Dell’Utri, i Br e i bambini in carcere di Piero Sansonetti Il Dubbio, 15 agosto 2017 Oggi è Ferragosto e gli italiani sono quasi tutti in vacanza. I ricchi in luoghi di lusso, i mezzo-borghesi un po’ intruppati, i poveri a casa loro, alcuni allegri, alcuni tristi. Poi ci sono 56mila e 766 persone che non sono in vacanza. Sono in carcere. Di loro, a parte gli addetti ai lavori e gli amici radicali (e qualche volta il papa), non si occupa nessuno. Loro passano un ferragosto di dolore, come tutti gli altri giorni dell’anno, aggravato dalle sofferenze a volte insopportabili del caldo. Pigiati nelle celle, perché le celle sono piccole e ospitano molti detenuti, spesso molti di più di quelli che possono contenere. Tra questi quasi 57 mila nostri fratelli disgraziati, ce ne sono 730 che sono rinchiusi in regime di 41 bis. Cosa vuol dire? Semplicemente vuol dire "carcere duro", una espressione che dopo la caduta del fascismo era stata cancellata dal nostro linguaggio, ed è tornata prepotentemente negli anni 90. Queste 730 persone, delle quali circa 100 sono in attesa di giudizio, non possono ricever visite se non una al mese e da dietro una vetrata, vivono isolati 24 ore su 24, senza tv, senza radio, non possono cucinare, non possono lavorare, non hanno l’ora d’aria con gli altri detenuti. Dell’Utri, i brigatisti, i bimbi in cella. Una cosa li unisce: sono persone. Una specie di Cajenna. E siccome sono quasi tutti accusati di essere mafiosi, è quasi impossibile immaginare che qualcuno, nel mondo per bene, abbia una parola gentile, o persino un nascosto pensiero affettuoso nei loro confronti. Eppure sono persone. Persone come tutti noi. La maggior parte di loro è colpevole di vari e talvolta efferatissimi delitti, alcuni invece - forse pochi - sono vittime di errori giudiziari, più frequenti di quel che si crede, in Italia. Tutti, però, sono persone. Tra le altre persone che passeranno in carcere il ferragosto ci sono anche 64 bambini. Per fortuna solo 64. Ma non sono pochissimi 64 bambini di meno di tre anni. In cella, con la loro mamma, qualcuno anche col fratello o con la sorellina. La maggior parte di questi bambini è straniero: 40 stranieri contro 24 italiani. Eppure, sebbene la maggioranza sia straniera, questa massa di bambini sicuramente riuscirà, più dei mafiosi, a strappare qualche buon sentimento, forse un sorriso, forse una parola di pietà, anche nel mondo perbene. Con i bambini ci sono 50 mamme. Più della metà straniere. Molte rom, o senza fissa dimora. In genere non scontano pene lunghissime, pochi anni o qualche mese. Ma sono recidive. Piccoli furti, borseggi, qualche truffa. Recidive e dunque niente scarcerazione. Ci sono anche delle persone famose in carcere. Generalmente le persone famose non suscitano nessuna simpatia. Spesso stimolano i sentimenti della rivalsa e della vendetta. "Hai avuto una vita agiata, sei stato potente? Ah ah: ora paghi, soffri maledetto". E spesso questo senso di rivalsa e di vendetta non è nemmeno un sentimento che si nasconde, del quale ci si vergogna. Anzi lo si esterna con soddisfazione, si grida forte. Poi magari si va anche a messa, dopo. Tra le persone famose ne ricordo tre, perché conosco bene la loro vicenda giudiziaria. Un medico, un senatore ed un ex senatore. Il medico si chiama Pier Paolo Brega Massone, è in cella da nove anni. Lo accusano di cose orribili, di avere operato pazienti che sapeva inoperabili, e di averli uccisi, per prendere qualche rimborso. Lo hanno imputato per quattro omicidi volontari e condannato all’ergastolo. Sebbene in sede civile fosse stato assolto, e dunque qualche dubbio sulla sua colpevolezza fosse evidente. La Corte d’appello, di fronte a una perizia del Pm che diceva "colpevole" e una perizia della difesa che diceva "innocente", si è rifiutata di nominare un perito indipendente e ha creduto al Pm. Brega Massone chiedeva solo quello: un perito indipendente. Lui si è sempre dichiarato del tutto innocente, e molti medici, esperti, dicono che ha ragione. Ora la Cassazione ha stabilito che sulla base delle prove raccolte non può certo trattarsi di omicidi volontari. Sono eventualmente omicidi colposi. Niente ergastolo, bisogna ricalcolare la pena. C’è tempo, c’è tempo, hanno risposto i magistrati. E lui sta i carcere. Tra poco fa dieci anni. La moglie cerca di tirare avanti, lavoricchiando, con una bambina di 13 anni, perché il marito non produce più reddito, bisogna assisterlo in prigione, pagare gli avvocati… Il secondo caso è quello che conoscete tutti. L’ex senatore Marcello dell’Utri. È in prigione da quasi tre anni. È accusato di un reato che non è scritto nel codice penale: concorso esterno in associazione mafiosa. Una specie di offesa al vocabolario e alla sintassi. La Corte europea ha stabilito che quel reato, seppure esiste, esiste dal 1994. I fatti imputati a dell’Utri sono degli anni 80. È chiaro che deve uscire. Perché non esce? La "compagnia dell’antimafia" non vuole, e talvolta i magistrati subiscono la pressione della "compagnia antimafia". E poi dell’Utri è molto amico di Berlusconi, e se non si può mettere dentro Berlusconi si tiene in prigione, finché si può, un suo amico. Siccome non c’è il reato, tecnicamente Dell’Utri è un prigioniero politico. Poi c’è il giovane senatore Caridi, del quale abbiamo parlato nei giorni scorsi. E accusato di associazione mafiosa. Prove? No non ce n’è. Ci sono alcune dichiarazioni dei pentiti di una decina d’anni fa. Dichiarazioni già considerate non attendibili dai giudici di allora, ma poi, si sa, i tempi cambiano. Uno di questi pentiti ha dichiarato di aver assistito a un incontro segreto tra Caridi e un certo boss mafioso nel 2007. Sarebbe la prova regina della colpa del senatore. Poi si è saputo che nel 2007 ‘ sto boss mafioso era al 41 bis. Non poteva incontrare proprio nessuno, tantomeno di nascosto. Però non è stato cancellato il pentito è stata corretta la data. Cosa c’entra quel cuore di pietra di Dell’Utri coi bambini di tre anni? C’entra, perché sono persone: nello stessissimo modo sono persone. E dovrebbero interessarci. Invece all’opinione pubblica sembra interessare solo che le carceri siano piene. Sempre più spesso si sente dire, anche da persone responsabili, importanti: "Buttate la chiave!". Recentemente due giornali nazionali di grande prestigio hanno protestato. Una volta perché un boss era stato portato a casa per 12 ore a vedere la mamma ammalata. E poi si è saputo che non era neanche vero. Un’altra volta, pochi giorni fa, perché Carminati (che non è più al 41 bis perché è stato assolto dal reato mafioso), adesso può spassarsela all’ora d’aria, può cucinare in cella, incontrare i parenti una volta a settimana per un’ora filata… C’è un verso famoso di una canzone di Fabrizio de André che dice così: "tante le grinte, le ghigne i musi, vagli a spiegare che è primavera… e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera". Già, proprio così. Se vengono a sapere che ora Carminati può cucinarsi un uovo sodo fremono come bestie. E siccome abbiamo citato De André torniamo agli anni d’oro di De André, tra i settanta e i novanta. In quegli anni in Italia il tasso di criminalità era molto, molto più alto di ora. C’era il terrorismo, la mafia uccideva quasi tutti i giorni. Erano di più i furti, le rapine, le aggressioni. Le città non erano molto sicure, perché la violenza era alta. Beh, sapete quanti erano i detenuti, in quegli anni? Ho dato un’occhiata agli annuari Istat. Nel 1976, che è l’anno nel quale esplode il terrorismo, i detenuti erano 53,2 ogni 100.000 abitanti. Oggi invece sono 107, 4 ogni centomila abitanti. Un po’ più del doppio. Nel 1992, dopo più di un decennio di terrorismo scatenato e mentre era in pieno svolgimento la durissima iniziativa mafiosa, e cioè l’attacco frontale allo Stato deciso dai corleonesi, i detenuti erano 35.000, più o meno a parità di popolazione. 21 mila meno di oggi. Se volete qualche altra cifra dell’Istat posso dirvi che della attuale popolazione carceraria circa il 35 per cento è in prigione senza condanna definiva e circa il 20 per cento è in prigione senza aver ricevuto nessuna condanna, neanche di primo grado. Qualunque manuale di sociologia ci spiega che con l’avanzare della civiltà le carceri si svuotano, piano piano. Le pene diventano sempre meno severe, crescono le misure alternative. Da noi no: è una corsa a far diventare le pene sempre più pesanti. Il numero dei carcerati è tornato quello degli anni trenta, durante il fascismo. I trattamenti si sono inferociti. Il 41 bis è un obbrobrio giuridico. Ed è un obbrobrio anche l’ergastolo ostativo, cioè la prigione a vita senza possibilità di una scarcerazione anticipata, senza un permesso premio, niente. E a me sembra un obbrobrio anche la situazione di circa 30 ex brigatisti rossi che sono stati dimenticati in carcere, chi da trentacinque chi da quarant’anni. Non usciranno mai. Serve a qualcuno? In questi giorni stiamo pubblicando, a puntate, il trattato di Cesare Beccaria sui delitti e le pene. Nelle prime righe spiega come ogni pena non necessaria sia espressione della tirannia. Diceva proprio così, nel settecento, Beccaria: tirannia. Sono passati due secoli e mezzo, ma mica lo abbiamo capito. Carcere, una tortura quotidiana di Paolo Hendel (attore) gonews.it, 15 agosto 2017 Alla voce "carcere" leggo sul vocabolario: "Stabilimento in cui vengono scontate le pene detentive (Zanichelli)", "Luogo in cui vengono rinchiuse le persone private della libertà personale per ordine dell’autorità competente (Devoto-Oli)", "Luogo dove vengono reclusi individui privati della libertà personale in quanto riconosciuti colpevoli di reati per i quali sia prevista una pena detentiva (Wikipedia)". La pena quindi consiste nella privazione della libertà. Le sentenze di condanna non dicono: "Caro signore, ti riteniamo colpevole e perciò ti condanniamo a vivere per tot anni chiuso in una cella umida e sovraffollata, in condizioni igieniche disumane, con temperature estive da forno, con impianti elettrici malfunzionanti e magari con qualche bel crollo strutturale dell’edificio di tanto in tanto, il tutto con pochissima attenzione per la tua salute che tanto peggio stai e meglio è, così impari!". L’anno scorso a Sollicciano tre detenuti si sono tolti la vita. Oggi nel carcere ci sono circa 680 detenuti mentre la capienza regolamentare sarebbe di 494. Se vado in giro in macchina e mi porto dietro moglie, figlia, i miei due fratelli, la mamma anziana e la badante col marito e il cane, superando il limite massimo di 5 persone, prima o poi un vigile mi ferma e come minimo mi fa una bella multa. Nelle nostre carceri italiane il soprannumero è la norma seppure illegale. Ed è dura anche per chi ci lavora. Per gli operatori (educatori, volontari…) e per gli agenti di Polizia Penitenziaria. Il corpo di Polizia penitenziaria a Sollicciano è sottodimensionato (485 agenti sui 696 previsti dal regolamento). È incredibile che proprio in carcere, giorno dopo giorno, si infranga sistematicamente la legge e che sia lo Stato a farlo! Quindi la pena non è "solo" la privazione della libertà. C’è una terribile pena aggiuntiva che diventa tortura quotidiana. Come si possono realizzare percorsi riabilitativi in condizioni del genere, per non parlare dei complicati meccanismi burocratici e amministrativi che già di per sé rendono le cose difficili? Tralasciando i casi, che pure esistono, di innocenti finiti in galera per errori giudiziari e rimandando ad altra occasione una riflessione sul carcere come "discarica sociale", destino che troppo spesso incombe su coloro che sono emarginati e senza prospettive, credo che evitare il terribile sovrappiù di disagi, sofferenze e umiliazioni aiuterebbe i detenuti a sentirsi ancora donne e uomini con una prospettiva di vita dignitosa davanti nel non facile cammino di un auspicabile reinserimento sociale. Paolo Hendel coi Radicali a Sollicciano Il prossimo 18 agosto, una delegazione dell’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" si recherà in visita nel carcere di Sollicciano per verificare, anche con la collaborazione della direzione dell’istituto, la situazione interna e i problemi da riportare fuori dalle mura del carcere affinché la città ne sia informata e possa contribuire a risolverli. Faranno parte della delegazione: Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, l’avvocato Eriberto Rosso, della Camera Penale di Firenze, il consigliere comunale fiorentino Tommaso Grassi (gruppo "Firenze a Sinistra"), il cappellano di Sollicciano, Don Vincenzo Russo, Massimo Lensi, Grazia Galli, Maurizio Buzzegoli, Roberto Davide Papini, Maurizio Morganti dell’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi", Alessandro Bavasso Mellini dell’Associazione "Firenze Radicale-per gli Stati Uniti d’Europa", e l’attore Paolo Hendel. I Radicali oggi a Regina Coeli e domani parte il Satyagraha di Valentina Stella Il Dubbio, 15 agosto 2017 Si conclude al carcere romano la Carovana della Giustizia dei militanti del partito. Ieri manifestazione davanti alla sede Rai di Roma. Maurizio Turco, Sergio D’Elia, Rita Bernardini e Antonella Casu hanno contestato che la tv pubblica non abbia informato dell’iniziativa. Si conclude oggi ufficialmente, con una conferenza stampa davanti al carcere di Regina Coeli, la Carovana per la Giustizia del Partito Radicale in Sicilia. Seguirà una visita ispettiva nel penitenziario romano. Diciotto giorni di raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra pm e giudici, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane: circa 3.000 le sottoscrizioni raccolte che si vanno ad aggiungere alle oltre 60.000 già nel sacco. Il maggior contributo per questa iniziativa di riforma della giustizia lo hanno dato i detenuti delle 22 carceri dell’isola all’interno quali si sono recati i militanti e dirigenti del Partito di Marco Pannella, che spesso hanno constatato le carenze strutturali e trattamentali in cui versano gli istituti di pena: "per rimuovere lo stato di illegalità - dice Rita Bernardini - ci vorrebbe da subito un provvedimento di amnistia e indulto. Lo diciamo con consapevolezza, hic et nunc come ripeteva Marco Pannella". Quello a cui tuttavia si può aspirare più realisticamente è l’adozione della riforma dell’ordinamento penitenziario: "Centinaia di detenuti da tutti Italia - racconta Bernardini - hanno fatto arrivare al Partito lettere in cui aderiscono da domani al grande Satyagraha collettivo come forma di lotta nonviolenta affinché siano approvati entro l’estate i decreti attuativi della legge delega della riforma dell’ordinamento penitenziario. Insieme a noi chiedono al governo e al ministro Orlando di mantenere la parola data e di non rendere vana questa legislatura. Era stato lo stesso ministro della Giustizia a dire a Radio Radicale il 19 giugno scorso che la riforma sarebbe stata pronta in poco tempo, massimo per agosto". Purtroppo i carovanieri hanno dovuto subire non solo l’emergenza caldo nei vari spostamenti sull’isola ma soprattutto quella informativa; fatta eccezione per questo quotidiano che ogni giorno ha tenuto un diario della carovana "dobbiamo registrare e sottolineare - evidenzia Maurizio Turco - il silenzio assoluto degli organi di informazione nazionali, pubblici e privati; televisivi, radiofonici e cartacei. E proprio per questo ieri hanno protestato davanti alla sede Rai di Roma. Maurizio Turco, Sergio D’Elia, Rita Bernardini e Antonella Casu hanno chiesto di poter essere ricevuti per contestare il fatto che la tv pubblica non abbia in alcun modo dato testimonianza dell’iniziativa che ha fatdelle to già tappa in Calabria e Sicilia e che si sposterà in Sardegna. Ma sottolinea D’Elia "è un palazzo fantasma". "Hanno detto che non c’è nessuno", osserva Turco che mostra il comunicato stampa della conferenza davanti al carcere di Regina Coeli in caso "vogliate preventivamente bucarlo" dice al funzionario di polizia che giunge all’arrivo della piccola pattuglia radicale a rappresentanza del movimento. Tranne che per i radicali che in tantissime piazze siciliane in questi 18 giorni hanno organizzato decine di eventi pubblici con le camere penali locali per sensibilizzare, tra i vari aspetti della giustizia ingiusta, "sui trattamenti crudeli come il 41bis e l’ergastolo ostativo - prosegue Sergio D’Elia, e presentando una proposta di legge per la trasparenza degli amministratori giudiziari intitolata a Marco Pannella. In questo peregrinare siamo andati a trovare Bruno Contrada all’indomani dell’ennesima perquisizione, peraltro senza mandato, e prima di salutarci ha deciso di iscriversi al Partito". "A Racalmuto - riferisce Antonella Casu - siamo stati ospiti della Fondazione Leonardo Sciascia e accompagnati dal sindaco Emilio Messana ci siamo recati a rendere un omaggio sulla tomba in cui è sepolto insieme alla moglie. La tappa a Racalmuto è stata anche l’occasione per rilanciare l’azione della "Consulta delle Regioni per gli Stati Uniti d’Europa". Ma tutto questo chi lo sa? Pochi, ed il rischio è che, non essendo messi nelle condizioni di conoscere le iniziative del Partito Radicale, i cittadini non facciano nulla per poterlo salvare dalla chiusura: "Dobbiamo, entro il 31 dicembre, raccogliere 3000 iscritti chiude Elisabetta Zamparutti altrimenti il partito non esisterà più. Siamo a circa 1.600 iscritti completi. Questo appena trascorso, è stato un anno molto difficile per il Partito Radicale, giacché abbiamo dovuto fare i conti con la scomparsa di Marco Pannella che per noi non è stato "solo" un grande leader politico, ma ha rappresentato il motore stesso delle nostre lotte. Da lui abbiamo imparato che in politica bisogna sempre giocare il "possibile contro il probabile". Se una cosa giusta si può fare, si deve fare. Per questo noi non ci arrendiamo, andiamo avanti, non molliamo". E infatti già da domani si ricomincia con una visita al carcere di Rebibbia. Il j’accuse di Saviano: "La Sinistra che non difende i più deboli smarrisce se stessa" di Roberto Saviano L’Espresso, 15 agosto 2017 Quello su immigrati e Ong è un dibattito assurdo che ignora dati, analisi e non vuole vedere la realtà per come è veramente. Un medico di MsF racconta: "In quegli occhi ho visto il terrore. Tutti dovremmo ascoltare le loro storie". La disoccupazione devasta il sud Italia: chi sono i responsabili? Gli immigrati. La corruzione infiltra ogni appalto: di chi è la colpa? Immigrati. L’insicurezza in strada, la sporcizia cronica delle vie: certo, ci sono gli immigrati. Lo spaccio d’erba, di coca, di crack chi lo realizza? Gli immigrati. Stupri e furti in casa: sono sempre loro, gli immigrati. Nessuna di queste affermazioni è vera. E non esiste numero, statistica, analisi che la confermi. Solo un esempio: 27mila sono gli spacciatori italiani, poco più di duemila gli stranieri. Eppure queste falsità sono diventate verità accettate. Come è possibile che d’improvviso i responsabili del disastro diventino i migranti, il male assoluto, il problema numero uno, su cui sfogare qualsiasi disagio, qualsiasi frustrazione, ogni tipo di abuso linguistico, balla informativa, aggressione verbale? Come è possibile che la campagna elettorale di partiti e movimenti diventi solo il tentativo di accaparrarsi il palio del contrasto ai migranti? Il linguaggio diventa la prova capitale di come si stia cercando di banalizzare il problema. Che nella declinazione più barbara di Salvini è "l’invasione", in quella, più crudele di Di Maio "taxi del mare", e nel gergo più tecnico del governo "ridurre gli sbarchi". Ma soprattutto, come è possibile che dinanzi a migliaia di persone che scappano dalla guerra o dalla miseria i colpevoli diventino chi li salva in mare? Tutto questo si è realizzato quando chi per cultura e tradizione storica (la sinistra) dovrebbe stare dalla parte dei più deboli, ha abdicato ai suoi valori. E rinunciato a mostrare le reali dinamiche, analizzare i numeri, raccontare cosa davvero accade in Africa e nel Mediterraneo preferendo focalizzarsi sul piccolo, microscopico segmento dei nostri confini. Ma noi siamo italiani, si dice, è dell’Italia che deve interessarci no? Proprio perché siamo italiani e proprio perché dovremmo interessarci dell’Italia le forze politiche dovrebbero guardare negli occhi la realtà e spiegare come stanno le cose ai loro elettori, a quel complesso congegno che è l’opinione pubblica. La sinistra, in qualunque sua declinazione (con rarissime eccezioni) non ha battuto ciglio dinanzi al codice Minniti. Dove l’unica priorità è quella di impedire gli sbarchi: nessuna attenzione alla vita dei migranti, disinteresse per cosa farà di loro la guardia costiera libica (da sempre, ci sono le prove, in rapporti con la milizia Anas Dabbashi che monopolizza il traffico di esseri umani). Ma forse questo codice che impone la presenza di ufficiali di polizia armati sulle navi e rende impossibile il trasbordo ha una contropartita in un altro contesto? Cè un impegno italiano a non vendere armi nei territori di guerra? Ad aumentare la percentuale di Pil da dedicare ai paesi in via di sviluppo? Si vuole negoziare con la Libia sulla sorte dei migranti fermati? Si chiedono garanzie perché possano avere assistenza dignitosa e non essere arrestati e abbandonati in prigioni nel deserto? No, nulla di tutto questo. Invece di accettarlo in silenzio dovremmo trovarci davanti alle ambasciate di ogni stato europeo a scandire: "Non ci costringerete a farli annegare". Dovremmo solidarizzare con chi salva le vite in mare. Al contrario, ci troviamo a mettere tutte le Ong sul banco degli imputati, strumentalizzando qualche errore o disinvoltura di troppo, che magari si sono anche commessi. Non esistono risposte semplici ai flussi migratori, non c’è una soluzione immediata, forse è solo possibile di volta in volta di far fronte all’ emergenza. Proprio questo è quello che fa una Ong come Medici senza frontiere. Lavora su entrambi i fronti: nei luoghi da dove i migranti scappano, e in mare dove muoiono. L’Europa crede di essere di fronte a un’invasione ma non conosce nulla di quello che sta accadendo in Africa, le grandi migrazioni avvengono lì, al suo interno, e sono cento volte più grandi delle centomila persone all’anno che sbarcano in Italia. Due milioni e settecentomila persone sono scappate dalla Nigeria per sfuggire a Boko Haram. In Uganda (34 milioni di abitanti) troviamo quasi un milione di rifugiati. Medici senza frontiere si trova ad essere accusata per non aver firmato il codice Minniti. L’argomento è: "da che parte stai, con lo Stato o con i trafficanti?". È una falsificazione in cui si vuole incastrare Msf. Gabriele Eminente, che di Medici Senza Frontiere è il presidente, spiega: "Ong significa Organizzazione non governativa. Per definizione non può appartenere a nessuno, tantomeno a uno Stato. Non è corretto nemmeno attribuirle un’origine "geografica". È una furbizia mediatica dire Ong spagnola, tedesca. È un modo per suggerire l’esistenza di una "cospirazione" straniera ai danni dell’Italia. Ci vogliono collegare - dice Eminente - a mondi che non ci appartengono. Ci descrivono come complici dei trafficanti, oppure pretendono che diventiamo collaboratori di indagini che non possiamo essere. Il nostro compito è invece essere laddove ci sono persone che muoiono e abbisognano di aiuto". Msf collabora rispettando le leggi internazionali e le leggi del mare, e poliziotti disarmati possono salire sulle navi in qualunque momento, perché non c’è niente da nascondere. Il ragionamento di Eminente fa emergere chiaramente il tema. Fin quando in Italia non sarà possibile entrare in modo legale, non ci saranno visti per chi vuol venire a lavorare, non saranno gestiti i flussi, allora barconi e trafficanti resteranno l’unico canale di approdo. È la logica della chiusura, sono l’Italia e l’Europa, ad aver incentivato gli sbarchi. Una proposta concreta per affrontare il problema esiste. Il 12 aprile è stata lanciata una campagna, "Ero Straniero" da Emma Bonino e i Radicali Italiani, e invito tutti i lettori a firmare. Chiamata diretta degli sponsor, permessi di lavoro, integrazione, regolarizzazione dei clandestini. E creazione di corridoi umanitari. Queste sono le proposte. Anche in questo caso la sinistra (con rare eccezioni) non ha colto la crucialità di questa campagna. Invoca il "principio di realtà" contro il "principio di umanità". Chiaramente, la campagna elettorale permanente avvelena qualsiasi tipo di analisi e riflessione seria sulla questione. Si ricorre all’argomento "principe": se la maggioranza lo vuole, la maggioranza decide. Non è così. Alessandro Galante Garrone (quanto ci mancano oggi intellettuali come lui) citava Roger Williams, teologo padre della laicità dello Stato: il volere della maggioranza poteva valere only in civil things, solamente nelle cose civili. La regola democratica della maggioranza non poteva convertirsi in una sopraffazione dei diritti individuali e universali di libertà. Ignorare quello che accade in Africa, o semplicemente rispondere con i respingimenti, se è un volere della maggioranza, è un volere orrido e incivile. Bisogna avere il coraggio di opporsi, di restare minoranza, di apparire marginali per poter salvare se stessi e la giustizia. Quello che sta accadendo in Africa e nel Mediterraneo è sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica italiana, e ci limitiamo a dire: non possiamo da soli risolvere problemi secolari. Allora, la voce di chi ha visto in faccia quello di cui parliamo nelle sedi politiche, al bar o sui social, forse ci può aiutare a prestare attenzione almeno a un’eco della parola Umanità. Roberto Scaini, di Misano Adriatico, è uno dei molti medici che hanno lavorato da volontari sulle navi nel Mediterraneo, o nei luoghi di origine delle migrazioni. "Quello che ho visto sulle navi va al di là di quanto immaginavo", racconta, "vedevo il terrore nei loro occhi, gli davo una pacca e dicevo "welcome on board". Molti, anche solo sentendosi sfiorati si difendevano, altri non credevano fosse possibile avere un gesto amico. Venivano dall’inferno. Il barcone è solo l’ultimo dei rischi di una lunghissima catena. Paura di morire in mare? Certo che ce l’hanno; come ne hanno del deserto, degli degli stupri, di essere frustati, picchiati a sangue, lasciati senza acqua. Quella di morire in mare è quasi la morte meno violenta che si aspettano". Ecco una cosa che dovrebbe fare la sinistra: farli raccontare, ascoltare". Non è quello che uno si aspetta. Nemmeno un medico come Scaini, che pure è stato in Siria, in Iraq, in Liberia e Sierra Leone colpite dall’epidemia di Ebola. "Per un medico che possano esserci morti per un’epidemia o guerre è terribile, ma razionalmente spiegabile. Quando vedi morti per malattie curabili, per denutrizione, per ingiustizia questo no. Non riesci a razionalizzarlo". "Bisogna sfatare un’altra bugia", prosegue Scaini, "pensare che la maggior parte viene in Europa perché si sta meglio è falso. Vengono in Europa perché dove sono non c’e la possibilità di vivere". E inseguire una possibilità di vivere significa spesso morire. Gettati come una cosa, un rifiuto. "Un bambino, guardandomi negli occhi, mi ha raccontato di come sui camion per la Libia, quando un ragazzino o una ragazzina stavano male con febbre o dissenteria, li buttavano nel deserto lasciandoli alla morte". Il medico di Misano Adriatico, racconta con la voce rotta, quasi imbarazzato: "un medico non dovrebbe commuoversi... ma forse è importante, invece". Roberto Scaini è uno dei moltissimi medici e operatori italiani - oltre 400 - che operano per Msf. Una comunità importante che sopperisce alle mancanze degli Stati, che dà lavoro. Pochi numeri, per dirlo: Medici senza frontiere conta oltre 34 mila operatori umanitari, dei quali 3 mila internazionali. Gli altri sono personale locale, tanto che in alcuni Paesi la Ong è il principale datore di lavoro. Nel 2016 le equipe di Msf sono state impegnate nei soccorsi in 67 Paesi, con il coinvolgimento di 402 operatori italiani. E proprio in Italia Msf sta crescendo: lo scorso anno ha raccolto quasi 57 milioni di euro, con un aumento dell’8,5% rispetto all’anno precedente. La maggior parte dei fondi (94%) viene da privati, mentre il rimanente 6% da aziende e fondazioni. Si è favoleggiato sui soldi alle Ong. Perché dovrebbero essere senza soldi? Perché si preferisce che i soldi siano nel calcio, nell’intrattenimento, nella moda, tutti mondi che riciclano sistematicamente o evadono,piuttosto che nell’impegno umanitario? E i medici privilegiati? Un’altra grande menzogna. Il primo stipendio di un medico Msf è di 1.500 euro (a volte anche meno). Poi aumenta, ma rimanendo sempre inferiore allo stipendio di un ospedaliero. Mentire, mentire, mentire: è stato questo l’ordine sui social, nel dibattito politico. "Ovvio che non si può pensare di salvare l’Africa trasferendola in europa", conclude Scaini, "sarebbe stato come dire svuotare di persone il West Africa per guarire l’ebola. Ma si possono gradualmente portare avanti politiche di soccorso e politiche di riforma". Nel 1893 ad Aigues Mortes, In Provenza, Francia meridionale ci fu un massacro di italiani compiuto da un gruppo di disoccupati francesi, caricati dall’odio verso quegli immigrati che rubavano il lavoro perché si accontentavano di salari da fame. A fermare la rabbia degli italiani contro francesi assassini di innocenti e dei francesi che consideravano gli italiani saccheggiatori di lavoro e che varcavano il confine per sporcare le loro strade e insidiare le loro donne, fu un socialista italiano, che mai come in questi anni risulta attuale piu che mai: Filippo Turati. Intervenne e mostrò che la soluzione cominciava con lo specchiarsi nelle miserie condivise. Invitò tutti i disperati in cerca di una nuova vita a provare ad avere "una sola testa e un solo cuore, una testa che conosca le cause della propria miseria e delle proprie divisioni e un cuore che lo spinga contro di esse. Allora finirà la baldoria dei patriottardi e le stragi fraterne fra lavoratori diverranno impossibili". Tutto ciò che siamo, le nostre fragili democrazie, il diritto al voto, la libertà d’espressione, la libertà religiosa, la possibilità di leggere, ascoltare, manifestare, amare, tutto questo esiste perché i nostri diritti si fondando sulla libertà, sul rifiuto della guerra, sulle leggi. La storia della sinistra democratica nasce con il sogno concreto di liberare l’umanità dalla miseria e dall’ignoranza. Non può, in nome di una "concretezza", tradire tutto ciò che è stata. Il silenzio della sinistra italiana è il suo requiem. Laura Boldrini contro gli haters: "Denuncio chi mi insulta" La Repubblica, 15 agosto 2017 "I commenti e le minacce sono quasi sempre a sfondo sessuale. Si evoca lo stupro, la violenza di gruppo come punizione. È terribile. Penso che questo spazio, il web, sia troppo importante per lasciarlo nelle mani dei violenti. Non può accadere in democrazia". Storace su Twitter: "La si potrà insultare solo per strada". Laura Boldrini ha deciso di passare alle vie legali per arginare lo tsunami di insulti, minacce e volgarità che quotidianamente inonda i suoi profili social. Un fenomeno con cui si deve confrontare praticamente chiunque goda di popolarità. Che apre un profilo social e, nel momento in cui si espone direttamente a commenti e risposte, finisce col vedersi maltrattare da soggetti senza volto, celati dietro "nick" e false identità, a cui non deve sembrar vero di poter scatenare cattiveria e cinismo anche su un semplice "buongiorno". Li chiamano "haters", i custodi dell’odio online, oppure "leoni da tastiera", perché è tanto facile esibire forza e arroganza quando si è al riparo dell’anonimato. E allora c’è chi, come Gianni Morandi, non molla e risponde personalmente a tutti, che si parli di migranti o più banalmente di spesa domenicale. Ma sono molti di più i "bersagliati" che scelgono la fuga dai social, spesso senza lasciare dietro di sè neanche un epitaffio. Laura Boldrini lancia l’hashtag #AdessoBasta, con un tweet in cui sono riportate alcune delle sconcezze collezionate dal suo profilo. Quindi su Facebook scrive: "Adesso basta. Il tenore di questi commenti ha superato il limite consentito. Ho deciso che d’ora in avanti farò valere i miei diritti nelle sedi opportune. Ho riflettuto a lungo se procedere o meno in questo senso, ma dopo quattro anni e mezzo di quotidiane sconcezze, minacce e messaggi violenti ho pensato che avevo il dovere di prendere questa decisione come donna, come madre e come rappresentante delle istituzioni. Il calore e il sostegno che finora mi sono giunti da più parti, fuori e dentro la rete, mi hanno spinta a non temporeggiare oltre. Da oggi in poi quindi tutelerò la mia persona e il ruolo che ricopro ricorrendo, se necessario, alle vie legali". "È ormai evidente - prosegue Boldrini - che lasciar correre significhi autorizzare i vigliacchi a continuare con i loro metodi e non opporre alcuna resistenza alla deriva di volgarità e violenza. Nessuno deve sentirsi costretto ad abbandonare i social network per l’assalto dei violenti. Ma purtroppo anche molti casi di cronaca recente - dalla professoressa di Cambridge Mary Beard ad Alessandro Gassman, dal cantante Ed Sheeran ad Al Bano - dimostrano che le ingiurie e le intimidazioni hanno l’effetto di una gogna difficile da sopportare". Secondo la terza carica dello Stato "educare le nuove generazioni a un uso responsabile e consapevole della rete sia una necessità impellente e su questo continuerò a impegnarmi. Nel frattempo, però, non possiamo stare a guardare. Soprassedere rischia di inviare un messaggio di sfiducia verso le istituzioni preposte a far rispettare le leggi e a garantire la sicurezza dei cittadini". "Ai nostri figli dobbiamo dimostrare che in uno Stato di diritto chiunque venga aggredito può difendersi attraverso le leggi. E senza aggiungere odio all’odio, ne abbiamo già abbastanza" conclude Boldrini. Fin qui, i propositi battaglieri che Laura Boldrini ha affidato al suo profilo Facebook. Poi, la presidente della Camera parla a Radio Popolare. "I commenti e le minacce sono quasi sempre a sfondo sessuale - spiega. Si evoca lo stupro, la violenza di gruppo come punizione. È terribile. E questi soggetti non entrano mai nel merito delle questioni. Loro non è che dissentono: hanno bisogno di buttare odio. E spesso questo avviene sulla base di fake news. Abbiamo ormai dei professionisti di fake news, che ogni giorno partoriscono falsità per alimentare l’odio, per distruggere la reputazione delle persone. Penso che tutto questo non possa più essere subìto a testa bassa. Io e tante altre donne dobbiamo reagire. Perché poi la maggior parte delle persone che vengono assaltata sui social sono donne". Diventa, allora, una battaglia per la democrazia, anche su internet. "Penso che questo spazio, il web, sia troppo importante per lasciarlo nelle mani dei violenti, di quelli che lo usano come un modo per sopraffare gli altri. Oggi molte persone in Italia hanno aura di esprimere il proprio parere a causa della gogna digitale. Questo non può accadere in una democrazia. Quindi io ho preso la decisione di denunciare, perché in uno Stato di diritto ci sono le leggi e l’ho fatto anche per incoraggiare chi è oggetto di violenza. Chi è oggetto di violenza deve poter reagire. L’ho fatto per incoraggiarli a non subire. Perché i giovani possano sempre avere la consapevolezza di un utilizzo responsabile del web e perché possano sentirsi protetti sulla rete attraverso la conoscenza dei loro diritti". Non possiamo più rimanere a guardare e autorizzare i violenti ad avere la meglio, in una sorta di squadrismo digitale che sta diventando insopportabile - rincara Boldrini. E infatti in tanti stanno già reagendo, stanno dicendo: ora basta. Questo significa che c’è una maggioranza silenziosa che non tollera più i violenti, la loro protervia, l’arroganza, il tentativo di fare tacere opinioni diverse. Spero che questa mia decisione possa essere considerata specialmente dalle ragazze e dai ragazzi un motivo per trovare l’energia, il coraggio di uscire dal silenzio. Io dico sempre ai ragazzi nelle scuole: non soccombete ai bulli, non soccombete a chi vi ricatta. Ma io stessa devo dare l’esempio". Proprio dai social, Twitter nello specifico, ecco come Francesco Storace, presidente del Movimento nazionale per la sovranità, ha accolto l’iniziativa della presidente della Camera: "La Boldrini denuncerà chi la insulterà sulla rete. Si potrà farlo solo per strada". Andrea Putzu, dirigente nazionale di Fratelli d’Italia - An, pur condannando gli insulti e le offese, chiede a Laura Boldrini di "domandarsi perché viene così aspramente contestata da buona parte degli italiani. Molte persone hanno una bassa istruzione e non sanno esprimersi in punta di fioretto, ma stanno cercando di far arrivare alla Presidente della Camera il loro disagio verso una figura che non ha mai espresso solidarietà agli italiani che muoiono di fame, che perdono il posto di lavoro, che vengono sfrattati mentre agli immigrati e agli stranieri la solidarietà della Boldrini non manca mai". Solidarietà e sostegno all’iniziativa da Sandra Zampa e Matteo Colaninno (Pd), mentre Possibile "mette a disposizione della campagna contro l’odio sul web lanciata dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, un gruppo di avvocati. Ci saranno nostri iscritti ed attivisti, che in tutte le parti d’Italia sono pronti a sostenere azioni legali, sia individuali che collettive, contro i teppisti del web, i sempre più numerosi e impuniti autori di hate speach a sfondo sessuale, razziale e comunque discriminatorio" annunciano il deputato e segretario Pippo Civati e il deputato Andrea Maestri. Mentre per il deputato Pd Davide Mattiello, relatore della recente riforma dell’art. 338 del codice penale con cui per tutelare meglio amministratori locali, magistrati e parlamentari, non serve neppure la querela, per le minacce di cui è vittima la presidente della Camera, si può procedere d’ufficio. "I social - spiega - non sono uno ‘spazio fintò dove tutto è lecito, sono un altro spazio pubblico dove le regole devono essere fatte valere. Tra queste una delle più importanti è che in democrazia l’intimidazione è un delitto e quelle contro Laura Bolrini non sono semplici ingiurie, ma di fatto delle intimidazioni: Il dissenso in democrazia è sacrosanto a patto che imbocchi la strada del dialogo, quando invece la strada è quella della intimidazione, cioè della minaccia e della violenza, col fine evidente non soltanto di offendere ma di dirottare la libera determinazione di chi legittimamente interpreta una responsabilità istituzionale, allora tolleranza zero. Non ci dovrebbe essere bisogno nemmeno della querela: è procedibile d’ufficio". Plauso a Boldrini da Al Bano, proprio uno degli esempi di vittime illustri dell’odio online denunciato dalla presidente della Camera su Facebook. "Vuole adire le vie legali? Fa bene - dichiara il cantante a AdnKronos, non si può combattere contro un pollaio carico di veleni non richiesti. Ci vuole una legge ben precisa in grado di garantire chi subisce violenze gratuite". Al Bano ha recentemente abbandonato i social. E accusa: "Dietro un grande anonimato sparano cose assurde. Per quanto mi riguarda le hanno sparate anche contro i miei figli. E poi mi hanno dato per morto due volte e la cosa mi ha dato molto fastidio. Non so come se la passino i miei colleghi, ma per me le persone che insultano sono affette da una vera propria sindrome rancorosa del webbista". Orlando sugli hater online: "Più del penale, utile rimuovere post e profili" di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 15 agosto 2017 Il ministro della Giustizia parla della decisione di Boldrini di denunciare gli hater: azione sacrosanta, ma bisogna agire sui provider. E poi: "Le vittime diventino una lobby" Ministro Andrea Orlando ha sentito la presidente Laura Boldrini? In un’anticipazione lunedì al Corriere ha annunciato una serie di azioni legali contro i suoi molestatori online... "Ho sentito. Azioni sacrosante. Però non tutti hanno la consapevolezza della presidente della Camera, ovvero che i cosiddetti "odiatori" del web possono essere denunciati, querelati". E quindi? Lei come ministro della Giustizia cosa propone? Di modificare le leggi sul web? Rendere perseguibili di ufficio le diffamazione e le ingiurie sul web? "Impossibile. Non sempre la risposta penale è l’unica praticabile e si finirebbe per sovraccaricare le procure in maniera insostenibile. Anche se occorre che gli strumenti della repressione penale si adattino al cambiamento tecnologico della comunicazione". Però? "Penso che per combattere gli hater ci siano strumenti più incisivi dell’azione penale ordinaria". Ovvero? "Sanzioni all’interno dello stesso luogo dove si svolgono i reati: la Rete. Rimuovere un post o sospendere un profilo è una punizione a cui l’odiatore è decisamente sensibile". E come si possono infliggere queste sanzioni? "I paesi dell’Unione europea hanno fatto una convenzione con i principali provider affinché si responsabilizzino in questo senso. L’accordo è che rimuovano su segnalazione i post o rimuovano i profili sgraditi, sempre su segnalazione anche di soggetti estranei all’ingiuria". Quindi una soluzione già c’è? "Ci sarebbe. Alcune Ong europee (previste dalla convenzione) hanno monitorato le rimozioni dei post e le sospensioni dal sito: purtroppo sono poche e avvengono molto lentamente". E dunque? "Penso che comunque un modo ci sia per riuscire ad infliggere queste sanzioni e a renderle efficaci". Cioè? "Le alleanze contro l’odio". Cosa intende ministro Orlando? "Le vittime della violenza della Rete dovrebbero unirsi per fare un fronte unico contro gli odiatori. Un po’ come hanno fatto nella società reale soggetti deboli che avevano bisogno di tutele". Un’autorganizzazione degli utenti, quindi? Non sarebbe bene avere anche una tutela delle istituzioni? "Credo che le istituzioni debbano rimanere fuori. Penso piuttosto all’ausilio per di Fondazioni bancarie o, in generale, di soggetti che si occupano di sociale". Pensa che tutto questo possa funzionare? "Penso che se i soggetti deboli cominciano a dialogare a ad unirsi tra loro possono diventare una lobby assai potente che i provider non possono ignorare. Noi qualcosa di simile lo abbiamo già sperimentato per contrastare le fake news". Cosa è stato fatto? "Partendo dal presupposto che molte fake news siano strumento di propaganda dell’odio, abbiamo messo in Rete una serie di soggetti già autorganizzati nella società". Quali? A che scopo? "Le associazioni che si tutelano per l’odio contro la razza, il sesso, la religione. Sono state messe in Rete per monitorare i siti e fare controinformazione. Un esperimento che sta dando buoni risultati". Giudici onorari nei posti vacanti di Eugenio Sacchettini Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2017 Entra in scena oggi, 15 agosto, la tanto attesa riforma organica della magistratura onoraria. In realtà la riforma diventa operativa solo in parte, perché il varo di tante e tante delle numerose disposizioni contenute nel decreto attuativo, il decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116, viene posticipato di quattro anni o anche più a seconda delle ipotesi dalla complessa norma transitoria contenuta nell’articolo 31. Ma qualcosa della riforma andrà in concreto osservato fin da oggi, giorno appunto della sua formale efficacia. Gli organici - Anzitutto andranno scaldati i motori al Consiglio superiore della magistratura per adottare, a norma del comma 7 dell’articolo 32 del decreto legislativo 116/2017, entro tre mesi, la delibera per individuare i posti da pubblicare, sulla base delle piante organiche degli uffici del giudice di pace e delle ripartizioni numeriche per ufficio dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari. E ce n’è sicuramente bisogno, perché ormai i magistrati in servizio sono ridotti a pochi, e molti di questi sono prossimi al raggiungimento del limite massimo di età. Dopodiché entro sei mesi, appunto ancora da oggi, il ministro della Giustizia fisserà su tale base la dotazione organica dei giudici di pace (articolo 3 del decreto 116) in relazione alla nuova fisionomia delle funzioni e dei compiti dei giudici onorari di pace tracciata dal Capo III del decreto 116, oltre a determinarne la pianta organica. Le competenze - Il varo delle nuove competenze del giudice di pace viene frattanto posticipato, e non di poco, di quattro anni. Ma a scrutinare pazientemente il minuzioso articolato recato del decreto si riesce a cogliere che qualcosa viene a mutare fino da ora per i magistrati onorari rimasti in carica: niente però quanto ai compensi, continuando ad applicarsi le originarie disposizioni rispettivamente poste per i giudici di pace e i giudici onorari di tribunale (got) e i vice procuratori onorari di tribunale (vpo). L’organizzazione - Si tende per il quadriennio decorrente dall’entrata in vigore della riforma a mantenere lo "status quo" e le competenze professionali rispettivamente maturate durante il pregresso servizio per giudici di pace e giudici onorari di tribunale, adesso confluiti nell’unico ruolo di giudici di pace di tribunale: in questa fase d’interregno resta ferma l’assegnazione dei procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace in servizio effettuata anteriormente, come pure la destinazione già disposta dei giudici onorari di tribunale (Got) a comporre i collegi. Soppresso il coordinatore dell’ufficio del giudice di pace, al presidente del tribunale spetta di assegnare i nuovi processi in via generale rispettivamente agli ex giudici di pace e agli ex got, con facoltà di destinare questi magistrati in servizio all’ufficio per il processo del tribunale. Il tempo di lavoro - L’aspetto più saliente per il momento si può cogliere dal comma 1 dell’articolo 32 del decreto, il quale, fra l’altro, stabilisce che sino alla scadenza del quarto anno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto (cioè dal 15 agosto 2017) le disposizioni dei capi da I a IX si applicano ai magistrati onorari in servizio alla medesima data per quanto non previsto dalle disposizioni del capo XI. Varie sono le disposizioni della riforma recate da tali capi, come tali d’immediata applicazione, ma spicca in particolare l’articolo 1 del decreto legislativo, a norma del quale - in considerazione del carattere part time del servizio - a ciascun magistrato onorario non può essere richiesto un impegno complessivamente superiore a due giorni a settimana. Dal coordinamento con l’abrogazione, pur essa operante sempre da oggi, di numerose norme della normativa istitutiva del giudice di pace e dell’ordinamento giudiziario riguardante got e vpo, si possono poi segnalare altre norme d’immediata applicazione per i magistrati in servizio, così quanto alla pausa feriale (articolo 24), in tema di gravidanza, malattia e infortunio (articolo 25) - che comporta per esempio l’iscrizione alla gestione separata Inps per chi non è iscritto a un Albo - e decadenza e revoca (articolo 21). Le applicazioni - In considerazione dei vuoti d’organico che già si stanno verificando e verosimilmente andranno ad aggravarsi nel prossimo futuro, giova segnalare poi che fin dall’entrata in vigore del decreto legislativo sarà possibile dar corso all’applicazione e supplenza anche parziale, a norma del comma 9 dell’articolo 32 del decreto, di giudici di pace e di giudici onorari di tribunale in servizio a tale data, ove ne ricorrano i presupposti. In tal caso la liquidazione delle indennità ha luogo in conformità ai criteri previsti per le funzioni e i compiti effettivamente svolti. Cyberbullismo, la scuola risponde in sede civile di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2017 Accompagnare i minorenni all’età adulta, proteggendoli dai rischi del web. È l’obiettivo ambizioso della legge 71/2017, prima in Europa a tipizzare le condotte di cyberbullismo e a prevedere una rete di strumenti preventivi. La vera novità della legge è il tentativo di consegnare direttamente ai minorenni - dai 14 anni in su - la possibilità di segnalare la presenza di un contenuto illecito al gestore del sito o del social network e di inoltrare un reclamo al Garante per la protezione dei dati personali. Cambia anche la rete di protezione attorno alle vittime di cyberbullismo che potranno contare sulla presenza in ogni istituto di un referente scolastico al quale la legge demanda il difficile compito di coordinare iniziative di prevenzione e contrasto anche avvalendosi delle forze di polizia. A livello giuridico la norma facilita l’onere della prova delle vittime di cyberbullismo, fornendo indicatori sui quali fondare la responsabilità per fatto illecito degli insegnanti per carente vigilanza (articolo 2048 Cc9. La scuola in caso di episodi di cyberbullismo, è chiamata a rispondere civilmente (articolo 28 della Costituzione e articolo 61/2 della legge 312/80) in virtù del rapporto organico del personale dipendente. Oggi quindi la mancata nomina del referente scolastico potrebbe incidere sull’affermazione di responsabilità degli istituti scolastici, gravati di questo onere specifico. Tali obblighi giustificano i bandi regionali, già previsti, per i corsi di formazione destinati ai referenti che dovranno essere in grado di rispondere alle esigenze dei ragazzi. Più difficile ancorare una responsabilità penale di tipo omissivo ai referenti in quanto di per sé l’obbligo di coordinare le iniziative di prevenzione non equivale ad un obbligo di garanzia volto ad impedire gli eventi lesivi. Sul fronte civilistico, tuttavia, già prima dell’entrata in vigore della legge 71/2017 la giurisprudenza considerava la diffusione di video illeciti on line quali attività del tutto prevedibili "in ragazzi di età pre-adolescenziale, dotati di telefonini abilitati a riprese video e generalmente fruitori di social network" (sentenza Tribunale di Brescia numero 1955, pubblicata il 22 giugno 2017). Per i giudiciè noto che la diffusone tra i ragazzi di video lesivi dell’altrui reputazione può verificarsi in orario scolastico e ciò basta per ritenere sussistente la responsabilità civile dell’istituto scolastico. La legge per la prima volta introduce anche la definizione di cyberbullismo, non prevedendo tuttavia una fattispecie autonoma di reato, ma richiamando le condotte tipiche più ricorrenti, quali le molestie, le diffamazioni, i furti di identità e il trattamento illecito dei dati personali il cui scopo sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori. Il preside ha obbligo di avvisare i genitori qualora venga a conoscenza di fatti di cyberbullismo e di avviare progetti educativi mirati. Per evitare sovrapposizioni con l’azione penale, la nuova legge ha previsto questo intervento diretto del preside soltanto nei casi in cui il fatto non costituisca reato. Tra le novità per le scuole, quella di integrare i propri regolamenti scolastici includendo specifici riferimenti alle condotte di cyberbullismo e precisando le sanzioni disciplinari applicabili. Falsa perizia: il privato non si può opporre all’archiviazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39129/2017. Il privato che si ritiene danneggiato da un falsa perizia non può opporsi alla richiesta di archiviazione del procedimento a carico dei consulenti tecnici d’ufficio. La norma incriminatrice, prevista dall’articolo 373 del Codice penale regola, infatti, una fattispecie considerata lesiva dell’interesse della collettività al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria. La Corte di cassazione con la sentenza 39129 dell’11 agosto, respinge la domanda del ricorrente di annullare il decreto con il quale il Giudice per le indagini disciplinari del Tribunale, dichiarando inammissibile la sua opposizione, aveva archiviato il procedimento nei confronti di due consulenti tecnici di ufficio. Un "fascicolo" aperto dopo che il ricorrente aveva denunciato i Ctu per falsa perizia (articolo 373 del Codice penale) e corruzioni in atti giudiziari (articolo 319-ter del Codice penale). Alla base dell’accusa rivolta ai tecnici una supposta falsa valutazione di alcuni immobili oggetto di un giudizio di scioglimento di una comunione ereditaria. Il ricorrente aveva chiesto inoltre, sempre senza successo, di disporre delle indagini supplementari che consistevano nell’acquisizione degli atti del procedimento civile da sottoporre a una nuova consulenza tecnica e nell’interrogatorio dei due indagati. Ma nulla di tutto questo, spiega la Cassazione, avrebbe potuto portare a "punire" i due tecnici. Per la Suprema corte, infatti, giustamente il Gip aveva considerato irrilevanti le ulteriori verifiche perché non avrebbero in alcun modo consentito di acquisire la prova della supposta malafede dei Ctu. I loro "pretesi" errori anche se accertati, spiegano i giudici, avrebbero potuto essere attribuiti "a una sempre possibile negligenza o all’imperizia nello svolgimento dell’incarico, piuttosto che alla preordinata intenzione di attestare il falso al fine di avvantaggiare una delle parti processuali, intenzione che, in ogni caso, sarebbe stato pressoché impossibile accertare". In più i giudici della sesta sezione penale, hanno ricordato al ricorrente che il reato di falsa perizia, anche se astrattamente configurabile sarebbe stato da lungo tempo prescritto. In ogni caso la Suprema corte ricorda che il privato non può opporsi alla richiesta di archiviazione per falsa perizia perché il crimine lede l’interesse della collettività al buon andamento dell’attività giudiziaria. Nulla da fare neppure sul fronte della corruzione in atti giudiziari. Un ambito in cui il giudice, pur non potendo fare un "pronostico" sull’esito dell’investigazione suppletiva e delle prove indicate dalla parte offesa, conserva il potere-dovere di escludere le richieste di "indagini" non utili a modificare in modo sostanziale il quadro probatorio. Condominio, il furto dell’elettricità è reato di Paolo Accoti Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 37930/2017. Sottrarre energia elettrica da una plafoniera del condominio è "furto aggravato" se in alternativa si poteva chiedere aiuto all’assistenza sociale. Lo stato di necessità presuppone la possibilità di un pregiudizio grave alla persona ovviabile solo attraverso una condotta penalmente illecita, pertanto, quando il pericolo risulti scongiurabile per mezzo di comportamenti non criminosi, come la richiesta di intervento dei servizi sociali, l’esimente dello stato di bisogno non risulta applicabile. Il principio è stato confermato dalla Corte di cassazione, V sezione penale, nella sentenza n. 37930/2017. La Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza di condanna di una condomina colpevole del delitto di furto aggravato di energia elettrica, indebitamente prelevata da una plafoniera insistente nella parte comune dell’edificio condominiale, al fine di alimentare il proprio appartamento. Nel ricorso per cassazione la condomina lamentava la mancata applicazione dell’esimente dello stato di necessità, in quanto la sottrazione di energia elettrica era necessitata dal grave stato di indigenza della stessa - nel frattempo rimasta disoccupata - e dalla esigenza di provvedere alla cura dei propri bambini a cui, la mancanza di energia elettrica, avrebbe causato un grave danno, non avendo gli stessi la possibilità di lavarsi ma neppure di cucinare. È bene ricordare come il furto di energia elettrica perpetrato, come nel caso di specie, con violenza sulle cose o con l’ausilio di qualsiasi mezzo fraudolento, è punibile ai sensi dell’articolo 624 del Codice penale: "chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516. Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61, numero 7), e 625", e l’aggravante del "mezzo fraudolento" porta la pena da due a sei anni e aumenta la multa da 927 a 1.500 euro. La Corte di Cassazione ha dato torto alla condomina, condannandola anche al pagamento delle spese processuali: per la Cassazione già la Corte territoriale aveva accertato l’inesistenza del pericolo attuale di un danno grave ai minori, in considerazione del fatto che la condomina usava per la cottura dei cibi delle bombole di gas e che l’allaccio abusivo alla rete elettrica condominiale - considerato il periodo primaverile inoltrato - non era necessario neppure per riscaldare l’abitazione. Inoltre lei stessa, il cui stato di indigenza non era dimostrato, godeva di stipendio - quand’anche modesto e non risultava accertato né lo stato di disoccupazione, né la circostanza che si fosse nel frattempo rivolta agli istituti di assistenza sociale. Ed è stato applicato il principio per cui "l’esimente dello stato di necessità (...) non può quindi applicarsi a reati asseritamente provocati da uno stato di bisogno economico, qualora ad esso possa comunque ovviarsi attraverso comportamenti non criminalmente rilevanti, potendo provvedersi alle esigenze delle persone indigenti per mezzo degli istituti di assistenza sociale". Trento: Luca Soricelli si suicidò, ma non doveva essere in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2017 Il Gip di Trento archivia il caso. Il Gip, la settimana scorsa, ha archiviato definitivamente la vicenda del suicido di Luca Soricelli, morto nel dicembre 2016 al carcere di Trento. Caso chiuso. Ma non solo. Il gip ha archiviato anche il caso sui presunti maltrattamenti subìti da alcuni detenuti sempre nel carcere trentino. Il giudice, che ha accolto la richiesta del pm Davide Ognibene (il sostituto procuratore aveva ritenuto i racconti dei detenuti non credibili), parla di "episodi sporadici, quantunque ritenuti provati, fatti assolutamente deprecabili - precisa - da sanzionare disciplinarmente, ma non sembra possibile poterli inquadrare nel reato di maltrattamenti". Il giudice non mette in dubbio la possibile veridicità dei fatti raccontati, ma perché siano ritenuti reato devono esserci una serie di condotte aggressive, attuate in un arco temporale più ampio. Per quanto riguarda il caso di Soricelli, la sua vicenda era stata denunciata alla Procura anche dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. A dicembre del 2016 era stato portato al carcere e messo nella cella dell’infermeria insieme a un altro detenuto. Tre giorni dopo il suo ingresso, colto dalla disperazione, ha deciso di farla finita impiccandosi al cancello della cella. Quando l’agente ha fatto visita alla cella per lui non c’era più nulla da fare. Eppure non dove- va neppure starci in carcere visto il suo stato psicofisico mentale precario. Era stato arrestato nella notte dai carabinieri per l’incendio appiccato al distributore di benzina di via Cavour a Rovereto. Un gesto folle. Quando i carabinieri lo avevano fermato era stato trovato in stato confusionale e poco lucido. Il trentacinquenne pochi minuti prima aveva pagato di tasca propria 150 euro di benzina, poi aveva cosparso di carburante le pompe del distributore e aveva appiccato il fuoco. L’intervento di uno dei gestori prima e quello dei vigili del fuoco poi aveva scongiurato il peggio, ma i danni sono stati comunque ingenti. Dal momento dell’arresto non ha detto una parola, forse non ha nemmeno parlato con lo psichiatra che l’ha visitato e assicurato sulla sua idoneità a essere rinchiuso in una cella. Luca era risultato idoneo per il carcere. Talmente idoneo che tempo tre giorni si è poi impiccato con un lenzuolo intorno al collo. Eppure la storia di Luca, segnata dal disagio sociale che intaccato la sua capacità psichica, era cosa nota ai servizi e alle strutture pubbliche di assistenza sociale e psichiatrica. Roma: a Rebibbia invasione di cimici nei letti, detenuti spostati e trasferiti Corriere della Sera, 15 agosto 2017 La notizia è stata data dal segretario dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci "Ad oggi - dice Beneduci - ben 79 sono coloro che, di fatto, sono stati ubicati in altri reparti, in piani diversi del G9 o addirittura trasferiti". Sembrava essere una invasione di blatte, e già non sarebbe stata una buona notizia, si è rivelato invece un assalto di Cimex Lectularius, ossia le cimici che hanno invaso i letti del carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. A denunciarlo è il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci che fa sapere come gli insetti stiano costringendo l’amministrazione penitenziaria a continui spostamenti di detenuti. "Ad oggi - dice Beneduci - ben 79 sono coloro che, di fatto, sono stati ubicati in altri reparti, in piani diversi del G9 o addirittura trasferiti e ci sarebbero conseguenze anche per l’istituto di Civitavecchia dove alcuni detenuti provenienti dall’istituto Romano hanno manifestato i tipici segni di puntura con il rischio di contagiare anche la restante popolazione detenuta". "Reparto aperto nonostante l’invasione" - Non sono esenti da rischi nemmeno gli agenti. "Sono in pericoloso aumento anche le infezioni per il personale di Polizia Penitenziaria in costante contatto giornaliero con la popolazione detenuta". Dure le parole di Leo Beneduci che aggiunge: "Le responsabilità che anche questa volta devono essere ascritte ancora una volta alla scarsa attenzione degli organi dell’amministrazione penitenziaria centrale, laddove il Direttore del Personale e delle Risorse, Pietro Buffa, a cui sia da parte dell’Osapp e sia da parte dell’istituto sono giunte segnalazioni per la necessità, per la grave igienicità dei locali, della chiusura e della ristrutturazione del reparto G9 (da cui è iniziata la contaminazione degli insetti) e ha invece deciso di mantenerlo funzionante". Il sindacato chiede una commissione d’inchiesta - Il sindacato lancia l’allarme per tutti gli istituti penitenziari italiani, "senza che, i vertici dell’amministrazione penitenziaria centrale, assumano provvedimenti per sanare questa e altre situazioni, quali le continue aggressioni al personale di Polizia Penitenziaria, alle risse tra detenuti, ultima delle quali nella giornata di ieri proprio al reparto G9 di Rebibbia Roma, alle evasioni, sottovalutate dal ministro Orlando con le sue dichiarazioni di qualche giorno fa e all’aumento dei contatti e delle affiliazioni criminali e in particolare del predominio di alcuni detenuti nei confronti di altri. Da tempo l’Osapp -conclude Leo Beneduci - chiede a gran voce che, in assenza di provvedimenti da parte del ministro Orlando, la politica si faccia carico del fallimento dell’attuale gestione del sistema penitenziario, mediante l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta che potrebbe finalmente far luce sulla degenerazione del sistema penitenziario". Firenze: "Sollicciano fa parte della nostra città, Sindaco vieni a vedere" di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 15 agosto 2017 Di seguito pubblichiamo una lettera aperta di Massimo Lensi, membro del Direttorio ed ex presidente dell’Associazione fiorentina per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi", indirizzata al sindaco di Firenze Dario Nardella, sulla condizione in cui versa il carcere di Sollicciano. Caro sindaco, il 18 agosto una delegazione dell’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" visiterà di nuovo il carcere di Sollicciano, con Rita Bernardini, Paolo Hendel, l’avvocato Eriberto Rosso, il consigliere Tommaso Grassi e il cappellano don Vincenzo Russo. Il sovraffollamento è di nuovo ai limiti dell’emergenza anche nel carcere fiorentino, i cui problemi strutturali stanno raggiungendo una dimensione tale da rendere afflittiva la condizione di chi a Sollicciano lavora o vi è ristretto. Un penitenziario è sempre una realtà difficile, e ogni carcere è una cosa a sé, con le sue difficoltà e le sue speranze. Speranze che però diventano irrealizzabili se la città lo espelle. Quando qualcosa non funziona in una scuola, o in un ospedale, si muovono le istituzioni, i sindacati e la società civile. Il carcere, invece, è un non-luogo, le condizioni di vita delle persone recluse e del personale addetto alla custodia raramente sono argomento di iniziativa politica; al più diventano materiale per convegni e iniziative di beneficenza una tantum. Al pari di un ospedale o di un plesso scolastico, il carcere dovrebbe, invece, essere inserito a pieno titolo nel tessuto urbano e sociale di un territorio, divenendo la cartina al tornasole per accertare la coesione territoriale tra le istituzioni deputate all’amministrazione della cosa pubblica nei suoi molteplici aspetti. Solo così si potranno svolgere in piena sicurezza i percorsi rieducativi e di reinserimento sociale previsti dalla nostra Costituzione. Solo così il carcere smetterà di essere scuola del crimine e discarica sociale, diventando esperienza di crescita per tutti. Per noi radicali le condizioni detentive sono lo specchio in cui uno stato di diritto si rivela ed è dal carcere e con la popolazione delle carceri che ci ostiniamo a tendere la mano alle istituzioni perché ripristinino la legalità e il rispetto della dignità della persona. Come ha ben riassunto il filosofo Aldo Masullo: "Nelle carceri è entrato il "dialogo"! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto oppure non ha alcuna legittimazione". Per questa ragione ci rivolgiamo oggi a Lei, come sindaco di Firenze, invitandola a visitare al più presto l’istituto di Sollicciano portandovi l’attenzione e l’impegno della città, proprio per scongiurare il rischio - da cui già Giovanni Michelucci metteva in guardia - che il carcere non sia compreso né come concetto né come luogo della città. Bari: protesta in carcere, da domani il cibo dei detenuti andrà in beneficenza La Repubblica, 15 agosto 2017 In occasione della protesta nazionale indetta dai Radicali nelle carceri italiane domani a lunedì prossimo, esponenti dell’associazione di volontariato In.Con.Tra con la collaborazione della Casa Circondariale di Bari, procederanno al ritiro del cibo non servito nella stessa struttura carceraria. La popolazione detenuta infatti intende non accettare il vitto dell’amministrazione, come forma di protesta. Gli stessi internati hanno manifestato altresì l’intenzione di destinare quanto non consumato a quelle realtà che si occupano di assistenzialismo e lotta allo spreco. A ritirare il cibo saranno dei volontari dell’associazione che muniti di appositi permessi concordati e di un automezzo associativo procederanno alle operazioni di ritiro, che avverranno nelle suddette date a partire dalle ore 9.00. Quanto raccolto verrà poi distribuito agli assistiti della stessa associazione: homeless, e famiglie indigenti su tutto. La protesta, del tutto pacifica e di caratura nazionale, indetta dai radicali, si prefigge di richiamare l’attenzione su macro-tematiche quali le condizioni delle edilizie penitenziarie e l’ approvazione di un nuovo ordinamento penitenziario. L’associazione In.Con.Tra ringrazia la direzione e l’amministrazione della Casa Circondariale di Bari per la massima disponibilità nei confronti delle attività di volontariato profuse dalla stessa Onlus. L’Associazione In.Con.Tra ci consenta di aggiungere la condivisione di una riforma carceraria che abbia la finalità di valutare possibilità di lavori socialmente utili e di una scuola che insegni un mestiere. Cosenza: Ferragosto in carcere, ispezione Radicale per verificare le condizioni dei detenuti quicosenza.it, 15 agosto 2017 Giuseppe Candido e Rocco Ruffa, rispettivamente, segretario e tesoriere dell’Associazione Radicale nonviolenta "Abolire la miseria", oggi in visita al carcere di Cosenza. I due militanti per far istituire il garante regionale dei diritti dei detenuti, hanno condotto per oltre quattro mesi uno sciopero della fame a staffetta volto a chiedere (al Presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto e al Consiglio regionale tutto) di discutere la proposta di legge (PdL 34/10) del 2015, che se approvata istituirebbe il Garante dei diritti delle persone private della libertà. "Mentre la calura soffoca anche chi può trovare refrigerio, noi radicali - scrivono in una nota i due attivisti - non molliamo la lotta per la vita del diritto e come ci ha insegnato Marco Pannella passeremo il Ferragosto con detenuti e detenenti nella casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza. La visita sarà occasione per annunciare che, dal prossimo 16 agosto, il partito radicale nonviolento inizierà la nostra disobbedienza civile per chiedere al Governo di emanare entro l’estate i decreti attuativi del disegno di legge di Riforma dell’Ordinamento Penitenziario per l’effettività rieducativa della pena secondo quando previsto dalla Costituzione. Per noi sarà occasione di annunciare ripresa della lotta per il garante regionale dei diritti dei detenuti la cui legge istitutiva giace in consiglio regionale da due anni. In questi giorni di afa, - prosegue il comunicato di Candido e Ruffa - nelle patrie galere, in cui pure ritorna il sovraffollamento, il disagio fisico e morale diviene insopportabile sia per i detenuti ma anche per coloro che nel carcere lavorano. Oggi in nessun altro luogo del mondo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione. Ecco perché riteniamo fondamentale verificare il rispetto della legge e del diritto durante la detenzione. Come sempre la visita avrà lo scopo di verificare le condizioni di detenzione, affinché - assieme alla privazione della libertà - non vi siano altri diritti negati. A cominciare dal diritto alla salute, all’accesso alle cure mediche e a una vita in condizioni igieniche dignitose. Soprattutto in una regione priva ancora del Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà (dove manca la legge istitutiva che era stata promessa per prima dell’estate), le visite dei radicali, continuano a supplire l’assenza di un’autorità come il Garante, consentono di verificare le condizioni di detenzione e instaurare un dialogo con i detenuti denunciando le tantissime violazioni dei diritti umani". La delegazione del Partito Radicale Nonviolento sarà composta oltre che Candido e Ruffa, da Ernesto Mauro e Sabatino Savaglio. Al termine della visita, intorno alle 13:00 la delegazione terrà un conferenza stampa. Alessandria: carcere S. Michele, rinnovato accordo con Università del Piemonte Orientale alessandrianews.it, 15 agosto 2017 Su proposta dell’Assessore alla Sicurezza e alle Politiche Sociali Ronny Rolando è stato rinnovato per un altro triennio (2017-2019) l’accordo "Pausania" dell’Università del Piemonte Orientale che ha permesso a numerosi detenuti studenti di conseguire la Laurea. Un progetto che vede la cooperazione con il Comune e con associazioni no profit e del terzo settore. Il primo accordo di cooperazione per il polo universitario, finalizzato all’attivazione di servizi didattici di supporto a studenti detenuti nella Casa di Reclusione di San Michele risale al 2005. È un programma triennale che grazie all’interazione del Comune, di associazioni no profit e del terzo settore e ovviamente all’università di Alessandria permette ai detenuti di poter "prendere la Laurea". I protagonisti di questo accordo sono il Dipartimento di Scienze e Innovazione Tecnologica dell’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" - Disit, il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" - Digspes, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro" - Disum, poi il Cissaca, il Comune di Alessandria, il carcere di San Michele e i soggetti no profit e del terzo settore, che contribuiscono al pieno raggiungimento degli obiettivi, che sono la Società Cooperativa Sociale "Il Gabbiano" e l’Associazione Betel Onlus. La proposta di rinnovo di questo accordo, in scadenza e valido quindi per un nuovo triennio 2016-2017, 2017-2018, 2018-2019, è arrivata sotto forma di delibera di giunta dal neo eletto assessore Ronny Rolando, "sia nell’ottica della promozione di una più ampia cultura di solidarietà sociale, sia per proseguire nelle attività e nel lavoro svolto nella casa di Reclusione di San Michele con la finalità della reintegrazione sociale dei detenuti". Dall’anno accademico 2001-2002 è attivo a San Michele il polo universitario "Pausania" che da una garanzia di istruzione e formazione di diversi livelli e gradi. Riconoscendone la "valenza positiva non solo nell’interesse dei detenuti, ma della società tutta" l’accordo è stato nuovamente sottoscritto, stipulando con tutti i soggetti un atto formale, che non ha costi per Palazzo Rosso, ma è un segnale importante per tutta la comunità. Firenze: formazione-lavoro per i minori detenuti, intesa tra Comune di e Cgm firenzeindiretta.it, 15 agosto 2017 Via libera dalla giunta alla prosecuzione delle esperienze di integrazione socio-lavorative e di reinserimento sociale in favore dei minori presso il servizio parchi, giardini e aree verdi. È stato approvato nel corso dell’ultima giunta grazie ad una delibera dell’assessora all’ambiente Alessia Bettini il rinnovo del protocollo di intesa fra il Comune di Firenze e il Centro Giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria sottoscritto nel 2015. Il protocollo viene rinnovato prima della scadenza in virtù degli ottimi risultati fin qui conseguiti e si basa sulla scelta, ritenuta importante da parte del Comune, di mettere a disposizione le proprie strutture e le proprie esperienze per creare occasione di reinserimento sociale dei minori in regime detentivo attraverso l’attività formativa e lavorativa. "La Direzione Ambiente, ed in particolare il Servizio Parchi, Giardini e Aree Verdi, del resto, svolge un’attività di manutenzione e gestione delle aree verdi che ben si presta a progetti di reinserimento lavorativo, già da tempo sperimentati con successo" ha detto l’assessora all’ambiente Alessia Bettini, che ha aggiunto: "Con questo accordo diamo a questi ragazzi la possibilità di una riqualificazione anche professionale e contemporaneamente offriamo una risposta importante sul piano del decoro della città. Uniamo così il recupero sociale a quello ambientale". Pianosa (Li): un incerto revival delle Colonie penali di Giulia Traversari medium.com, 15 agosto 2017 Pianosa viene spesso descritta dai media come una delle punte di diamante dei progetti di misure detentive alternative presenti nel panorama carcerario italiano, dove i ristretti lavorano liberi in un contesto naturale paradisiaco. Tuttavia, i due mesi che ho trascorso immersa nella realtà isolana, conducendo la ricerca etnografica per la tesi di laurea magistrale, mi hanno permesso di cogliere anche i punti deboli di tale esperienza: isolamento, scarsa professionalizzazione e solo un’occasionale contatto con la società esterna. Perché allora, nel 2017, insistere nel riproporre il modello isolazionista, quello della colonia penale, come misura alternativa che contrasta con quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale, ossia il reinserimento del detenuto nella società? Nel panorama carcerario italiano, che riesce ad attirare l’attenzione di telegiornali e quotidiani specialmente quando si tratta di sovraffollamento, proteste o rivolte interne, l’isola di Pianosa spicca invece come un modello riabilitativo vincente. Finalmente una buona notizia dal fronte carcerario. Grazie ad una collaborazione della Casa circondariale di Porto Azzurro con il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano ed il comune di Campo nell’Elba, in un revival delle colonie penali ancora in fase di collaudo, circa 20 detenuti vivono liberi nell’isola (disabitata) e lavorano immersi in un panorama mozzafiato. A garantire il successo di tale modello detentivo alternativo, assicurano i numerosi servizi girati, è proprio la combinazione di libertà (anche se solo all’interno dell’isola), lavoro, uso di computer e cellulari con cui essere in costante contatto con le proprie famiglie, e l’ambiente naturale. Gli "ospiti" dell’isola toscana beneficiano tutti dell’articolo 21, lavoro all’esterno, e sebbene la differenza tra la loro condizione e quella di un detenuto in semilibertà possa sembrare sottile, tecnicamente nessuno di loro è in semilibertà, ma anzi, alcuni non sono ancora nemmeno permessanti. Al contrario, Pianosa è vista dai ristretti come un tassello strategico, la chiave per "sbloccare" i permessi, per ambire poi alla semilibertà (all’Elba o in Continente), all’affidamento ai servizi sociali e infine terminare la pena. Dal punto di vista dell’Amministrazione Penitenziaria, invece, si può dire che Pianosa è una succursale di Porto Azzurro, un laboratorio dove ai detenuti vengono concesse maggiori libertà in un ambiente protetto, garantito dal contesto isola, e dove è possibile osservare il comportamento dei reclusi prima di concedere loro ulteriori benefici. In estate l’isola è animata dalla presenza di numerosi turisti che ogni giorno la raggiungono per scoprirne le bellezze naturali, ma anche incuriositi dalla possibilità di interagire, spesso per la prima volta, con dei ristretti. In inverno invece, Pianosa ripiomba nella solitudine, ed è raggiunta dal traghetto una volta alla settimana, principalmente per portare provviste alimentari, materiali, e qualche sporadico lavoratore del Parco o ricercatore. Messo da parte il primo entusiasmo nato durante una breve permanenza estiva e catalizzato dai numerosi video e articoli presenti online, durante i mesi di febbraio e marzo di quest’anno ho condiviso con la comunità carceraria di Pianosa la desolazione dell’inverno isolano, per poter cogliere il punto di vista dei ristretti stessi rispetto alla loro condizione detentiva. Premesso che tale opportunità è definita da tutti gli "ospiti" come di gran lunga migliore delle precedenti esperienze carcerarie, specialmente per la possibilità di utilizzare telefoni cellulari e computer, la mia presenza prolungata in loco, a stretto contatto con la comunità carceraria, ha permesso di individuare anche i punti deboli di questo "modello riabilitativo di successo", in particolar modo, come è attuato l’articolo 21 in tale contesto. I lavori svolti dai detenuti a Pianosa sono piccole opere di manutenzione del verde e degli edifici ancora in uso (il resto è infatti ormai destinato a crollare a causa dell’abbandono) svolti per conto del Parco o dell’Amministrazione Penitenziaria per quattro o cinque ore al giorno. Oltre a questo, è stato recuperato un terreno adibito a orto e curato dai detenuti. Tuttavia, la prima impressione è quella che molti di questi lavori non abbiano uno scopo tangibile se non quello di tenere occupati i reclusi quotidianamente, per qualche ora, scarsamente retribuita. Gli agenti individuano giorno per giorno i lavori da svolgere secondo le necessità dell’isola e li ripartono alla comunità carceraria (possibilmente) in base alle capacità di ognuno, svolgendo così il doppio ruolo di agenti di custodia e informalmente anche di datori di lavoro. Infatti, a dirigere le opere non vi è nessuna figura specifica, capace di professionalizzare i detenuti, ma gli stessi agenti, che spesso mancano delle competenze per ricoprire tale ruolo. Ad eccezione di alcuni detenuti che già possedevano specifiche specializzazioni lavorative prima di arrivare a Pianosa, gli altri ruotano come tuttofare dove vi è bisogno ed, è il caso di dirlo, si arrangiano come meglio possono. Come in qualsiasi progetto condotto nel pubblico, anche nell’isola toscana i fondi scarseggiano e di conseguenza anche i materiali per lavorare. Mentre aiuto Salvatore a dipingere una scritta su un tronco con una spugnetta perché mancano i pennelli, il detenuto condannato all’ergastolo, sfoga la sua frustrazione criticando amareggiato l’Amministrazione: "Vedi, vogliono che tu faccia i lavori, ma non ti danno gli strumenti per farli! Se poi li chiedi sembra che tu chieda la luna, ti dicono di fare la domandina e poi, prima che arrivino, passano mesi. Vedi quegli scalpelli? Li ho dovuti comprare di tasca mia, perché altrimenti non sarebbero mai arrivati". Similmente, anche i suoi compagni sopperiscono all’assenza di materiali acquistando da sé ciò che manca, compresi guanti e scarpe da lavoro. In alternativa, materiali quali mattoni, tavole di legno, tuberie e addirittura chiodi vengono recuperati dagli edifici abbandonati dell’isola e riutilizzati dove ve n’è bisogno. La precarietà di tale progetto, che si affida all’ingegno (autonomo) dei detenuti più che ad una solida progettazione, è messa ancor più in crisi dal rapporto tra agenti e detenuti, che nonostante promuova una maggior vicinanza e fiducia tra le due parti, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Infatti, il rischio è che gli agenti, vivendo quotidianamente a stretto contatto con i ristretti, arrivino a fare distinzione tra "figli e figliastri", come mi spiega Hamed, un detenuto che in questo senso si ritiene un figliastro. Quando tra detenuto e agente si instaura un solido rapporto di fiducia, simpatia e in certi casi addirittura "quasi amicizia" (con le dovute distanze), ne consegue un trattamento che facilmente si potrebbe classificare o percepire come preferenziale. Al contrario, quando si presentano attriti dovuti ad incompatibilità caratteriali o incomprensioni tra agente e detenuto, ne deriva un trattamento più distaccato e diffidente, che però rischia di avere ricadute concrete sul percorso detentivo del carcerato. Un esempio tra tutti è il caso di Enzo, che prima di entrare in carcere era agricoltore ma che ora, a Pianosa, dove potrebbe mettere a disposizione le proprie competenze, preferisce lavorare come muratore a causa di una forte incomprensione con un agente. Inutile aggiungere che questa distinzione tra figli e figliastri ha anche conseguenze dirette sulla stabilità degli equilibri interni tra detenuti, che vengono messi l’uno contro l’altro da invidie e gelosie. Tuttavia, la situazione cambia quando ditte esterne si recano sull’isola per svolgere dei lavori specifici per conto del Parco e assumono temporalmente alcuni detenuti. In quel caso, invece, ho potuto osservare che l’articolo 21 diventa uno strumento molto più mirato ed efficace per favorire il contatto del ristretto con l’esterno attraverso l’interazione con colleghi "liberi", l’uso di materiali e tecniche più avanzate, e svolgendo un lavoro retribuito secondo gli standard sindacali. Inoltre, il dover rispondere ad un "vero" capo responsabilizza e gratifica i detenuti, che più volte mi hanno raccontato con orgoglio di come avessero ricevuto i complimenti per il lavoro svolto. Non solo questa possibilità di incontro lavorativo tra mondo esterno e interno al carcere ha il potenziale di abbattere i pregiudizi della società, ma proietta gradualmente il detenuto verso l’esterno e lo forma professionalmente, rendendo più agile un futuro reinserimento quando avrà scontato definitivamente la pena. A Pianosa, queste occasioni sono sporadiche e non sempre è possibile garantirle a tutti gli ospiti dell’isola, che durante la maggior parte del tempo, specialmente in inverno, vivono immersi in un lussureggiante ambiente naturale, ma isolati. Attualmente, il Ministero di Grazia e Giustizia pare abbia espresso forte interesse nei confronti del "progetto Pianosa" e stia muovendo i primi passi per espandere la capacità ricettiva della succursale isolana di Porto Azzurro. Tuttavia, rimane da chiedersi quale sia l’obiettivo di tale progetto dall’apparenza allettante, ma che vacilla se osservato dall’interno. "Diciamocelo, è un bel progetto, però, manca un capo che comandi", aveva drasticamente concluso Pietro, un detenuto molto pragmatico, durante una nostra conversazione. Forse è vero, manca un capo presente in loco che garantisca l’attuazione di un progetto condiviso in cui le regole siano rispettate da tutti, agenti inclusi, i quali spesso tendono a ricorrere a modalità informali per meglio gestire la piccola comunità carceraria. Ma servono anche figure educative capaci di formare almeno dal punto di vista professionale i detenuti, lasciati un po’ troppo soli sull’isola. Soprattutto, però, manca l’elemento centrale e di maggior impatto dell’articolo 21: manca una comunità civile con cui i detenuti possano interagire. Il lavoro svolto a Pianosa è tecnicamente "all’esterno" in quanto condotto fuori delle mura carcerarie, ma manca del contatto con la società civile, in cui invece risiede il potenziale riabilitativo di tale misura alternativa. "Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto", recita il detto. Allo stesso modo, in estate sono i numerosi turisti che visitano l’isola che facilitano il contatto dei detenuti con l’esterno, ma nella stagione invernale, ad eccezione di sporadici lavori condotti da ditte esterne, Pianosa ricade nella solitudine e nella monotonia dei piccoli lavori finalizzati ad occupare il tempo. In conclusione, nonostante sia vero che a Pianosa i detenuti "stanno meglio" rispetto al carcere, se non fosse per la possibilità di essere telefonicamente in constante contatto con la propria famiglia e con il mondo esterno attraverso Internet, rimarrebbero pur sempre isolati, e questo riconduce a una delle finalità - quella dell’isolamento - che aveva portato alla creazione delle colonie penali nei secoli scorsi. La domanda allora rimane: perché insistere nel ripristino di questo modello isolazionista? Foggia: mafia innominabile, una tardiva (ri)scoperta di Antonio Nicaso Il Mattino, 15 agosto 2017 È un fastidioso déjà-vu. Oggi, tutti parlano della mafia garganica, o meglio della "mafia innominabile" come l’ha definita il magistrato Domenico Seccia nel 2011 in un libro completamente ignorato. Una mafia che allora non esisteva perché tutti la negavano, attribuendo importanza solo alla Sacra Corona Unita. Veniva negata anche dalla stessa magistratura con un sillogismo quasi aristotelico: se la mafia nel Gargano non esiste, cercarla non ha senso, trovarla è impossibile. Eppure quella garganica è una mafia che macina profitti, devasta città e campagne, corrompe i poteri lasciando dietro di sé una striscia di sangue che non si asciuga mai. Nel 1969, in un processo per omicidio, i Li Bergolis vengono definiti dai giudici "tra le persone più influenti della zona", (il Gargano), "temuti e rispettati da tutti per la loro fama di gente abituata a risolvere da sé, con la violenza e la sopraffazione le proprie contese" ed inoltre consapevoli della "loro potenza che consente loro di lasciare i propri animali incustoditi in località impervie e che raggiunge anche i carabinieri, i quali non si permettono di fermarli, ma li invitano a presentarsi in caserma, non mantengono il sequestro dei coltelli trovati in possesso di alcuni di loro ma li restituiscono in seguito all’intervento del capo, non intervengono nelle ricerche degli animali sottratti perché i derubati devono vedersela da sé. Per essi, dunque, che, pur essendo soliti lasciare i loro animali incustoditi da tempo non subiscono furti, l’abigeato costituisce un’offesa grave, offesa che deve essere riparata subito con la restituzione degli animali sottratti, e che, in mancanza, va lavata col sangue". Una delle prime faide che vede coinvolti i Li Bergolis scoppia il 30 dicembre 1978 con l’uccisione di Lorenzo Ricucci e del figlio Salvatore, ritenuti vicini alla famiglia Primosa. È una faida sanguinosa che va oltre l’abigeato e sconfina anche in Lombardia con agguati compiuti a Desio e a Nova Milanese. La percezione è quella di una mafia stracciona, agro-pastorale, insignificante, come era successo molto prima anche con la ?ndrangheta. Decenni e decenni di colpevole sottovalutazione che porta oggi alla scoperta di "una mafia spietata e pericolosa", come l’ha definita la Direzione nazionale antimafia. Una mafia feroce e agguerrita responsabile di almeno trecento omicidi negli ultimi trent’anni, di cui l’80% ancora impuniti, come ha ricordato il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Ventotto clan con ottocento affiliati divisi in tre schieramenti che si contendono una delle province italiane con il territorio più vasto. Per molto tempo, si è pensato che in Puglia esistesse solo la Sacra Corona Unita. Della mafia garganica, dei suoi rapporti con la camorra, del suo familismo e della sua impenetrabilità, simile alla ?ndrangheta, neanche l’ombra. Ma non è solo una mafia che ammazza, che non ha collaboratori di giustizia, che viene continuamente protetta da una omertà diffusissima e che si è sviluppata in un territorio a forte vocazione agricola che predilige la pastorizia. È anche una mafia che si infiltra nelle istituzioni e che tende a condizionare le amministrazioni comunali disseminate sul territorio, come è accaduto a Monte Sant’Angelo, un consiglio comunale sciolto per mafia nel 2015. Se si allarga lo sguardo, si nota che, nella provincia di Foggia, persiste la storica divisione tra mafia dei montanari - riconducibile ai clan che operano nella zona garganica - e mafia della pianura con riferimento alla zona della Capitanata. Come scrive la Direzione investigativa antimafia, nella sua ultima relazione, si tratta di organizzazioni criminali che, pur presentandosi frammentate e prive di un vertice aggregante, evidenziano una solida strutturazione interna, forte senso di autodisciplina, capacità di programmare e attuare strategie criminali e di intessere alleanze sia tra i diversi gruppi operanti sul territorio, sia con sodalizi mafiosi campani e calabresi". Tutto, comunque, è un terribile déjà-vu. Nel 1981 si andò addirittura oltre. Nella faida scoppiata a San Nicandro tra i Tarantino e i Ciavarella, scomparvero nel nulla cinque componenti di una famiglia, tra cui una bimba di cinque anni, forse dati in pasto ai maiali. Il capofamiglia Matteo Ciavarella aveva testimoniato contro Giuseppe Tarantino in un processo per furto di bestiame. Venne ucciso assieme alla moglie e ai loro tre figli. Oggi che la mafia innominabile ha ripreso a fare notizia con l’eliminazione di due coltivatori diretti testimoni scomodi dell’ennesimo agguato mafioso a San Marco in Lamis, lo Stato ha deciso di intervenire e ha promesso di inviare in provincia di Foggia 192 investigatori in più tra agenti dello Sco, del Ros e dello Scico. La partita che si gioca a Foggia ha carattere nazionale. Peccato, averlo scoperto così tardi. Milano: la rete delle sentinelle incastra i pusher sui bus Corriere della Sera, 15 agosto 2017 Patto tra polizia, residenti e negozi etnici nella zona della ronda sud. Chiuso un bar. Anche nella città semivuota c’è chi rimane, prende i mezzi pubblici, frequenta i bar. Lungo il percorso della linea 95, che attraversa una gran parte della periferia sud da piazza Miani al Corvetto, sono soprattutto spacciatori, i quali utilizzano il bus per fare accordi, trasportare la droga, scendere in coincidenza di locali usati per gli scambi e risalire per la tappa successiva. Ma, nella stessa città, rimangono anche i poliziotti e i residenti: e così il bilancio dell’ultima settimana di lavoro del commissariato Scalo Romana, con arresti in serie a danno di pregiudicati specializzati in marijuana, hashish, cocaina ed eroina, ovvero qualsiasi tipo di "roba" pur di far profitto e tirare a campare fino a domani, va raccontato - ancor prima che dai risultati - dalla sua genesi. Il controllo del territorio, a maggior ragione in ampie zone storicamente trascurate nei decenni da chi amministra, non si improvvisa. E infatti, a innescare i poliziotti guidati dal vicequestore aggiunto Angelo De Simone, c’è stato un nutrito gruppo. Formato da anziane residenti che sbirciano ogni movimento sospetto e non esitano a chiamare, così come da commercianti stranieri stanchi di vedersi afflitti dalle scorribande di connazionali. Un marocchino, per esempio, ha un negozio di alimentari e, in tempo reale, fornisce precise dritte sugli appostamenti degli spacciatori dando descrizioni che permettono di avviare accertamenti. E ancora, un cinese titolare di un bar, ha sfatato la negativa fama di granitica impermeabilità della sua comunità, ed è stato capace di memorizzare particolari utili per sviluppare indagini e avere conferme di sospetti e spunti investigativi su un collaudato giro di cocaina. Tra lunedì e sabato scorsi, il commissariato ha catturato quattro marocchini per droga e ha denunciato due minorenni, della stessa nazionalità e ugualmente fermati con dosi addosso. Nella rete, va da sé, sono caduti anche due italiani, pregiudicati, che provavano a infilarsi negli spazi lasciati vuoti dagli spacciatori maghrebini. Questa periferia è una fabbrica di droga. I clienti lo sanno, e vanno in pellegrinaggio. Ci sono bar, come il Jolly allo Stadera, che sembrano nati per un unico scopo: la regolare attività di facciata e i traffici illeciti come reale "occupazione". Il bar è stato chiuso su provvedimento del questore Marcello Cardona, particolarmente attento alle dinamiche che regolano la criminalità di strada. D’accordo gli arresti, essenziali, d’accordo le inchieste che procedono a cerchi concentrici con l’obiettivo di allargarsi, passando dai venditori ai vertici delle organizzazioni; però allo stesso tempo serve recidere i rami secchi funzionali all’organizzazione e alla finalizzazione dello spaccio. I locali, per appunto. Dopodiché, come sempre, i problemi non si esauriscono con provvedimenti della forza pubblica. Perché le proteste dei residenti non trovano pace. Risse, degrado, una pericolosa frequenza di rapine a passanti e furti a bordo delle auto, trasmettono una forte percezione di insicurezza. Ma allo Stadera come al Corvetto, ci sono cittadini che hanno messo in rete, letteralmente, l’osservazione dei propri quartieri. Gruppi di WhatsApp sui cellulari "elaborano" sensazioni, sospetti, vere "dritte". E dagli stessi telefonini, partono in direzione del commissariato messaggi e chiamate per "verbalizzare" il tutto e a volte perfino per "ufficializzare" la caccia ai balordi. Ferrara: Consiglieri in visita ai detenuti nella mattinata di Ferragosto di Stefania Carnevale* telestense.it, 15 agosto 2017 La mattina di Ferragosto un gruppo di Consiglieri comunali in visita alla Casa circondariale di Ferrara per portare il saluto delle istituzioni alle persone detenute e al personale dell’istituto. Il carcere è una comunità situata nel nostro territorio che tende a essere dimenticata, sino a quando qualche tragico episodio riporta bruscamente l’attenzione su questo mondo separato e distante. Nei mesi estivi la lontananza fra la città e l’istituto penitenziario sembra aumentare: la sospensione delle attività ricreative, sportive e culturali, l’interruzione dei corsi di istruzione, l’affievolirsi della presenza di volontari, l’assenza di iniziative in grado di avvicinare carcere e cittadinanza concorrono nell’acuire il senso emarginazione e distacco che connota la vita detentiva. Le condizioni climatiche estreme, che hanno portato Ferrara a un infausto primato, sottopongono le persone recluse a uno stress fisico elevatissimo, che si aggiunge al disagio psicologico proprio di questo periodo. Con l’iniziativa Ferragosto in carcere, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale ha invitato i rappresentanti del mondo politico a visitare i reparti di detenzione, per portare idealmente la città all’interno dell’istituto penitenziario e al contempo portare fuori dalle mura di via Arginone informazioni e percezioni dirette sulle condizioni dei ristretti. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Torino: "Il carcere e la pena in prospettiva cristiana", incontro Chiese Valdesi e Metodiste di Roberto Davide Papini chiesavaldese.org, 15 agosto 2017 "Il carcere e la pena in prospettiva cristiana" è il tema scelto per la "Giornata teologica Giovanni Miegge" che precederà il Sinodo 2017 delle Chiese valdesi e metodiste. L’appuntamento è per venerdì 18 agosto nell’Aula sinodale di Torre Pellice (in provincia di Torino) a partire dalle 11. La giornata (organizzata dalla Fondazione Centro Culturale Valdese e dalla Segreteria dell’assemblea degli iscritti a ruolo delle Chiese metodiste e valdesi) tratterà un tema molto presente nell’impegno del mondo protestante italiano e di drammatica attualità per le condizioni delle nostre carceri. Condizioni di vita molto dure per le persone detenute e condizioni di lavoro molto difficili per la polizia penitenziaria e gli operatori. Un percorso visto da molte angolazioni all’interno della realtà della pena e del carcere che sarà introdotto da Davide Rosso (Centro culturale valdese) e vedrà interventi di Elisabetta Zamparutti ("Nessuno tocchi Caino"), del senatore Luigi Manconi, del pastore Francesco Sciotto, di Eva Hanhart Propato e Nicola Valentino ("Liberarsi") e della pastora Letizia Tomassone. Alle 18, poi, ci sarà la proiezione di "Spes contra spem", il docufilm di Ambrogio Crespi sul mondo del carcere e, in particolare sulla realtà del 41 Bis (il cosiddetto carcere duro) e dell’ergastolo ostativo, quello in cui l’accesso a determinati benefici (libertà condizionale, semilibertà e permessi) e alle misure alternative è negato ai detenuti. "Spes contra spem", ("la speranza contro la speranza", citazione dell’apostolo Paolo, fatta propria da Marco Pannella, storico leader radicale scomparso nel maggio 2016) dà il titolo a un viaggio all’interno del carcere di Opera, attraverso le interviste ai detenuti, alle guardie, agli operatori, al direttore. Un modo particolare e molto coinvolgente per affrontare il tema della giustizia e della pena. Santa Maria Capua Vetere (Ce): la Chiesa Evangelica Adi tra i detenuti ottopagine.it, 15 agosto 2017 Ieri mattina il pastore Evangelico della chiesa Evangelica Adi di Santa Maria Capua Vetere e Benevento - via Ponticelli, ha effettuato una visita nel penitenziario di S. Maria Capua Vetere per testimoniare l’Evangelo nelle carceri. Il Pastore Evangelico Cesare Turco, insieme a sua moglie, è impegnato da anni per l’evangelizzazione nelle carceri. Svolge il suo ministero nelle carceri della Campania e parte del Lazio. Durnat e l’ultima visita il ministro di culto ha avuto un incontro con alcuni detenuti della sezione Tamigi e Tevere (alta sicurezza) del carcere samaritano, la genuina e spontanea testimonianza di salvezza di un detenuto rinchiuso da 10 anni in carcere, ha incoraggiato i presenti. Si tratta di un giovane di Napoli, che con piena semplicità e immancabile trasparenza, "ha raccontato come è stato salvato dal Signore che lo ha raggiunto per mezzo della Sua Parola. Mentre ero da solo nella cella - scrive il Pastore Turco -, il Signore gli ha parlato attraverso la testimonianza di un detenuto che già aveva ricevuto il messaggio dell’Evangelo e glielo ha trasmesso. Parole del genere ed altre simili, sono state d’incoraggiamento per tutti i presenti. Non meno consolante sono state le parole della testimonianza di un altro giovane detenuto che si trova rinchiuso nello stesso penitenziario". Oggi il numero degli interessati all’Evangelo, si aggira intorno agli ottanta iscritti. Durante l’incontro il pastore Turco si è soffermato "sull’importanza di indossare l’elmo della salvezza, risaltando che chiunque possiede quest’elmo vincerà sui cattivi pensieri che il maligno vorrebbe innestare nella mente dei credenti. Per l’occasione in questo Incontro, inaspettatamente ma con il piacere e la gioia di tutti, si sono presentati anche quatto operatori della GMC onlus che da qualche anno sono impegnati per l’evangelizzazione nel carcere samaritano". Ferrara: teatro-carcere, i detenuti si misurano con "Ubu Re" di Jarry di Samuele Govoni La Nuova Ferrara, 15 agosto 2017 Raccontare il potere, raccontarne le sue maschere, il suo status, la sua forza, ma anche le sue debolezze, le sue costrizioni e le sue follie. È la sete di potere che spinge Ubu a impadronirsi della corona e ad uccidere tutti i suoi rivali e perfino coloro che si erano imbarcati con lui in questa avventura. La stessa sete che condanna Macbeth, il valoroso cavaliere di Shakespeare, che insieme alla moglie mette in atto un piano diabolico per diventare sovrano; un’ambizione che gli costerà cara. Quello stesso potere che in tempi più recenti ha portato a colpi di Stato, faide tra clan e famiglie della criminalità organizzata. Ed è proprio sul potere, sulle sue maschere e le sue forme, che sette detenuti dell’Arginone di Ferrara stanno lavorando insieme a Horacio Czertok, regista, attore e docente teatrale. "Si tratta di un progetto di coordinamento, significa cioè che - spiega Czertok, pilastro dei laboratori teatrali in carcere - tutti gli istituti penitenziari regionali che aderiscono al progetto di teatro in carcere (ovvero Ferrara, Bologna, Forlì, Ravenna, Modena e Parma, ndr) stanno lavorando a questo argomento e a modo loro si stanno cimentando con "Ubu Re", il testo teatrale di Alfred Jarry". Dopo essersi concentrati per mesi su "La Gerusalemme liberata" di Torquato Tasso, i detenuti dell’Arginone guidati da Czertok si sono spostati su un testo decisamente più teatrale, antenato del Teatro dell’Assurdo portato poi alla ribalta negli anni a venire da Samuel Beckett e Eugène Ionesco. "Gli attori si sono immediatamente innamorati di questa proposta e si sono lanciati a capofitto nel progetto. Abbiamo - spiega il regista - diviso il testo di Jarry in due parti. La prima si intitola "L’irresistibile ascesa degli Ubu" e la seconda "Ascesa e caduta degli Ubu". La prima parte del percorso teatrale sarà presentata il 29 settembre all’interno del carcere cittadino nell’ambito del festival di giornalismo Internazionale a Ferrara. Lo spettacolo sarà aperto al pubblico ma per partecipare, è ovviamente necessario registrarsi. Quest’anno per via delle norme di sicurezza più stringenti i tempi di accreditamento sono un po’ più lunghi. Per assistere allo spettacolo è infatti necessario inviare i propri dati e la richiesta entro e non oltre il 31 agosto a info@teatronucleo.org. La seconda parte del progetto invece andrà in scena al Teatro Comunale Abbado a maggio 2018. "Il teatro in carcere è un’esperienza in continua evoluzione. Non bisogna mai dimenticare la funzione sociale e terapeutica di questa attività che - sottolinea Czertok - arricchisce culturalmente e emotivamente tanto gli allievi quanto i docenti". Non è un caso che per l’anno in corso sia stato scelto "Ubu Re". Sono tanti i parallelismi tra questo testo scritto in Francia a inizio Novecento, proprio durante la Bella Epoque, quando la Prima Guerra Mondiale non era nemmeno nell’aria, e la realtà odierna. Basti pensare alle tensioni tra i Paesi, le superpotenze, le intolleranze e la voglia di primeggiare su tutto e tutti; la sete di potere, appunto. Quella che Ubu e sua moglie hanno quando si lanciano alla conquista del regno. "Si tratta di uno spettacolo divertente e leggero ma con una densità che non passerà inosservata. Non ci sono allusioni dirette al mondo politico che ci circonda e in cui viviamo ma - assicura e conclude Czertok - sappiamo ciò di cui stiamo parlando. Conosciamo le maschere del potere e ciò dallo spettacolo emergerà". Per info e dettagli relative alla modalità di iscrizione (80 i posti disponibili) oltre alla mail è possibile anche chiamare i numeri 0532.464091 o 348.9655709. Quando il carcere è "in carne e ossa" recensione di Romano Pitaro Corriere della Calabria, 15 agosto 2017 "Una scommessa e un esperimento". Questo è, per Franco Ferrarotti che firma la prefazione, il libro appena uscito (Guida Editori) di Nicola Siciliani de Cumis dal titolo che trancia, seduta stante, ogni interpretazione di segno idealistico: "Una scienza in carne ed ossa". Di quelle che, applicate agli umani (specie se in carcere o migranti o peggio migranti in carcere), non scendono dall’Olimpo pedagogico (sul punto, fra l’altro, si sofferma la psicologa Maria Serena Veggetti in una suadente e particolareggiata presentazione del testo). Non una scienza fabbricata con certezze metodologiche, piuttosto tutta protesa sul versante ("ad esse contrapposto") del "mettersi in gioco", accettando la possibilità dell’errore. E, sfidando la vulgata, che s’infischia persino degli impegni assunti dalla Costituzione, per cui la sicurezza del cittadino onesto esige penitenziari traboccanti. Quella vulgata che fa dire alla direttrice del carcere di Reggio Calabria Maria Carmela Longo che "siamo un popolo di forcaioli. Predichiamo la libertà, facendo leva sul nostro fondamento cattolico. Ma siamo un popolo di forcaioli che si fa facilmente condizionare dai giudizi di un’informazione massificata. Ora più che mai. Siamo fortemente condizionati anche dal modo in cui si presentano le notizie, dalla ricerca del torbido, dal desiderio di punire e vendicarsi a tutti i costi". Racconta il carcere, Nicola Siciliani. E la vita dei carcerati incontrati a Regina Coeli e a Siano ("Casa Caridi") di Catanzaro. Non astrattamente, ma in virtù di frequentazioni quotidiane e di un’esperienza vissuta sul campo. Dopo decenni di "Sapienza" (dov’è approdato nell’82) e di lezioni di pedagogia generale, Siciliani, uno dei massimi studiosi di Labriola e presidente dell’associazione Makarenko (il fondatore della pedagogia sovietica), ha scelto d’infilarsi nelle carceri e toccare con mano patimenti, solitudini abissali, iniquità risapute ma pietrificate, attraverso specifici "laboratori di scrittura e lettura" che sono i materiali di un libro che, come segnala Ferrarotti, lascia intuire che ormai la concentrazione, quella funzione logica che può preservare le relazioni umane dalla mercificazione imperversante, "è oggi più facile nel mondo della coercizione carceraria". Un bel risultato. E, al contempo, la prova inconfutabile del fallimento di un progetto di società che fa acqua da ogni poro. Senza evocare spiriti eletti o maestri del pensiero razionale, è indubbio che il cancro che invade le nostre società è ravvisabile a occhio nudo in un sistema carcerario che, dopo secoli di "preghiere laiche" sedimentate in testi solenni, è diventato un luogo di punizione volto allo sfinimento della personalità, in cui il soggetto, piuttosto che rinascere dalle sue ceneri, è lasciato nelle grinfie della casualità, della promiscuità, dell’irrilevanza culturale. Nicola Siciliani tenta di restituire il diritto di parola ai carcerati di Roma e Catanzaro con cui entra in contatto e che appaiono "annientati come esseri umani e ridotti a cifre in uno schedario". Sono innumerevoli casi di suicidi, di autolesionismo disperato e le incongruenze costituzionali del "fine pena mai" di cui si dà conto nelle pagine del volume dedicato al "maestro del dubbio", lo storico e filosofo Giovanni Mastroianni. Episodi che evidenziano, al di là degli esempi commendevoli che pure non mancano in alcune strutture del Paese, il paradosso del carcere ormai collettivamente percepito come luogo avulso dal resto della società, perché chiuso dentro le mura. Ma che in realtà è spesso l’unica risposta dello Stato al disagio sociale. E come tale, un luogo aperto a tutti. Eppure tardano incredibilmente le soluzioni preventive alla sofferenza indotta dalla precarietà e dalla povertà, sicché si interviene solo dopo la commissione (o supposta) dei reati che, in quelle difficoltà spesso trovano la loro origine. Quelle risposte che sgraverebbero la società dai costi enormi di questo sistema, in cui, peraltro, proprio a causa del sovraffollamento, si affievoliscono le reali possibilità di applicazione del principio costituzionale di rieducazione della pena. Dentro questo universo chiuso eppure cosi aperto, eppure cosi comunicante con ogni segmento della società, Siciliani s’è addentrato con il candore di chi crede nelle asserzioni costituzionali. E l’ha fatto con la chiave interpretativa che si coglie fin dal sommario in copertina: "Makarenko nella Casa Caridi e altre storie di ordinaria inclusione 2015-2016". Ferrarotti esplicita il filo conduttore dei vari scritti che pongono un interrogativo capitale: "È possibile richiamare ex-uomini alla loro piena umanità, recuperare la loro autonomia, rimettere nelle loro mani la responsabilità della loro vita e, quindi, trasformare il carcere da luogo di punizione in occasione di autoconsapevolezza e di riorientamento esistenziale?". Il "Poema" di Makarenko serve a Siciliani come paradigma illuminante sui vissuti di persone senza libertà, ma a me pare che pregnante sia, se si vuol comprendere il libro (anche questo) e per entrare in affinità con lo stesso docente in servizio permanente, l’umanità stessa di Siciliani, segnata fortemente da percorsi "politici" e culturali per i quali l’uguaglianza fra individui è un punto di arrivo e di partenza senza il quale vince il potere di pochi sulle ragioni dei molti. Ecco perché il carcere non può continuare a essere concepito come un luogo che non ci riguarda, perché esso è (anche) l’esito di uno scontro in atto fra uguaglianza e discriminazioni fondate su un’arbitraria e iniqua appropriazione della ricchezza che connota marcatamente le società del nostro tempo e ritiene di non contemplare i diritti di tutti, ma, al contrario, di poterne soffocare il diritto alla felicità senza subirne i contraccolpi. Spiace soltanto che Siciliani tra gli innumerevoli "competenti" per scuola e cultura cui fa riferimento per richiamare lo Stato alla sua funzione primaria di Stato di diritto, non consideri i moniti tuonanti del cristianesimo e dello stesso Antico Testamento. In carcere perlopiù finiscono i nullatenenti, come dimostra l’altissima percentuale di immigrati, i cosiddetti "ultimi", quelli che, privati di ogni reddito, cedono all’illegalità e soggiacciono, per un tempo indefinito, alle forche caudine di un sistema penitenziario eccessivamente burocratizzato. Figli di padri non ricchi e non in grado di sgombrare le nubi pesanti che s’addensano sul futuro dei figli. Come dire che, a distanza di secoli e alla faccia di ogni declamata emancipazione umana, si riattualizza la prescrizione per cui "i padri mangiano l’uva acerba e i denti dei figli sono allegati". Espressamente (Esodo 20,5): "Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione". Un’idea della colpa già stracciata da Ezechiele, per il quale la responsabilità è individuale. E va considerata nella sua complessità. E ancora. Dinanzi a un sistema carcerario che, secondo il XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia dell’associazione Antigone, è riprecipitato nel dimenticatoio ("le 15mila unità di cui si è ridotta la popolazione penitenziaria tra il 2010 e il 2015 hanno ricominciato silenziosamente a rientrare in carcere"), mentre - come scrive il Fatto Quotidiano - "è ripartito il leitmotiv dell’uomo nero e delle campagne sulla sicurezza", come capita a ogni avvicinarsi di elezione politica, viene quasi da affidare ogni speranza al senso di giustizia che si sprigiona nei Vangeli. Potente e assordante, infatti, per chi ha orecchie per ascoltare, è l’ingiunzione del "Figlio dell’uomo" a occuparsi dei carcerati (Matteo 25,31-46): "…ero in carcere e siete venuti a trovarmi". È severa la punizione, per chi dei carcerati se n’è infischiato: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli". Non ci resta, dunque, dopo alcuni anni di dibattito intorno al senso della pena e di riforme alcune realizzate e altre promesse, e quand’è evidente "che stiamo tornando nuovamente indietro", che sperare nel cristianesimo militante? La cultura laica dovrebbe porsi qualche domanda. Guerra e pace. Così gli Usa "rassicurano" l’Europa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 15 agosto 2017 Nell’anno fiscale 2018 (che inizia il 1° ottobre 2017) l’amministrazione Trump accrescerà di oltre il 40% lo stanziamento per la "Iniziativa di rassicurazione dell’Europa" (Eri), lanciata dall’amministrazione Obama dopo "la illegale invasione russa dell’Ucraina nel 2014": lo annuncia il generale Curtis Scaparrotti, capo del Comando europeo degli Stati uniti e quindi per diritto Comandante supremo alleato in Europa. Partito da 985 milioni di dollari nel 2015, il finanziamento della Eri è salito a 3,4 miliardi nel 2017 e arriverà (secondo la richiesta di bilancio) a 4,8 miliardi nel 2018. In quattro anni, 10 miliardi di dollari spesi dagli Stati uniti al fine di "accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa". Quasi la metà della spesa del 2018 - 2,2 miliardi di dollari - serve a potenziare il "preposizionamento strategico" Usa in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono "il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico". Un’altra grossa quota - 1,7 miliardi di dollari - è destinata ad "accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa". Le restanti quote, ciascuna nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per "accrescere la prontezza delle azioni Usa", al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per "accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze Nato". I fondi della Eri - specifica il Comando europeo degli Stati uniti - sono solo una parte di quelli destinatati all’"Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità Usa di rispondere alle minacce contro gli alleati". Nel quadro di tale operazione, è stata trasferita in Polonia da Fort Carson (Colorado), lo scorso gennaio, la 3a Brigata corazzata, composta da 3500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley, oltre 400 Humvees e 2000 veicoli da trasporto. La 3a Brigata corazzata sarà rimpiazzata entro l’anno da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco. Da qui, loro reparti vengono trasferiti, per addestramento ed esercitazioni, in altri paesi dell’Est, soprattutto Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania e probabilmente anche Ucraina, ossia vengono continuamente dislocati a ridosso della Russia. Sempre nel quadro di tale operazione, è stata trasferita nella base di Illesheim (Germania) da Fort Drum (New York), lo scorso febbraio, la 10a Brigata aerea da combattimento, con oltre 2000 uomini e un centinaio di elicotteri da guerra. Da Illesheim, sue task force vengono inviate "in posizioni avanzate" in Polonia, Romania e Lettonia. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo (Bulgaria), sono dislocati cacciabombardieri Usa e Nato, compresi Eurofighter italiani, per il "pattugliamento aereo" del Baltico. L’operazione prevede inoltre "una persistente presenza nel Mar Nero", con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella addestrativa di Novo Selo (Bulgaria). Il piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington (nonostante il cambio di amministrazione) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli interessi degli Stati uniti e dei loro rapporti di forza con le maggiori potenze europee. I 10 miliardi di dollari investiti dagli Usa per "rassicurare" l’Europa, servono in realtà a rendere l’Europa ancora più insicura. Migranti bloccati nell’inferno libico: "meno 57% di sbarchi a luglio" di Adriana Pollice Il Manifesto, 15 agosto 2017 A luglio il numero dei migranti sbarcati in Italia attraverso il Mediterraneo centrale è calato del 57% rispetto a giugno. Si tratta del livello più basso, per il periodo, raggiunto in tre anni. Dal primo gennaio sono 97.293 i migranti sbarcati sulle coste italiane, il 4,5% in meno rispetto al 2016, quando furono 101.507. Se si allarga lo sguardo all’Europa, il mese scorso sono state 15.400 le persone entrate nei confini, il totale dall’inizio dell’anno si attesta a 127.100 arrivi, con un calo di due terzi rispetto all’anno scorso. Sono i dati forniti ieri dal rapporto Annual Risk Analysis 2017 dell’agenzia europea Frontex. L’unica eccezione al calo registrato sul continente è la Spagna, dove c’è una crescita descritta come "la maggiore pressione migratoria dal 2009": a luglio ci sono stati 2.300 arrivi, oltre quattro volte il dato dello stesso mese nel 2016. Nei primi sette mesi sono stati 11mila, più di quanti ce ne siano stati in tutto il 2016. La Grecia, invece, registra 2.300 arrivi in luglio, un quarto di meno rispetto a giugno. Nel 2017 sono stati in totale 15.750, il 90% in meno rispetto al 2016. Scarse, infine, le penetrazioni lungo la rotta balcanica. In Italia i maggiori flussi sono dalla Nigeria seguita da Guinea, Eritrea, Sudan e Mali. La regione che ne accoglie di più è la Lombardia (13%), quindi la Campania (9%), terza piazza per Piemonte, Emilia Romagna e Lazio, tutte all’8%, mentre i minori non accompagnati sono stati 12.656. In Spagna arrivano da Costa d’Avorio, Marocco, Gambia e Guinea. In Grecia sono soprattutto siriani, iracheni e afgani. Frontex attribuisce il calo a vari fattori: le peggiori condizioni del mare nella prima metà di luglio; gli scontri vicino all’area di partenza di Sabrata; i respingimenti della Guardia costiera libica. Anche ad agosto gli arrivi hanno subito un forte ridimensionamento: nel 2016 i migranti sbarcati sono stati 21.294 mentre sono stati 2.080 nelle prime due settimane del mese in corso. Per quattro giorni (1, 5, 8 e 9 agosto) ci sono stati zero approdi. La maggior parte dei migranti scampati al mare sono stati salvati da una Ong. Secondo la Guardia costiera italiana, nel 2016 sono stati soccorsi in mare in 178.415, di questi 46.796 sono stati recuperati dalle Organizzazioni non governative (cioè il 26,2%) ma il dato sarebbe maggiore se non pesassero i mesi in cui non hanno operato. In ogni caso, nel 2016, hanno recuperato più persone di quanto fatto dalla Marina (36.084) o dalla Guardia costiera (35.875). Nel 2017 le Ong hanno contribuito a recuperare il 32% dei migranti nei primi tre mesi ma nel periodo successivo si è arrivati al 41%. Un dato destinato a scendere da agosto. Il codice di comportamento per le organizzazioni non governative voluto dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, e il via libera del governo italiano ai respingimenti della Guardia costiera libica, anche in area Ricerca e soccorso, hanno provocato la decisione di Medici senza frontiere di sospendere le attività della nave Vos Prudence. Le minacce dei libici hanno poi spinto altre due Ong, Save the Children e Sea Eye, a fermarsi. La magistratura il 2 agosto aveva già fermato i tedeschi della Jugend Rettet per l’inchiesta di Trapani, con la nave Iuventa bloccata in porto dal sequestro. Così, nel Mediterraneo centrale, attualmente navigano la nave della destra antiong C-Star e tre Organizzazioni non governative: Moas, Proactiva Open Arms e Sos Méditerranée. "Non criminalizziamo la solidarietà. Questa campagna contro le Ong non porta lustro. Siamo apolitici, per noi il clima non è cambiato" ha commentato Regina Catrambone, l’imprenditrice italo-americana cofondatrice di Moas, di stanza a Malta, capofila delle organizzazioni che hanno firmato il Codice, annunciando ieri che la nave ha ripreso la rotta verso le aree Sar del Mediterraneo. Chi non arriva in Europa, e sopravvive al mare, viene riportato a terra dalla Guardia costiera libica: "Non si può risolvere rimandando indietro le persone in un paese dove sono note le violazioni dei diritti umani - ha spiegato il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi. Monitoreremo la situazione. Inaccettabile la campagna denigratoria contro le Ong, alcune si stanno comprensibilmente ritirando dal soccorso. Questo avrà conseguenze sulla vita delle persone". Migranti. Il deserto sociale e culturale dove trionfa l’inumano di Guido Viale Il Manifesto, 15 agosto 2017 Bisognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia - o quello che viene spacciato per tale - è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini. La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato… Dunque è il ministro Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). È una grande presa in giro degli italiani ed è un crudele abbandono di migliaia e migliaia di persone in balia di veri e propri carnefici - di cui la magistratura non sembra volersi accorgere - in vista, perché di questo si tratta, delle prossime elezioni. Ma il prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo governo, ma anche del suo passaggio su questa Terra, resterà per decenni non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile? Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc. Quegli sgomberi sono i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo - cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro - animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise: una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della "legalità": cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Labas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri. Quella desertificazione sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine: si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà. È in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno - persino Repubblica e una parte dei 5stelle - comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel "aiutiamoli a casa loro" che vuol solo dire "facciamoli morire lontano da qui". Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo "manifesto di Ventotene" che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità. Migranti. Nella roccaforte degli scafisti, dove inizia l’inferno di Domenico Quirico La Stampa, 15 agosto 2017 Viaggio sulle spiagge di Sabratha: da qui partono i barconi di disperati per l’Italia. Tra trafficanti di uomini, mediatori e miliziani: "Queste sono acque di nessuno". Alcuni migranti provenienti dall’Africa subsahariana tratti in salvo dalla Guardia costiera libica. Secondo un recente rapporto di Oxfam l’80% delle persone passate dalla Libia hanno denunciato di avere subito violenze e tortura. Le sette. Un pontile. Ora le cose e il cielo hanno colore, non splendore. All’estremità della vasta curva di terre gialle, esili palmizi che per tutta la giornata pareva si disseccassero lentamente cominciano a vivere. Due pescherecci si incrociano lentamente davanti a noi. Alcune grandi navi immobili sembrano incastrate nella dura superfice della baia. Il mare è un’acqua di laguna così densa che dondola appena. La Migrazione, alla fine, è storia di mare. A queste spiagge bisogna arrivare, loro per partire e noi per capire. Mi viene una idea vaga: che questa estate di Libia è un’estate guasta, un’estate che va a male. Nessuno confessa a se stesso che la guerra ai migranti non somiglia a nulla, che nulla vi ha un senso, che nessuno schema vi si adatta, che crediamo di tirare solennemente dei fili i quali non sono più legati alle marionette. Per esempio: sappiamo che le regole del "viaggio" nel Mediterraneo sono cambiate? E che lo hanno imposto loro, i migranti? Non cercano più lo scafista direttamente, lo pagano e partono, affidandosi a dio. Non si fidano più: troppi morti, troppi naufragi, troppi inganni. Ora c’è un mediatore, sempre libico, riunisce i gruppi, marocchini senegalesi eritrei, raccoglie il denaro e lo custodisce. Paga lo scafista solo quando una telefonata del migrante conferma che è arrivato in Italia o è al sicuro su una nave di soccorso. Il viaggio con l’assicurazione. Il business dei trafficanti - Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri: la ricerca delle navi delle organizzazioni non governative e altro. Mahmud è il vecchio capo dei pescatori. "A che ora uscite stanotte? L’acqua è calma, si fila lisci sul mare". "Questo mare immobile non è buono, è un mare da migranti non da pescatori - lo dice con stizza, come se fosse qualcosa di sconveniente - è luna piena, sotto la superfice calma la corrente è forte, non ci sono pesci così. I gommoni, quelli sì, escono stanotte per andare da voi". Mahmud sa mille storie. "Avevo una barca con un libico e tre egiziani, cercavano il pesce spada, bisogna star fuori almeno due-tre giorni. Incontrano una barca di migranti in difficoltà che invocano aiuto. Si fermano, lanciano un appello, arriva una nave delle vostre, armate, grandi, gridano in arabo "State fermi o vi spariamo". Prendono tutti, i miei pescatori la barca i migranti, e li rimorchiano a Lampedusa: "Siete scafisti - dicono ai miei - stavolta la pagate". Per farli tornare, loro e la barca, ci sono volute settimane di appelli e trattative, ma il pesce quello, era perduto. Le nostre ormai sono acque di nessuno, tunisini e italiani che vengono a pescare di frodo parandosi dietro alle vostre navi, migranti". Che cosa è vero e che cosa è falso, qui in Libia? Le nostre soluzioni buone per tutto mi sembrano quegli aggeggi dei meccanici che sono insieme pinza, martello e cacciavite. Mi aspettavo a Tripoli chiasso e furore per la presenza delle navi italiane e il "colonialismo" di ritorno. Non ne parla nessuno, se non qualche schermaglia di politicanti. Alla manifestazione contro l’Italia c’erano 40 persone impastoiate alla svelta dai Fratelli musulmani. Tripoli ha 3 milioni di abitanti. I libici, semmai, si preoccupano dell’energia elettrica che non c’è per sei, dieci ore al giorno, e del loro denaro che resta chiuso nelle banche. Al mercato le botteghe degli orefici sono piene di ombra e di meraviglie. Intravedo monili che sembrano usciti dai tesori di Micene, così magnifici da sembrare falsi. Ma nessun avventore. I mercanti seduti sui loro banchi guardano la strada. Volgono non appena mi vedono gli occhi sugli oggetti nelle bacheche, cadono su di essi densi raggi di sole, sottili, pieni di una polvere fulva. Se dopo averli sorpassati mi volto, vedo il loro sguardo che mi segue pesante ansioso: "Se venite qua con una nave che distribuisce energia elettrica diventate i signori della Libia, altro che navi da guerra". L’ombra di Haftar - Le notizie che diamo per certe assomigliano a miti che si propagano, di origine incerta? Al Sarraj è il nostro uomo, la carta su cui puntiamo tutto. Ebbene a Tripoli senti parlare solo del "Vecchio": non osano nei caffè dirne il nome, non è prudente. Questa gente ha vissuto 40 anni sotto Gheddafi. Il Vecchio è il generale Haftar, l’uomo di Tobruk, sperano che arrivi presto perché son stufi delle milizie e del primo ministro e delle sue strategie tortuose: "Ci vuole un uomo forte che metta fine al caos". Le parole non corrispondono alle cose che vedo. "La stabilizzazione della Libia, grazie a noi, migliora" annunciamo. E qui invece è una guerra in cui non si viene a capo di nulla, bisogna ricominciare da principio ogni volta. Il pericolo non sta in alcun punto, non ha forma peso colore. È lì, in questo Paese immenso, sproporzionato, goffo a furia di essere grande, in questo Paese peggio che disabitato, abitato poco e male. È un pericolo dilatato, diffuso, fluttuante che ti sfugge e poi all’improvviso fa ressa in un punto, fulminante. Per esempio. Vado a Zawia e a Sabratha, solo un’ora di viaggio, dove sono le spiagge di imbarco dei migranti. Si viaggia solo di giorno, di notte la strada è dei briganti, dei jihadisti, chissà. Ci sono molti posti di blocco, di giorno, gente armata, in mimetica. Noi li definiamo: esercito polizia sicurezza. E pensiamo a ufficiali, catene di comando, disciplina. E invece sono milizie, gente armata di gruppi diversi, ingaggiata dal governo ma che non risponde a nessuno. Il primo posto di blocco lo superiamo senza esser fermati: i miliziani son tutti intenti a prelevare il pedaggio da un camion. Il secondo è a Zanzur, il ventisettesimo chilometro come dicono qua. Un tempo era un’oasi con le palme fitte come una pineta e pozzi dove l’acqua la tirava su una vacca o un asino con gli otri, un metodo più antico di Noè. Oggi l’oasi è solo polvere e case sciupate, più grigia che verde. Milizie e check point - Due ragazzi mi fanno scendere dall’auto quando si accorgono che non sono libico. Stringono in mano il passaporto e il permesso che mi è stato dato dagli uffici di Tripoli, li girano e rigirano: sono analfabeti, per loro sono incomprensibili. Uno dei due è chiaramente in preda a droghe, le parole gli escono di bocca accavallate, senza filo. Mi tirano dentro un container che fa da ufficio e casa. Mi vuotano le tasche, con metodo, ho portato con me pochi euro e soldi libici per prudenza. Sghignazzano, spingono: conosco la scena, bisogna fingersi stupidi, tacere, aspettare pazienti. Ormai non dipende da te, nulla. Con il portafoglio spariscono in un’altra stanza. Ecco: mi preparo. I rapporti con un Paese dove hanno cercato di ucciderti sono complessi, non evolvono. Tornano, mi ridanno il portafoglio e mi spingono fuori: sono rimasti solo i soldi libici che non valgono niente. Ripartiamo. I distributori sono chiusi o assaliti da interminabili file di auto alla ricerca di benzina. Le milizie la imboscano, la comprano al prezzo fissato dalla legge di un dinaro al litro e poi la vendono di contrabbando. Un guadagno enorme. La stabilizzazione della Libia. Cerchiamo a Sabratha, io e il mio amico libico, un conoscente, un tempo era agente della polizia turistica. In un caffè che frequentava ne facciamo il nome, lo descriviamo. Gli sguardi si abbassano: "Lo hanno ucciso gli islamisti, gli hanno tagliato la testa". Storie libiche, sembrano senza peso, la presenza di una persona scomparsa può farsi più densa di una presenza reale. La città sembra intatta e viva. Un anno fa l’Isis faceva sfilare per le strade sfacciatamente i suoi pick-up e le sue nere bandiere. Ora si sono ritirati verso l’interno, sulla montagna, attendono i nostri errori. Nei negozi eleganti espongono chador di lusso e mute per le bagnanti virtuose. Accanto al municipio color caffelatte immondizia ed erba tisica: il sole mette sulla polvere bianca una luce cruda che costringe quasi a chiudere gli occhi. Manovrano contromano senza badare alle auto pick-up con mitragliere a cui si aggrappano urlando giovani barbuti. Il sindaco Hasan al Dauadi è un uomo giovane, a suo agio in un elegante barracano grigio: "I trafficanti di uomini sono gente di qua, una mafia organizzata, potente, ben armata, hanno capannoni e case dove nascondono i migranti. Forse le partenze ora diminuiranno un poco: l’Italia non paga i capi del traffico e le milizie?". Pronti a partire - Le rovine sembrano intatte, il mare vi si infrange, col suo azzurro intenso ma senza trasparenza, e la balza a riva di un verde di pavone, opalino, misterioso. Nel teatro, sproporzionato, inverosimile, ricostruito da un archeologo un po’ mistico senza badare al vero, ci sono rifiuti, i rovi guadagnano terreno laddove tubazioni abbandonate lasciano intravedere che un tempo c’erano erba e fiori. Ci si muove in una pozza di sudore, affannosi, come bastonati. Due famigliole libiche si aggirano tra le colonne, i bimbi lanciano grida che si perdono nel silenzio del mare. La cosa che li affascina di più sono le antiche latrine, miracolosamente conservate, sotto il bel portico pentagonale e con i banchi di marmo. Penso che ci furono imperatori romani che salirono a Roma da qui e avevano la pelle scura. Oggi li avremmo forse rimandati indietro come fastidiosi migranti. Ogni spiaggia da qui a Tripoli è un luogo di partenza. Un gruppo di neri sono accoccolati sulla sabbia gli uni di fronte agli altri, in mezzo a loro bottiglie di acqua. Sono assolutamente immobili. Non si guardano. I loro occhi sono rivolti verso punti diversi del mare. Emanano un senso di eternità. Vedo bambini dormire come se fossero morti. Non hanno con loro alcun bagaglio, nella disperazione resta la consolazione di separarsi da tutto, di essere ridotti a se stessi. Mi guardano con la stessa innocenza con cui guardano l’orizzonte. Mi offrono l’acqua: l’ospitalità non è un rito ma un dono. "Il mare è buono, stanotte partite?". E dico la formula rituale "Siamo nelle mani di dio". "Dio esiste". Adesso è scuro ormai. Si indovinano senza vederli gli argini del molo e il mare di ombra dove non scintillano, aderenti agli scafi dei pescherecci, che i riflessi della lampade. Qua e là certe forme allungate macchiano il cielo notturno, reti issate dai pescatori, forse. Droghe. Lsd: i rischi delle micro-dosi di Danilo di Diodoro Corriere della Sera, 15 agosto 2017 L’uso dell’acido lisergico per aumentare la creatività, di moda nella Silicon Valley nasconde molte insidie per gli effetti sull’organizzazione cerebrale. Dopo essere stata la droga simbolo degli anni Settanta, l’Lsd (dietilammide dell’acido lisergico) vive oggi un’inaspettata seconda primavera nella Silicon Valley, dove molti giovani hanno iniziato a utilizzarla per finalità che avrebbero fatto inorridire gli hippie di allora: essere più concentrati e attivi sul lavoro. In realtà l’uso attuale è molto diverso da quello voluttuario e spirituale degli anni Settanta anche per le dosi utilizzate. Mentre per un tipico "trip" ("viaggio") psichedelico era necessario assumere tra i 75 e i 150 microgrammi di Lsd, l’uso attuale si limita ad assunzioni di 10-20 microgrammi per singola somministrazione, da ripetere magari dopo tre-quattro giorni. L’effetto di queste micro-dosi sembra essere soprattutto quello di facilitare il rapporto con gli altri, l’ascolto, ma anche migliorare l’ideazione e la creatività. Elemento cruciale quello della creatività, molto ricercata in ambienti di lavoro estremamente competitivi. Entropia cerebrale - Ma l’Lsd non è certo una sostanza che si presti a un uso disinvolto. La sua azione sul funzionamento cerebrale e dell’intero organismo non è ancora del tutto chiarita, ma si sa che è estremamente potente, e che, oltre a una serie di azioni sul sistema nervoso simpatico, altera per un periodo di 8-10 ore l’intera dinamica delle connessioni cerebrali, interferendo principalmente con il sistema di neurotrasmissione serotorinergica (che usa cioè la serotonina come mediatore). Recenti studi realizzati con la Risonanza Magnetica funzionale hanno evidenziato anche un’azione fino a poco tempo fa del tutto sconosciuta. Oggi si sa che il cervello funziona soprattutto attraverso una serie di connessioni (brain network) prestabilite, che rappresentano le "vie" normali attraverso le quali varie aree sono tenute in costante contatto funzionale. Le sostanze psichedeliche, tra cui quindi anche l’Lsd, riducono la stabilità e l’integrità di questi network. "Sotto l’azione delle sostanze psichedeliche il cervello diventa più "entropico"" spiega il professor Charles Nichols, Associate professor of Pharmacology al Louisiana State University Health Sciences Center di New Orleans, autore con altri collaboratori, di una revisione sull’argomento pubblicata sulla rivista Clinical Pharmacology & Therapeutics. "Le sostanze psichedeliche portano a una condizione cerebrale in cui è presente un maggior repertorio di connessioni che si formano e si frammentano nel tempo. Quindi non solo fanno funzionare il cervello in maniera più casuale, ma dopo che la normale organizzazione è distrutta, emergono forti connessioni funzionali non presenti nello stato normale". "Bad trip" - Si tratta di uno sconvolgimento cerebrale che resta limitato alle 8-10 ore di azione della droga e dei suoi metaboliti, ma che può generare effetti indesiderati anche gravi per l’utilizzatore. Il più conosciuto è il cosiddetto "bad trip", un episodio di ansia acuta o panico, caratterizzato da pensieri terrificanti, paura di perdere il controllo, senso di profonda disperazione. Possono insorgere anche pensieri deliranti di tipo paranoideo, che necessitano della presenza di qualcuno in grado di rassicurare e di contenere possibili comportamenti rischiosi, anche a seguito del senso di disorientamento delle allucinazioni che possono comparire specie per l’utilizzo di alte dosi. Flashback - Un altro possibile effetto negativo dell’uso dell’Lsd sono i cosiddetti "flashback", l’involontario ripresentarsi nella vita normale di sensazioni e percezioni tipiche dell’esperienza lisergica, catalogate dal Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM) come "Disturbo persistente di percezione allucinogena". Sebbene si tratti di un effetto collaterale raro, in alcuni casi può ripresentarsi anche anni dopo l’esperienza lisergica. Inoltre, non è ancora chiaro se e con quale frequenza l’uso dell’Lsd possa essere di per sé causa di reazioni psicotiche in persone che non hanno già una predisposizione in tal senso. Nessun dato serio - E sebbene questa sostanza non dia dipendenza fisica, sono stati riportate condizioni di dipendenza psicologica che spingono l’individuo a voler ricercare continuamente l’esperienza lisergica. Poco o nulla si sa ancora dei rischi connessi all’impiego delle microdosi. Lo studio attualmente condotto dal sito Microdosing Psychedelics non ha i caratteri della ricerca scientifica, ma solo di una raccolta di esperienze. La letteratura medica al momento non ha ancora prodotto specifici studi sui possibili rischi a breve e lunga distanza dell’impiego di microdosi di Lsd. Uso terapeutico - Infine c’è da segnalare che molti ricercatori stanno valutando i possibili impieghi terapeutici di questa sostanza. Effetti positivi sono stati segnalati sull’ansia e la depressione di persone affette da forme avanzate di cancro, ma anche in casi di disturbo ossessivo-compulsivo refrattario ad altri trattamenti, oltre che per condizioni di dipendenza da sostanze, come gli oppiacei. Forme di psicoterapia supportata dall’uso dell’Lsd sono state sperimentate con risultati incoraggianti. Ma sono tutte operazioni da effettuare sotto stretta sorveglianza medica, anche perché richiedono un’attenta selezione dei pazienti, per evitare che i danni possano risultare superiori ai potenziali benefici. Egitto. L’ambasciatore torna al Cairo. Famiglia Regeni indignata: "resa incondizionata" La Repubblica, 15 agosto 2017 I genitori di Giulio Regeni chiedono di sapere la verità sulla morte del figlio. "Solo quando avremo la verità l’ambasciatore potrà tornare senza calpestare la nostra dignità". Affidata a una società esterna l’attività di recupero dei video della metropolitana. Alfano: "L’impegno del governo italiano rimane quello di fare chiarezza sulla tragica scomparsa di Giulio" Nuovo passo avanti sul caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto lo scorso anno. La procura del Cairo ha trasmesso oggi a quella di Roma gli atti relativi ad un nuovo interrogatorio cui sono stati sottoposti i poliziotti che hanno avuto un ruolo negli accertamenti sulla morte del giovane. Interrogatori che erano stati sollecitati proprio da piazzale Clodio. La consegna viene considerata "un passo avanti nella collaborazione" tra le due procure, come viene sottolineato in una nota congiunta firmata da Giuseppe Pignatone e Nabil Ahmed Sadek. Alfano e il ritorno dell’ambasciatore - Alla luce degli sviluppi positivi nei rapporti tra i due Paesi, l’ambasciatore Giampaolo Cantini va al Cairo. Lo ha annunciato il ministro degli Esteri Angelino Alfano. L’8 aprile 2016 l’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni aveva richiamato l’ambasciatore dal Cairo, Maurizio Massari. Ufficialmente per consultazioni, in realtà per inviare un messaggio preciso ad Al Sisi. "L’impegno del Governo italiano - afferma il ministro Alfano - rimane quello di fare chiarezza sulla tragica scomparsa di Giulio, inviando al Cairo un autorevole interlocutore che avrà il compito di contribuire, tramite i contatti con le autorità egiziane, al rafforzamento della cooperazione giudiziaria e, di conseguenza, alla ricerca della verità. In qualità di rappresentante della Repubblica italiana, l’Ambasciatore Cantini curerà gli interessi nazionali in Egitto e la nostra importante comunità in quel Paese". Durante un colloquio telefonico con il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, il procuratore generale della Repubblica Araba d’Egitto, Nabil Ahmed Sadek, ha spiegato che - come già annunciato nel maggio scorso - è stata affidata ad una società esterna l’attività di recupero dei video della metropolitana. Attività che prenderà il via a settembre con una riunione tra l’azienda e la procura egiziana, alla quale sono stati invitati anche gli inquirenti italiani. Nel corso della telefonata, è stato concordato un nuovo incontro tra i due uffici, che sarà organizzato dopo la riunione di settembre "per fare il punto della situazione e confrontarsi su quanto fin qui raccolto e sui possibili ulteriori sviluppi investigativi". "Entrambe le parti - si legge in una nota congiunta - hanno assicurato che le attività investigative e la collaborazione continueranno fino a quando non sarà raggiunta la verità in ordine a tutte le circostanze che hanno portato al sequestro, alle torture e alla morte di Giulio Regeni". La reazione della famiglia - Ma è polemica per la decisione del governo, dura la reazione della famiglia Regeni che esprime la sua "indignazione per le modalità, la tempistica ed il contenuto della decisione del Governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo. Ad oggi, dopo 18 mesi di lunghi silenzi e anche sanguinari depistaggi, non vi è stata nessuna vera svolta nel processo sul sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio. Solo quando avremo la verità l’ambasciatore potrà tornare al Cairo senza calpestare la nostra dignità. La decisione di rimandare ora, nell’obnubilamento di ferragosto, l’ambasciatore in Egitto ha il sapore di una resa confezionata ad arte". "Si ignora - aggiungono i genitori - il contenuto degli atti, tutti in lingua araba, inviati oggi, dal procuratore Sadek alla nostra procura, invio avvenuto con singolare sincronia mentre il governo ordiva l’invio dell’ambasciatore Cantini". "La Procura egiziana - dicono ancora - si è sempre rifiutata di consegnare il fascicolo sulla barbara uccisione di Giulio ai legali della famiglia, cosi violando la promessa pronunciata il 6/12/2017 al cospetto dei genitori di Giulio e del loro legale Alessandra Ballerini". Infine la famiglia conclude: "Sappiamo che il popolo Giallo di Giulio, le migliaia di persone che hanno a cuore la sua tragedia e la dignità di questo paese, sapranno stare dalla nostra parte, dalla parte di tutti i Giuli e le Giulie del mondo e non si faranno confondere". La telefonata di Gentiloni - In serata la telefonata di Paolo Gentiloni alla famiglia Regeni per spiegare le ragioni che hanno portato il governo a inviare nuovamente l’ambasciatore italiano Al Cairo: "Contribuirà - spiega il premier - all’azione per la ricerca della verità sul l’assassinio di Giulio Regeni. Una ricerca su cui prosegue la collaborazione tra le procure dei due paesi, come chiarito oggi dal procuratore Pignatone". La presa di posizione di Amnesty e di Antigone - Dura la presa di posizione di Amnesty International Italia: "Il governo italiano dimostri che il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo serve davvero per ottenere la verità per Giulio". Parole del presidente Antonio Marchesi che poi aggiunge: "Il governo ha preso una decisione grave: quella di rinunciare all’unico strumento di pressione per ottenere verità nel caso di Giulio Regeni di cui l’Italia finora disponeva. Ora tocca al governo dimostrare che questa mossa temeraria può servire davvero, com’è stato sostenuto, a ottenere "verità per Giulio". Stessi toni usa Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: "Come nella peggiore tradizioni italiana, a cavallo di ferragosto, si prende una decisione così fondamentale su un caso che da oltre un anno e mezzo vede impegnata la famiglia del ricercatore, i suoi legali e grande parte della società civile italiana in questa richiesta di giustizia. La verità è che da tempo si cercava una normalizzazione nei rapporti tra Italia ed Egitto, importante partner commerciale ed economico del nostro paese. Una normalizzazione che andasse oltre alle violenze commesse dal regime di Al-Sisi e oltre alla ricerca dei colpevoli per la morte di Giulio Regeni". Fassino e il sostegno del Pd - Fassino ha invece espresso il sostegno del Pd alla decisione del governo italiano. "Il ritorno dell’ambasciatore italiano a Il Cairo - sottolinea - potrà consentire di seguire direttamente e quotidianamente lo sviluppo delle indagini anche alla luce della cooperazione in atto tra le istituzioni giudiziarie. Al tempo stesso, la presenza a Il Cairo dell’ambasciatore Cantini consentirà all’Italia di mettere in campo le iniziative richieste dalle molte criticità che interessano il Mediterraneo". Egitto. Caso Regeni, il coraggio della verità di Mario Calabresi La Stampa, 15 agosto 2017 La decisione di rimandare l’ambasciatore al Cairo lascia stupiti e provoca amarezza: il governo ha cambiato idea per gestire la situazione libica con l’aiuto dell’Egitto. Ma allora perché non assumersi la responsabilità politica del gesto? QUESTO giornale, insieme con la famiglia di Giulio Regeni, ha sempre pensato che fosse stato giusto richiamare l’ambasciatore al Cairo. E che non lo si dovesse rimandare finché non si fosse ottenuta la verità sul rapimento, la tortura e l’uccisione di un giovane italiano che era in Egitto per portare a termine un dottorato di ricerca. La decisione, comunicata ieri sera, alla vigilia di Ferragosto, non può che lasciare stupiti e provocare amarezza. Perché dalla verità siamo ancora distanti ma soprattutto siamo lontanissimi dalla possibilità di avere giustizia. La sensazione è che ora tutto possa passare in secondo piano, che la morte di Giulio Regeni sia diventata di intralcio agli interessi nazionali. Partiamo dall’inchiesta. In quest’ultimo anno il lavoro della Procura di Roma e dei nostri investigatori è stato esemplare, sono state individuate responsabilità precise nella struttura dei servizi segreti egiziani, un organismo che fa capo direttamente al potente ministro dell’Interno. Ma la collaborazione della procura e delle autorità del Cairo è stata discontinua, lentissima e a tratti irridente. Ora, dopo mesi di silenzio, sono arrivati finalmente nuovi documenti, della cui bontà nessuno però è in grado di garantire. La strada sarà ancora lunga e non sappiamo se si arriverà mai al traguardo. Tenere l’ambasciatore a Roma era considerato come il modo più efficace per fare pressione sul regime di Al Sisi. Il governo ha cambiato idea. Si può comprendere il perché. E qui entra in ballo l’interesse nazionale, che ancora una volta porta in Libia. Cercare di gestire la situazione libica e i flussi migratori senza avere rapporti diretti con l’Egitto - che è il principale sostenitore del generale Haftar e delle sue milizie - è come giocare con un braccio legato. La nostra assenza al Cairo è stata sfruttata a fondo dai francesi e si capisce l’urgenza di porre rimedio. Ma allora perché non chiamare le cose con il loro nome? Perché non avere il coraggio di assumersi la responsabilità politica del gesto? Dire con chiarezza: abbiamo bisogno di un ambasciatore in Egitto che agisca nel pieno delle funzioni per gestire la situazione libica. Spiegarlo alla famiglia e agli italiani. Non venderlo come un modo per accelerare la verità. Questo non avrebbe diminuito l’amarezza di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, e di molti che li hanno sostenuti in questi mesi, ma avrebbe evitato la sensazione di essere presi in giro. Poi se tutto ciò viene fatto alla vigilia di Ferragosto e a Camere chiuse allora quella sensazione si ingigantisce. La responsabilità della politica ora è di dimostrare ogni giorno, con gli atti dell’ambasciatore e in ogni sede internazionale, che ottenere giustizia per Giulio Regeni è una priorità nazionale, che interesse degli italiani è anche non accettare che un proprio cittadino venga torturato e ucciso dal governo di un Paese che si professava amico. Altrimenti il gesto di ieri potrà essere definito in un solo modo: una resa. Egitto. Regeni vittima dell’incapace politica estera italiana di Luigi Manconi Il Manifesto, 15 agosto 2017 La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, nulla è accaduto che possa segnalare un mutamento, anche il più esile e controverso, nella condotta delle autorità politiche e giudiziarie dell’Egitto a proposito della vicenda di Giulio Regeni. Non il più piccolo atto che manifesti una più sollecita cooperazione con la procura di Roma e non la più sommessa dichiarazione politica di riconoscimento della centralità della questione della tutela dei diritti fondamentali della persona da parte di quel regime. E nei confronti degli oppositori interni (rapiti, seviziati e uccisi a centinaia) e nei confronti delle associazioni umanitarie egiziane e di chi, come Giulio Regeni, voleva conoscere quel popolo, capirne le ragioni e diffonderne le voci. Dunque, la scelta così insopportabilmente ferragostana, assunta dal governo, di inviare proprio in queste ore l’ambasciatore italiano al Cairo, risponde chiaramente a tutt’altra logica. La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Un disegno che consenta all’Italia, senza complessi di inferiorità e senza automatismi di schieramento, di svolgere un ruolo davvero costruttivo in un’area così delicata e precaria. La controprova inequivocabile è rappresentata dal fatto che, nel momento in cui manda al Cairo l’ambasciatore, il nostro paese "non ottiene nulla in cambio". Gli asseriti "passi avanti" nella cooperazione giudiziaria tra la procura del Cairo e quella di Roma sono giusto una fola e la promessa più impegnativa è che a settembre i magistrati italiani potranno ricevere quelle registrazioni video che avrebbero dovuto ricevere nell’ottobre scorso. Ma non è questo il punto essenziale. Ciò che davvero va sottolineato è che in più circostanze il premier Paolo Gentiloni si era impegnato, anche con chi scrive, ad adottare misure efficaci e incisive tali da garantire la continuità di una forte pressione sull’Egitto, nel caso che altre considerazioni consigliassero il ritorno dell’ambasciatore. Così, nei giorni scorsi - sulla base di un ragionamento solo politico, che non coinvolgeva in alcun modo la famiglia Regeni - ho proposto una serie di provvedimenti, capaci di pesare nei rapporti con il regime di al Sisi in alcuni campi decisivi: quello dei flussi turistici italiani ed europei verso l’Egitto (la dichiarazione di quest’ultimo come "paese non sicuro"); quello dei rapporti commerciali nel settore degli armamenti; quello degli speciali accordi di riammissione nel paese d’origine dei profughi egiziani. Non una di queste proposte è stata accolta. Il risultato è che la normalità delle relazioni tra Egitto e Italia sembra oggi pienamente ripristinata. Un altro e infelicissimo contributo a che la vicenda di Giulio Regeni sia consegnata all’oblio. Resta, di conseguenza, una sola possibilità per quanti credono testardamente che la questione dei diritti umani non possa essere l’ultimo e trascurabile punto nell’agenda politica internazionale, ma priorità tra le priorità. Ovvero restare dalla parte di Paola e Claudio Regeni, consapevoli che la loro così faticosa e dolorosa battaglia riguarda tutti noi e il senso stesso di ciò che chiamiamo democrazia, di qua e di là del mediterraneo. Germania. G20, restano in cella i 5 italiani fermati. Polizia smentita dalla stampa di Sebastiano Canetta e Ernesto Milanesi Il Manifesto, 15 agosto 2017 Quattro in cella nel Justizvollzugsanstalt Billwerder di Amburgo, mentre il neo-maggiorenne è detenuto a Jork nella Bassa Sassonia. Sono i giovani italiani arrestati il 7 luglio durante le manifestazioni contro il G-20: Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto, 25 e 32 anni, del centro sociale Liotru di Catania, i siciliani Riccardo Lupano e Emiliano Puleo, il giovanissimo bellunese Fabio Vettorel. Per la 23enne Maria Rocco di Cesiomaggiore (Belluno) le porte del carcere di Amburgo si sono riaperte l’11 agosto. I cronisti del magazine tv Panorama e della Sueddeutsche Zeitung hanno verificato il video della polizia che contrasta con i verbali ufficiali a disposizione della magistratura. "Due bengala lanciati verso la piazza e uno sulla strada troppo lontano dagli agenti per configurasi come tentativo di assalto". E ancora: "Quello che non si vede è un singolo lancio di pietre o una sola bottiglia". Nel report del vice capo della polizia federale, invece, si legge di un "attacco massiccio e mirato con bottiglie, petardi e bengala". Così Martin Dolzer, portavoce del Dipartimento Giustizia della Linke di Amburgo, continua ad insistere per la liberazione dei cinque italiani, gli unici ancora detenuti fra i 59 indagati per violazione dell’ordine pubblico: "L’impressione è che la magistratura soddisfi le esigenze del ministro dell’interno De Maiziere (Cdu) e del sindaco di Amburgo Scholz (Spd) a dure condanne, senza la presunzione di innocenza". La senatrice Laura Puppato (Pd) ha invece sollecitato il governo Gentiloni ad agire in modo ufficiale nei confronti delle autorità tedesche: "I due ragazzi bellunesi erano a volto scoperto in un corteo autorizzato. L’arresto è scattato mentre proteggevano un’altra ragazza feritasi durante una carica di polizia. Nel caso di Vettorel dopo settimane di carcere preventivo non è stata formalizzata un’accusa". Racconta Jamila Baroni, madre di Fabio che si è trasferita ad Amburgo in modo da poter seguire da vicino la vicenda giudiziaria: "Ha potuto effettuare una telefonata solo dopo 35 giorni di carcere. Gli è vietato scrivere o ricevere lettere. Sono riuscita a vederlo mercoledì scorso: sta bene fisicamente, tuttavia è nervoso e molto provato nel morale perché non si spiega il motivo della sua detenzione". Nella casa di reclusione, Fabio ha scontato un regime davvero speciale: "Tutte le visite autorizzate dal tribunale, ma in presenza della polizia con un interprete. Tutta la posta in uscita e in entrata acquisita dalla procura, tradotta e controllata. Tutti i pacchi sottoposti agli stessi controlli". E paradossalmente, nonostante qualsiasi modulo sia solo in tedesco e gli agenti penitenziari non comunichino in inglese, Jamila Baroni ha "scoperto" solo il 5 agosto l’impiegata responsabile dei detenuti stranieri che parla italiano. E dal fascicolo della magistratura tedesca affiorano "suggestioni" tutt’altro che in sintonia con la procedura penale. Si parla di "aiuto psicologico" ai comportamenti violenti e il giudice capo della prima sezione penale, Marc Tully, descrive Fabio Vettorel come ispirato da "violenza profonda", con "tendenze criminali" frutto di "carenze educative". Di ben altro tenore, la presa di posizione di Christiane Schneider, vice-presidente del Parlamento di Amburgo: "Se la rappresentazione di Panorama e Sueddeutsche Zeitung è corretta, allora abbiamo a che fare non solo con una presunta azione di polizia sproporzionata, ma anche con una falsa dichiarazione davanti alla commissione interna. Allora è tanto più forte la richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta". Stati Uniti. Le origini del nuovo razzismo di Nadia Urbinati Il Manifesto, 15 agosto 2017 I cori globali contro i suprematisti bianchi sono giustificati e legittimi. Ma hanno vita breve se non lasciano subito il posto a un’analisi sociale che faccia comprendere la rivolta di Charlottesville, in Virginia, dove un uomo ha lanciato l’auto contro persone che manifestavano pacificamente contro l’ideologia della supremazia bianca. Il razzismo, nel Sud degli Stati Uniti soprattutto, è stato allevato dalla questione sociale: disoccupazione, salari bassi, assenza di previdenza e assistenza - insomma il lavoro operaio bianco, sottopagato, sfruttato e spesso assente. È una storia vecchia quanto l’America industriale, a partire dalla ricostruzione dopo la Guerra civile. Sviluppo industriale e liberazione degli schiavi sono andati insieme. Il movimento " Knights of Labor" di fine Ottocento fu tra quelli che diedero vita al Peoplès Party, additato a esempio di buon populismo. Ma il romanzo sentimentale dei buoni lavoratori ha spesso celato il fatto che il populismo era indirizzato anche contro immigrati e neri. Per i lavoratori bianchi, ungheresi, italiani o irlandesi, i neri ex-schiavi non erano poi così buoni, erano "pecore nere" che gli industriali usavano per tenere bassi i salari e rompere gli scioperi. Razzismo e questione sociale sono alle radici di un’America che le rappresentazioni edulcorate di noi europei ignorano. Eppure, sono queste le molle che hanno fatto il bene e il male della democrazia del mondo nuovo. Il male del razzismo, che esplode a intervalli regolari e non è mai stato debellato; il male del confederalismo dietro il quale ancora oggi i bianchi suprematisti degli Stati del Sud marciano, incappucciati o non, con le fiaccole dei cercatori di neri, come in Alabama, che accoglie i visitatori con la scritta "We dared" (abbiamo osato). Ma sono state anche le molle del bene, le politiche di giustizia distributiva iniziate con il New Deal sono state pensate anche con l’intenzione di produrre un esito virtuoso: debellare il razzismo. Se non che hanno usato meccanismi con esiti opposti. Perché, racconta Ira Katznelson nei suoi studi sul New Deal e il razzismo, i democratici del Sud approntarono politiche sociali e occupazionali per rafforzare i lavoratori bianchi ed escludere i neri; per dare potere ai burocrati ostili all’emancipazione dei neri; per impedire che il linguaggio di anti-discriminazione entrasse nei programmi di welfare. Le politiche sociali legate al lavoro sono state volte a sostenere la manodopera bianca: in questo modo si pensava di rendere blando il razzismo. Fu l’arruolamento dei neri insieme ai bianchi nella Seconda guerra mondiale che introdusse mutamenti in senso universalistico e inclusivo. Il G.I. Bill del 1944, pensato per aiutare i veterani bianchi a comperare casa e studiare, venne esteso anche ai veterani neri. La guerra mise fine alla giustificazione della segregazione nelle politiche sociali. Il lascito delle lotte per i diritti civili negli Anni 60 si materializzò nelle politiche di Jonhson, continuate da Nixon. Il razzismo si vestì di nuovi abiti, diventando reazione contro i diritti civili. E nonostante la retorica patriottica dei presidenti più recenti, il razzismo ha preso nuovo vigore in relazione soprattutto alle politiche pubbliche. Qui comincia la storia di questi giorni. È un tema scottante e difficile da articolare senza essere accusati di razzismo indiretto. Ma deve essere affrontato perché l’ideologia white supremacist che ha armato il fanatico di Charlottesville trova linfa vitale nell’idea che le politiche federali di redistribuzione siano state pilotate da una giustizia al contrario, che per facilitare la formazione di una middle class nera si siano adottate scelte che con la crisi economica mostrano la loro limitatezza, e che provocatoriamente ora sono i bianchi a richiedere. Provocatoriamente, ma non tanto. Le minoranze da metà Anni ‘70 hanno beneficiato di queste politiche che hanno consentito assunzioni negli uffici pubblici e privati e ammissioni ai college, grazie a clausole per cui, in alcuni casi, a parità di merito venivano agevolati candidati appartenenti a minoranze. Questa politica ha avuto un impatto notevole, e cambiato la faccia delle istituzioni che sono diventate più pluraliste. L’esito negativo di queste politiche sulla mentalità è tra i fattori che spiegano il white supremacism. Aiutare chi ingiustamente è stato escluso (per ragioni di schiavitù o di subordinazione di genere) con politiche che violano l’imparzialità ha i suoi costi. Una società ingiusta come era quella americana alla fine della Seconda guerra poteva difficilmente essere migliorata con politiche basate sull’imparzialità. Sarebbe stato opportuno sfoderare un altro tipo di coraggio, adottare politiche sociali universalistiche con interventi statali diretti a riqualificare le scuole pubbliche per poter aggredire l’ingiustizia all’origine, senza prestare il fianco alle prevedibili critiche dei bianchi. Sarebbe stata una scelta di più lungo respiro, ma troppo socialdemocratica per essere accettata dalla cultura politica Americana, liberal e non. L’affirmative action è stata la politica di giustizia targata liberal. Ha prodotto inclusione (certo a macchia di leopardo, più al Nord che al Sud) ma ha sedimentato nel frattempo risentimento e rabbia contro i "beneficiari" di privilegi perché neri. E da quel risentimento si deve partire, oggi, per comprendere il carattere del nuovo razzismo, che è anche razzismo di reazione: dei diseredati e non benestanti bianchi contro gli ancora più diseredati e poverissimi neri. Poveri contro poveri, ma nel nome della razza mai della classe. E un nero assunto contro mille che mendicano basta a soffiare sul fuoco della rabbia dei lavoratori bianchi traditi da Washington: ecco la lotta per mantenere in un parco pubblico di Charlottesville la statua del generale Lee, il simbolo dell’esercito dei sudisti nella Guerra civile. Aveva ragione Tocqueville a pensare che la schiavitù avrebbe lasciato, come una piaga, un segno indelebile sul futuro della democrazia americana, anche qualora i neri fossero stati liberati dalle catene e dichiarati cittadini. Combattere in guerra li avrebbe aiutati, ma oggi la Seconda guerra è solo un lontano ricordo. Stati Uniti. Chiede di essere messo a morte, giudice del Nevada l’accontenta di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 agosto 2017 Scott Dozier ha ottenuto ciò che voleva: essere messo a morte, possibilmente presto. Un giudice di Las Vegas gli ha appena dato ragione, fissando la data dell’esecuzione al 16 ottobre. Mediante iniezione di veleno, il metodo in vigore in Nevada, e non tramite fucilazione come Dozier avrebbe desiderato. Dozier è stato condannato a morte nel 2007 per un barbaro omicidio commesso nel 2002, probabilmente un regolamento di conti per questioni di droga. Dal 1977, anno della ripresa delle esecuzioni negli Usa, le esecuzioni di "volontari" sono state 148, ben una ogni 10. Le ragioni per cui, dal braccio della morte, così tanti prigionieri chiedono ai loro avvocati di sospendere ogni appello, sono varie: senso di colpa, voglia di farla finita al più presto, sfiducia nella giustizia o problemi di salute mentale. Probabilmente, nei prossimi due mesi, si riaprirà il dibattito sui "volontari". Da un lato c’è chi sostiene che fissando la data dell’esecuzione si viene incontro a una "libera scelta" del condannato. Dall’altro, si osserva che lo stato non può sorvolare sul diritto alla difesa per il mero fatto che un prigioniero non vuole più difendersi. C’è un aspetto che viene tralasciato. Non poche volte, consolidate abitudini degli stati degli Usa a non eseguire condanne a morte (una sorta di abolizionismo "di fatto") sono state interrotte dalla decisione di un "volontario". La macchina della morte, in altre parole, si è rimessa in moto per questo motivo, aumentando il rischio di esecuzione per gli altri detenuti nel braccio della morte che "volontari" non sono. Cisgiordania. Abu Mazen mette il bavaglio ai giornalisti palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 agosto 2017 Un decreto firmato dal presidente palestinese prevede la detenzione per i giornalisti e i blogger che "mettono a rischio la sicurezza dello Stato". Già sette gli arrestati ora in sciopero della fame e si moltiplicano le manifestazioni di protesta. "È la peggior legge approvata dall’Autorità nazionale palestinese. Un palestinese (in Cisgiordania, ndr) può essere arrestato con accuse vaghe, solo per aver scritto qualcosa sui social. Con questa legge si fa un salto all’indietro, si demolisce una storia interna di libertà di pensiero e di espressione del popolo palestinese". È secco il giudizio sulla Cyber Crimes Law di Nadim Nashif, fondatore di Aamleh, associazione per lo sviluppo della comunicazione digitale nella società civile palestinese. Si tratta in realtà di un decreto firmato il 9 luglio dal presidente Abu Mazen ma di fatto ha valore di legge visto che non c’è un Parlamento che può approvarlo o bocciarlo. Quella di Nashif non è una protesta isolata perché cresce lo sdegno dei palestinesi. Le manifestazioni si moltiplicano e sette giornalisti arrestati negli ultimi giorni dalla polizia dell’Anp hanno cominciato in cella uno sciopero della fame di protesta. I giornalisti detenuti sono Mamduh Hamamra corrispondente di Al-Quds News, i giornalisti della tv al Aqsa Tareq Abu Zaid e Ahmad Halayqa, Amer Abu Arafe dell’agenzia Shehab e i freelance Islam Salim, Qutaiba Qassem e Thaer al Fakhouri. Tutti avevano anche pubblicato articoli sui alcuni dei 30 siti d’informazione chiusi dall’Anp, spesso perché vicini al movimento islamico Hamas o a Mohammed Dahlan, l’ex "uomo forte" del partito Fatah e ora avversario di Abu Mazen. E a Gaza le cose non vanno certo meglio. Anche la polizia di Hamas non si tira indietro quando deve arrestare giornalisti e blogger che criticano il movimento islamista. Ha già trascorso un mese in carcere, con l’accusa generica di "reati contro la sicurezza nazionale", Fouad Jaradeh, corrispondente da Gaza di Palestine TV, la tv dell’Anp. Tutti i giornalisti arrestati in Cisgiordania sono accusati di aver violato l’articolo 20 della Cyber Crimes Law che prevede un anno di carcere o una sanzione pecuniaria da 280 a 1.400 dollari per chi "crea o gestisce un sito web o una piattaforma dell’informazione che metta in pericolo l’integrità dello Stato palestinese, dell’ordine pubblico e la sicurezza esterna dello Stato". Si parla anche di informazioni passate a "parti ostili" non meglio precisate. Di quale Stato di Palestina parli la legge non si sa, dato che i palestinesi vivono sempre sotto occupazione militare, le loro terre sono oggetto di una massiccia attività di colonizzazione israeliana e di espropriazione e l’Anp è solo una struttura amministrativa in città e aree autonome senza alcun potere realmente sovrano. La legge non colpisce solo i giornalisti. Sono presi di mira tutti coloro, secondo i servizi dell’Anp, mettono a rischio l’unità nazionale e la "sicurezza dello Stato". Anche semplici post su Facebook e altri social sono esaminati con attenzione. E chi usa parole giudicate "offensive" nei confronti del presidente dell’Anp Abu Mazen corre il rischio concreto di un "colloquio" con gli agenti del mukhabarat, i servizi di sicurezza. Difende la legge il procuratore Ibrahim Homudeh. "Una cosa è criticare il presidente e un’altra è accusarlo di essere un traditore e offenderlo. In questo secondo caso si commette un crimine contro la massima espressione dello Stato e la sicurezza di tutti i palestinesi", ha commentato Homudeh. Shawan Jabarin, del centro per i diritti umani al Haq, ha annunciato di aver inviato una relazione, sulle conseguenze dell’applicazione della legge in Cisgiordania, a David Kaye, il Rapporteur speciale delle Nazioni Unite per la libertà di espressione.