratta di persone che si possono permettere un viaggio più comodo e sicuro". Migranti. Ventimiglia è senza un Centro per i minori non accompagnati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 agosto 2017 Bloccati i lavori di una nuova struttura e chiusi i locali della parrocchia di Sant’Antonio. Tutti sono stati trasferiti nel Centro di prima accoglienza per adulti di "Parco Roja". Appello di Asgi, Intersos e Safe Passage per l’apertura del complesso individuato dalla prefettura. Al confine del nostro Paese, gli immigrati minorenni senza famiglia vengono lasciati da soli e rischiano la vita. A Ventimiglia dovevano costruire un centro di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, i cittadini hanno manifestato contro la sua realizzazione e i lavori sono stati sospesi. Tanti, troppo immigrati minorenni, giunti al confine, si trovano a vivere, per periodi di tempo più o meno lunghi, in condizioni del tutto inadeguate, trovando ripari di fortuna per strada o sulle sponde del fiume Roja. Da maggio 2016, l’unico luogo preposto per l’accoglienza dei minori non accompagnati in transito, per le donne sole e per i nuclei familiari, sono stati i locali della parrocchia di Sant’Antonio, che ha funzionato come unico centro per tali categorie, seppur informale. A partire dal 14 agosto, in coincidenza con la chiusura definitiva della struttura informale della Parrocchia, i minori rimasti presso la chiesa, unitamente ai nuclei familiari ancora presenti, sono stati trasferiti presso il centro di prima accoglienza per adulti "Parco Roja", con un conseguente peggioramento delle condizioni di accoglienza e violando anche la legge che prevede un trattamento diverso nei confronti dei minorenni senza famiglia. Da gennaio a luglio 2017 sono stati all’incirca 1.386, i minori accolti presso la parrocchia di Sant’Antonio mentre è difficile stimare quanti siano stati i minori transitati a Ventimiglia che non hanno trovato alcun tipo di collocazione. L’Asgi (associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), l’Intersos (organizzazione umanitaria per accogliere gli immigrati minorenni) e la Safe Passage (l’associazione che aiuta i profughi minorenni rimasti in Italia) hanno lanciato un appello al prefetto di Imperia affinché si apra al più preso il centro di accoglienza per i minori non accompagnati nella struttura già individuata dalla Prefettura di Imperia, "affinché - chiedono i promotori dell’appello - i minori presenti in città possano ricevere adeguata accoglienza e protezione, nel rispetto della normativa vigente, come dichiarato durante i tavoli di coordinamento con le Istituzioni". La decisione di sospendere i lavori e la completa chiusura del centro informale della parrocchia di Sant’Antonio, come si legge nell’appello, ha suscitato sconcerto. "La legge italiana - sottolineano le organizzazioni firmatarie - impone alle istituzioni competenti l’obbligo di accogliere i minori in strutture a loro esclusivamente dedicate, vietando espressamente il collocamento in centri di prima accoglienza per adulti (art. 19 D. Lgs. 142/ 15). In tutti i casi in cui nella città di Ventimiglia vengano individuati dei minori non accompagnati, e non vi siano posti nei centri governativi di prima accoglienza per i minori né nello Sprar, il Comune di Ventimiglia ha l’obbligo di assicurare l’accoglienza di tali minori oppure di comunicare alla Prefettura di Imperia l’impossibilità di collocarli, nel qual caso il Prefetto è tenuto ad attivare strutture ricettive temporanee esclusivamente dedicate". Inoltre Asgi, Intersos e Safe Passage "si impegnano a supportare i percorsi finalizzati all’effettuazione dei trasferimenti regolari de minori non accompagnati verso altri Stati europei nonché a contrastare attraverso vie legali i respingimenti illegittimi da parte delle autorità francesi, al fine di tutelare pienamente i diritti dei minori interessati, nel contempo riducendo il numero dei minori che si trovano a Ventimiglia in situazioni estremamente precarie quali l’insediamento sul fiume Roja, con le note conseguenze in termini di problemi igienico- sanitari". Una proposta che, si spera, venga accolta il più presto possibile. In tal modo si eviterebbe che questi minori tentino di attraversare irregolarmente la frontiera e siano respinti dalle autorità francesi, restando quindi lunghi periodi sul territorio di Ventimiglia fuori dalle strutture di accoglienza, in attesa di ritentare l’ingresso in Francia, e rischiando di morire in questi pericolosi tentativi come purtroppo già è accaduto più volte. Egitto. Caso Regeni, la commissione d’inchiesta bloccata di Arturo Scotto* Il Manifesto, 18 agosto 2017 Non mi ha convinto la scelta di reinviare l’ambasciatore al Cairo il 14 agosto. Non mi hanno convinto i tempi nè le motivazioni che l’hanno accompagnata. Non ho mai considerato un tabù il ristabilimento di ordinari rapporti diplomatici con l’Egitto, anche in una fase di stallo delle indagini che dura da oltre un anno con una sequenza insopportabile di verità di comodo inaccettabili forniteci dai partner egiziani. Chiesi il richiamo dell’ambasciatore per consultazioni il 16 marzo dello scorso anno in un Question Time alla Ministra Boschi, in un’aula vuota e distratta. Il Governo lo fece e lo apprezzai. Le cose possono cambiare, ma il tono con cui Alfano prima e Gentiloni poi hanno annunciato questa scelta mi è parso eccessivamente enfatico a fronte degli sviluppi davvero fragili dell’inchiesta. Come ha detto l’avvocato della Famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, ci troviamo davanti a cinque file in arabo trasmessi alla procura di Roma e un accordo bilaterale (arrivato dopo un ping pong oggettivamente estenuante) per consentire di visionare a una societa’ privata indipendente i video dei movimenti di Giulio in metropolitana. Nulla che possa richiamare a un’effettiva svolta, tant’è che lo stesso Pignatone parla prudentemente di "passi in avanti". Siamo dunque ancora in altissimo mare con l’acquisizione di prove, mentre dal New York Times arriva un reportage che chiamerebbe in causa direttamente il Governo italiano che nn avrebbe dato peso a prove schiaccianti fornitegli direttamente dalla Amministrazione Obama. Circostanza smentita, ma che indubbiamente non contribuisce nè alla chiarezza nè ad allontanare tensioni. Una cosa è l’atarassia mostrata da Palazzo Chigi negli ultimi mesi sul caso Regeni, altra cosa sarebbe l’insabbiamento. E allora perché tanta fretta? Diciamo la verità, il ristabilimento delle piene funzioni della nostra struttura diplomatica al Cairo ha più a che fare con Haftar che con Regeni. Ha a che fare con la necessita’ di riaprire un’interlocuzione con il generale che controlla buona parte della Libia e dipende direttamente dall’ orientamento della potenza regionale che ha più interesse su quell’area, precisamente l’Egitto. E, consentitemi, le strategie energetiche dell’Eni. Ma questo ha a che fare con la geopolitica, non con la barbara uccisione di un giovane non ancora trentenne. Nessun moralismo, perché parte rilevante della politica estera è comunque mossa da interessi che talvolta rischiano di entrare in contraddizione con la volontà dei cittadini. Ma se è così, meglio dirlo all’opinione pubblica per come è: non reggevamo per troppo tempo il "grande freddo" con l’Egitto e abbiamo dovuto accelerare il rientro. La trasparenza conta almeno quanto la ragion di stato. La trasparenza è un bene pubblico non negoziabile. Per questo penso che, dopo l’invio dell’ambasciatore il governo e la maggioranza che lo sostiene, non possano più negare il via libera alla commissione di inchiesta monocamerale sul caso Regeni. Sono otto mesi che in Commissione esteri viene bloccata, nonostante sia stata calendarizzata da tempo in Conferenza dei Capigruppo. Sono 5 articoli, sarebbe composta da 20 deputati e costerebbe 50000 euro alla Camera dei Deputati con una durata di sei mesi, il tempo che resta alla XVII legislatura. Si approva in aula in mezza giornata e avrebbe un valore politico oltre che concreto (i commissari avrebbero poteri di indagine analoghi alla magistratura) enorme. Significherebbe che non molliamo la presa, che non chiudiamo questa pagina vergognosa con un’alzata di spalle, che coinvolgiamo tutte le articolazioni della Repubblica, compreso il Parlamento, nella ricerca della verità. *Deputato di Articolo 1- Mdp Venezuela. Sommossa dei detenuti repressa nel sangue, almeno 37 i morti agoramagazine.it, 18 agosto 2017 È stato un massacro. Almeno 37 morti dopo l’intervento delle forze speciali venezuelane in una prigione dell’Amazzonia, nel sud del paese. Le poche immagini filtrate sono quelle che arrivano sui social media. La polizia ha circondato l’istituto penitenziario e i parenti dei detenuti sanno poco o nulla dei loro cari. Il governatore della regione, Liborio Guarulla, ha descritto l’operazione come un eccidio. 14 gli agenti feriti. Aldilà della terribile crisi venezuelana, uno dei problemi delle prigioni del paese è quello dei "pranes", cartelli che controllano le carceri nella più totale impunità e spesso con il beneplacito dell’autorità carceraria. Uno dei timori dell’opposizione è che l’anarchia delle prigioni possa favorire omicidi di membri dell’opposizione detenuti. È il caso del marito della ex fiscale generale Ortega Diaz, il deputato German Ferrer, che dovrebbe godere di immunità parlamentare. Siccome però il parlamento è stato di fatto esautorato, essa, secondo i chavisti, sarebbe decaduta. La rivolta - A dare notizia dei fatti seguiti alla sollevazione carceraria è stato il governatore dello Stato, Liborio Guarulla che in un tweet ha precisato come il "il 40% dei reclusi nel Centro di Detenzione Giudiziaria di Amazonas, che in totale erano 105, sono morti nell’azione messa a segno dalle forze speciali". Negli scontri fra detenuti e polizia scoppiati intorno a mezzanotte del 16 agosto sarebbero stati feriti, secondo quanto riferito da Guarulla, anche 14 agenti. Un bollettino pesante, diramato al termine di uno scontro a fuoco tra carcerieri e detenuti. Per sedare la rivolta, che sembrerebbe essere stata scatenata dai membri di alcune gang locali, il ministero degli Interni ha ordinato l’intervento di agenti in tenuta antisommossa che hanno riportato l’ordine nel giro di poche ore. Secondo le parole dello stesso Guarulla, citato da Reuters, si è trattato di un "massacro". Le violenze nelle carceri venezuelane - Secondo il ministro degli Interni del Paese, i detenuti uccisi erano in possesso di armi da fuoco ed erano tutti in attesa di giudizio. Il sistema carcerario del Venezuela è più volte stato segnalato come uno dei più violenti del mondo. Le prigioni sono infatti piene di detenuti appartenenti a numerose gang, molte delle quali pianificano crimini e omicidi addirittura da dietro le sbarre. Secondo le stime dell’Osservatorio venezuelano delle Prigioni, che monitora lo stato dei luoghi di detenzione, la capienza massima delle carceri nazionali è di 16mila prigionieri, anche se attualmente ne sono detenuti circa 50mila. A complicare le già difficili condizioni di vita all’interno delle carceri si è aggiunta la grave crisi economica e politica degli ultimi mesi. In questo clima è in rapido aumento il numero delle rivolte dei detenuti ridotti in alcuni casi alla fame e spesso coinvolti in un giro di contrabbando di armi. L’episodio di Puerto Ayacucho è il più grave dagli incidenti dal 2013 quando, nella stessa prigione, una rivolta terminò con la morte di 61 persone. Hong Kong. Condannati tre leader della "rivolta degli ombrelli" La Stampa, 18 agosto 2017 L’Alta Corte ha ribaltato il verdetto di primo grado per gli attivisti anti cinesi pro democrazia. L’Alta Corte di Hong Kong ha ribaltato il verdetto di primo grado condannando al carcere Joshua Wong e Nathan Law, nonché di Alex Chow, tra i promotori del "movimento degli ombrelli", la protesta pro-democrazia del 2014 andata in scena nell’ex colonia britannica. Wong è stato condannato a sei mesi di prigione, Law a 8 e Chow a 7: per tutti e tre c’è anche la pena accessoria a non potersi candidare a cariche politiche per cinque anni, fino al 2022. "Ci vediamo presto - ha twittato Wong subito dopo la nuova sentenza - incarcerandoci non metteranno a tacere di desiderio degli abitanti di Hong Kong di avere il suffragio universale. Noi siamo più forti, più determinati e vinceremo. Potranno imprigionare i nostri corpi - ha concluso - ma non le nostre menti". Secondo esponenti delle organizzazioni pro democrazia di Hong Kong, la decisione dei giudici è un’ulteriore indicazione che Pechino intende stringere la morsa del suo controllo sull’ex colonia britannica, dal 1997 regione semi-autonoma della Cina. Pakistan. Cristiano rifiuta l’abiura e muore in carcere Il Giornale, 18 agosto 2017 Un pakistano cristiano, che si trovava in carcere con l’accusa di aver linciato due musulmani, è misteriosamente morto nel carcere di Lahore dopo essersi rifiutato di abiurare la propria fede. Un pakistano ha deciso di non abiurare la propria fede cristiana ed è misteriosamente morto nel carcere di Lahore mentre si trovava sotto custodia. Indaryas Ghulam, cristiano di 38 anni, secondo quanto riporta Asianews, è deceduto il 13 agosto, alla vigilia delle celebrazioni per i 70 anni dell’indipendenza del Pakistan. L’uomo era stato arrestato, insieme ad altri 41 cristiani, con l’accusa di aver linciato due musulmani sospettati di terrorismo dopo l’attentato dei talebani avvenuto il 15 marzo del 2015 contro due chiese in un quartiere di Lahore dove persero la vita 19 persone e dove ci furono più di 70 feriti. Il procuratore Syed Anees Shah aveva tentato di corrompere i detenuto, promettendo loro la scarcerazione se avessero rinnegato il cristianesimo ma Indaryas, che si è sempre dichiarato innocente, ha deciso di testimoniare fino alla morte la propria fede. La British Pakistani Christian Association (Bpca) ha diffuso la notizia della sua morte che, in base a quanto dichiarato dall’amministrazione carceraria, sarebbe dipesa dalla tubercolosi di cui il detenuto era affetto. La moglie Shabana e la figlia Shumir denunciano che il corpo di Indaryas presentava segni di torture come bruciature e tagli ovunque e che, in ogni caso, l’uomo non avesse mai ricevuto cure mediche adeguate dietro le sbarre. Wilson Chowdhry, presidente della Bpca, afferma: "Indaryas Ghulam è un martire cristiano, il cui sacrificio deve ricordare a tutti noi il bisogno di lottare per la giustizia. Nonostante fosse innocente e le atroci sofferenze patite, egli ha scelto la morte piuttosto che la libertà offerta in cambio della conversione all’islam". "Il suo esempio coraggioso - continua - e quello di tanti altri uomini innocenti, ci spinge ad opporci alla tirannia degli islamisti in Pakistan e a sollevare l’attenzione su come vive la minoranza [cristiana] nel Paese". Secondo gli attivisti, che sono scesi in piazza in segno di protesta, "è difficile gioire dell’indipendenza, dal momento che essa ha creato una nazione con doppi standard in politica, davanti alla legge e nella vita di tutti i giorni - una nazione nella quale i cristiani sono cittadini di seconda classe". Inoltre, tra il 2009 e il 2016, sarebbero stati ben quattro i cristiani morti, prima di Indaryas, per le torture subite sotto la custodia della polizia.