Partito Radicale: 3mila firme per separazione carriere, ora inizia sciopero per riforma giustizia agenziastampaitalia.it, 16 agosto 2017 Conferenza stampa del Partito Radicale davanti al carcere di Regina Coeli di Roma per terminare ufficialmente la Carovana per la Giustizia portata avanti dal 29 luglio al 13 agosto in Sicilia. Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, ha dichiarato: "Abbiamo percorso 14.000 chilometri attraverso tutte le province della Sicilia per raccogliere le firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere Penali. Abbiamo raccolto circa 3000 sottoscrizioni. Abbiamo organizzato dibattiti per far conoscere ai cittadini siciliani le lotte nonviolente del Partito Radicale: giustizia giusta, Stati Uniti D’Europa, Diritto alla Conoscenza. Obiettivo primario: la vita del Partito Radicale. Per farlo continuare a vivere dobbiamo raccogliere 3000 iscritti entro il 31 dicembre, altrimenti dobbiamo mettere in atto le procedure per la liquidazione. Ad oggi siamo a circa 1600 iscrizioni al Partito più antico, quello di Marco Pannella. Ringrazio l’amministrazione penitenziaria, a partire dal responsabile Santi Consolo, che ha consentito il nostro ingresso in carcere per sottoscrivere la pdl per la separazione delle carriere. Grazie anche alla polizia penitenziaria orientata quasi tutta al rispetto dei diritti umani: non sono solo agenti di custodia ma suppliscono alle carenze dello Stato per far rispettare i diritti dei detenuti. Poi c’è un sindacato che vorrebbe che le carceri tornassero a quelle di 30 anni fa e che gli agenti tornassero a fare semplicemente le guardie. Questo non è possibile". Francesco Petrelli, Segretario dell’Unione delle Camere Penali, ha dichiarato: "Non è un caso che le carovane per la giustizia siano iniziate davanti al carcere di Rebibbia e che si concludano dinanzi a Regina Coeli. È il carcere il luogo di sofferenza dei detenuti dove si compiono le violazioni delle garanzie. Ci vediamo uniti al Partito anche nel richiedere l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Nelle carceri bisogna ristabilire la legalità". Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale: "Inizia da domani il Satyagraha - digiuno, rifiuto del carrello o il rifiuto di fare la spesa in carcere - per la ricerca della verità. Centinaia di detenuti mi hanno scritto per aderire e chiedere con noi che le carceri non siano dimenticate. Nessuno dei mezzi di informazione si è accorto che nelle carceri sta succedendo da anni qualcosa di straordinario, tranne il filosofo Aldo Masullo che ha scritto "Nelle carceri è entrato il "dialogo"! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione". Nel carcere non ci sono le rivolte nonostante le condizioni inumane e degradanti ma c’è il dialogo. Si parla solo di evasioni, di coloro che non rientrano dal permesso premio che sono una percentuale dello 0, 0 e qualcosa. Ma nessuno dice che i detenuti iniziano uno sciopero per chiedere che il Governo attui la riforma dell’ordinamento penitenziario. Orlando aveva detto che sarebbe avvenuta entro agosto, noi chiediamo che avvenga almeno entro l’estate. Il carcere ha bisogno di riforme strutturali: qualcuno ha paura a pronunciare la parola "amnistia" ma intanto nelle carceri il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio, non c’è lavoro e studio per molti di loro, manca l’affettività, la salute è carente. Abbiamo bisogno di una riforma della giustizia che veda il carcere come ultima ratio". Ha concluso Gian Domenico Caiazza, Responsabile dei Rapporti Istituzionali dell’Unione delle Camere Penali: "voglio sottolineare la fecondità di questo incontro tra l’Ucpi e il partito radicale. Gli avvocati stanno iscrivendosi a centinaia perché hanno capito la natura transpartitica del Partito. La sopravvivenza del Partito Radicale è una garanzia per i diritti di tutti i cittadini". Il sottosegretario Ferri a Rebibbia: "Certezza della pena ma anche umanità" gonews.it, 16 agosto 2017 Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri il Sottosegretario del Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri questa mattina ha fatto visita presso la struttura penitenziaria Nuovo Complesso di Rebibbia, partecipando alla Santa Messa con i detenuti e tutto il personale officiata dal Vescovo Guerino Di Tora e ha portato il suo saluto ringraziando la Polizia Penitenziaria, tutto il personale ed il volontariato per il servizio che prestano ogni giorno con professionalità ed impegno nel garantire sicurezza ma anche trattamento della pena e per il contributo importante reso anche nel percorso rieducativo. Ferri ha poi aggiunto: "È un giorno di festa che accentua da una parte la difficolta, l’impegno, il sacrificio per chi lavora, dall’altra per chi è recluso il dolore del distacco dagli affetti e di ciò che comporta la reclusione. Il principio della certezza della pena deve essere sempre accompagnato da umanità, dignità e rieducazione. Su questo punto di equilibrio lavoreremo anche nel redigere i decreti delegati che devono essere emanato a seguito della recente riforma dell’ordinamento penitenziario". Ferri ha poi visitato la mensa della struttura per salutare il personale in servizio e si è recato nella sala operativa dove ha salutato grazie anche al collegamento radio il personale in servizio come sentinella". Il Sottosegretario ha poi concluso "mi ha colpito molto la partecipazione di tutti i presenti, la voglia di cantare, di accompagnare i celebranti durante la santa messa, la voglia di comunicare e di esternare sentimenti". Firenze: i giovani detenuti al lavoro nei parchi pubblici quinewsfirenze.it, 16 agosto 2017 Via libera al rinnovo del protocollo d'intesa tra Comune e Centro di Giustizia minorile per reinserimento sociale dei ragazzi in regime detentivo. Il rinnovo del protocollo è stato approvato nel corso dell'ultima giunta comunale in Palazzo Vecchio e prevede il reinserimento sociale dei giovani in parchi e giardini della città. I risultati positivi sin ad oggi ottenuti grazie al provvedimento, spiega il Comune, hanno convinto a procedere con il rinnovo ancora prima della scadenza. "La Direzione Ambiente, ed in particolare il Servizio Parchi, Giardini e Aree Verdi, del resto, svolge un’attività di manutenzione e gestione delle aree verdi che ben si presta a progetti di reinserimento lavorativo, già da tempo sperimentati con successo" ha detto l’assessora all’ambiente Alessia Bettini. "Con questo accordo - ha poi aggiunto - diamo a questi ragazzi la possibilità di una riqualificazione anche professionale e contemporaneamente offriamo una risposta importante sul piano del decoro della città. Uniamo così il recupero sociale a quello ambientale". Ferrara: Consiglieri comunali visitano il carcere "spazi troppo pieni e tempi troppo vuoti" di Cecilia Gallotta estense.com, 16 agosto 2017 Stefania Carnevale: "C’è bisogno dello sguardo politico per mantenere attiva la comunicazione tra interno ed esterno". Cercare di portare simbolicamente "la città nel carcere, e il carcere nella città". Questo il nobile intento della neo garante dei detenuti Stefania Carnevale con il caldo - in tutti i sensi - invito che ha visto, nella mattinata di Ferragosto, la partecipazione alla visita presso la Casa circondariale di Ferrara da parte dei consiglieri comunali Leonardo Fiorentini, Ilaria Baraldi, Giulia Bertelli, Davide Bertolasi, Dario Maresca, Elisabetta Soriani, Alessandro Talmelli, Mauro Vignolo e Bianca Maria Vitelletti. Una giornata di festa per il mondo esterno, ma di stasi dentro le mura di quello "che fa pensare ad una sorta di universo parallelo, di una città dentro la città", lo definisce Carnevale, nel quale soprattutto durante il periodo estivo si vive l’interruzione di quelle attività che contribuiscono a mantenere un po’ di umanità anche nella situazione detentiva. "La pena riguarda esclusivamente la privazione della libertà - ricorda la garante - ma non di tutti i diritti. Ed è nel mantenimento di questi diritti, e quindi nella comunicazione tra interno ed esterno, che diventa importante lo sguardo della città e soprattutto quello politico". Sguardo che, nel senso più letterale del termine, i consiglieri hanno potuto dare principalmente alle attività quotidiane della vita detentiva, visitando due sezioni penali, oltre agli spazi comuni - passeggi, cucina, chiesa, e laboratori. "Aver portato l’istituto alberghiero dentro queste mura ha dato una svolta - racconta la comandante Annalisa Gadaleta, illustrando la realizzazione di un orto, nell’ultimo anno, mantenuto a rotazione da una ventina di detenuti, con la rispettiva produzione di prodotti e un corso di formazione sul giardinaggio, che si affianca, a livello di volontariato, a quello di informatica piuttosto che al laboratorio di bricolage. "Quest’ultimo - racconta Gadaleta - è nato dalla dedizione di due detenuti ergastolani, che, come prevede l’articolo 12, l’hanno creato in maniera autonoma". Sebbene le notizie di cronaca sembrino dire altro, "queste attività riducono notevolmente le aggressioni e gli eventi critici": infatti, dall’inizio dell’anno, "di aggressioni vere e proprie ce n’è stata solo una - riferisce il vice comandante Valentino Bolognesi - perché le altre quattro sono state riportate alla stampa in modo non del tutto corretto". Queste ultime - compreso l’episodio più recente - sono infatti di rimando, ossia non aggressioni volontarie ma avvenute in seguito a un intervento del personale penitenziario a fronte di una lite già in atto fra detenuti. Notevole la riduzione anche degli episodi di autolesionismo che, come spiega il dottor Ferraresi, è "un modello di sistema culturale tipico delle regioni nord-africane". E se il fenomeno del suicidio non è invece prevedibile al 100%, "ciò su cui può lavorare il sistema sanitario è la salute mentale, ancor prima della psichiatrizzazione". Niente ghettizzazioni, poi, fra i 365 detenuti ad oggi presenti a Ferrara, di cui 128 stranieri (fra Albania, Marocco, Tunisia, Romania, Moldavia, Nigeria e altri Stati): "Il trattamento è uguale per tutti - conferma la comandante - eccezion fatta per il corso di alfabetizzazione, di cui comunque, possono fruire tutti". Una realtà, quella del carcere, "il cui problema, se così si può riassumere, è quello di avere spazi troppo pieni e tempi troppo vuoti", prosegue la garante Carnevale. "Un’inversione di coordinate su cui bisogna lavorare anche con l’ausilio del mondo politico (perché implica costi, sforzi e personale), per fare della detenzione non un tempo vuoto ma un tempo pieno". Civitavecchia (Rm): non c’è pace al carcere di Aurelia, detenuti punti dalle cimici terzobinario.it, 16 agosto 2017 Sembrava essere un’invasione di blatte, si è rivelato invece un assalto di Cimex Lectularius, ossia le cimici che hanno invaso i letti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. A denunciarlo è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci che informa come gli insetti stiano costringendo l’amministrazione penitenziaria a continui spostamenti di detenuti. "Ad oggi - dice Beneduci - ben 79 sono coloro che, di fatto, sono stati ubicati in altri reparti, in piani diversi del G9 o addirittura trasferiti e ci sarebbero conseguenze anche per l’istituto di Civitavecchia dove alcuni detenuti provenienti dall’istituto romano hanno manifestato i tipici segni di puntura con il rischio di contagiare anche la restante popolazione detenuta. Tali rischi sono in pericoloso aumento anche per il personale di Polizia Penitenziaria in costante contatto giornaliero con la popolazione detenuta". Palermo: l'attesa dei parenti davanti al Pagliarelli. L’On. Lentini: "Serve un riparo" livesicilia.it, 16 agosto 2017 La richiesta del deputato regionale per i parenti dei detenuti in visita. "Una tettoia per mettere al riparo i parenti dei detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo". Lo chiede il deputato regionale del gruppo Misto Totò Lentini, che ha raccolto le proteste dei parenti di alcuni detenuti, i quali denunciano la mancanza di una "dignitosa accoglienza" davanti al carcere. "L'ingresso della nuova sezione lato viale Regione Siciliana è sprovvisto di copertura - afferma Lentini - e molti sono costretti ad aspettare per ore sotto al sole cocente di agosto. Con l'arrivo dell'inverno il problema si riproporrà - aggiunge Lentini. Chiedo quindi al direttore del carcere di attivarsi in sinergia con il ministero della Giustizia per destinare uno spazio coperto, idoneo e dignitoso all'accoglienza dei visitatori". Napoli: presentazione del libro di Antonio Mattone "E adesso la palla passa a me" ilgazzettinovesuviano.com, 16 agosto 2017 Giardino del Centro Multimediale del Comune di Anacapri. Sabato 19 agosto alle ore 19. Passione civile e umana solidarietà sono stati i due motori che hanno spinto Antonio Mattone a riflettere su malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Presso la Sala Multimediale Mario Cacace di Anacapri si terrà la presentazione del libro di Antonio Mattone, alle ore 19 del 19 agosto. Ad aprire l’incontro i saluti del sindaco di Anacapri Francesco Cerrotta. Con l’autore, don Vincenzo De Gregorio direttore emerito del Conservatorio di Napoli, il giornalista e saggista Ernesto Mazzetti e Claudio Salvia figlio di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale oggi a lui intitolato, ucciso nel 1981 dalla camorra. A moderare sarà la giornalista Anna Maria Boniello. Le letture saranno di Guido Gargiulo. "E adesso la palla passa a me" è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. "Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi hai detto tante volte tu". Passione civile e umana solidarietà sono stati i due motori che hanno spinto Antonio Mattone a riflettere su malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Ne è nato un volume che sicuramente farà discutere, "E adesso la palla passa a me" di cui si parlerà il 19 agosto ad Anacapri. Antonio Mattone, che ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha raccontato nel volume 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino. Gli articoli trattano dei problemi e delle vicende di cui tanto si è parlato in questi anni. Sovraffollamento, sicurezza della società, violenza, salute, Opg, diritti negati, volontariato. Un viaggio dove alla fine un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di Sant’Egidio dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del Centro Storico. Dal 2006, visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziari italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Editorialista de "Il Mattino" sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria - Introduzione commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 16 agosto 2017 Cesare Bonesana Beccaria, Marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nasce al centro di Milano, in via Brera, il 15 marzo 1738. Suddito quindi dell’impero asburgico, studia dai gesuiti e si laurea a vent’anni a Pavia in Giurisprudenza e, pur di sposare Teresa Blasco, rompe con la famiglia. Il celebre pamphlet di cui Beccaria è autore - "Dei delitti e delle pene" - che si presenta qui, rappresenta probabilmente il frutto più maturo di quell’illuminismo giuridico e sociale lombardo che si era raccolto attorno alla Accademia dei Pugni e alla celebre rivista Il Caffè. Accademia e rivista che ebbero vita breve di qualche anno appena, ma che comunque riuscirono a segnare in modo incisivo uno snodo fondamentale della cultura giuridica e politica europea della metà del settecento, quello che non a caso è stato definito da molti e attenti studiosi il secolo riformatore. Il celebre libello va letto e inquadrato dunque all’interno di questa cornice culturale che trasse il suo primo alimento dall’illuminismo francese, anche se bisogna sempre rifuggire dagli schematismi eccessivi e pervasivi: per esempio, come è noto, l’illuminismo europeo non fu certo soltanto di matrice francese (basti pensare a Kant, il quale peraltro nella Metafisica dei Costumi criticò aspramente Beccaria), come, del resto, il romanticismo non fu soltanto tedesco (basti pensare a Rostand). Rimane il fatto comunque che Beccaria era affascinato da Rousseau, da d’Alembert, da d’Holbach, da Diderot, al punto da mostrare nei confronti di codesti esponenti della filosofia dei lumi una sorta di timore reverenziale che si trasformò poi - quando divenuto celebre si recò a Parigi con Alessandro e Pietro Verri, da loro medesimi invitato - in una strana nevrosi, ragion per cui repentinamente fece ritorno a Milano. E tanto immotivatamente, da suscitare lo sconcerto dei suoi illustri ospiti oltre che il malumore dei Verri, i quali evidentemente immaginavano per l’illustre amico ben altri trionfi nei salotti parigini che invece non ci furono mai. Eppure, di quei trionfi ci sarebbe stata ragione in quanto la riflessione di Beccaria, pubblicata all’inizio del 1764, inaugura una nuova pagina nel diritto penale europeo: quella del contrattualismo di matrice utilitaristica che fa da argine al potere assoluto del monarca. In qualche modo rivoluzionario e pericoloso per il potere asburgico dunque il libro di Beccaria, tanto che la censura se ne accorse e ne arginò in parte gli effetti (sottovalutandoli), vietandone la pubblica vendita tranne che "per la gente dotata di giudizio": una sorta di censura di seconda categoria, quasi inutile in punto di fatto. Si è detto contrattualismo: ed infatti la visione di Beccaria si inserisce nel solco di quelle correnti culturali (si pensi a Rousseau o a Bentham) che vedono nello Stato il risultato di un contratto sociale, stipulato fra i sudditi che cedono al Sovrano pezzi della loro libertà in cambio della sicurezza interna ed esterna. In quanto tale, il contrattualismo si oppone all’organicismo, visione tradizionale della filosofia politica, in virtù della quale lo Stato possiede una sua autonoma fisionomia che va come tale conosciuta e riconosciuta: esso è appunto organico. E si è detto anche utilitarismo, per significare che i patti che da quel contratto scaturiscono sono razionali, in quanto utili sia ai singoli, sia alla collettività ed al monarca stesso, ben più di quanto possa esserlo il potere dispoticamente esercitato dal Sovrano assoluto. Insomma, la Sovranità, per essere utile, deve essere razionale e per essere razionale deve nascere da un patto fra sudditi e Sovrano, un patto chiaro e da tutti comprensibile e soprattutto da tutti accettabile. Da qui, ovviamente, la necessaria moderazione delle pene e la contrarietà alla pena di morte, in quanto le pene estreme sono non utili perché irrazionali. Idee, come si vede, per noi ben note, anche se oggi da riscoprire perché poco praticate; e questo rende addirittura necessaria la pubblicazione di Beccaria alla quale ci si accinge. Idee nuovissime a quel tempo, tanto che Caterina II di Russia gli offrì la presidenza di una commissione per la riforma del codice penale largamente ispirata al suo pensiero, che però egli - come sempre incerto e restio ad assumere ruoli di primo piano - finì col rifiutare. Beccaria finì i suoi giorni in modo quasi oscuro, nominato burocrate presso il Supremo Consiglio di Economia. Le sue pagine invece gli sopravvissero e intrisero molte delle riforme europee del codice penale e di procedura penale, benché pesantemente osteggiate da alcuni ecclesiastici: Padre Ferdinando Facchinei si scagliò contro violentemente, ma Padre Frisi le apprezzava e diffondeva. Oggi tuttavia vanno ricordate a coloro che sembrano averle dimenticate. E non sono pochi. DEI DELITTI E DELLE PENE A CHI LEGGE Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono uno scolo dè secoli i più barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a’ direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui è scritta quest’opera è un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l’autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo con un non fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n’esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e dè suoi legislatori. Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest’opera, scopo che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se più che la forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l’umanità la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d’interrompere per un momento i miei ragionamenti agl’illuminati lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle calunnie della maligna invidia. Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell’ultima non è l’escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtù in mille modi nelle depravate menti loro alterate, così sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i più pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque tre distinte classi di virtù e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall’una risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell’Essere supremo. Dunque l’idea della virtù politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtù naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtù religiosa è sempre una costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata. Sarebbe dunque un errore l’attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l’imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto istesso. La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione fra l’azione e lo stato vario della società, può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione, né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. Sì tosto che questi principii essenzialmente distinti vengano confusi, non v’è più speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a’ teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto può mai pregiudicare all’altro, poiché ognun vede quanto la virtù puramente politica debba cedere alla immutabile virtù emanata da Dio. Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtù o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl’interessi dell’umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità. INTRODUZIONE Gli uomini lasciano per lo più in abbandono i più importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l’interesse dè quali è di opporsi alle più provide leggi che per natura rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall’altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose più essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all’estremo, non s’inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le più palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, più per tradizione che per esame. Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità dè mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch’ebbe il coraggio dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità. Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all’aspetto delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra d’industria la più umana e la più degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l’irregolarità delle procedure criminali, parte di legislazione così principale e così trascurata in quasi tutta l’Europa, pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di più secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d’una prigione, aumentati dal più crudele carnefice dei miseri, l’incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che guidano le opinioni delle menti umane. L’immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia. L’indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce luminose di questo grand’uomo, ma gli uomini pensatori, pè quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com’esso, i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità! "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria - Distinguere tra reato e peccato commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 16 agosto 2017 Probabilmente, il merito più significativo di Beccaria è quello di aver distinto in modo netto e inequivocabile fra peccato e reato, cosa che oggi sembra semplice affermare, mentre non lo era affatto due secoli e mezzo fa. L’ordine del mondo, per Beccaria, è retto da sistemi diversi - quello religioso e quello civile - che non debbono assolutamente intersecarsi l’un l’altro: il potere politico deve interessarsi soltanto dei reati, mai, per dir così, dell’anima del reo, territorio riservato alla religione. Ne viene che, quando si commettono reati, per Beccaria occorrono quelli che egli definisce in modo alquanto sibillino "motivi sensibili", capaci di distogliere dalla commissione di illeciti penali, e che altro non sono se non "le pene stabilite contro gli infrattori delle leggi". Beccaria spiega subito che si tratta di motivi "sensibili", in quanto "percuotono i sensi", vale a dire che sono percepibili in modo diretto sulla pelle di coloro che ne siano i destinatari. Seguendo Montesquieu, la pena è legittima soltanto se assolutamente necessaria: altrimenti è tirannica. Beccaria parla ovviamente di diritto di punire da parte del Sovrano, evitando di fare un passo in più, come poi avrebbe fatto Kant, il quale teorizza invece un autentico "dovere di punire" da parte dello Stato: eppure il suo discorso avrebbe condotto di filato proprio a questo esito, vale a dire a riconoscere come il potere sovrano stesso sia al servizio delle leggi, invece che esserne padrone: e se ne è al servizio, il Sovrano non tanto ha il diritto di punire, quanto il dovere. Ma Beccaria non giunge a tanto, preferendo invece sottolineare come le pene siano dovute per giustizia e come questa debba intendersi in senso formale e giuridico, quale il vincolo capace di tenere insieme tutti gli interessi particolari e mai in senso fattuale - quale semplice forza fisica - o in senso teologico - ove pene e ricompense sono dispensate da Dio. Ovviamente, l’irrogazione delle pene ha delle conseguenze importanti. La prima è quello che oggi chiamiamo il principio di legalità: le pene possono essere stabilite soltanto dalla legge, mai da altri, neppure dalla volontà del Sovrano. È certo difficile comprenderlo in pieno, ma affermare due secoli e mezzo fa che il Sovrano non gode del potere di stabilire le pene, doveva sembrare un atto quasi rivoluzionario. La seconda conseguenza sta nel principio di giurisdizione e di separazione dei poteri: dal momento che il Sovrano è parte stipulante del contratto sociale, non può egli medesimo giudicare gli imputati dei reati - essendo ogni cittadino, anche imputato, l’altra parte stipulante dello stesso contratto - ma occorre un soggetto terzo ed imparziale: il magistrato. La terza conseguenza è che le pene, per non tralignare in pure e semplici sopraffazioni, non debbono mai essere atroci, termine che Beccaria usa per significare una loro speciale carica afflittiva. Ma il capitolo certo più interessante è quello in cui Beccaria affronta il problema della interpretazione della legge e della sua possibile oscurità. E qui Beccaria si mostra fino in fondo figlio dell’illuminismo giuridico che egli ha tanto contribuito a diffondere e dei suoi ineliminabili limiti. Infatti, egli propone, allo scopo di esorcizzare lo spettro della pluralità delle interpretazioni possibili della legge, che apre la porta ad ogni anarchia interpretativa, il tradizionale schema sillogistico: la premessa maggiore sta nella legge; la minore nel fatto commesso; la conclusione nella condanna o nella assoluzione. Beccaria riprende qui la ben nota teoria di Montesquieu del giudice che si limita ad essere "bouche de la lois", vale a dire semplice cinghia di trasmissione, del tutto neutra, di una volontà che è e rimane soltanto del Sovrano. E ciò - lo si ribadisce - per esorcizzare il pericolo delle molteplici interpretazioni a volte confliggenti. Ma si tratta di una costruzione irreale e perniciosa, anche se ovviamente Beccaria, immerso nella cultura giuridica del suo tempo, non poteva immaginarlo. Irreale, in quanto ogni magistrato, interpretando le formule della legge, non può certo diventare un meccanismo automatizzato, ma reca con se un tesoro di conoscenze, di esperienze, di premesse che inevitabilmente influiscono sul suo operato. Perniciosa, in quanto ignorare la realtà equivale a divenirne schiavi. Come ha invece mostrato a sufficienza tutta la lezione ermeneutica che a partire da Gadamer - ma anche oltre Gadamer: si pensi a Pareyson, a Betti, a Mathieu - si è occupata del tema, ogni interprete muove da una pre-comprensione del testo da comprendere; e il bello è che non può evitarlo, dovendo soltanto esserne consapevole. Il problema allora non è fare del giudice ciò che egli mai potrà essere - una sorta di macchina automatica che, sfornando sentenze, si illuda e illuda di trasmettere fedelmente la volontà del legislatore - ma far si che la necessaria pre-comprensione da cui egli muove sia trasparente, conoscibile e non frutto di follia argomentativa o conoscitiva. Certo, non facile, ma unica strada realisticamente percorribile Quanto poi alla oscurità dei testi di legge e alla loro scarsa comprensibilità, meno male che Beccaria non può leggere le odierne leggi italiane, zeppe di errori di grammatica, di contorsionismi argomentativi, di litoti, di punteggiature approssimative: ne morrebbe di nuovo. CAPITOLO PRIMO. ORIGINE DELLE PENE Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano dè motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le più sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti. CAPITOLO SECONDO. DIRITTO DI PUNIRE Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo. Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che nè romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo. La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre più s’incrocicchiavano tra di loro, riunì i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime, e così lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni. Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione più utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire. CAPITOLO TERZO. CONSEGUENZE La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la pena giusta più un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino. La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il più grande e il più miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari. La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtù benefiche che sono l’effetto d’una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici più che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo. CAPITOLO QUARTO. INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI Nemmeno l’autorità d’interpretare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri che la cura d’ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell’attuale risultato della volontà di tutti; le ricevono non come obbligazioni d’un antico giuramento, nullo, perché legava volontà non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso giuramento, che le volontà riunite dei viventi sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli necessari per frenare e reggere l’intestino fermento degl’interessi particolari. Quest’è la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre della legge? Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi? In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari, più percosse da un piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll’offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dè miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell’attuale fermento degli umori d’un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni dè cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sì del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto più crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, più fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Così acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl’inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresì che acquisteranno uno spirito d’indipendenza, ma non già scuotitore delle leggi e ricalcitrante a’ supremi magistrati, bensì a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtù la debolezza di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro che si sono fatto un diritto di trasmettere agl’inferiori i colpi della tirannia che hanno ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura. CAPITOLO QUINTO. OSCURITÀ DELLE LEGGI Se l’interpretazione delle leggi è un male, egli è evidente esserne un altro l’oscurità che strascina seco necessariamente l’interpretazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli uomini, riflettendo esser questo l’inveterato costume di buona parte della colta ed illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni. Una conseguenza di quest’ultime riflessioni è che senza la scrittura una società non prenderà mai una forma fissa di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le leggi, inalterabili se non dalla volontà generale, non si corrompano passando per la folla degl’interessi privati. L’esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la probabilità e la certezza delle tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza inevitabile del tempo e delle passioni? Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l’atrocità dè delitti che facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero le più dolci virtù, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani. Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica semplicità e buona fede: l’umanità gemente sotto l’implacabile superstizione, l’avarizia, l’ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni dell’oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità evangelica lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sono l’opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria - Le pene sproporzionate danneggiano la società commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 16 agosto 2017 Naturalmente, un principio fondamentale della razionalità giuridica, non rinunciabile, risiede nella proporzione fra la gravità del delitto commesso e la pena prevista per lo stesso. Si badi. Compatibilmente alla impostazione utilitaristica tipica di Beccaria, tale proporzione non risponde ad alcuna esigenza di carattere metafisico, nel senso della sostanza essenziale delle cose, ponendosi invece nell’ottica del tutto illuministica della necessità di opporre al peso gravitazionale del delitto, un contrappeso di segno eguale e contrario, ma in ogni caso non eccessivo rispetto al primo. Beccaria, non estraneo ad una cultura matematizzante tipica del settecento, ama infatti ricorrere ad un lessico di tipo fisicogeometrico per far meglio intendere e spiegare i propri assunti teorici: ecco dunque l’uso del paragone con la gravitazione dei corpi. Si capisce bene la prospettiva da cui muove Beccaria, considerando la chiusa del capitoletto in questione, laddove egli nota che se la medesima pena fosse comminata per delitti che siano di gravità diseguale, "gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commetter il maggior delitto, se con esso vi troveranno unito un maggior vantaggio". Insomma, la eventuale sproporzione delle pene non tanto si profila come intrinsecamente ingiusta - cosa che a Beccaria importava poco - quanto si palesa come inutile, anzi perfino disutile, contraria alla compagine sociale e al suo mantenimento. Come fare allora a rendere davvero le pene proporzionate al delitto commesso? Beccaria scarta decisamente i criteri allora più diffusi fra i criminalisti. Non la semplice dignità della persona offesa può costituire misura della pena: se così fosse, si giungerebbe all’assurdo di punire con più severità, per esempio, la blasfemia, in quanto offensiva della divinità, che non l’omicidio, offensivo della vita umana. Non la gravità del peccato commesso, che è intrinseco per molti aspetti al delitto contestato: se così fosse, infatti, si appiattirebbe ogni delitto sul dato strettamente teologico che invece deve rimanere completamente escluso dalla politica penale e criminale, rispondendo ad una logica autonoma e indipendente. E neppure può esserlo l’intenzione del reo: se così fosse infatti, per un verso, sarebbe necessario disporre una legge apposita per ogni uomo, vale a dire una previsione specifica per ogni intenzione, cosa evidentemente impossibile; per altro verso, non va ignorato - si noti qui l’attento realismo del giurista milanese - che uomini con la più prava delle intenzioni finirono col giovare molto alla società, mentre uomini dotati della migliore intenzione la danneggiarono moltissimo. Unico criterio di commisurazione delle pene per Beccaria non può essere allora che il danno "fatto alla nazione". Per nazione Beccaria intende naturalmente la compagine sociale. Va notato come Beccaria qui sia stato in grado di indicare - e forse questo è un altro dei suoi più significativi meriti - il criterio del danno prodotto quale unico criterio accettabile per mantenere la proporzione fra pene e delitti, fondando in tal modo - ed essendone l’illustre precursore - la teoria del danno e del bene giuridico protetto dalla norma, quale premessa culturale necessaria a tutta quella ricca dottrina che - sia in campo penalistico che civilistico - costituisce la lezione giuridica fondamentale della nostra epoca. Ogni giurista infatti sa bene che la giurisprudenza e la dottrina negli ultimi decenni non hanno fatto altro che affaticarsi incessantemente alla ricerca di nuove e sempre più precise configurazioni del danno risarcibile - in sede civilistica - e punibile - in sede penalistica, per la miglior tutela della parte lesa: ebbene, la genesi di tanta qualità giuridica va ritrovata fra queste pagine, fra queste idee. È poi ovvio che la diversa commisurazione delle pene trae seco la necessità di distinguere come logica premessa i delitti secondo la loro gravità. I più gravi, per Beccaria, sono quelli tradizionalmente chiamati di "lesa maestà": sono quelli che attentano direttamente alla società, avendo di mira la sua totale distruzione. Pensiamo oggi alla strage, al terrorismo, all’attentato agli organi costituzionali dello Stato… Poi ci sono i delitti che ledono le sfere giuridiche dei privati, i loro beni, i loro interessi, le loro legittime aspettative. Tuttavia, l’aspetto più interessante sta nel fatto che Beccaria afferma qui senza alcuna timidezza un vero dogma del diritto penale che oggi informa di se la legislazione di ogni autentico Stato di diritto: è permesso ad ogni cittadino fare ciò che non è espressamente vietato. In atre parole, Beccaria apre qui - e lo tiene ben fermo - l’ombrello della libertà e lo apre proprio al riparo di quelle leggi di cui ha precedentemente difeso l’esistenza e la indefettibile funzione. Nulla di più esemplare come lezione di diritto: la libertà nasce e si fonda sulle leggi, non contro o senza di esse; e le leggi devono esser tali da far nascere e sviluppare la pianta della libertà: altrimenti sarebbero solo espressione di tirannia. CAPITOLO VI. PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano più rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque più forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universale combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre più aumentando. Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio. Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal più sublime al più infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla più forte alla più debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni. Qualunque azione non compresa tra i due sovra cennati limiti non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel così chiamarla. La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; più attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il più saggio alle pene più rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtù, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtù, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò così, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtù, e tali sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della morale geografia. Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto più comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio. CAPITOLO VII. ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE e precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene. Altri misurano i delitti più dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe più atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa. Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col punire. CAPITOLO VIII. DIVISIONE DEI DELITTI Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d’ogni nazione e d’ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d’autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per violente impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però che può essere somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l’ordine ci condurrebbe ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile natura di essi per le diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principii più generali e gli errori più funesti e comuni per disingannare sì quelli che per un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre l’anarchia, come coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolarità. Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell’onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi delitti, perché più dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee più chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a delitti di differente natura, e rendere così gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività e sono diversamente circoscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa interpretazione, che è per l’ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall’eterna verità fu con immutabili rapporti distinto. Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene più considerabili stabilita dalle leggi. L’opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall’azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebbe essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell’azione universale su tutte le cose che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtù che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi può soffrire un’esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini sono uno dè maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l’influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto del più forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre. "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria - "La pena deve essere la meno tormentosa possibile" commento di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 16 agosto 2017 È giunto il momento ormai per Beccaria di scendere più nel particolare, cercando di esaminare alcune figure particolari di comportamenti illeciti. Il primo è il caso dell’offesa recata all’onore, che oggi diremmo piuttosto reputazione, occasionando insomma quelli che potremmo chiamare, con terminologia moderna, i reati di opinione. Da tempo è noto che esiste una forte tendenza a depenalizzare i reati d’opinione in Italia, che tuttavia si è scontrata - ed è risultata fino ad oggi perdente - con l’opposta teoria che invece vuole a tutti i costi mantenerne la rilevanza penale: e da molti forse a ragione si pensa che dietro quest’ultima opinione si possa celare un qualche interesse personale sensibile ai risarcimenti a volte cospicui che ne possano derivare. Beccaria non lascia di far trapelare in modo chiaro il suo fastidio per questo genere di illecito penale ed in ciò si può forse scorgere una netta influenza della lezione di Rousseau, il cui problema capitale filosoficamente sintetizzato, come è noto, era "far riapparire l’essere al di là dell’apparire". Beccaria denuncia ironicamente come purtroppo molti mettano questo onore - inteso come "i suffragi degli uomini" quale condizione stessa della propria esistenza. Le violazioni dell’onore danno origine ai duelli, reato fra i più odiosi, in quanto originati dalla "anarchia delle leggi" e abituali fra gli aristocratici - e non fra la plebe - in quanto son proprio costoro a guardarsi con "sospetto e gelosia", i quali appunto esigono che l’offesa all’onore sia lavata col sangue del duello. È appena il caso di rilevare la per nulla scontata franchezza del giurista milanese nel denunciare i vizi della classe alla quale egli medesimo apparteneva, oltre che la fermezza nel vedere come reato un comportamento che a metà del settecento era giudicato lecito e perfino doveroso, quale il duello. Beccaria precorreva i tempi: e di molto. Dal punto di vista della filosofia della pena, Beccaria si colloca nella prospettiva che oggi chiameremmo della prevenzione speciale o anche generale, in quanto ritiene che lo scopo della stessa sia duplice: da un lato, scoraggiare il colpevole dalla commissione di altri reati; dall’altro, scoraggiare in genere la collettività dal commetterne. Da ciò discende che la pena deve essere "durevole" negli animi degli uomini e la meno "tormentosa" per il corpo. Kant avrebbe tuonato contro questa impostazione filosofica, perché contraria all’imperativo etico categorico, sfociando nel rischio che il fine preventivo possa fare del singolo colpevole un mezzo per impressionare gli altri soggetti della collettività, e non già - come invece predicava il filosofo di Konigsberg - un fine in se. Ma per Beccaria - e per noi - va bene così. Passando poi all’esame della testimonianza, transitando cioè dal codice penale a quello di procedura penale, Beccaria afferma un principio giuridico basilare, ma spesso dimenticato anche oggi, con enormi danni alla amministrazione della giustizia e a coloro che ne ricevono effetti negativi spesso irreparabili. Egli afferma infatti che se un testimone afferma e uno nega l’accusa, questa deve ritenersi non provata perché le testimonianze opposte si elidono reciprocamente e perché comunque deve prevalere la presunzione di innocenza. Molti sedicenti giuristi di oggi dovrebbero leggere e meditare queste pagine. Ancora. Esaminando le prove e la logica relativa alla loro valutazione, Beccaria dovrebbe vedere fra i propri attenti lettori anche molti giuristi della nostra epoca. Citiamo solo un esempio. Sostiene Beccaria che se le prove di un certo fatto si sostengono fra di loro, allora quanto più numerose sono codeste prove, tanto minore è la probabilità del fatto, perché le censure che si posson muovere alle precedenti colpiscono anche le seguenti; e ancora che se le prove di un certo fatto dipendono da una sola, il numero delle prove non aumenta la probabilità del fatto, perché il loro valore si risolve in quello della sola prova da cui dipendono. Insomma, un esempio perfetto di logica giudiziaria che sarebbe bene far studiare agli studenti di Giurisprudenza, troppo presi purtroppo dall’informatica - vale a dire dal mezzo di comunicazione - per preoccuparsi del diritto e della giustizia - vale a dire dei contenuti di quel mezzo, che poi son la sola cosa che davvero conti. Terribili poi le critiche da Beccaria riservate alla delazione, vale a dire alle accuse segrete e immuni da responsabilità. Esse infatti aprono la strada alla calunnia dalla quale è molto difficile difendersi proprio in quanto segreta. Ne viene che nessuna accusa - neppure la più grave - giustifica la delazione e che perciò l’accusa dovrà sempre essere pubblica, mai segreta, indipendentemente dalla forma dello Stato e della Costituzione. Infine al calunniatore dovrà irrogarsi la medesima pena che toccherebbe a colui che fu ingiustamente accusato. Come si vede, una bella e concreta lezione di civiltà giuridica, che oggi purtroppo per molti aspetti pare dimenticata. DEI DELITTI E DELLE PENE CAPITOLO IX. DELL’ONORE V’è una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose custodi più d’ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun cittadino, e le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce l’opinione. Questa parola onore è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con più distinta cognizione presenti che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse secondo che i venti delle passioni le sospingono e l’ignoranza guidata le riceve e le trasmette! Ma sparirà l’apparente paradosso se si consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, così la troppa vicinanza delle idee morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che le compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito geometrico che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilità. E scemerà del tutto la meraviglia nell’indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà non esservi per avventura bisogno di tanto apparato di morale, né di tanti legami per render gli uomini felici e sicuri. Quest’onore dunque è una di quelle idee complesse che sono un aggregato non solo d’idee semplici, ma d’idee parimente complicate, che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora escludono alcuni dè diversi elementi che le compongono; né conservano che alcune poche idee comuni, come più quantità complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell’onore è necessario gettar rapidamente un colpo d’occhio sulla formazione delle società. Le prime leggi e i primi magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della società, e questo fine primario si è sempre conservato, realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori; ma l’avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso gli altri, sempre superiori alla provvidenza delle leggi ed inferiori all’attuale potere di ciascuno. Da quest’epoca cominciò il dispotismo della opinione, che era l’unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E l’opinione è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo in credito l’apparenza della virtù al di sopra della virtù stessa, che fa diventar missionario anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto del comune livello. Quindi se l’ambizioso gli conquista come utili, se il vano va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l’uomo d’onore esigerli come necessari. Quest’onore è una condizione che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza. Nato dopo la formazione della società, non poté esser messo nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino. Quindi e nell’estrema libertà politica e nella estrema dipendenza spariscono le idee dell’onore, o si confondono perfettamente con altre: perché nella prima il dispotismo delle leggi rende inutile la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perché il dispotismo degli uomini, annullando l’esistenza civile, gli riduce ad una precaria e momentanea personalità. L’onore è dunque uno dei principii fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse sono quello che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed un ricordo al padrone dell’antica uguaglianza. CAPITOLO X. DEI DUELLI Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero i duelli privati, ch’ebbero appunto la loro origine nell’anarchia delle leggi. Si pretendono sconosciuti all’antichità, forse perché gli antichi non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici; forse perché il duello era uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d’esser creduti e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono più che la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l’uomo d’onore si prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio degl’insulti e dell’infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per qual motivo il minuto popolo non duella per lo più come i grandi? Non solo perché è disarmato, ma perché la necessità degli altrui suffragi è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo più elevati, si guardano con maggior sospetto e gelosia. Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto, cioè che il miglior metodo di prevenire questo delitto è di punire l’aggressore, cioè chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè l’opinione, ed ha dovuto mostrare ai suoi concittadini ch’egli teme le sole leggi e non gli uomini. CAPITOLO XI. DELLA TRANQUILLITA’ PUBBLICA Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete dè cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al commercio ed al passeggio dè cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e più dall’oscuro e misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una gran massa d’uomini. La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite nè differenti quartieri della città, i semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei tempii protetti dall’autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere gl’interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano della police; ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a quest’assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in qualche governo, ciò nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla natura di governo bene organizzato. L’incertezza della propria sorte ha sacrificate più vittime all’oscura tirannia che non la pubblica e solenne crudeltà. Essa rivolta gli animi più che non gli avvilisce. Il vero tiranno comincia sempre dal regnare sull’opinione, che previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nell’ignoranza del pericolo. Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte è ella una pena veramente utile e necessaria p er la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt’i tempi? Qual influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson resistere. Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato il primo all’Italia con qualche maggior evidenza ciò che altre nazioni hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini. CAPITOLO XII. FINE DELLE PENE Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo. CAPITOLO XIII. DEI TESTIMONI Egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, può essere testimonio. La vera misura della di lui credibilità non è che l’interesse ch’egli ha di dire o non dire il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile l’applicazione degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente la nota d’infamia negl’infami quando non abbiano alcun interesse di mentire. La credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione dell’odio, o dell’amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui e il reo. Più d’un testimonio è necessario, perché fintanto che uno asserisce e l’altro nega niente v’è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d’essere creduto innocente. La credibilità di un testimonio diviene tanto sensibilmente minore quanto più cresce l’atrocità di un delitto o l’inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le azioni gratuitamente crudeli. Egli è più probabile che più uomini mentiscano nella prima accusa, perché è più facile che si combini in più uomini o l’illusione dell’ignoranza o l’odio persecutore di quello che un uomo eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perché l’uomo non è crudele che a proporzione del proprio interesse, dell’odio o del timore concepito. Non v’è propriamente alcun sentimento superfluo nell’uomo; egli è sempre proporzionale al risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità di un testimonio può essere alcuna volta sminuita, quand’egli sia membro d’alcuna società privata di cui gli usi e le massime siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le altrui passioni. Finalmente è quasi nulla la credibilità del testimonio quando si faccia delle parole un delitto, poiché il tuono, il gesto, tutto ciò che precede e ciò che siegue le differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse parole, alterano e modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile il ripeterle quali precisamente furon dette. Di più, le azioni violenti e fuori dell’uso ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di sé nella moltitudine delle circostanze e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che nella memoria per lo più infedele e spesso sedotta degli ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga più facile una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo, poiché di queste, quanto maggior numero di circostanze si adducono in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per giustificarsi. CAPITOLO XIV. INDIZI, E FORME DI GIUDIZI Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza degl’indizi di un reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l’una dall’altra, cioè quando gl’indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori prove si adducono tanto è minore la probabilità del fatto, perché i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta né sminuisce la probabilità del fatto, perché tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono. Quando le prove sono indipendenti l’una dall’altra, cioè quando gli indizi si provano d’altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si adducono, tanto più cresce la probabilità del fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull’altra. Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è dunque quella che determina ogni uomo nelle operazioni più importanti della vita. Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette. Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare è possibile che uno non sia reo, per l’unione loro nel medesimo soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere divengono perfette. Ma questa morale certezza di prove è più facile il sentirla che l’esattamente definirla. Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla scelta, perché in questo caso è più sicura l’ignoranza che giudica per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le leggi siano chiare e precise l’officio di un giudice non consiste in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicarne dal risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato da’ suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai suoi pari, perché, dove si tratta della libertà e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la disuguaglianza; e quella superiorità con cui l’uomo fortunato guarda l’infelice, e quello sdegno con cui l’inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo giudizio. Ma quando il delitto sia un’offesa di un terzo, allora i giudici dovrebbono essere metà pari del reo, metà pari dell’offeso; così, essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli è ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli senza contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo si condanni da se stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento delle società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accennerò altri dettagli e cautele cherichiedono simili instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto. CAPITOLO XV. ACCUSE SEGRETE Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della constituzione, sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti, e, coll’uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta e con disordine divorati, gli consolano d’esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl’intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo gl’incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi tributi l’amore e le benedizioni di tutti i ceti d’uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle capanne la pace, la sicurezza e l’industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita degli stati? Chi può difendersi dalla calunnia quand’ella è armata dal più forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno? Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la forza, e l’opinione più efficace di essa, teme d’ogni cittadino? L’indennità dell’accusatore? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi più forti del sovrano! L’infamia del delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità dell’esempio, cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che può credersi l’estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato dell’universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi. È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le pubbliche accuse sono più conformi alla repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione dè cittadini, che nella monarchia, dove questo sentimento è debolissimo per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento il destinare dè commissari, che in nome pubblico accusino gl’infrattori delle leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe all’accusato.