Satyagraha, i detenuti insieme al Partito Radicale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2017 In migliaia da tutte le carceri italiane hanno aderito all’iniziativa non violenta. Segnale positivo del Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri: "su umanità, dignità e rieducazione lavoreremo per i decreti delegati dell’ordinamento penitenziario". "Da domani, migliaia di detenuti parteciperanno con il digiuno, lo sciopero del carrello o il rifiuto di fare la spesa in carcere. Con la forza della non violenza". Così ha annunciato Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, nel corso di una conferenza stampa tenutasi davanti al carcere romano di Regina Coeli in occasione della visita di ferragosto di una delegazione della Carovana per la Giustizia all’istituto penitenziario. Dal 29 luglio scorso la Carovana ha percorso 14.000 chilometri, attraverso tutte le province della Sicilia, per raccogliere le firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati e chiedere al governo di andare avanti senza tentennamenti sulla riforma dell’ordinamento penitenziario attraverso la rapida attuazione dei decreti attuativi entro agosto e promesso dallo stesso ministro della giustizia Orlando durante un’intervista ai microfoni di radio radicale. La situazione nei penitenziari italiani, denunciano i Radicali, si sta rapidamente deteriorando. "Il sovraffollamento - ha sottolineato Bernardini - è in rapida ripresa, con punte che in alcune strutture toccano il 200%. Condizioni inumane, già condannate in passato dalla Corte dei diritti europea. Per questo i detenuti lanciano, assieme a noi, la loro richiesta di ascolto. La scelta è quella del dialogo. Servono una maggiore possibilità di accesso alle pene alternative, più rapporti tra detenuti e familiari, più lavoro e studio in carcere, più cure". Ha osservato, sempre l’esponente radicale, che nelle carceri italiane il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio e che molti di loro saranno riconosciuti innocenti o comunque scarcerati in sede giudiziale. "In prigione - afferma Rita Bernardini - non ci sono né lavoro né studio, manca l’affettività, la salute e carente. Abbiamo bisogno di una riforma della giustizia che veda nel carcere soltanto l’ultima ratio. Anche nelle carceri lo Stato deve essere Stato di diritto, altrimenti non ha alcuna legittimazione". Una battaglia che comprende anche l’abolizione dell’ergastolo ostativo e il superamento del 41 bis. Il pensiero dei radicali va anche agli operatori delle carceri, agli agenti di polizia penitenziaria costretti a lavorare in strutture sovraffollate e fatiscenti e con turni massacranti. "C’è chi vorrebbe tornare a 20- 30 anni fa - ha sottolineato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino - che gli agenti tornassero a fare semplicemente le guardie. Noi invece vogliamo ringraziare l’amministrazione penitenziaria, a partire dal responsabile Santi Consolo, che ha consentito il nostro ingresso in carcere. E grazie anche alla polizia penitenziaria, quasi tutta orientata al rispetto dei diritti umani. Agenti che suppliscono alle carenze dello Stato per far rispettare i diritti dei detenuti". Intanto un segnale positivo giunge dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, che nella mattinata di ferragosto ha visitato il nuovo complesso del carcere romano di Rebibbia: "È un giorno di festa che accentua da una parte la difficoltà, l’impegno, il sacrificio per chi lavora, dall’altra per chi è recluso il dolore del distacco dagli affetti e di ciò che comporta la reclusione. Il principio della certezza della pena deve essere sempre accompagnato da umanità, dignità e rieducazione. Su questo punto di equilibrio lavoreremo anche nel redigere i decreti delegati che devono essere emanati a seguito della recente riforma dell’ordinamento penitenziario". Nel frattempo, da ieri, è partita l’iniziativa nonviolenta del Grande Satyagraha (proseguimento di quello portato avanti per anni da Marco Pannella) e crescono le adesioni non solo individuali, ma soprattutto quelle collettive raccolte dai detenuti di diversi istituti penitenziari. Una iniziativa non violenta che consiste, come già annunciato dalla Bernardini, nel digiuno, lo sciopero della spesa e il rifiuto del carrello. In Italia, grazie all’intervento del Partito Radicale, i detenuti hanno imparato a utilizzare l’arma non violenta: quella di rivendicare i propri diritti attraverso lo sciopero della fame e, non da ultimo, i ricorsi alla Corte europea. Sono metodi non violenti e nello stesso tempo "pericolosi" visto che riescono a colpire la parte più sensibile dello Stato: i soldi dei contribuenti. È grazie alle loro denunce che il problema delle nostre carceri è diventato una questione europea. Ora, con lo sciopero della fame, i detenuti cercano un dialogo con le istituzioni e soprattutto delle risposte concrete. Digiuno di migliaia di detenuti per la riforma della giustizia di Valter Vecellio lindro.it, 17 agosto 2017 Appello al ministro Orlando: mantieni la parola data. Il 18 agosto, assieme a una delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini, e di cui fanno parte anche l’avvocato Eriberto Rosso, della Camera Penale di Firenze, e il cappellano don Vincenzo Russo, Paolo Hendel busserà al portone del carcere fiorentino di Sollicciano, per una visita ispettiva. Perché questa iniziativa? "Alla voce carcere", risponde Hendel, "nel vocabolario si legge: ‘Stabilimento in cui vengono scontate le pene detentive…Luogo in cui vengono rinchiuse le persone private della libertà personale per ordine dell’autorità competente". La pena quindi consiste nella privazione della libertà. Le sentenze di condanna non dicono: "Caro signore, ti riteniamo colpevole e perciò ti condanniamo a vivere per tot anni chiuso in una cella umida e sovraffollata, in condizioni igieniche disumane, con temperature estive da forno, con impianti elettrici malfunzionanti e magari con qualche bel crollo strutturale dell’edificio di tanto in tanto, il tutto con pochissima attenzione per la tua salute che tanto peggio stai e meglio è, così impari". Hendel poi ricorda che l’anno scorso nel solo carcere di Sollicciano tre detenuti si sono tolti la vita: "Oggi nel carcere ci sono circa 680 detenuti mentre la capienza regolamentare sarebbe di 494. Se vado in giro in macchina e mi porto dietro moglie, figlia, i miei due fratelli, la mamma anziana e la badante col marito e il cane, superando il limite massimo di 5 persone, prima o poi un vigile mi ferma e come minimo mi fa una bella multa. Nelle nostre carceri italiane il soprannumero è la norma seppure illegale. Ed è dura anche per chi ci lavora: per gli operatori e per gli agenti di Polizia Penitenziaria. Il corpo di Polizia penitenziaria a Sollicciano è sottodimensionato: 485 agenti sui 696 previsti dal regolamento". Per Hendel "è incredibile che proprio in carcere, giorno dopo giorno, si infranga sistematicamente la legge e che sia lo Stato a farlo! Quindi la pena non è "solo" la privazione della libertà. C’è una terribile pena aggiuntiva che diventa tortura quotidiana. Come si possono realizzare percorsi riabilitativi in condizioni del genere, per non parlare dei complicati meccanismi burocratici e amministrativi che già di per sé rendono le cose difficili? Tralasciando i casi, che pure esistono, di innocenti finiti in galera per errori giudiziari e rimandando ad altra occasione una riflessione sul carcere come "discarica sociale", destino che troppo spesso incombe su coloro che sono emarginati e senza prospettive, credo che evitare il terribile sovrappiù di disagi, sofferenze e umiliazioni aiuterebbe i detenuti a sentirsi ancora donne e uomini con una prospettiva di vita dignitosa davanti nel non facile cammino di un auspicabile reinserimento sociale". Fin qui, Hendel. Ma è emergenza non solo a Sollicciano. Sono tante le carceri dove è usuale vivere in nove metri quadri in due, tre, a volte quattro persone, spesso senza potersi fare una doccia quando se ne ha voglia, e sperare che dalla finestra filtri un pò d’aria. Sempre che alle finestre non ci siano le "reti" o le cosiddette "bocche di lupo". "Il regolamento prevede la doccia in cella", dice il responsabile dell’Osservatorio di Antigone, Alessio Scandurra. "Tuttavia sette volte su dieci la doccia in cella non c’è". Per i detenuti non c’è alternativa alle docce in comune, a turno. Quando c’è l’acqua: "Il carcere di Santa Maria Capua Vetere al momento è senza approvvigionamento idrico; il problema non si risolverà a breve perché richiede lavori impegnativi. Si cerca di sopperire con le bottiglie". Inquietante il "rapporto" che emerge dalle visite ispettive nelle carceri siciliane effettuate dai radicali nel corso del "tour" della Carovana per il diritto e la giustizia nell’isola. Dieci carceri siciliane su 23 risultano ospitare più detenuti di quanto per regolamento dovrebbero. Una situazione estrema, resa impossibile dalle docce saltuarie cui sono costretti ad esempio i detenuti del penitenziario palermitano di Pagliarelli o dalle lamiere infuocate che rendono ancora più calde le celle del carcere di San Cataldo. "Nelle carceri", racconta Bernardini, "ci sono anche letti a castello a tre piani, vietati dalla legge. Per esempio ad Agrigento e nella casa circondariale catanese di piazza Lanza". Le strutture sono spesso fatiscenti: "A San Cataldo abbiamo trovato celle chiuse da lamiere che impediscono l’entrata dell’aria e della luce e si arroventano. Le celle sono forni. La luce entra dall’alto, con maglie molto strette. I detenuti, quando possono, dormono a terra per cercare refrigerio". Spesso è impossibile fare la doccia ogni giorno: accade al Pagliarelli o a Trapani, dove i detenuti sono costretti ai turni. "Condizioni", dice Bernardini, "danno un’immagine pessima del carcere, che passa da un degrado della persona. Un degrado anche sanitario: in tutte le carceri, l’assistenza medica è impossibile, visto che la Sicilia è stata l’ultima regione a passare dalla sanità penitenziaria alle Asp. Le cure o le analisi, spesso, arrivano troppo tardi. Fanno eccezione alcuni piccoli istituti come Giarre, ma solo perché ci sono meno detenuti". Conclusa l’iniziativa della "Carovana della Giustizia" Bernardini e i radicali ne allestiscono subito un’altra: un Satyagraha: obiettivo, dice sempre Bernardini, "rimuovere lo stato di illegalità; ci vorrebbe un provvedimento di amnistia e indulto. Quello a cui si può aspirare realisticamente è l’adozione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Centinaia di detenuti da tutti Italia hanno fatto arrivare lettere in cui aderiscono al Satyagraha collettivo come forma di lotta nonviolenta affinché siano approvati i decreti attuativi della legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario. Insieme a noi chiedono al governo e al ministro Andrea Orlando di mantenere la parola data e di non rendere vana questa legislatura. Era stato lo stesso ministro della Giustizia a dire il 19 giugno scorso che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Carcere, strategia anti suicidi. Modello integrato su tre livelli per prevenire il fenomeno di Eden Uboldi Italia Oggi, 17 agosto 2017 In G.U. l’accordo per attuare il piano nazionale nel sistema penitenziario per adulti. Istituzioni penitenziarie e sanitarie insieme contro il mal di vivere dei detenuti. Tre diversi livelli organizzativi integrati per monitorare e prevenire l’insorgere di condotte suicidarie nella popolazione carceraria adulta, con un occhio di riguardo per coloro da poco immessi nei penitenziari, i trasferiti e i dismessi. Identificati i compiti e le azioni da porre in essere per tutti i soggetti attivi nell’ambito, dai volontari alle guardie carcerarie, tutti componenti di una rete di attenzione volta a riconoscere i campanelli d’allarme sulle condizioni pisico-fisiche degli arrestati. Ma anche l’inserimento di un apposito piano formativo per far fronte alle problematicità in modo consapevole. Dopo l’approvazione definitiva da parte della Conferenza Stato-Regioni del 27/7/17, lunedì scorso l’accordo, ai sensi dell’art. 9 del dlgs 281/1997 sul documento recante "Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti" è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (Serie generale n. 189). L’entrata in vigore del Dpcm 1° aprile 2008, oltre a trasferire le competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria, i rapporti di lavoro e le risorse economiche e strumentali al Ssn, ha istituito il tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria, che ha redatto le linee guida per ridurre il rischio autolesivo e suicidario dei detenuti (adottate tramite accordo dalla conferenza unificata nel gennaio 2012). Il nuovo accordo è stato redatto con la consapevolezza di dover aggiornare e ampliare il contenuto di quello previgente, abbandonando la fase di sperimentazione e scegliendo di formulare testi differenziati per gli adulti e i minori, caratterizzati da differenti peculiarità. L’accordo in questione si concentra sulla popolazione carceraria maggiorenne, oggetto dei monitoraggi da parte del tavolo e delle amministrazioni che hanno cercato di individuare i momenti e le situazioni in cui aumentano i fattori di rischio. Il modello organizzativo integrato proposto è composto da tre livelli, centrale, regionale e locale, in cui sono rappresentate sia le istituzioni sanitarie che penitenziarie. Il Tavolo ha il compito di elaborare e aggiornare il piano nazionale di contrasto ai fenomeni suicidari, costruire la rete di referenti su tutta la penisola e produrre analisi capaci di orientare le azioni preventive. Gli osservatori regionali permanenti redigono un piano regionale, gestiscono la formazioni per gli operatori, raccolgono le migliori prassi da divulgare. Mentre le direzioni di ciascun istituto penitenziario e le aziende sanitarie dettano e declinano il piano locale di prevenzione, un documento che attua i principi generali. L’accordo stabilisce per ogni ente le attività da svolgere. Come prima cosa, vi è rivelata la necessità di formalizzare i referenti attivi a livello regionale e locale. Le regioni, poi, sono chiamate a formulare o rivedere i protocolli già redatti, prevedendo tutti i punti indicati dalle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e assicurandosi che di tutte le componenti professionali, volontarie e detenute siano assegnate gli idonei compiti come stabilito nel provvedimento. Insieme alle attività decisorie attribuite alla direzione dell’istituto, sono stati individuate attività di sostegno (che spettano al medico, all’infermiere, allo psicologo e al funzionario giuridico pedagogico) e attività di attenzione, ovvero di presidio dei casi di fragilità. Questa funzione è riconosciuta a soggetti quali i volontari, i detenuti stessi e la polizia penitenziaria. Al paragrafo tre, che incorpora le linee guida dell’Oms, sono riconosciuti come momenti critici per il detenuto il primo ingresso nel carcere, il suo trasferimento da una altra struttura, il giorno precedente l’udienza e la fuoriuscita a seguito della fine della pena. Viene così istituito uno strumento, una sorta di diario del carcerato, in cui inserire date salienti, abitudini, fattori di rischio ed evento vitali stressanti. Per gli obiettivi perseguiti dal piano di prevenzione, l’accordo conferisce alle regioni il compito di organizzare e disporre corsi di formazione per tutte le figure professionali sia di natura sanitaria come il primo soccorso e le fondamentali tecniche di rianimazione cardiopolmonari che di tipo psicosociale. Detenuti, 2 milioni e mezzo in 26 anni. Donna il 4% di Francesco Barresi Italia Oggi, 17 agosto 2017 Più di 2 milioni e mezzo di detenuti in Italia in 26 anni. Lo confermano i dati semestrali e raccolti dal ministero della giustizia, che ha pubblicato online il dataset aggiornato al 30 giugno del corrente anno su tutti i detenuti rilevati in Italia dal 1991 al 2017 per posizione giuridica, sesso e nazionalità. I dati, elaborati dalla sezione statistica dell’ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato, facente capo al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, permettono una ricostruzione preliminare e limpida sullo scenario italiano delle carceri e dei loro detenuti. Infatti, esplorando il dataset, si vede come in quasi 25 anni le carceri italiane hanno ospitato 2.880.029 persone di cui 1.232.420 imputati (circa il 42%), 1.580.556 condannati (il 55% circa) e 67.052 di internati (il 2%) in cui nella categoria "imputati" sono compresi i detenuti in attesa di giudizio, i condannati in primo e in secondo grado. Rispetto al totale rilevato il 4,4% sono donne (127.815) e il 28% sono di nazionalità straniera (sia uomini che donne) con 808.659 detenuti, quindi il restante sono uomini italiani per un totale di 1.943.555 unità, circa il 67%. Le carceri quindi sono popolate per di più da uomini italiani, di cui gli stranieri rappresentano circa del totale. Se guardiamo ai 3 anni con più prigionieri vediamo in prima posizione il 2010 con 67.961 detenuti a cui segue il 2011 con 66.897 carcerati e il primo semestre del 2012 con 66.528 prigionieri. Crolla il tasso di criminalità. "Italia paese tranquillo" di Errico Novi Il Dubbio, 17 agosto 2017 Il ministro Minniti presenta i dati (sorprendenti) del 2017. Smentiti giornali e tv. I furti? Oltre 80mila in meno rispetto a un anno fa. Le rapine? Diminuite dell’11,3%. Solo per citare i reati a più alta diffusione. Ma anche gli omicidi, nei primi 7 mesi del 2017, sono in calo rispetto allo stesso periodo del 2016: 208 contro 245, con una minore incidenza degli stessi delitti di mafia. Sono i dati diffusi dal ministro dell’Interno Marco Minniti nella tradizionale conferenza stampa di Ferragosto. Le statistiche riferiscono di reati diminuiti complessivamente del 12%, e consentono al Capo del Viminale di dire che l’Italia "è in una situazione tranquilla". Eppure lo stesso Minniti cede alla logica della sicurezza "percepita" come elemento più significativo della situazione reale, e chiosa: "Sono risultati che non bastano perché le politiche di sicurezza si misurano soprattutto con il sentimento percepito dai cittadini e il nostro compito è avvicinare questi dati proprio a quel sentimento". Marco Minniti è un buon ministro dell’Interno? I dati dicono che l’attività criminale in Italia diminuisce e che quindi il governo fa il suo dovere. "L’andamento dei dati è chiarissimo", ha chiosato il capo del Viminale nella conferenza stampa seguita al consueto Comitato per l’ordine e la sicurezza di Ferragosto, "i delitti sono diminuiti del 12%, gli omicidi in particolare del 15% e quelli riconducibili alla criminalità organizzata del 41%". Bene. Ma non basta, perché, ha aggiunto Minniti, "le politiche di sicurezza si misurano soprattutto con il sentimento percepito dai cittadini e il nostro compito è avvicinare questi dati proprio a quel sentimento". E qui il cerchio non si chiude affatto. Perché il ministro propone in pratica di cristallizzare la repressione dei reati nell’idea di un serpente che si morde la coda all’infinito. Anziché intervenire in termini di comunicazione perché passino appunto i dati di realtà, cioè la diminuzione dei reati, Minniti intende assecondare in pieno la "temperatura percepita" del crimine. Preoccupa la resa del governo di fronte a quella che qualche giorno fa, come segnalato anche da questo giornale, il nuovo procuratore di Termini imerese Ambrogio Cartosio aveva definito "una vera e propria malattia sociale", ossia "il proliferare di trasmissioni sulla presunta colpevolezza di questo o quel soggetto". Un’Italia afflitta dall’ossessione giustizialista e securitaria andrebbe richiamata alla realtà, Minniti vuole prenderla sul serio. Sorprendente ma indicativo appunto di un circolo vizioso divenuto inarrestabile: anche perché proprio il capo del Viminale due giorni fa ha parlato di un Paese che "è in una situazione tranquilla". "Abbiamo esaminato la situazione dell’ordine pubblico", ha detto, "nei primi sette mesi del 2017 il quadro è quello di un Paese accogliente, con livelli buoni di sicurezza. Ci sono tutte le condizioni per proseguire nell’approccio positivo avuto fino ad oggi". E non si tratta di chiacchiere estive. Minniti si è presentato con il tradizionale, corposissimo dossier di mezza estate. E se tradotte in numeri assoluti, le percentuali di cui sopra colpiscono ancora di più: nei primi 7 mesi del 2016 i delitti erano stati 1.463.156, nei primi 7 mesi di quest’anno sono scesi a 1.286.862, oltre 175.00 in meno. Gli omicidi sono passati da 245 a 208, di cui 20 attribuibili al crimine organizzato (si parla sempre degli intervalli 1 gennaio- 31 luglio). Sui reati che suscitano il più forte allarme sociale perché più diffusi, rapine e furti, il ministro si limita a dire rapidamente che sono a loro volta in diminuzione. Ma nel dossier i numeri parlano ancora più chiaro: il crimine più frequente, i furti, è passato da 783.692 ai 702.989 di quest’anno, con un calo percentuale del 10,3%. Le rapine dei primi 7 mesi del 2017 sono 16.991, l’ 11,3% in meno. Anziché auto-attribuirsi i meriti di queste statistiche il governo dice a Ferragosto che bisogna dar retta alla leggenda di un Paese assediato dai criminali, anche se riconosce che in realtà è "tranquillo". A confermare la vulnerabilità del discorso sono i dati su una categoria di delitti odiosa e particolarmente visibile sui media, le violenze di genere. In questo caso la retorica del ministro è certamente un doveroso segno di rispetto alla condizione femminile ("non c’è nulla di più terribile e inaccettabile, sarò soddisfatto quando avremo cancellato questo tipo di reato"), sta di fatto che l’andamento statistico giustifica qualche speranza anche qui: da una parte diminuiscono le denunce per stalking (da 7.764 a 6.042, il 22% in meno), dall’altra sono diventati più frequenti gli ammonimenti del questore (891, oltre il 10% in più) e in particolare quelli relativi a casi di violenza domestica (350, + 23%). Ci sono meno omicidi in ambito "familiare-affettivo": da 94 a 72, anche qui la variazione è del 23%. In inevitabile controtendenza i numeri degli incendi: "L’Italia ha affrontato una situazione difficile, da inizio d’anno c’è stato un + 70%". Minniti sembra prudente soprattutto quando si occupa di migranti: "È un flusso epocale ma vediamo la luce in fondo al tunnel". In generale gli sbarchi, seppur di poco, aumentano (95.213, dunque + 1,5%). Ma c’è un calo verticale a luglio (- 51,3%), in particolare nella seconda metà (- 86%), confermato dal dato sui primi quindici giorni di agosto, che è di 2.080 sbarchi contro gli oltre 7.700 di un anno fa (-73,1%): "Ma è ancora presto per fare valutazioni di carattere strutturale e i dati vanno approcciati con cautela". Fatto sta che alla tendenza generale in lieve aumento non corrisponde quel diffondersi dei crimini generalmente assimilati, nell’immaginario collettivo, alla cosiddetta "invasione". Il terrorismo resta una "minaccia alta" seppur "non incombente". Colpisce anche, in tutt’altro settore, il numero modestissimo di eventi sportivi "con disordini": solo 6 nei primi 7 mesi (e qui c’è continuità: nel 2016 se n’erano contati 8). Incendi a parte, il solo ambito in cui le cose non vanno benissimo è quello degli incidenti stradali: diminuiscono in percentuale irrisoria, poco più del 3%, e quelli con esito mortale aumentano, anche se di poco (893 contro 869). È questo il campo in cui alla "percezione diffusa" si era risposto addirittura con un reato nuovo, l’omicidio stradale. Peccato Minniti non abbia colto l’occasione per dire che un certo populismo del legislatore appaia assai meno utile del lavoro delle forze dell’ordine Con gli insulti online impuniti ci giochiamo il nostro patto sociale di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 agosto 2017 Servono strumenti e risorse per contrastare la marea di odio che monta, altrimenti il web diventerà il luogo dove tutto è lecito, la fine del contratto sociale. Il linciaggio digitale a Laura Boldrini ha lasciato il segno. Il suo sfogo, anticipato dal Corriere, ha ottenuto oltre 6 milioni di visualizzazioni - un quinto degli utenti italiani di Facebook. La politica, stavolta, non c’entra. Se la terza carica dello Stato si trova indifesa di fronte ad attacchi violentissimi - insulti nauseanti, incitamenti allo stupro, minacce di morte - cosa possiamo fare noi privati cittadini? Rassegnarci a essere diffamati impunemente? Oppure dobbiamo provare a reagire? E come? L’intervista ad Andrea Orlando (Corriere della Sera del 15 agosto) aveva questo scopo: capire cosa fare. La preoccupazione del ministro della Giustizia è sincera; ma le risposte - ci perdoni - appaiono surreali. Chiudere i profili e rimuovere i post immondi è un processo lento, complicato e serve a poco: i fanatici aprono altri profili, scrivono altri post. E ridono di noi e delle "alleanze contro l’odio". Il ministro crede che "le istituzioni debbano rimanerne fuori"? Non scherziamo: è in gioco il nostro patto sociale. Occorrono processi rapidi, condanne penali e risarcimenti. Certo non è facile: ma bisogna pur cominciare. La magistratura italiana è impotente perché le grandi piattaforme - Facebook in testa - non collaborano? Riesce solo a punire la diffamazione a mezzo stampa (innocua, in confronto)? Mancano le norme? Mancano le procedure? Manca il personale giudiziario? O manca la volontà? Se così fosse, sarebbe un dramma. Se Internet diventasse il luogo dell’impunità, sarebbe la fine di questo Stato di diritto. Dovremmo inventarne un altro, e chissà come sarà. È giusto che un giornale come il Corriere della Seradenunci la violenza, la vigliaccheria, la sconcezza e il pericolo delle parole; soprattutto verso le donne, le prime vittime di questo degrado. "Va garantita la libertà di espressione. Ma va anche tutelato il diritto di non essere diffamati, perseguitati e insultati nei propri spazi online", scrivono le colleghe del blog La 27esima Ora. Il ministro della Giustizia, invece, deve occuparsi della giustizia. E la giustizia prevede sanzioni, non solo esortazioni. Banalmente: il limite di velocità sulle autostrade viene rispettato da quando c’è il Tutor, le campagne di educazione erano servite a poco. Una condanna penale per diffamazione, e un risarcimento in sede civile, convinceranno molti assatanati che Internet non è l’inferno dove tutto è possibile. È un luogo nuovo e importante della nostra società. Dove valgono le stesse regole della nostra società. Siamo a questo punto: se si diffama/s’insulta/si minaccia una persona su un bollettino da mille copie, si finisce in tribunale (giustamente); se si diffama/s’insulta/si minaccia quella stessa persona su Facebook, con effetti potenzialmente illimitati, non succede niente. Tutt’al più, dopo infinite discussioni e negoziati, la piattaforma accetta di rimuovere il commento molesto. Il molestatore si fa una risata, e ne scrive uno peggiore. Torniamo a Laura Boldrini. Dimentichiamo che la vittima è la presidente della Camera (anche se non dovremmo: l’articolo 290 del Codice Penale prevede il reato di "vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni Costituzionali e delle Forze Armate"). È incredibile che qualcuno - firmando con nome e cognome - possa assalirla pubblicamente, chiamandola "schifosa troia", augurandosi "che tutti ‘sti immigrati ti violentino a gruppi e poi ti buttino dentro l’acido". Non vi piace leggere queste parole? A noi non piace scriverle. Ma questo è solo una piccolissima parte di quanto deve leggere Laura Boldrini - sua figlia, i suoi famigliari, i suoi colleghi e i suoi amici -. Averlo reso pubblico è, insieme, una prova di coraggio e di disperazione. I commenti apocalittici sono sempre irritanti; ma non lanciare l’allarme è da irresponsabili. Il clima che respiriamo non porta solo allo sfascio sociale. Avrà anche inevitabili conseguenze politiche. Se chiunque può diffamare, insultare, minacciare e mentire senza conseguenze, ogni discussione civile diventa impossibile. Se l’impunità è la regola, non ci sono più regole. Non tutti gli squadristi digitali sono consapevoli di ciò che fanno; ma molti sì. Ci aspetta una campagna elettorale incandescente e un voto decisivo, all’inizio del 2018. Non dimentichiamo cos’è successo negli Usa, in autunno. E ricordiamoci: in Italia e in Europa potrebbe finire peggio. Bufera per la legge sull’abusivismo. Il Pd: "Dieci milioni per le demolizioni" di Alessandro Di Matteo La Stampa, 17 agosto 2017 Arriva alla Camera il ddl Falanga, rivolta degli ambientalisti Realacci (Pd): "Non è un condono, ma i problemi esistono". Il mondo ambientalista è sul piede di guerra e parla di "condono mascherato", le forze a sinistra del Pd sono pronte a votare no attaccando il partito di Matteo Renzi, ma persino in casa democratica la legge sulle demolizioni delle case abusive lascia parecchi dubbi. Mentre il sindaco di Licata viene sfiduciato perché troppo duro contro l’abusivismo e mentre il governo impugna la legge della Regione campana troppo generosa nei confronti di chi costruisce senza regole, alla Camera arriva al rush finale una legge voluta da Ciro Falanga, senatore di Ala, che di fatto strizza l’occhio al cosiddetto "abusivismo di necessità", ovvero a tutti coloro che possono dire di aver costruito una casa abusiva perché non avevano alternative. Si vedrà a settembre se il provvedimento verrà calendarizzato alla Camera, al momento non figura in agenda ma in tanti pensano che alla fine verrà inserito. Al Senato il ddl è passato con i voti di una maggioranza trasversale che comprende centrodestra e Pd e con il no di Sinistra italiana e M5S. Ma il tema trova orecchie attente un po’ in ogni partito, basti pensare che il candidato M5S alla regione Sicilia Giancarlo Cancelleri proprio pochi giorni fa, intervistato su La7, ha spiegato che bisogna tenere conto delle esigenze della "povera gente", come fa il sindaco 5 stelle di Bagheria: "C’è un abusivismo di necessità, perché non sono stati fatti i piani casa in questa regione. A Bagheria abbiamo fatto un regolamento comunale, il nostro sindaco non sta buttando giù le case della povera gente". Il ddl Falanga, appunto, stabilisce una sorta di "classifica" delle case abusive da abolire, mettendo in coda gli edifici abusivi "di necessità" si deve procedere prima con gli immobili che costituiscono "un pericolo", poi con quelli "in corso di costruzione", quindi con le case dei mafiosi. Un elenco lungo, che solo alla fine, appunto prevede l’abbattimento delle case abusive dove abitano le stesse persone che la hanno costruite. "Il condono declassato", l’ha definito il presidente di "Fondazione Europa ecologia" Roberto Della Seta. I Verdi hanno promosso un appello contro la normativa. Sinistra italiana, Possibile di Civati e Mdp sono contrari e nel mirino finisce anche il Pd, accusato di avere un atteggiamento morbido per assecondare De Luca. Arturo Scotto, Mdp, lo dice esplicitamente: "È una sanatoria mascherata che rischia di aprire una voragine senza precedenti soprattutto in una regione che nel corso degli ultimi anni è stata devastata. Che il Pd voglia accelerare la sanatoria sta scritto nella campagna elettorale di Vincenzo De Luca, nelle promesse che ha fatto. Per noi non deve essere calendarizzata". E Pippo Civati aggiunge: "Nei giorni di Licata tutto ciò è ancora più grave. Tutti a parole vogliono contrastare l’abusivismo, ma nessuno lo fa davvero". Ermete Realacci, Pd, leader ambientalista, respinge le accuse, ricorda che il governo Gentiloni "ha impugnato la legge campana sull’abusivismo". Ma anche lui ammette che qualche problema con questa legge c’è. O meglio, a suo giudizio c’era, bisogna parlare al passato, perché "abbiamo corretto il testo presentato da Falanga". Realacci spiega: "Non è mai stata una sanatoria, ma certo si può dire che all’inizio era piuttosto "amichevole" nei confronti degli abusivi". Nella relazione di presentazione Falanga scriveva: che in "vaste aree l’illegalità, certamente censurabile, ha fornito risposte immediate ad esigenze abitative". Ora, dice Realacci, "grazie agli emendamenti che abbiamo fatto approvare, tutte le procedure sono dentro il percorso della magistratura, non è il comune che decide. Di fatto, si generalizza una pratica che c’era già in qualche procura: dare priorità negli abbattimenti a casi più gravi". Ma anche così la legge non entusiasma: "L’abbiamo migliorata - insiste Realacci - ora è previsto per la prima volta un catasto dell’abusivismo e uno stanziamento di 10 milioni l’anno per fare le demolizioni. Certo, non è una legge che risolve il problema. Nella sua versione originale sarebbe stata dannosa, ora non lo è più. Ma se non venisse approvata non sarebbe poi un problema". C’è reato di lesioni anche nella violenza per educare i figli di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2017 Tribunale di Trento, sentenza 18 aprile 2017, n. 174. Se il genitore esagera con la violenza fisica nell’educazione dei figli, corre il rischio non solo di commettere il reato di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, ma anche il più grave delitto di lesioni personali. Il primo reato si configura quando c’è uno utilizzo sproporzionato di un mezzo correttivo, in un contesto per sempre educativo; il secondo quando la modalità violenta annulla la finalità educativa. Cassette di sicurezza violate, la banca deve risarcire quanto denunciato dal cliente di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2017 Corte di Cassazione, sentenza 18637/17 del 27 luglio. Nel contenzioso per il risarcimento da furto nella cassetta di sicurezza il giudice può basarsi anche solo sul giuramento estimatorio del cliente danneggiato. La banca, dal canto suo, non può opporre clausole di limitazione del valore e neppure contestare al cliente di non aver dichiarato - prima del furto ovviamente - oggetti e valori depositati nella cassetta. La Cassazione - Prima civile, sentenza 18637 depositata il 27 luglio scorso- torna ancora una volta su un tema comprensibilmente molto sentito da chi si affida alla custodia bancaria. Il caso, riattualizzato dal ricorso di legittimità, risale a un episodio avvenuto ben 23 anni fa in un istituto di Torre Annunziata. Ignoti, approfittando di una serie di "sviste" da manuale (dalla abituale disattivazione del sistema di allarme alla porta del caveau "sistematicamente lasciata aperta") avevano trafugato oro, gioielli e valuta dalla cassetta - tra le altre - di una signora. La quale, vistasi negare il risarcimento dal tribunale locale, che aveva generosamente riconosciuto l’esistenza del "caso fortuito", aveva ottenuto soddisfazione dalla Corte d’appello che aveva ingiunto alla banca di pagare l’intero importo richiesto - l’equivalente di 1 miliardo di lire. L’istituto nel lungo ricorso in ultimo grado contestava invece, tra l’altro, la mancata considerazione del patto limitativo della responsabilità (più correttamente, l’aver ignorato la soglia pattizia di valore del risarcimento), la mancata "informativa" circa le sostanze affidate in custodia e, soprattutto, la qualificazione del giuramento (estimatorio) della parte lesa sul punto delle cose "volatilizzatesi" per mano ignota. Secondo la banca si trattava di un giuramento suppletorio, anche perché la cliente non aveva mai informato circa l’elevato valore dei beni lasciati in custodia. La Prima civile però, nel solco di precedenti ormai consolidati, ha ribadito che la prova, in questi casi, non può che essere indiziaria: il contratto di custodia infatti si limita a individuare il comportamento - che deve essere molto diligente - del custode, ma nulla prevede sulla segretezza di cui il cliente beneficia, che è notoriamente intangibile e che resta fuori dalle obbligazioni contrattuali. E pertanto l’elencazione dettagliata e tempestiva dei beni presentata dalla cliente - e del loro valore -può essere liberamente apprezzata dal giudice anche come unico elemento "decisivo" nella questione del risarcimento. Ogni patto limitativo della responsabilità, aggiunge la Corte, vìola la regola generale del codice civile (articolo 1229, "È nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave"). Ulteriore ma non ultima postilla: per la Cassazione l’adeguatezza delle misure "anti-intrusione" adottate dalla banca non si valuta in astratto (ex ante) ma… a frittata fatta, prendendo in considerazione tutto quello che era solito avvenire nelle "segrete" stanze. L’aggravante della destrezza nel reato di furto. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2017 Furto - Aggravante della destrezza articolo 625 c.p. - La circostanza aggravante della destrezza di cui all’articolo 625 cod. pen., comma 1, n. 4,richiede un comportamento dell’agente, posto in essere prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso; sicché non sussiste detta aggravante nell’ipotesi di furto commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore dalla cosa. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 luglio 2017 n. 34090. Furto - Aggravante della destrezza articolo 625 c.p. - Presupposti per la configurabilità - Individuazione. In tema di furto, sussiste l’aggravante della destrezza quando l’agente approfitti di una condizione contingentemente favorevole, o di una frazione di tempo in cui la parte offesa ha momentaneamente sospesa la vigilanza sul bene perché impegnata, nello stesso luogo di detenzione della cosa o in luogo immediatamente prossimo, a curare attività di vita o di lavoro. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 20 maggio 2015 n. 20954. Furto - Aggravante della destrezza articolo 625 c.p. - Sottrazione e impossessamento di beni - Accertamento responsabilità - Presupposti - Distacco momentaneo del proprietario dal bene - Approfittare di una condizione di attenuata difesa. Sussiste la circostanza aggravante della destrezza (articolo 625 c.p., comma 1, n. 4), qualora la condotta di sottrazione e di impossessamento del bene si realizzi mediante approfittamento delle condizioni più favorevoli per cogliere l’attimo del momentaneo distacco del proprietario della cosa e, dunque, di una condizione di attenuata difesa, quale è quella di colui che la perda di vista, per una frazione di tempo, senza precludersi, tuttavia, il controllo e l’immediato ricongiungimento con essa; l’approfittamento di questa frazione di tempo, in permanenza della vigilanza diretta e immediata della cosa, configura la condotta elusiva che il legislatore intende punire più gravemente, in quanto espressione di una particolare attitudine criminale del soggetto. Ne consegue che detta aggravante non ricorre nel caso in cui il derubato si trovi in altro luogo, ancorché contiguo, rispetto a quello in cui si sia consumata l’azione furtiva o comunque si sia allontanato da esso, in quanto in questo caso la condotta non è caratterizzata da particolare abilità dell’agente nell’eludere il controllo di cui sia consapevole, ma dalla semplice temerarietà di cogliere un’opportunità in assenza di detto controllo, il che è estraneo alla fattispecie dell’aggravante della destrezza. • Corte di Cassazione penale, sezione V, sentenza 17 marzo 2014 n. 12473. Furto - Aggravante della destrezza articolo 625 c.p. - Presupposti - Approfittare di tempo e luoghi tali da attenuare la normale attenzione della parte lesa. Ai fini della configurabilità dell’aggravante della destrezza nel furto, è sufficiente che si approfitti di uno stato di tempo e di luogo tali da attenuare la normale attenzione della parte lesa nel mantenere il controllo ovvero la vigilanza sulla cosa, rientrando nel concetto di destrezza qualsiasi modalità della azione furtiva idonea a non destare l’attenzione suddetta. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 10 gennaio 2014, n. 640. Catania: detenuti in sciopero della fame per chiedere condizioni migliori cataniatoday.it, 17 agosto 2017 Piazza Lanza, detenuti in sciopero della fame per chiedere condizioni migliori. Hanno aderito in massa allo sciopero promosso dal Partito Radicale per chiedere al Governo di emanare entro l’estate i decreti delegati di attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il carcere di Piazza Lanza continua ad essere un istituto sovraffollato, sebbene negli ultimi anni la situazione sia notevolmente migliorata sia sotto il profilo della pressione detentiva, sia dal punto di vista delle condizioni strutturali. È quanto emerge dopo la visita di Ferragosto degli esponenti del Partito Radicale Gianmarco Ciccarelli, Donatella Corleo, Giulia Cumitini, Luigi Recupero ed Eliana Verzì, che anche quest’anno si sono recati nella struttura detentiva etnea per fare un sopralluogo ed incontrare i detenuti. Questi ultimi hanno aderito in massa al "Satyagraha" promosso dal Partito Radicale per chiedere al Governo di emanare entro l’estate i decreti delegati di attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, con tre giorni di sciopero della fame (16, 17 e 18 agosto), devolvendo alla Caritas il vitto fornito dall’amministrazione penitenziaria. Il 15 agosto i detenuti presenti erano 350, a fronte di una capienza regolamentare di 253 posti, con un affollamento del 138 per cento. Si tratta di 331 uomini e 19 donne. Gli stranieri sono 84. Con riferimento alla posizione giuridica, sono 76 i detenuti che scontano una condanna definitiva, mentre 274 sono in attesa di giudizio. Sono 41 i detenuti tossicodipendenti e altrettanti affetti da patologie di tipo psichiatrico. Fra le criticità rilevate, oltre al sovraffollamento, la persistente carenza di organico del corpo di polizia penitenziaria, che può contare su 234 agenti effettivamente in servizio a fronte di una pianta organica che ne prevede 395. Sotto organico anche gli educatori: soltanto 3 in luogo dei 6 previsti. Per i detenuti stranieri non è disponibile la figura del mediatore culturale. Soltanto 59 le persone impiegate in attività lavorative, tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, oggi di competenza del servizio sanitario regionale, si segnalano ritardi e carenze che, in alcuni casi, rischiano di comprimere seriamente il diritto alla salute delle persone recluse. Il rapporto fra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria è molto buono, secondo i radicali. "Il clima all’interno del penitenziario - scrivono nel rapporto - è sereno e ciò si deve in primo luogo alla professionalità della direttrice dott.ssa Elisabetta Zito e della comandante di polizia penitenziaria dott.ssa Simona Verborosso,oltre alla maturità della popolazione detenuta che, ancora una volta, ha scelto di utilizzare il metodo della nonviolenza per porre all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica le proprie legittime istanze e rivendicazioni di diritti". Bari: sciopero della fame in carcere, i detenuti danno tutto il cibo in beneficenza di Roberto Maggi telebari.it, 17 agosto 2017 Uno sciopero della fame proclamato a livello nazionale. I detenuti che rinunciano ai pasti per sei giorni per chiedere che il Guardasigilli Orlando firmi al più presto i decreti attuativi del nuovo regolamento penitenziario, già approvato in Parlamento. L’iniziativa, promossa dai Radicali Italiani, ha trovato adesione anche nella casa circondariale di Bari, che ospita 366 persone, ben oltre la capienza massima di 299. "Un digiuno finalizzato al dialogo - spiega la responsabile dell’iniziativa Maria Rosario Lomuzio - I decreti dovevano essere pronti entro agosto, invece si rischia di arrivare a dicembre." Tra le misure previste dal nuovo regolamento vi è in particolare un ampliamento delle misure alternative alla detenzione. Un provvedimento ritenuto necessario soprattutto in relazione all’annoso problema del sovraffollamento delle carceri. Lo sciopero della fame ha rappresentato comunque un’occasione per le famiglie indigenti della città. Tutto quello che non sarà consumato dai detenuti verrà infatti devoluto in beneficenza. E stamattina i volontari dell’Associazione In.Con.Tra. infatti hanno ritirato pane, ortaggi, frutta e soprattutto carne. Beni alimentari che saranno destinati al market sociale del quartiere San Paolo. Trieste: sciopero dei pasti per l’80 per cento dei detenuti Il Piccolo, 17 agosto 2017 Dei 160 carcerati che hanno protestato oggi a Trieste, una quarantina ha precisato di aver aderito all’iniziativa lanciata dal Partito Radicale nelle carceri italiane. Per gli altri le motivazioni sono state diverse. L’80 per cento dei detenuti della casa circondariale del Coroneo, a Trieste, ha aderito allo sciopero dei pasti, quest’oggi (mercoledì 16 agosto), in occasione del primo giorno del "Grande Satyagraha" promosso dal Partito Radicale in tutte le carceri italiane per chiedere al governo di emanare entro l’estate i decreti delegati di attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Di questi 160 detenuti che si sono astenuti dal mangiare, solo un quarto ha affermato di aver saltato i pasti per aderire all’iniziativa Radicale, della durata di cinque giorni. Un altro quarto ha invece precisato di aver scioperato "contro il sistema", mentre il rimanente 50% non ha voluto motivare il proprio gesto. Bologna: i detenuti in sciopero della fame con i Radicali Corriere di Bologna, 17 agosto 2017 Uno sciopero della fame per sostenere la battaglia promossa dalla radicale Rita Bernardini che chiede di accelerare l’approvazione definitiva del disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento carcerario. Ad annunciare l’adesione a questa forma di protesta non violenta, che comporterà il rifiuto del vitto per due giorni (ieri e oggi), sono i detenuti della sezione penale A/B con una lettera inviata al nostro giornale. Il carcere della Dozza condivide con le case circondariali del resto d’Italia problemi strutturali di sovraffollamento, anche se non più ai livelli di qualche anno fa. Rieti: sciopero della fame al carcere, i detenuti battono con le posate sulle sbarre Il Messaggero, 17 agosto 2017 Vibrante protesta dei detenuti nel carcere di Rieti. Sull’onda delle manifestazioni che si stanno organizzando in tutti i penitenziari della Penisola per contestare le condizioni in cui si trovano i detenuti, da questa mattina gli oltre 400 reclusi nella struttura di Vazia - 402 per la precisione - si astengono dal mangiare. Hanno già rifiutato la colazione e il pranzo e lo stesso stanno ora facendo per la cena. Contemporaneamente battono sulle sbarre delle loro celle con le posate e i piatti e gridano ad alta voce. Una protesta molto rumorosa che si sente molto bene anche dall’ospedale de Lellis. I detenuti, al momento, hanno indetto tre giorni di sciopero della fame. Bologna: carcere, l’urgenza di percorsi condivisi di Giulia Cella Bologna Sette, 17 agosto 2017 A colloquio con Antonio Ianniello, il nuovo Garante del Comune per le persone private della libertà personale. È fresco di nomina ma ha già le idee chiare. Antonio Ianniello è il nuovo Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, eletto a inizio luglio. Le prerogative del suo ufficio attengono in prima battuta all’attività di vigilanza nei confronti delle persone sottoposte a privazione della libertà personale: detenuti, maggiorenni e minorenni, arrestati e fermati presso le Camere di sicurezza delle forze dell’ordine e internati nelle Rems, le strutture nate dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Quali sono i compiti del Garante? L’attività di vigilanza consiste in visite alle strutture, colloqui con le persone che ne fanno richiesta e vaglio delle segnalazioni che pervengono all’ufficio. Oltre a questo, sono chiamato a valutare l’opportunità di intraprendere iniziative finalizzate alla promozione dei diritti umani e al reinserimento delle persone nel tessuto sociale, dialogando con tutte le realtà del territorio: il percorso di rieducazione deve essere necessariamente condiviso. Nell’ultimo mese si è parlato molto dell’emergenza caldo alla Dozza. Considerate le elevate temperature, chiaramente si è verificata una situazione di disagio per detenuti e operatori, ma al mio ufficio non sono arrivate segnalazioni in proposito. L’area sanitaria era stata attivata e alcuni accorgimenti realizzati, come quello di dotare ogni sezione del carcere di un frigorifero per l’acqua. Non è stato invece possibile, per motivi organizzativi, rimodulare l’orario di permanenza nei passeggi all’aperto. Nella sezione femminile sono ancora presenti dei bambini? I bambini attualmente presenti alla Dozza sono quattro e nessuno di loro ha più di due anni. La situazione è in evoluzione e si sta attivamente lavorando per cercare soluzioni alternative, ma in proposito si impone la massima cautela perché si tratta di vicende giudiziarie estremamente complesse. L’Amministrazione penitenziaria sta comunque cercando di agevolare la vita di questi bambini in carcere, ad esempio rendendo libero l’accesso alla ludoteca per tutto il giorno, dalle 9 alle 20. Una battuta sul carcere del Pratello? Stanno finalmente terminando i lavori di ristrutturazione e riqualificazione dell’area verde che sarà destinata all’attività sportiva, estremamente importante considerata la giovane età dei detenuti. I numeri della detenzione alla Dozza e al Pratello Presso la Casa Circondariale di Bologna "Rocco d’Amato" al 31 luglio scorso risultavano presenti 785 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 495 persone. Tuttavia nessuno risultava vivere in uno spazio detentivo inferiore ai 3 metri quadrati, considerato "vitale" dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Alla stessa data, le donne erano 78 e i bambini 4, tutti al di sotto dei due anni (a livello nazionale erano 64 i bambini presenti nelle carceri italiane). Più della metà delle persone ristrette alla "Dozza" erano straniere (esattamente, 428 su 785). Si registra invece una grave carenza di educatori che può mettere in difficoltà gli interventi di tipo pedagogico. Presso il carcere minorile del Pratello, al 15 luglio scorso i detenuti presenti erano 20 (460 quelli che si attestano a livello nazionale). Taranto: Senatori in visita in carcere per Ferragosto Quotidiano di Puglia, 17 agosto 2017 C’è chi il ferragosto lo passa al mare e chi impegnandosi nel sociale. In particolare visitando le carceri pugliesi. A Taranto si registra una forte criticità sia sul fronte del sovraffollamento che degli organici. Resta, infatti, fortemente critica, anzi si aggrava, la situazione degli organici della polizia penitenziaria, con un deficit importante anche sotto il profilo del progressivo invecchiamento degli operatori che, per circa il 50%, ha più di 50 anni. La carenza di organico e anche l’età avanzata, determinano sugli agenti in servizio eccessivi oneri di lavoro, esponendoli maggiormente a rischi di aggressione. È questa in sostanza la fotografia scattata dai senatori di Direzione Italia, d’Ambrosio Lettieri e Liuzzi che il giorno di ferragosto, come consuetudine ormai da diversi anni, hanno visitato i penitenziari di Taranto e Bari. Oltre al grave deficit di organico, i senatori hanno riscontrato diverse criticità sul fronte dell’attuazione delle procedure sanitarie, con particolare riguardo ai pazienti di interesse psichiatrico, ma anche alla rotazione eccessiva del personale medico-infermieristico ogni due mesi e alla carenza specialistica in psichiatria e sul fronte dei sistemi tecnologici, insufficienti e inadeguati, soprattutto in merito alla video sorveglianza. "Occorre implementare il fondo destinato alla giustizia perché si investa sia sul turn over del personale che sulla innovazione tecnologica", sottolineano d’Ambrosio Lettieri e Liuzzi, "Ora valuteremo le iniziative parlamentari idonee con i colleghi del gruppo perché si deve intervenire con fatti concreti nel più breve tempo possibile. Il concorso previsto per gli agenti di polizia penitenziaria distribuirebbe sul territorio aumenti di personale, oseremmo dire, ridicoli. Occorre potenziare gli organici, costruire nuove carceri vivibili senza perdere tempo in interventi svuota carceri che aggravano le situazioni di sicurezza al di fuori e, non ultimo, bisogna attivare servizi adeguati di recupero di chi ha sbagliato". D’Ambrosio Lettieri e Liuzzi rilevano come il problema del sovraffollamento è drammatico nel carcere di Taranto che ospita 505 detenuti rispetto ad una capienza di 306. Ma paradossalmente è la qualità della vita del personale e degli agenti penitenziari a non conoscere neppure un minimo miglioramento, anzi peggiora. A Taranto c’è il 20% di personale in meno rispetto all’organico previsto e tra due anni, quando sarà completato il nuovo padiglione, ci vorranno almeno 100 agenti in più. Roma: "Fine pane mai", la bottega di Rebibbia dove i detenuti preparano pizza e dolci di Angela Gennaro Il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2017 L’hanno definita "di confine". "Fine Pane Mai" è una caffetteria, una bottega. Ma è anche una breccia nel muro di cinta di una prigione, quella di Rebibbia, periferia est di Roma. Ha aperto a fine aprile e vende pane, pizza, dolci e gastronomia realizzati dai dipendenti detenuti della Terza casa circondariale, istituto a pena attenuata. Ha già cominciato a cambiare lo scenario di questo quartiere popolato da anziani e da pochi, cari negozietti. "All’inizio non è stato semplice: i commercianti hanno storto il naso", racconta Annunziata Passannante, direttrice dell’istituto. "Ma le cose, si sa, si risolvono da sole: ora le signore del quartiere vengono qui a fare colazione". L’idea risale a qualche anno fa, e nasce dal confronto tra la direzione e un ex detenuto, Claudio Punti. "È stato Claudio a proporre questo progetto", racconta Passannante. "È così che abbiamo cominciato a lavorare per trovare finanziamenti e siamo arrivati a presentare il progetto a Cassa Ammende che lo ha poi approvato". Un’avventura complessa, in cui "io e i miei collaboratori abbiamo dovuto affrontare tutte le gare, comprare i forni, diventare esperti di una materia che non ci apparteneva". E poi l’apertura del muro di cinta "per creare questo ponte di comunicazione". La bottega è stata poi consegnata all’imprenditore capofila del progetto, Valentino Petroni, della Panifici Lariano, da tre generazioni nel settore. "Abbiamo l’obbligo di vendere il prodotto trasformato in questi laboratori e di assumere delle persone", spiega. "Ci troviamo bene a lavorare con i detenuti: per noi un dipendente è un dipendente, punto". Nella bottega e nei laboratori lavorano a oggi sette detenuti: "E l’idea è di arrivare a 15/20 dipendenti: stiamo aspettando di ingranare ulteriormente". La Terza Casa Circondariale di Rebibbia è un istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti, abusatori,e da poco anche per tutte le altre forme di dipendenza, compresa quella da gioco d’azzardo. "Ci sono una quarantina di detenuti tossicodipendenti", dice Passannante, "e poi c’è una sezione semi-liberi con un’altra quarantina di persone: escono la mattina per andare al lavoro all’esterno e rientrano la sera. Quello alla caffetteria "Fine Pane Mai - Terza Bottega" "è un lavoro a tutti gli effetti: non si tratta solo di passare la giornata", spiega la direttrice. "Sanno che se l’imprenditore rientra con i costi, loro continuano ad avere contratto e contributi. Quello che vivono è il rapporto che all’esterno un lavoratore ha con il proprio datore di lavoro". "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria. "La tortura questo infame metodo di indagine" commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 17 agosto 2017 Siamo così giunti finalmente al tema più scottante e che più di ogni altro ha fatto discutere in passato i criminalisti, fino a diventare un paradigma di riferimento obbligato per saggiare il tasso di giuridicità di un ordinamento: la tortura. Beccaria si preoccupa di chiarire immediatamente con logica inoppugnabile i termini reali del problema: o il delitto è certo oppure è incerto; se è certo, la tortura è del tutto inutile in quanto la confessione del reo è superflua; se invece è incerto, la tortura è indebita, in quanto sarebbe applicata ad un innocente, quale deve essere considerato l’accusato fino alla prova definitiva e inoppugnabile della sua colpevolezza. Non so fino a che punto ci si renda conto della preziosa posizione di Beccaria in ordine alla presunzione di innocenza, difesa e razionalmente affermata oltre due secoli e mezzo or sono, quando nessuno neppure ne parlava o la ipotizzava, presunzione che oggi purtroppo a volte viene dimenticata o messa fra parentesi. Per questo, Beccaria insiste che nessuno può chiamarsi reo fino a quando la sua colpevolezza sia accertata attraverso la sentenza del giudice. Per il giurista milanese, nessuno dei motivi che vengono tradizionalmente offerti per giustificare la tortura - atterrire gli uomini, purgare l’infamia ecc. - regge ad una seria critica. A ben vedere, secondo Beccaria la tortura è equiparabile alle celebri prove legali in uso nel medioevo, quali la prova del fuoco, quella dell’acqua bollente, insomma ai cosiddetti giudizi di Dio e di questi soffre tutta la irrazionalità giuridica e la casualità. Secondo la retta ragione, la sola differenza fra le prove barbaricamente legali e la tortura risiede nel fatto che mentre nelle prime l’esito dipende da fattori estrinseci e del tutto eventuali, in questa l’esito dipende in buona parte dalla volontà dell’accusato. È pur vero - nota ancora il giurista - che la confessione fatta durante la tortura necessita, per essere valida, della conferma sotto giuramento fatta in un momento successivo, ma è anche vero che, assurdamente, in molti Stati se l’accusato non conferma quanto in precedenza dichiarato sotto tortura, verrà di nuovo sottoposto ai tormenti (in certi Stati solo per tre volte, in altri a discrezione del giudice): insomma, un cane che si morde la coda, non se ne esce più. Ma la vera argomentazione che rivela la assurdità della tortura sta nel fatto che l’innocente si trova in una posizione di svantaggio rispetto al colpevole. Se infatti, viene torturato l’innocente, questi o confessa - per far cessare il tormento - ciò che non ha fatto e allora sarà condannato; oppure, non confessando, viene assolto e allora avrà patito ingiustamente una enorme sofferenza. Se invece viene torturato il colpevole, se questi stoicamente sa resistere al dolore, verrà assolto. Ne viene che mentre l’innocente avrà sempre perso qualcosa, il colpevole è messo in grado di guadagnare la propria impunità. Nell’ambito di questa cornice giudiziaria, il giudice non è più un terzo imparziale, ma diviene "nemico del reo", afferma in modo preciso Beccaria, non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto attraverso la tortura. E qui, Beccaria alza il tono del discorso attingendo compiutamente luoghi che oggi potremmo definire propri di una teoria generale del processo penale. Infatti, egli distingue fra un processo penale offensivo, dove per essere dichiarati innocenti, bisogna prima esser detti rei, e perciò anche essere sottoposti alla tortura; e un processo penale informativo, dove invece prevale la ricerca imparziale del fatto da chiunque commesso. In Europa, a metà del settecento, il secondo era sconosciuto, mentre il primo era l’unico concretamente sperimentato: oggi, usando il linguaggio dei giuristi contemporanei, diremmo che il processo inquisitorio deve lasciar spazio a quello accusatorio. Oggi. Ma a metà del settecento era pericoloso affermare quelle che sembrano ovvie verità. Beccaria conclude questa sezione della sua opera, criticando l’uso di far giurare gli accusati - come oggi avviene ancora purtroppo in America. E ciò sia per motivi pratici, perché mai il giuramento potrà spingere l’accusato a dichiararsi colpevole, sia che questi lo sia davvero, o anche se non lo sia; inoltre, l’uso del giuramento mescola quei due piani che per Beccaria devono restare sempre distinti, quello divino e quello umano. C’è bisogno di aggiungere altro? CAPITOLO XVI. DELLA TORTURA Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, è non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per più d’un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù. Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine, che la tirannia dell’uso esercita su i rei e sugl’innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v’è rimedio, non può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell’impunità. S’egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtù, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di più, quanto è maggiore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate. Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, purghi l’infamia, che è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l’infamia è forse un corpo misto impuro? Non è difficile il rimontare all’origine di questa ridicola legge, perché gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira eterna del grand’Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora l’infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile che è l’infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi più sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d’ignoranza, così ad essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni e ne fa le più assurde e lontane applicazioni. Ma l’infamia è un sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l’infamia dando l’infamia. Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il timore della pena, l’incertezza del giudizio, l’apparato e la maestà del giudice, l’ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl’innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contradizione e l’innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell’animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall’imminente pericolo. Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte dell’armi, quasi che gli anelli dell’eterna catena, che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell’acqua bollente, è che l’esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È così poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l’impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell’acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del reo è così necessaria come le impressioni del fuoco o dell’acqua. Allora l’innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla. È superfluo di raddoppiare il lume citando gl’innumerabili esempi d’innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l’uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d’un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto. L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisonomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso. Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtù e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno dè più saggi monarchi dell’Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico dè suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene più d’ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell’uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il più umano metodo di giudicare. Questa verità è finalmente sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato. Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare. La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa. Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent’altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo. Finalmente la tortura è data ad un accusato per discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici, che è una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l’uomo che accusa se stesso non accusi più facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli uomini per l’altrui delitto? Non si scuopriranno i complici dall’esame dei testimoni, dall’esame del reo, dalle prove e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell’accusato? I complici per lo più fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno, l’incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all’esilio e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l’unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto. CAPITOLO XVII. DEL FISCO Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L’oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l’esattore di queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessità dell’esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero, un agente dell’erario fiscale anzi che il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure criminali d’allora, così la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz’essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della stabilita, senz’essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s’impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può. Provata l’esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere quest’ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all’avvenire il più terribile; non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose. Gl’indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla più felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell’uomo la possibile verificazione di un tale sistema CAPITOLO XVIII. DEI GIURAMENTI Una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all’uomo nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che l’uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l’interesse. L’esperienza di tutt’i secoli ha fatto vedere che essi hanno più d’ogni altra cosa abusato di questo prezioso dono del cielo. E per qual motivo gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati più saggi l’hanno sovente violata? Troppo deboli, perché troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi che la religione contrappone al tumulto del timore ed all’amor della vita. Gli affari del cielo si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari umani. E perché comprometter gli uni cogli altri? E perché metter l’uomo nella terribile contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che obbliga ad un tal giuramento, comanda o di esser cattivo cristiano o martire. Il giuramento diviene a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa maniera la forza dei sentimenti di religione, unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha fatto vedere l’esperienza, perché ciascun giudice mi può esser testimonio che nessun giuramento ha mai fatto dire la verità ad alcun reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina insensibilmente. Migranti. L’Austria schiera l’esercito al Brennero: "Ma senza panzer". L’ira del Viminale di Adriana Pollice Il Manifesto, 17 agosto 2017 Nonostante gli arrivi dei migranti siano al minimo degli ultimi tre anni. Gentiloni risponde a Juncker: "Pronti ad accogliere le proposte Ue per fermare i flussi". L’Austria schiera settanta militari lungo i trentina chilometri di confine del Brennero per aiutare la polizia a bloccare i migranti. Ma "non saranno messi in azione i panzer", assicura Vienna. La decisione, annunciata ieri, è stata presa a causa "dell’aumento dei clandestini sui treni merci a luglio". Secondo le autorità austriache, i tentativi di ingresso variano tra i 10 e i 25 al giorno con punte di 45 nel fine settimana. La novità non è stata presa bene dal lato italiano del confine. Il governatore altoatesino, Arno Kompatscher, ha commentato: "Non c’è alcuna necessità dell’intervento dei militari". Irritato il Viminale: "Non giustificata l’iniziativa al Brennero. La situazione è tranquilla: nei primi sette mesi del 2017, alla frontiera italo-austriaca, è stato inibito l’ingresso a 1.200 stranieri". Il ministro Marco Minniti avrebbe chiesto al Dipartimento della Pubblica sicurezza di fare un passo verso i propri omologhi per far rientrare l’intervento. I flussi migratori a luglio hanno toccato il punto più basso, per il periodo, degli ultimi tre anni ma il 15 ottobre ci saranno le elezioni in Austria e mostrare i muscoli alla frontiera aiuta i partiti nei sondaggi. La decisione austriaca ha incrinato il clima di concordia europeo. Il governo italiano ieri ha risposto alla lettera ricevuta il 25 luglio dal presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, firmata anche dal vice Frans Timmermans e dal commissario Ue all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. Oggetto: la gestione dei flussi attraverso il Gruppo di contatto permanente. La Ue ha offerto all’Italia risorse aggiuntive per rimpatri, ricollocamenti e allontanamento rapido di chi ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo. "Il governo è pronto ad accogliere le iniziative che proponete" ha scritto Gentiloni mentre, per quanto riguarda i salvataggi in mare, ha chiesto "soluzioni in ambito Frontex per ampliare la collaborazione". Nel testo si batte sul tema dei fondi (chiedendo "un maggior sforzo europeo"), soprattutto verso Tripoli: "Gli stati membri finanzino in modo significativo, prima del Consiglio europeo d’ottobre, il fondo fiduciario Ue per l’Africa, anche per sostenere l’attività di Unhcr e Oim in Libia". Gentiloni, in particolare, chiede che venga "approvato il finanziamento anche delle prossime fasi del progetto" proposto da Minniti, per un totale di 270 milioni di euro fino al 2026. Si tratta di fondi da impiegare per la difesa dei confini libici, per "rafforzare la frontiera meridionale, sostenere lo sviluppo economico delle comunità locali e dei paesi di transito confinanti". Finanziamenti che si andranno a sommare ai 46 milioni già andati alla Libia. Gentiloni tocca anche il tema della riforma del Sistema di asilo e del regolamento di Dublino: "Non si può prescindere dal principio di redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo tra stati membri". Un tema su cui hanno fatto muro quasi tutti i paesi, rifiutando i ricollocamenti. Una prima risposta è arrivata da Avramopoulos: "Contiamo sul sostegno di tutti nel mostrare solidarietà all’Italia". Clima sereno, quindi, intorno a una linea politica basata sul bloccare i flussi in Africa. Il Piano d’azione della Commissione, approvato dai ministri dell’Interno Ue a Tallinn il 6 luglio, è la road map su cui convergono le missive verso e dall’Italia: fondi aggiuntivi fino a 100 milioni sulla legge Minniti "per accelerare le procedure di asilo e rimpatrio"; un nuovo accordo sui ricollocamenti; 500 esperti di Frontex e più fondi per aumentare i rimpatri; 40 esperti per velocizzare l’esame delle richieste di asilo. Nei prossimi giorni Minniti e Avramopoulos incontreranno a Roma sindaci e governo libici per discutere di progetti di sviluppo. Il 28 agosto si riunirà la cabina di regia dei ministri dell’Interno di Italia, Libia, Mali e Niger per rafforzare la vigilanza sul confine sud della Libia. Lo stesso giorno a Versailles ci sarà un vertice tra Italia, Francia. Germania e Spagna per discutere ancora di Libia e strategie nell’area. Droghe. Piante proibite e medicine per i poveri di Marco Perduca Il Manifesto, 17 agosto 2017 La coltivazione di piante illecite spesso aiuta i piccoli agricoltori a far fronte alla scarsità di cibo di zone economicamente depresse e compensa l’imprevedibilità dei mercati agricoli. Quando si parla di droghe, raramente si prende in considerazione ciò che circonda la coltivazione delle piante necessarie per la produzione di eroina, cocaina e marijuana. Pochi sanno infatti che quegli arbusti e i loro fiori sono stati inclusi nelle tabelle della convenzione dell’Onu sulle sostanze psicotrope del 1961. Come ammette l’Ufficio dell’Onu per le droghe e il crimine, che annualmente produce un Rapporto Mondiale sulle droghe, la coltivazione di piante illecite spesso aiuta i piccoli agricoltori a far fronte alla scarsità di cibo di zone economicamente depresse e compensa l’imprevedibilità dei mercati agricoli ormai interconnessi a livello trans-nazionale. Trattandosi però di attività illegali l’economia che dipende da quelle coltivazioni non è chiaramente sostenibile nel lungo periodo e lascia gli agricoltori nelle mani di intermediari senza scrupoli o li rende direttamente dipendenti dei trafficanti di droga. A queste variabili negative occorre aggiungere la costante minaccia dell’eradicazione forzata delle colture da parte del governo o di organismi internazionali. La regione andina, buona parte della costa sud-orientale del Mediterraneo e vaste zone dell’ex triangolo d’oro e dell’Afghanistan sono le regioni più interessate da questo fenomeno di "agricoltura proibita". Tutte regioni in cui l’economia si basa pressoché esclusivamente sull’agroalimentare. Malgrado decenni di ingenti investimenti per ridurre l’offerta delle piante illecite, la loro produzione globale non accenna a diminuire. Infatti, quando si riesce ad avere un impatto significativo sulla riduzione di una coltura in un determinato paese, in particolare per quanto riguarda la foglia di coca, nel giro di pochi mesi l’Onu rileva che la coltivazione si è semplicemente spostata nel paese vicino. La distribuzione geografica della produzione del papavero è più radicata e in costante aumento in Afghanistan, con un significativo ritorno strutturale anche in Myanmar. Dal 2003, due anni dopo l’intervento armato degli Stati uniti, l’Afghanistan è tornato a essere il principale coltivatore di papaver somniferum con circa il 74% della produzione di oppio per eroina per un totale globale di oltre 236.000 ettari. Nel 2013, a seguito di raccolte importanti in Birmania e Laos, ma anche in Messico e Colombia, si è registrato il record assoluto della produzione di oppio illecito. Il contrasto alle colture illecite viene inoltre perseguito con la promozione di progetti di "sviluppo alternativo" per sostituire colture lecite a quella di coca, papavero e cannabis. Dopo alcuni successi ottenuti negli anni Novanta in Perù, e recentemente in Bolivia, quando questi progetti non sono più sostenuti economicamente si nota un ritorno ai prodotti illeciti di gran lunga più lucrativi. A fronte di questi fallimenti del proibizionismo globale la comunità internazionale non ha mai avviato una riflessione su come affrontare il problema in modo alternativo. Eppure, oltre alla trasformazione in stupefacenti, o a far parte di tradizioni, riti sacri e diete millenarie, la foglia di coca, il seme di papavero e la pianta della cannabis possono essere utilizzate anche per la produzione di medicinali per la cura del dolore, tanto è vero che le Convenzioni ne prevedono una produzione limitata. Da oltre dieci anni, l’Organizzazione Mondiale della Salute denuncia come l’80% della popolazione mondiale, cioè oltre 5 miliardi e mezzo di persone, non abbia alcun accesso a prodotti analgesici: che si aspetta quindi a legalizzare le colture illecite per consentire una produzione di medicine per i poveri del mondo? Egitto. Caso Regeni, ragioni di Stato e di dignità di Franco Venturini Corriere della Sera, 17 agosto 2017 La tragica fine di Giulio Regeni ha sempre suscitato in noi un orrore e una sete di giustizia che rimangono tali anche dopo l’annuncio del ritorno in Egitto di un ambasciatore italiano. Semmai sono ora le prerogative dello Stato, i suoi doveri e i suoi poteri, la sua lucidità politica e il suo impegno umanitario, ad affiancarsi alle emozioni e a dover essere giudicati. Possibilmente senza fare dell’irrisolto caso Regeni un nuovo terreno di scontro pre elettorale. Uno Stato che si rispetti, per cominciare, non abbandona e non tradisce i suoi cittadini. Mai, e quali che siano gli interessi economici o geopolitici in gioco. Si è detto e scritto in questi giorni che l’Italia vuole riportare al massimo livello i suoi rapporti diplomatici con l’Egitto perché le pressioni del Cairo sul generale Haftar sono indispensabili alla nostra politica di contenimento dei migranti in Libia. Cosa indubbiamente vera, come è vero che gli interessi economici italiani in Egitto sono rilevanti. Ma uno Stato degno di questo nome, pur avendo il diritto di perseguire i suoi interessi e di elaborare la sua politica estera con le procedure previste dalla Costituzione, non perde mai l’obbligo morale e politico della tutela del suo cittadino. Men che meno quando questo cittadino è stato arrestato in un Paese straniero dichiaratamente amico, torturato selvaggiamente da organi di questo Paese e così assassinato. L’Italia non può voltare pagina su Giulio Regeni se non vuole diventare uno Stato marionetta. Deve continuare a esigere collaborazione giudiziaria. Deve continuare a chiedere a gran voce la verità, anche sapendo che difficilmente l’avrà con o senza ambasciatore. L’annuncio del governo ribadisce questi impegni, e afferma che con un capo missione al Cairo sarà più facile perseguirli. Tesi del tutto credibile, ma che andrà verificata senza cedimenti, senza distrazioni, e speriamo senza strumentalizzazioni appartenenti al nostro teatrino interno. C’è poi un altro aspetto che rientra nell’agire di uno Stato degno quale l’Italia vuole e deve essere: quello del decoro e della credibilità. Perché annunciare la prossima partenza dell’ambasciatore nella serata del 14 agosto? Forse perché la collaborazione tra Procure aveva fatto proprio quel giorno un grande balzo in avanti? Forse perché soltanto quel giorno erano state tirate le somme della missione parlamentare guidata dal senatore Nicola Latorre che aveva incontrato il presidente egiziano Al-Sisi l’11 luglio? Se anche così fosse, e ne saremmo davvero stupiti, la coincidenza con il generale rilassamento del Ferragosto andava evitato. Per non dare l’impressione di uno Stato timoroso e incerto, che teme di comunicare apertamente le sue scelte. E ancor più per non lanciare un segnale sbagliato, di debolezza e di insicurezza, a quella parte egiziana che di certo avrà preso buona nota. Anche in questo caso, peraltro, errori tattici o confusioni negli ordini di priorità potranno essere corretti. Dall’ambasciatore Giampaolo Cantini, che si accinge ad affrontare una missione di estrema difficoltà. Certamente sarà suo compito tenere operante il dialogo con le autorità egiziane. Certamente i nostri cruciali interessi in Libia avranno un posto di rilievo in questo dialogo. Ma soprattutto sarà lui a dover conferire sostanza concreta alla promessa del governo italiano di non retrocedere sulla ricerca della verità sul caso Regeni. Lui, e le istruzioni che riceverà da Roma, dimostreranno se il ritorno di un ambasciatore italiano al Cairo era davvero nell’interesse stesso delle indagini, come noi siamo portati a credere fino a prova contraria. Lui dovrà esplorare e capire tutti gli strani meandri di questa atroce vicenda, se Al-Sisi davvero era al corrente di tutto e dunque il rapimento e l’omicidio non erano diretti contro il suo potere, se e perché i servizi egiziani ritenevano di avere a che fare con un agente britannico, se il Cairo abbia intenzioni serie oppure sia impegnato nel vecchio gioco di colpevolizzare gli esecutori salvando i mandanti, se ci siano interessi a noi avversi dietro, per dirne una, la straordinaria tempestività delle non straordinarie e smentite rivelazioni uscite sul New York Times. In bocca al lupo, ambasciatore Cantini. E auguri anche all’Italia, alla sua irrinunciabile tenacia che non è soltanto umanitaria, e tanto basterebbe, ma comporta obblighi etici e politici che lo Stato si è assunto nel momento stesso, era l’8 aprile del 2016, in cui fu richiamato il nostro ambasciatore al Cairo. Ora si apre un secondo capitolo, che deve restare coerente con la severità del primo e dare, speriamolo, migliori risultati. Egitto. Il castello di carte cade: "Renzi a conoscenza di chi ha ucciso Giulio" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 agosto 2017 Il New York Times cita fonti dell’amministrazione Obama: "Dagli Usa prove esplosive della responsabilità del Cairo". Il premier rifiutava in pubblico "verità di comodo", mentre Eni lavorava per far rientrare la crisi e "i servizi organizzavano l’intervista di Repubblica". "L’Italia non si accontenterà di nessuna verità di comodo. Potremo fermarci solo davanti alla verità". Così il 26 marzo 2016 l’allora primo ministro italiano Renzi reagiva al palese tentativo di depistaggio di polizia e servizi egiziani: la strage di cinque cittadini egiziani e l’occultamento dei documenti di Giulio Regeni a casa di uno di loro. Lo ribadiva il 15 giugno: "Confermo il massimo impegno affinché sulla vicenda sia fatta luce". Prima di lui a parlare di "piste improbabili" e del rifiuto ad accettare "verità di comodo" era il ministro degli esteri Gentiloni, a poche settimane dalla sparizione di Giulio. In questo anno e mezzo dichiarazioni simili sono fioccate. Tra le ultime quelle dell’attuale inquilino della Farnesina Alfano (il 17 gennaio alla Camera: "La prosecuzione dell’impegno per la ricerca della verità non verrà mai meno") e del nuovo premier Gentiloni che a fine dicembre ringraziava l’Egitto per "i segnali di collaborazione molto utili" (nei giorni precedenti Il Cairo ammetteva indagini della sicurezza su Regeni e diceva di aver identificato i poliziotti responsabili). Alla luce delle rivelazioni del New York Times il castello di carta si sbriciola: "Nelle settimane successive alla morte di Regeni - scrive il giornalista Declan Walsh - gli Stati uniti hanno acquisito informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: le prove che funzionari dei servizi egiziani hanno rapito, torturato e ucciso Regeni. "Abbiamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana", mi dice un funzionario dell’amministrazione Obama". "Su raccomandazione di Dipartimento di Stato e Casa bianca - continua - gli Usa passarono queste conclusioni al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero il materiale né dissero quale agenzia ritenevano essere dietro la morte di Regeni. Quello che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente consapevole delle circostanze intorno alla morte di Regeni". Roma sapeva ma ha tenuto opinione pubblica e famiglia Regeni all’oscuro. Ha ritirato l’ambasciatore Massari l’8 aprile 2016, il giorno dopo la presa in giro della prima visita a Roma degli investigatori egiziani (venuti a mani vuote) quando probabilmente già aveva ricevuto la nota da Washington: viene da pensare che l’obiettivo non fosse fare pressioni sull’Egitto ma allontanare dal Cairo Massari, che da subito ha seguito in modo approfondito e diretto il caso. Una realpolitik disordinata che ha permesso l’intervento a gamba tesa di altri soggetti interessati alla normalizzazione: "L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi…ha discusso la questione con al-Sisi almeno tre volte - scrive il Nyt. E, secondo una fonte del Ministero degli Esteri italiano, Eni ha unito le sue forze a quelle dei servizi segreti per trovare una rapida soluzione". Di incontri ufficiali tra Descalzi e al-Sisi non ne sono mancati nel 2017: all’inizio di gennaio, il 15 febbraio e il 28 marzo, per discutere dello sviluppo del mega bacino di gas sottomarino Zohr. Nel corso del 2016 è facile immaginare che l’ad Eni e il presidente egiziano si siano visti e abbiano messo sul tavolo la questione Regeni, così come avranno fatto alti funzionari del cane a sei zampe e dello Stato egiziano. Il giro d’affari è enorme, da tutelare a beneficio di entrambi. Tanto da indispettire elementi dell’intelligence italiana e del governo e causare tensioni tra servizi e Farnesina. Lo sottolinea il Nyt, secondo cui gli 007 italiani hanno lavorato altrettanto alacremente per ripianare rapporti ufficialmente in rotta: "I diplomatici sospettavano che le spie italiane, per chiudere il caso, avessero organizzato un’intervista del quotidiano La Repubblica con al-Sisi". Repubblica nega, ma è difficile dimenticare quell’intervista di metà marzo 2016, da molti ritenuta un palcoscenico ben agghindato in cui il presidente egiziano si è esibito nella parte del buon padre di famiglia, pronto a collaborare. Uno show, quello di al-Sisi, ripetuto un mese fa di fronte a Nicola Latorre (Pd) e Maurizio Gasparri (Fi), presidente e vice presidente della Commissione Esteri del Senato: probabilmente allora, in anteprima, Roma ha garantito al Cairo il ritorno dell’ambasciatore. Due giorni dopo l’agenzia Mada Masr, citando fonti italiane, lo dava per certo: entro settembre le relazioni si normalizzeranno definitivamente. Ma non sono mai apparse davvero in pericolo nonostante gli ostacoli posti alla Procura di Roma, che indefessamente tenta di racimolare elementi dalle briciole di materiale che la Procura egiziana gli gira. Delle tante denunce del team romano l’ultima è del 16 marzo: Pignatone e Colaiocco hanno accusato le autorità egiziane di reticenze e bugie. Quelle briciole di materiale a Alfano bastano per rinviare l’ambasciatore, come chiedono da mesi - con una campagna neppure troppo sottile - politici e commentatori in articoli ospitati da vari giornali italiani. Infine, un occhio alla tempistica: vigilia di Ferragosto, ad un mese dalla visita di Latorre e a dieci giorni dalla ratifica da parte di al-Sisi della legge sulla distribuzione di gas in Egitto. Le compagnie straniere potranno ora vendere parte della loro produzione direttamente sul mercato egiziano. Eni, con Zohr produttivo da dicembre, è pronta. Egitto. Renzi fa asse con Gentiloni: "Obama non ci fornì documenti su Regeni" di Fabio Martini La Stampa, 17 agosto 2017 Telefonata tra l’ex premier e l’attuale capo del governo: linea comune sul caso del giovane. L’ambasciatore sarà affiancato da un legale per seguire le indagini. Renzi al telefono con Gentiloni spiega: "Con Obama abbiamo parlato di Regeni ma mai una volta mi ha forniti rivelazioni o documenti". È la sera di Ferragosto e dagli Stati Uniti è appena planata sulla deserta Roma politica una perturbazione che sembra potersi trasformare in uragano politico. Da poco è stato diffuso l’articolo del New York Times sulle presunte notizie trasmesse un anno fa dal presidente degli Stati Uniti al governo italiano sul caso Regeni: una rivelazione così "scandalosa" da costringere a parlarsi via telefono i due governanti che in questo anno e mezzo hanno deciso la linea sulla vicenda: Matteo Renzi (presidente del Consiglio dal febbraio 2014 al dicembre 2016) e Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri quando il caso scoppiò e da nove mesi capo del governo. Uno scambio di informazioni non destinato alla pubblicazione, ma due sere fa necessario per entrambi. È Renzi che dice a Gentiloni: "Lo sai, con Obama, ci siamo visti tante volte, abbiamo parlato anche dal caso Regeni, ma mai una volta il presidente degli Stati Uniti mi ha fatto rivelazioni o fornito documenti. Né ha mai sentito il bisogno di metterci in allerta". E Paolo Gentiloni? Da ministro degli Esteri, a suo tempo, parlò del caso col suo omologo di allora, il segretario di Stato John Kerry, ma anche in questo caso senza mai ricevere elementi di fatto e tantomeno "prove esplosive". E soprattutto - ecco il punto - non furono suggerite tracce che fossero diverse da quelle già in possesso dei Servizi italiani. Davanti all’articolo del New York Times Matteo Renzi ha preferito non impegnarsi in esternazioni pubbliche e Paolo Gentiloni ha preferito affidarsi a una nota impersonale. Certo, le opposizioni stanno cavalcando il caso e quanto ai genitori di Giulio Regeni - spinti dall’indignazione e dal dolore perché la verità della morte del figlio non arriva mai - considerano il ritorno di un ambasciatore al Cairo come una prova di cedimento. Con un effetto-paradosso: in queste ore, per i rimbalzi delle "rivelazioni" del New York Times e per la "riapertura" dell’ambasciata italiana in Egitto, i governi Renzi e Gentiloni si ritrovano sulla difensiva, pur avendo cavalcato in questo anno una linea dura, almeno per gli standard della diplomazia internazionale in casi analoghi. Artefici di questa linea, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Marco Minniti, fino al dicembre 2016 coordinatore dell’attività dei Servizi. In tutta la prima fase (febbraio-settembre 2016) in prima linea è restato Gentiloni, allora ministro degli Esteri. È stato lui a voler incontrare i genitori di Giulio Regeni, è stato lui a proporre un gesto molto forte come il ritiro dell’ambasciatore italiano in Egitto. Ed è stato Matteo Renzi, in precedenza protagonista di una forte apertura di credito al leader egiziano Al-Sisi (visita al Cairo, ricambiata a Roma, partecipazione al Forum di Forum economico Sharm el-Sheikh con Kerry) a prendere due decisioni che hanno lasciato il segno: oltre al ritiro dell’ambasciatore Massari dal Cairo nell’aprile 2016, anche l’indisponibilità a chiudere il caso con un "capro espiatorio" proposto in via ufficiosa dagli egiziani. Ma dopo il segnale dato agli egiziani col ritiro dell’ambasciatore, da un anno a questa parte Palazzo Chigi e Farnesina hanno iniziato a tessere la rete per riaprire i canali diplomatici con l’Egitto. Per realpolitik, perché l’Egitto è un Paese strategico. Ma anche perché, come sostiene da tempo una militante dei diritti civili come Emma Bonino, la presenza di un ambasciatore aumenta la pressione su una realtà come quella egiziana. E infatti il ritorno di un ambasciatore al Cairo sarà accompagnato da una serie di misure preparate dalla Farnesina tutte finalizzate al caso-Regeni. Nell’ambasciata al Cairo sarà presente in modo permanente un esperto italiano incaricato della cooperazione giudiziaria sulla vicenda del ricercatore. Al giovane ucciso in Egitto verranno intitolate l’Università italo-egiziana e l’auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura; verranno organizzate cerimonie commemorative nel giorno della sua scomparsa in tutte le sedi istituzionali italiane in Egitto. E saranno potenziati diversi progetti di cooperazioni nel campo della tutela e della promozione dei diritti umani, anche di cittadini egiziani che chiedessero asilo in Italia. Egitto. L’avvocato dei Regeni: "Nelle carte egiziane ci saranno soltanto bugie" di Viviana Mazza Corriere della Sera, 17 agosto 2017 Ahmed Abdallah è il presidente del consiglio d’amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, Ong che offre consulenza ai legali della famiglia di Giulio Regeni. È stato arrestato il 25 aprile 2016 ed è rimasto in carcere per 4 mesi e mezzo con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione di proteste che miravano a rovesciare il regime. Ora mentre la stampa egiziana elogia la decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo, scrivendo che equivale ad assolvere lo Stato egiziano dall’omicidio di Giulio, Abdallah unisce la sua voce alle critiche della famiglia del ricercatore. La decisione di rimandare l’ambasciatore italiano arriva dopo una nota congiunta delle Procure di Roma e del Cairo in cui si parla di progressi nelle indagini e di "rinnovata cooperazione" tra inquirenti. Cosa ne pensa? "Non c’è nessuna cooperazione. Il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek, che dovrebbe garantire la giustizia in Egitto, ha rifiutato finora di consegnarci il fascicolo sull’uccisione di Giulio, e ha bloccato ogni tentativo legale di ottenerlo. La famiglia non ha avuto nessuno degli atti. Non sappiamo nemmeno se quelli inviati agli inquirenti italiani siano un riassunto dell’inchiesta oppure gli originali. Penso che dovremmo vedere i documenti. Comunque, sulla base di quello che abbiamo visto sinora, mi aspetto che il fascicolo sia pieno di bugie". Se è pieno di bugie, come farete ad accertare la verità? "Abbiamo molti indizi, ci sono diversi nomi che conosciamo perché sono stati resi pubblici. Il primo è quello di Sharif Magdi Abdlaal, il capitano della sicurezza di Stato che diede la telecamera per monitorare Regeni al capo del sindacato dei venditori ambulanti. Abdlaal è la stessa persona che ordinò il mio arresto e falsificò le prove contro di me. Pur sapendolo, il procuratore generale ha lasciato che io restassi in carcere per quattro mesi e mezzo sulla base di quelle accuse false". Quali altri nomi conoscete? "Sappiamo anche del colonnello Mahmoud Al Hendy, che mise i documenti di Giulio nella casa del presunto capo dei gangster accusati di aver rapito il ragazzo: è tuttora in libertà. Entrambi sono potenti e non sono stati incriminati né sottoposti a indagini serie; possono manipolare le prove e minacciare chiunque sia pronto a dire la verità. La famiglia di Regeni vuole vedere gli atti, e noi vogliamo che i nostri avvocati possano assistere e partecipare all’inchiesta. Le autorità in Egitto stanno solo prendendo tempo, ma non stanno seriamente adoperando perché emerga la verità". Secondo il "New York Times", gli Stati Uniti avevano informato il governo Renzi di avere prove "incontrovertibili" che dietro la morte di Giulio Regeni c’è la Sicurezza egiziana. Lei che cosa ne pensa? "Mi aspettavo che ci fosse stata una comunicazione tra Washington e Roma, ma adesso vogliamo sapere tutta la verità da entrambi i governi, americano e italiano". Spagna. Lentezza e false piste, i troppi casi aperti con vittime italiane di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 17 agosto 2017 La giustizia spagnola e le inchieste controverse. I legali: "A volte prevale l’interesse del turismo". "Suicidio", conclusero le autorità spagnole chiudendo il caso a tempo di record. Dissero che Martina Rossi si era lanciata dal sesto piano dell’hotel dove si trovava in vacanza con le amiche, a Palma de Maiorca. Era la notte del 3 agosto 2011 e qualche settimana dopo la vicenda fu archiviata senza troppi clamori. Nessun dubbio, nessuna indagine. Ma la caparbietà del padre di Martina, Bruno, fece emergere un’altra verità: quella che si sta discutendo davanti al giudice di Arezzo dove pende una richiesta di rinvio a giudizio contro due giovani aretini accusati di aver provocato la caduta nel vuoto della ventenne genovese. Secondo la Procura Martina stava scappando da un tentativo di violenza: uscì nel balcone, cercò di raggiungere quello vicino ma qualcosa andò storto e precipitò. Così è andata l’indagine su Martina. Diverso il caso delle tredici studentesse Erasmus, di cui sette italiane, morte il 20 marzo 2016 in un bus catalano che le stava riportando a Barcellona dopo una giornata di festa trascorsa a Valencia. Qui il problema è opposto: giustizia lumaca. A quasi un anno e cinque mesi dalla strage non si conosce il destino dell’inchiesta che vede un solo indagato: il conducente dell’autobus. Ma già l’esistenza del procedimento è da considerarsi un piccolo miracolo giudiziario. Perché nel novembre dello scorso anno la giudice spagnola di Amposta, Gloria Granell Rul, aveva archiviato il caso senza colpevoli. Solo la forte opposizione delle famiglie delle vittime, che hanno fatto ricorso rumoreggiando nelle stanze della politica, ha portato alla riapertura del fascicolo. Nel giorno in cui Sara Ciatti chiede giustizia per suo fratello Niccolò ucciso a calci e pugni a Lloret de Mar, tornano dunque alla mente i casi "spagnoli"? Il 20 marzo 2016 tredici studentesse Erasmus (7 italiane) morirono in un bus a Freginals. Il caso è stato riaperto dopo un’archiviazione in cui giustizia non è stata fatta. "In questi luoghi di vacanza c’è una macchina del divertimento che è una grande business e non dev’essere disturbata", azzarda l’avvocato Stefano Savi che ha assistito Bruno Rossi nella sua battaglia per Martina. Come dire, the show must go on. "Noi abbiamo incontrato un atteggiamento di grande superficialità da parte della polizia spagnola, dalla quale dipendono molto le decisioni dei magistrati. Hanno detto "questo è suicidio" dal momento in cui sono intervenuti e da lì non si sono mossi. Autopsia, interrogatori, testimonianze: tutto è stato condizionato da quella scelta". Nel caso di Niccolò c’è un video che incastra l’assassino e i suoi due amici. "Ma perché - si chiede Savi - lasciar andare dove credono quei due con un nesso di responsabilità che mi sembra evidente?". L’avvocato Maria Cleme Bartesaghi, che difende la famiglia di Francesca Bonello, una delle tredici studentesse Erasmus morte fra le lamiere di Freginals, una spiegazione ce l’ha: "Gli spagnoli tentano sempre di minimizzare, di far sembrare tutto normale, come se non ci fossero problemi di sicurezza, di controlli sui pullman, negli alberghi, nelle discoteche. È una giustizia molto funzionale agli interessi turistici". Sudafrica. Ancora impunita la strage della miniera di Marikana di cinque anni fa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2017 Il 16 agosto 2012 la polizia sudafricana aprì il fuoco contro i lavoratori della miniera di platino di Marikana, in sciopero per chiedere l’aumento dei salari e alloggi migliori. Fu una strage di minatori: 34 morti e almeno 70 feriti. Nei giorni precedenti erano stati uccisi tre lavoratori in sciopero e altri tre che non scioperavano, oltre a due agenti di polizia e a due guardie private della compagnia britannica Lonmin Plc, proprietaria della miniera (per questi episodi sono sotto processo 17 esponenti del sindacato dei minatori). Ma nessuno immaginava che quel giorno di cinque anni fa la polizia avrebbe agito con tanta ferocia. Le autopsie rivelarono che 30 minatori erano stati uccisi da proiettili ad alta velocità esplosi da fucili d’assalto R5, uno da un fucile a canna liscia e tre a colpi di pistola. Uno dei motivi dello sciopero contro la Lomnin era che, nel 2006, la compagnia proprietaria della miniera si era impegnata a terminare 5500 alloggi entro il 2011 e a trasformare gli ostelli per soli uomini in strutture abitative per famiglie. Alla fine di quell’anno, tuttavia, Lonmin aveva costruito unicamente tre case-tipo da mostrare a eventuali acquirenti e aveva modificato solo 60 dei 114 ostelli. Ancora oggi, migliaia di minatori vivono ancora in squallidi tuguri, come l’insediamento informale di Nkaneng. Ma, cinque anni dopo, non c’è solo un problema legato alla mancanza di alloggi adeguati. C’è anche e soprattutto quello della mancata giustizia. La Commissione d’inchiesta presieduta dall’ex giudice Jacob Farlam, istituita dal governo per fare luce su quanto accaduto il 16 agosto 2012, lo scrisse nero su bianco nelle sue conclusioni, rese pubbliche nel giugno 2015: furono le condizioni abitative estremamente misere a far esplodere la tensione. Ma la Commissione Farlam disse anche altro: che occorreva un’indagine sulle eventuali responsabilità penali della polizia sudafricana. Lo scorso dicembre il presidente Zuma ha annunciato che sarebbero stati avviati procedimenti giudiziari nei confronti di alti dirigenti della polizia coinvolti nella strage. Nel marzo di quest’anno l’organismo istituito dal governo per indagare sui comportamenti illegali della polizia ha identificato 72 agenti da rinviare a processo. Due mesi dopo ha trasmesso tutta la documentazione all’ufficio della procura. Ma ancora non è successo nulla. Venezuela. Blitz nel carcere di Puerto Ayacucho in rivolta: uccisi 37 detenuti Adnkronos, 17 agosto 2017 È stata repressa nel sangue la rivolta in una prigione venezuelana, dove le forze speciali sono intervenute provocando la morte di 37 detenuti. Lo ha reso noto Liborio Guarulla, governatore dello Stato meridionale di Amazonas, dove si trova il carcere di Puerto Ayacucho che ospitava 105 detenuti in una zona isolata della foresta tropicale. Secondo testimoni locali, vi sono stati veri e propri scontri fuoco tra i detenuti e gli agenti che hanno partecipato al blitz, 14 dei quali sono rimasti feriti. Nella gravissima crisi economica e politica che sta attraversando il Venezuela, sono molto deteriorate le condizioni nelle prigioni dove sta aumentando il numero delle rivolte dei detenuti ridotti spesso alla fame. E dove il contrabbando di armi è all’ordine del giorno. Venezuela. I servizi segreti di Maduro braccano il procuratore generale: blitz e perquisizioni di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 17 agosto 2017 Voce critica nei confronti del governo, Luisa Ortega Dìaz è stata estromessa dall’incarico appena insediata l’assemblea costituente voluta dal presidente. Lei e il marito sono in fuga. Il regime li cerca contestando una presunta estorsione. Con un blitz dei Servizi segreti (Sebin), il governo di Nicolás Maduro sferra un nuovo colpo agli equilibri dei poteri istituzionali in Venezuela. Decine di agenti hanno circondato la casa del Procuratore generale Luisa Ortega Dìaz, diventata una delle voci più note del dissenso al regime, a La Florida, un quartiere della media borghesia nel nord della capitale. Fedelissima di Hugo Chávez ma profondamente critica con il suo delfino, il magistrato era stata da qualche giorno estromessa dal suo incarico e dalle sue funzioni come primo atto della nuova Assemblea costitutiva nazionale, l’organismo voluto da Maduro per esautorare le competenze del Parlamento in mano all’opposizione. Sia Luisa Ortega sia il marito non si trovavano in quel momento nella loro abitazione. Non si sa dove si siano rifugiati. È stata arrestata una loro impiegata. Secondo quanto si apprende, l’incursione degli agenti dei Servizi era legata all’emissione di un ordine di cattura nei confronti del marito, Germán Ferrer, accusato di corruzione. Il provvedimento è stato spiccato da Tarek William Saab, già Difensore del popolo, una figura che dovrebbe tutelare gli interessi dei cittadini nei confronti degli abusi delle autorità, da pochissimo nominato Procuratore generale proprio al posto della Dìaz. Ferrer, già esponente del partito al potere, il Psuv, da mesi è passato tra le fila dell’opposizione. Le accuse nei suoi confronti si basano su una denuncia del numero due del regime, Diosdado Cabello, anche lui nuovo membro della Costituente, che nel pomeriggio si era recato presso il Tribunale consegnando una serie di documenti che dimostravano la partecipazione di Ferrer ad una presunta rete di estorsione all’interno dello stesso Tribunale. "Qui c’era una vera banda di estorsori", ha affermato Cabello all’uscita del Palazzo di Giustizia. "Giudici che ricattavano gli impresari e chiedevano loro mazzette di 600 mila dollari... È difficile che questa rete abbia funzionato senza che la dottoressa Ortega non ne fosse a conoscenza". Per sostenere le sue accuse, l’uomo forte del regime ha mostrato anche alla stampa copia di estratti di conti correnti dell’uomo politico e di alcuni impiegati del Tribunale che presentano un saldo di 6 milioni di dollari. "Come può un parlamentare", si è chiesto con sarcasmo Cabello, "un deputato con uno stipendio modesto aprire dei conti in dollari di queste dimensioni?". Nell’operazione sono stati arrestati quattro funzionari del Tribunale, accusati sempre di corruzione e estorsione. È stata la stessa Dìaz a denunciare con un tweet l’incursione degli uomini dei Servizi nella sua abitazione. Il magistrato non è accusato degli stessi reati del marito. Ma la sua posizione è incerta. Nei suoi confronti è stato avviato un procedimento per "gravi violazioni all’ordine costituzionale", violazioni che secondo il regime sarebbero imputate al suo intervento che fece revocare il famoso decreto con cui il Tribunale Superiore di Giustizia (Tsj) con cui si esautorava il ruolo del Parlamento. Con i conti bloccati, i beni congelati e il passaporto confiscato, la Dìaz da giorni vive praticamente braccata. Non dorme mai nello stesso posto, lavora in scantinati e appartamenti offerti da amici, rilascia interviste nelle quali denuncia "l’atteggiamento dittatoriale del governo". Nella sua ultima chiacchierata con il Wall Street journal aveva svelato di aver copiato tutti i documenti dell’inchiesta da lei aperta nei confronti di alti esponenti del regime. Documenti che le erano stati trasmessi dai magistrati brasiliani di "Lava Jato" nei quali Macrelo Odebrecht, il ceo della holding delle costruzioni del paese sudamericano, ammetteva di aver consegnato 100 milioni di dollari alle autorità di Caracas in cambio di informazioni per ottenere degli appalti per la ristrutturazione di alcuni impianti petroliferi venezuelani.