Errori e ritardi. Come la qualità delle leggi condiziona la nostra vita di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 14 agosto 2017 L’inchiesta condotta da questo giornale ha reso evidenti quali siano i punti di crisi della qualità delle leggi, le difficoltà ed i ritardi nella loro attuazione, i danni determinati dalla scarsa chiarezza e dalla confusione della produzione normativa. Rimarrebbe sorpreso da questo rattristante panorama solamente chi considera l’Italia la patria del diritto, fruendo del credito culturale rappresentato dalla tradizione del diritto romano quale base dei diritti moderni, e trova attuale conferma del valore di queste antiche radici nell’attenzione che anche nell’odierna Cina viene dedicata allo studio di quel diritto. Al contrario, non rimane affatto sorpreso chi quotidianamente ha a che fare con la ricerca e l’applicazione delle norme, e si imbatte in testi difficilmente intellegibili, a volte contraddittori, sino a perdersi in un labirinto di rinvii a leggi, articoli e commi precedenti, degno delle riviste di enigmistica. Eppure un pregio di ogni legge è la chiarezza del linguaggio, da rendere comprensibile a tutti e privo di ogni espressione superflua o equivoca, e la linearità e completezza di quanto prescrive, anche nel disciplinare il più complesso dei problemi. Elementi tanto più rilevanti, se si considera che la scarsa chiarezza e la confusione determinano sicuri danni: non solo alimentano incertezze interpretative che sfociano nella miriade di ricorsi che ingolfano i tribunali, ma, ancor peggio, rendono possibile e non evidente una applicazione arbitraria delle leggi. Una applicazione arbitraria che è terreno di ritardi, se non di abuso o di corruzione, e può celare interessi di gruppi di pressione. Alcune difficoltà sono inevitabili, sia per la maggiore ampiezza e complessità, rispetto al passato, delle attività regolate dal diritto, sia per il moltiplicarsi dei centri di produzione normativa: atti internazionali, regolamenti e direttive dell’Unione europea, leggi nazionali, decreti legge e decreti legislativi adottati dal Governo, leggi regionali. A tutto ciò si aggiunge la regolazione dettata, in singoli settori, dalle autorità indipendenti. Tuttavia questo non costituisce una giustificazione per la cattiva qualità nella produzione di norme da parte del legislatore. La principale funzione del Parlamento, titolare del potere legislativo, è appunto quella di approvare le leggi, che, dopo la costituzione hanno il primato nelle fonti del diritto e si impongono ad ogni altra. Il Parlamento ha l’investitura democratica ed il potere di far leggi, in rappresentanza del corpo elettorale; ha anche il dovere politico di produrre leggi che non solamente rispondano al bene comune, secondo l’indirizzo politico che si è affermato con le elezioni, ma anche leggi che siano di buona qualità. Da esse dipende la regolamentazione dei diritti e dei doveri dei cittadini, la disciplina dei loro rapporti di famiglia, degli assetti patrimoniali, delle loro attività individuali, lavorative, professionali, di impresa. In definitiva molti aspetti della vita di ogni giorno. E ancora, dalle leggi dipende la organizzazione e il buon andamento delle pubbliche amministrazioni, il cui funzionamento condiziona tanta parte delle attività degli individui e delle imprese. Allora è da attribuire al Parlamento la responsabilità esclusiva della qualità della legislazione, o ne è coinvolto il Governo. Difatti il maggior numero delle leggi approvate dal Parlamento è di iniziativa governativa; il Governo segue il procedimento legislativo e si esprime su ogni emendamento proposto dai parlamentari, che spesso condiziona ponendo la fiducia nell’approvazione della legge o di un emendamento. Inoltre, il Governo è dotato di strumenti che possono essere ben usati per dare una accettabile veste tecnica alle scelte politiche espresse da ogni iniziativa legislativa. Nel Ministero della giustizia è incardinato l’Ufficio legislativo che "esamina, promuove ed attua l’attività normativa nazionale", redige schemi di disegni di legge, emendamenti del Governo ed esprime pareri sui singoli emendamenti nel corso dell’esame da parte del Consiglio dei ministri e in sede parlamentare. Ancora: nella Presidenza del Consiglio dei ministri, il Dipartimento per gli affari giuridici ha funzioni di coordinamento per assicurare la qualità della regolazione. Anche il Parlamento si è dotato di strumenti di verifica e controllo: sia la Camera sia il Senato hanno istituito propri Servizi per valutare la qualità e la chiarezza dei testi normativi. Al numero degli apparati e degli strumenti di redazione, verifica e valutazione dei testi legislativi, dal momento dell’iniziativa a quello della approvazione, non sembra che corrisponda, come mostra l’indagine di questo giornale, un risultato soddisfacente. Prenderne atto non significa arrendersi di fronte ad un esito da considerare ineluttabile. Al contrario, richiede un nuovo impegno, corrispondente alla posta in gioco: la qualità della legislazione condiziona la vita e gli interessi quotidiani dei cittadini, e può offrire un contesto favorevole o avverso allo sviluppo economico. Alcuni rimedi sono di carattere politico, altri di carattere tecnico. Se ne possono ricordare alcuni: evitare la produzione legislativa frammentata, spesso adottata in risposta a mutevoli atteggiamenti dell’opinione pubblica, per tendere invece verso una disciplina sistematica e stabile nel tempo, sino a concentrare ogni disciplina di settore in leggi organiche; ridurre il ricorso alla decretazione di urgenza, che comprime l’esame parlamentare, ed assicurare invece tempi certi per l’esame delle iniziative legislative essenziali per l’attuazione del programma di governo; evitare testi normativi "manifesto", ricchi nella indicazione di finalità ed obiettivi, ma poveri nella parte prescrittiva o che rinviano a successivi provvedimenti; abbandonare la pratica dei maxiemendamenti, che unificano l’intero testo di una legge in un articolo comprendente centinaia di commi, anziché approvarla articolo per articolo, come vuole la costituzione; rendere la doppia lettura, di Camera e Senato, da elemento di ritardo nella approvazione di una legge a strumento di maggiore efficienza del procedimento legislativo e migliore verifica dei contenuti normativi. Alcune soluzioni richiedono circoscritte modifiche ai regolamenti parlamentari, che potrebbero essere adottate anche in questo scorcio di legislatura. Dalle carceri all’università, quelle leggi senza effetti di Michele Di Branco Il Messaggero, 14 agosto 2017 Leggi sempre più lente, scritte male e, quel che è peggio inefficaci. E non solo, come ha rivelato ieri questo giornale a causa della non immediata applicabilità di quasi due terzi delle norme varate dal Parlamento, bisognose di decreti e regolamenti per essere attuate. Lo rivela lo studio condotto dall’apposito Ufficio di valutazione sull’impatto delle leggi istituito dal Senato. Il quadro che ne emerge è sconfortante. Gli esempi, talora, drammatici. Dieci anni di indulti, piani di edilizia penitenziaria, decreti "svuota carceri", misure alternative alla detenzione. Risultato: con quasi 57 mila detenuti al 30 giugno 2017, il tasso di affollamento negli istituti penitenziari italiani è salito al 113% (113 detenuti ogni 100 posti a disposizione), ben 5 punti in più rispetto al 2016. Otto Regioni sono oltre il 120%. E la Puglia arriva addirittura al 148. Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo censurò l’Italia per i "trattamenti disumani o degradanti" inflitti ai suoi carcerati. E i numeri dicono che quell’accusa, quattro anni più tardi, resta sempre in piedi. Insomma le vaste politiche parlamentari condotte per cambiare il quadro sembrano aver solo aggravato le cose. Tanto che in primavera la relazione del Garante nazionale dei detenuti ha parlato di criticità "inaccettabili" e di "situazioni in cui si ha un affollamento che è quasi del 300% rispetto alla capienza", di un "rilevante numero dei suicidi e dei tentati suicidi" a fronte di una tendenza all’aumento delle presenze e al "rallentamento delle uscite, cioè delle misure alternative". Ma purtroppo il caso carceri non è il solo. I tecnici incaricati da Palazzo di fare le pulci alle leggi valutandone i risultati hanno scoperto diversi altri buchi nell’acqua. L’accordo di partenariato con la Ue per l’utilizzo dei Fondi di sviluppo e investimento europei, ad esempio, è nel pieno della sua attuazione. E l’Italia sta scegliendo le grandi opere da realizzare nel settennato europeo 2014-2020. Ecco, il problema è che l’esperienza dei Grandi progetti 2007-2013 messi in moto dalle varie leggi di Bilancio ha dimostrato molte criticità: secondo i tecnici della Commissione europea, il 90% delle 93 opere (valore 17 miliardi) aveva un’insufficiente analisi costi-benefici, il 70% problemi sulla valutazione del mercato interno o nell’impianto progettuale, il 50% lacune nella valutazione ambientale. Una riforma inutile appare anche quella del 2010, in campo universitario, che puntava a sbaragliare rigidità, staticità, auto-refenzialità e localismi degli Atenei nella selezione di professori e ricercatori. Le legge, da 7 anni, prevede l’estrazione a sorte dei 5 membri della Commissione esaminatrice. Risultato? Prima della riforma, il 23,9% dei candidati al ruolo di ordinario e il 22,6% a quello di associato erano interni, cioè concorrevano per posizioni bandite dal loro stesso dipartimento, mentre dopo la riforma la percentuale è scesa drasticamente: 17,2% e 18,7%. Bene. Peccato che questo non abbia modificato l’incidenza degli interni tra i vincitori: dal 54,1 al 53,4% per gli ordinari, dal 50,2 al 49,4% per gli associati. In pratica, un vincitore su due. "La riforma - denunciano dal Senato - non sembra aver modificato la regola non scritta dei concorsi universitari italiani: la sede che bandisce il concorso ha il diritto di scegliersi il candidato di suo gradimento, in molti casi coincidente con quello che già lavora presso la sede e che non sempre è il migliore". A proposito di riforme, a che punto siamo con le 107 Province soppresse riordinate nel 2014 da una legge, la n.56 (la cosiddetta "riforma Delrio"), che ha profondamente modificato la gestione strategica del territorio nazionale? Ecco, non si può dire che non sia cambiato proprio nulla, come ironizza il compiaciuto impiegato nullafacente Checco Zalone nel film "Quo Vado?". Ma gli ispettori del Senato, oltre a lamentare i troppi tagli su mobilità, ambiente e istruzione che hanno ingarbugliato la riforma, se la prendono con la scelta di molte Regioni, non in linea con i principi del riordino e dell’articolo 118 della Costituzione, "di accentrare importanti funzioni non fondamentali invece di assegnarle ai comuni e alle loro associazioni". "Una valorizzazione incompleta - si legge nell’indagine - sembra aver finora impedito alle Città metropolitane di diventare enti di effettivo governo del territorio". Tra le molte criticità, spunta qualche notizia positiva. L’Europa nel 2013 è intervenuta con Garanzia Giovani, un programma dedicato ai giovani (dotazione: 3,2 miliardi di euro) avviato anche in Italia nel 2014. Per la prima volta in 5 anni, nel giugno 2015 sono aumentati i nostri occupati under 25: + 63.000. Segno che il governo, almeno in questo caso, ha indirizzato bene i fondi. Malaburocrazia, il cittadino perde sempre di Federico Capurso La Stampa, 14 agosto 2017 Utilizzare i numeri per fotografare la burocrazia italiana rende ancora più crudo il ritratto del grande Moloch che governa il Paese attraverso permessi, graduatorie, codici e codicilli. Madre di ogni cosa è la politica, con le sue 75 mila leggi nazionali attualmente in vigore. A queste, conteggiate fino al 2009 dal progetto istituzionale Normattiva, si aggiungono 160 mila tra leggi regionali, comunali e regolamenti. Dovrebbero dunque essere circa 235 mila. Condizionale necessario, perché nessuna istituzione italiana è in grado di fornire con esattezza il numero ufficiale delle leggi vigenti. Una mancanza che perde il suo peso nel paragone poco lusinghiero che si apre con le altre realtà europee. In Francia le leggi nazionali si fermano a 7 mila, in Germania a 5 mila, e in Gran Bretagna non sono più di 3 mila. L’Italia, nonostante questo, prosegue anche in questa legislatura nella sua bulimia normativa con una media di 652 provvedimenti l’anno. Una giungla sempre più fitta, nella quale il cittadino finisce irrimediabilmente per smarrirsi. Le imprese, secondo una ricerca di Rete imprese Italia e del Centro Europa, perdono ogni anno 31 miliardi di euro per seguire gli adempimenti burocratici. Di questi, nove miliardi sono di oneri impropri dovuti a inefficienze della Pa. Nessun settore imprenditoriale è escluso. Per aprire un supermercato, ad esempio, occorrono nove permessi e tremila euro in marche da bollo. Per un ristorante i permessi diventano dodici e la situazione potrebbe complicarsi se fosse necessario un permesso per costruire: ci vorrebbero circa 227 giorni (contro i 96 della Germania). Diverso il discorso per aprire una pompa di benzina, dove invece le regole cambiano di regione in regione. Una volta inaugurata la propria impresa, il rapporto con la Pa non si affievolisce. Il Cna certifica che il 41,3% delle piccole e medie imprese italiane impegna fino a tre giorni lavorativi al mese per adempiere alle richieste della Pa. E nel 32,2% dei casi vengono impiegate le giornate salgono a cinque. Il panorama si allarga quando intervengono le classifiche internazionali. Per l’Unione Europea, l’efficienza della nostra Pa è al 23esimo posto su 28 Paesi. Il rapporto annuale Doing Business ci posiziona al 127esimo posto su 190 paesi, per quanto riguarda complicazione del fisco ed eccesso di regole per le imprese. Nell’indice della libertà economica stilato dalla Heritage Foundation, invece, siamo 79esimi su 180 paesi. A pari merito con la Namibia, a un passo dal Guatemala. L’ufficio complicazioni dello Stato Un gigantesco ufficio complicazione affari semplici. Le storie di ordinaria burocrazia che ci racconta La Stampa a questo ci fanno pensare. La pubblica amministrazione appare come un inesausto produttore di ostacoli inutili, rende difficile ai cittadini obbedire alle leggi, fa della diffidenza verso il buon senso il suo primo comandamento. Nell’ultimo quarto di secolo, però, procedimenti amministrativi, riorganizzazione degli uffici pubblici, trasparenza, produttività dell’apparato funzionariale sono stati al centro di più riforme: nel 1993, nel 1997, nel 2009 e più di recente nel 2015. Sarebbe ingeneroso sostenere che la burocrazia non sia stata nemmeno scalfita da questi tentativi. E tuttavia bisogna chiedersi perché quella è, grosso modo, l’impressione dei cittadini. L’impressione non è nemmeno solo loro. Se prendiamo, nei Worldwide Governance Indicators della Banca Mondiale, quello relativo alla "rule of law" che cerca di misurare l’effettivo grado di indipendenza, prevedibilità, rigore della pubblica amministrazione, vediamo che l’Italia ha un punteggio (64/100) lontano da Paesi come Germania (93), Olanda (97) e Svizzera (98). Lo stesso vale per la "government effectiveness", che comprende la qualità percepita dei servizi pubblici e la credibilità della Pa: 69/100 contro rispettivamente 94, 97 e 100. Dal momento che funziona per procedure e regole, la burocrazia dovrebbe limitare la discrezionalità del potere. Così si pensava cent’anni fa, quando gli Stati avevano compiti tutto sommato limitati. Quanto più complesso è l’ordito di norme che governa un Paese tanto maggiore è il potere arbitrario di chi deve attuare la regole o trovare, fra le sue pieghe, lo spazio per un’eccezione. In Italia le leggi vengono applicate per i nemici e interpretate per gli amici. Se ci sentiamo sudditi, è proprio perché non riusciamo a capire le norme alle quali dobbiamo sottostare e ci sembra di essere inermi innanzi a chi ce le fa rispettare. Perché la burocrazia non voglia auto-riformarsi, è presto detto. I burocrati sono esseri umani come tutti e come tutti fanno i loro interessi. Vorranno mantenere il proprio potere, quando non possono accrescerlo. Del resto, come governare un sistema così macchinoso senza ricorrere a che lo conosce meglio? Naturalmente i politici li trattano coi guanti: ne hanno bisogno. C’è anche una questione "culturale", che forse è ciò che davvero ci distingue dalla Svizzera o dall’Olanda. In Italia, governi e funzionari sono uniti dalla convinzione che solo norme rigide e minuziose possono rendere l’interesse privato compatibile con quello pubblico. Ma più sono e più dettagliate sono queste norme, e più diventa probabile che siano incoerenti e persino, di tanto in tanto, in conflitto le une con le altre: la mano destra non sa quel che fa la mano sinistra. Si stima che gli adempimenti costino alle piccole aziende il 4% del fatturato (Assolombarda). Questa cultura per cui è legittimo solo ciò che è esplicitamente autorizzato costa molto di più: le occasioni perdute. Grandi o piccole che siano: i lucernai che non sono stati fatti e le imprese che non sono state costituite. Le storie che ci presenta "La Stampa" sono tristemente istruttive. È vero tuttavia che una persona comune può trascorrere anni interi senza venire a contatto con un ufficio pubblico se non per pratiche di routine. Sono in pochi (sostanzialmente, imprenditori e professionisti) a comprendere davvero quanto è pesante il carico normativo a cui siamo sottoposti. Per questo, quando si discute della bassa crescita italiana, per i leader politici è facile puntare il dito altrove. Le iniziative abortite hanno il vantaggio di essere invisibili. Chi evade le tasse deve pagare i danni morali allo Stato La Stampa, 14 agosto 2017 Tempi durissimi per gli evasori fiscali condannati penalmente per aver cercato con particolare ingegno di farla franca, ad esempio per aver evaso l’Iva e per aver cercato di mettere al sicuro i beni in un fondo patrimoniale costituito solo per proteggere le proprietà immobiliari dalle ganasce dell’Agenzia delle Entrate. Rischiano, tra sequestro e condanna al risarcimento - oltre al carcere - di pagare il doppio di quello che hanno evaso, e nel verdetto può essere messo in conto anche il risarcimento dei danni morali patiti dallo Stato che ha subito il raggiro. Lo sottolinea la Cassazione replicando a un evasore trentino, M.Z. imprenditore immobiliare, che contestava anche la condanna al risarcimento dei danni morali per 167mila euro sostenendo che un ente pubblico come l’Amministrazione finanziaria non ne ha diritto. Invece - ecco il principio fissato dagli ermellini - "è legittima la condanna in sede penale al risarcimento del danno morale patito dall’ Amministrazione finanziaria in conseguenza di un reato tributario, danno consistente nella lesione di interessi non economici aventi comunque rilevanza sociale, ai quali è finalizzata l’azione dell’Agenzia delle Entrate preposta all’accertamento e alla riscossione delle entrate tributarie della Nazione". M.Z. aveva evaso l’Iva per 757mila euro per l’anno di imposta 2009 e poi nel 2010 aveva costituito un fondo patrimoniale sulla sua casa intestandola alla moglie. Ma è stato scoperto e per lui le cose non si sono concluse bene, tutt’altro, pagherà più del doppio di quanto evaso per aver "lucidamente perseguito di sottrarre il bene alle legittime ragioni dell’erario", come osservato dai giudici di merito. La Suprema Corte - sentenza 38932 - ha infatti confermato la decisione con la quale la Corte di Appello di Trento, nel 2016, aveva convalidato il sequestro finalizzato alla confisca della casa con due garage del valore di circa 750 mila euro, oltre alla condanna a risarcire il fisco con oltre 810mila euro, e a un anno di carcere, pena sospesa. Per quanto riguarda l’ulteriore condanna a pagare 167mila euro di soli danni morali, la Cassazione ha stabilito che questo tipo di condanna è assolutamente lecito ma che, tuttavia, sull’entità della cifra il giudice deve fornire spiegazioni che non possono essere un semplice riferimento all’ammontare dell’evasione. Solo su questo punto il ricorso di M.Z. è stato accolto e adesso il tribunale civile di Trento dovrà provvedere a fornire adeguate motivazioni sull’indicazione dei 167mila euro di danni morali o sulla cifra che comunque vorrà liquidare all’Agenzia delle Entrate. Sicilia: celle come forni e docce impossibili "le carceri sono inumane" di Claudio Reale La Repubblica, 14 agosto 2017 Dieci carceri siciliane su 23 risultano ospitare più detenuti di quanto per regolamento potrebbero. Dalle visite dei Radicali guidate da Rita Bernardini risultano condizioni estreme "degradanti per la persona" Dieci carceri su 23 sovraffollate. E una situazione estrema, resa impossibile dalle docce saltuarie cui sono costretti ad esempio i detenuti del penitenziario palermitano di Pagliarelli o dalle lamiere infuocate che rendono ancora più calde le celle di San Cataldo. La situazione delle carceri siciliane vista dalla Carovana radicale che si è conclusa ieri è devastante: quasi metà delle case circondariali e di reclusione siciliane, per esplicita ammissione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è sovraffollata (secondo i dati ufficiali del Dap aggiornati al 31 luglio lo sono Agrigento, Caltanissetta, entrambi gli istituti di Catania, Giarre, Pagliarelli, Termini, Augusta, Siracusa e Castelvetrano), mentre una, quella di Noto, è al limite della capienza. "Nelle carceri - dice la coordinatrice della presidenza radicale Rita Bernardini, che le ha visitate per la raccolta di firme sulla separazione delle carriere - ci sono anche letti a castello a tre piani, vietati dalla legge. È così ad esempio ad Agrigento e nella casa circondariale catanese di piazza Lanza". Non che gli istituti teoricamente non sovraffollati possano far esultare. "Gli spazi disponibili - attacca Bernardini - si calcolano includendo aree inagibili o in fase di ristrutturazione. Se si escludono dal conteggio le sezioni chiuse tutte le carceri siciliane sono in realtà sovraffollate". Non c’è, ovviamente, solo quello: "Le strutture - continua la coordinatrice radicale - sono spesso fatiscenti. Abbiamo fatto visite in un caldo eccezionale, e a San Cataldo abbiamo trovato celle chiuse da lamiere che impediscono l’entrata dell’aria e della luce e si arroventano. Le celle sono forni. La luce entra dall’alto, con maglie molto strette. I detenuti, quando possono, dormono a terra per cercare refrigerio". Spesso, poi, in carcere è impossibile fare la doccia ogni giorno: accade al Pagliarelli o a Trapani, dove i detenuti sono costretti ai turni. "Queste condizioni - prosegue Bernardini - danno un’immagine pessima del carcere, che passa da un degrado della persona. Un degrado anche sanitario: in tutte le carceri, l’assistenza medica è impossibile, visto che la Sicilia è stata l’ultima regione a passare dalla sanità penitenziaria alle Asp. Le cure o le analisi, spesso, arrivano troppo tardi. Fanno eccezione alcuni piccoli istituti come Giarre, ma solo perché ci sono meno detenuti". E se la situazione è impossibile per gli italiani, per gli stranieri diventa drammatica. Perché, ancora secondo il Dap, un detenuto su cinque in Sicilia non ha il passaporto del Belpase: stando ai dati aggiornati al 31 luglio le nazionalità rappresentate nei penitenziari siciliani sono 71, ma più di metà degli stranieri proviene da cinque Paesi (Egitto, Tunisia, Romania, Nigeria e Marocco. Ma nelle carceri siciliane gli stranieri reclusi non trovano quasi mai i mediatori culturali, le figure cioè che dovrebbero spiegare loro che diritti hanno. "A Enna - racconta Bernardini - ci è stato raccontato un episodio-limite. Dieci egiziani sono stati portati in carcere perché protestavano al centro di accoglienza di Piazza Armerina, e visto che non c’erano camere di sicurezza sono stati portati direttamente nella casa circondariale". La scena che si è presentata davanti agli occhi degli agenti penitenziari li ha lasciati senza fiato: "Quando sono stati dati loro dei panini - afferma la leader radicale - li hanno divorati. Avevano una fame di giorni e giorni, evidentemente avevano ragione a protestare. Sono stati portati in carcere a mezzanotte, e ancora di notte sono stati rilasciati. Abbandonati in mezzo alla strada, in un luogo che non conoscevano. Lasciati soli con se stessi, con la loro paura e quella di chi li ha incontrati" Sardegna: Esecuzione Penale Esterna, tegola Inail sulle associazioni di volontariato blogosocial.com, 14 agosto 2017 Brutte notizie per le circa 200 associazioni di volontariato e cooperative sociali che in Sardegna ospitano a fini rieducativi persone che scontano una misura alternativa alla detenzione. I tentativi di affiancare alla cosiddetta giustizia retributiva, mirata solo a punire chi ha commesso un reato soprattutto di lieve entità, una giustizia riparativa che cerchi di riparare lo strappo sociale determinato dal reato reinserimento socialmente il reo, rischiano di scontrarsi contro il muro della burocrazia e degli adempimenti. Il mese scorso - rende noto il sito di informazione Sardegna Magazine - l’Ufficio di Esecuzione Penale esterna per la Sardegna ha infatti recapitato una circolare in cui l’Inail richiede agli enti ospitanti di provvedere all’apertura di una posizione assicurativa Inail per tutti i soggetti sottoposti a misure alternative alla detenzione che prestano attività come lavoro di pubblica utilità presso le associazioni convenzionate. Coordinato dalla responsabile Rossana Carta, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Cagliari è competente per le attività di cinque istituti di pena tra cui Cagliari-Uta e Oristano-Massama per oltre un migliaio di detenuti inseriti nel circuito delle misure alternative alla detenzione. Dal maggio 2014 sta tra l’altro sperimentando anche per gli adulti l’istituto della messa alla prova, previsto solitamente per i minorenni autori di reato. Come la responsabile ha recentemente spiegato durante un convegno sulla giustizia riparativa, si tratta di una procedura extraprocessuale che punta sul riavvicinamento tra vittime e autori del reato che, quando utilizzata, fa calare drasticamente la percentuale di recidiva (in Sardegna ci sono 2mila procedimenti pendenti di cui circa un migliaio a regime). Non c’è dubbio che il nuovo adempimento penalizzerà in primo luogo le persone che devono essere reinserite in esecuzione penale esterna e solitamente devono scontare delle pene per reati di lieve entità. Oltre che ovviamente le associazioni di volontariato e le coop sociali che ospitano questi soggetti e li aiutano al reinserimento sociale attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Associazioni che, oltre che assicurarli, ora dovranno accollarsi altri oneri e pagare le ulteriori assicurazioni Inail. La circolare dell’Inail fa riferimento all’articolo 1 commi 86 e 87 della legge Finanziaria 2017 in cui si prevede che i soggetti beneficianti delle agevolazioni siano coperti da assicurazione Inail senza specificare chi debba provvedere alla copertura assicurativa (il Ministero della Giustizia o l’ente ospitante). Secondo le associazioni isolane al pagamento del premio assicurativo dovrebbe essere obbligato il ministero della Giustizia in qualità di affidante, in quanto la responsabilità di sorveglianza del programma di recupero compete all’Ufficio Esecuzione penale esterna territoriale, mentre le associazioni affidatarie - che peraltro già sostengono i costi delle coperture assicurative previste dalla legge - si occupano solo dello svolgimento pratico della attività in qualità di delegati. Viceversa se i premi assicurativi Inail fossero posti a carico dei soggetti ospitanti costituirebbero un notevole e ingiustificato aggravio di spese per le associazioni che svolgono le attività convenzionate a titolo completamente gratuito. Con il rischio che associazioni e cooperative sociali alla fine vengano costrette a revocare le convenzioni con il Ministero della Giustizia, con buona pace della funzione rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. Modena: Skype per i detenuti nel carcere Sant’Anna, il Sappe protesta di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 14 agosto 2017 "Sarà più difficile arginare gli estremisti. È impossibile monitorare i colloqui con l’esterno". "È impossibile monitorare i colloqui, soprattutto quelli in arabo. Così come avere contezza di chi realmente si trova dall’altra parte del monitor. In questo modo è impossibile stabilire se vi siano contatti con soggetti che fanno proselitismo o se si rischi comunque di fomentare, senza regolamentazione, il terrorismo islamico". C’è preoccupazione nelle carceri per la legge che prevede appunto il collegamento Skype nei penitenziari al fine di consentire ai detenuti di effettuare videochiamate con i propri familiari. "La legge esclude contatti con l’esterno solo per detenuti pericolosi - afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe - ma si pone comunque il problema legato al terrorismo islamico e alla radicalizzazione. Chi mostra chiari segnali in tal senso viene attenzionato, ma non è così per tutti e spesso quelli più a rischio sono detenuti comuni, finiti in carcere per droga e altri reati. Non possiamo sapere se nel corso della detenzione si siano o meno radicalizzati e, di conseguenza, neppure che tipo di messaggi potrebbero inviare all’esterno attraverso le videochiamate. Come facciamo a capire con chi sono in collegamento? E a breve sarà tutto pronto per le chiamate Skype, dobbiamo solo attrezzare le strutture". E c’è un’altra novità che preoccupa i sindacati; ovvero la camera per l’affettività. "I detenuti - spiega ancora Durante - potranno fare colloqui riservati di 24 ore con le compagne. Anche qui i disagi riguardano l’organizzazione e la gestione: chi potrà avere rapporti sessuali in carcere? I carcerati sposati oppure anche quelli conviventi o accompagnati? Chi lo può stabilire? E con le detenute come la mettiamo? - si chiede il poliziotto - ricordiamo che esiste il differimento della pena per le donne incinta. Se tutte restano incinta che facciamo? Non c’è regolamentazione neppure in questo caso ma dobbiamo adeguarci alla legge e creare gli spazi". Infine, fa presente Durante, c’è il discorso della vigilanza dinamica. "È un modello istituito per legge e rappresenta un grande errore perché la gestione del carcere è legata anche a fenomeni contingenti. Secondo la normativa i detenuti devono essere liberi almeno otto ore al giorno, sottoposti a controlli sporadici. Di questa libertà potrebbero beneficiare tutti, anche chi è sottoposto a misure di alta sicurezza. Sono rivoluzioni che vanno regolamentati e valutate caso per caso". Catania: Uil-Pa "carceri minorili, serve un potenziamento dell’organico" cataniatoday.it, 14 agosto 2017 Si tratta soltanto degli ultimi fatti di una lunga serie, accomunati dalla violenza dei detenuti nei confronti degli agenti e dai disagi provocati dalla cronica carenza di personale, che rende difficile anche le traduzioni. L’Istituto Penale per i Minorenni di Acireale ancora una volta al centro di episodi che raccontano la violenza da parte dei detenuti nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria e la carenza di personale che mette a rischio la sicurezza. "Nell’arco di due giorni, precisamente tra il 23 e il 24 luglio scorsi, all’interno della struttura si sono verificati due fatti molto gravi - spiega il segretario nazionale della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria Armando Algozzino - che danno la misura dello stato emergenziale che caratterizza gli istituti minorili a causa dell’esiguità degli organici, una condizione che pone a repentaglio sia la vita dei detenuti che quella del personale, come già sottolineato più volte dal sindacato". Gli episodi dei quali dà notizia il segretario riguardano l’aggressione fisica, da parte di un detenuto italiano, di due agenti della polizia penitenziaria: un fatto che Algozzino reputa particolarmente grave poiché il minore resosi protagonista dell’accaduto è lo stesso che, nel mese scorso, aveva già incendiato una cella dell’Istituto. "Malgrado ciò - aggiunge l’esponente della Uil - il Dipartimento della Giustizia Minorile non ha adottato alcun provvedimento nei confronti del detenuto, e neppure a tutela dei poliziotti penitenziari". L’altro episodio, invece, ha avuto quale protagonista un altro recluso infortunatosi al ginocchio in occasione di una partita di calcio: è stato necessario attendere più del dovuto prima di accompagnarlo in ospedale, poiché non era possibile eseguire la traduzione a causa dell’assenza di personale. "Per rimediare e assicurare al detenuto le cure del caso - chiarisce il segretario nazionale - il direttore dell’Istituto ha dovuto piantonare per circa tre ore il minore ricoverato in ospedale: ciò dà la misura della drammaticità della situazione ad Acireale e, più in generale, negli istituti minorili e nelle carceri siciliane". L’Istituto di via Guido Gozzano è da tempo al centro dell’attenzione della Uil Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria : nel giugno dell’anno scorso, otto minori italiani colpirono con violenza un detenuto di colore, salvatosi solo grazie all’intervento di un assistente capo e di un agente, a loro volta raggiunti da calci, pugni e colpi di bastone durante l’aggressione. Nell’ottobre dello stesso anno, il tentativo di suicidio di un recluso venne sventato da un agente: un intervento salvifico, al pari di quello dei tre colleghi che, all’inizio dell’estate, hanno spento le fiamme evitando la tragedia che un eventuale incendio avrebbe potuto provocare". Foggia: grido d’allarme della Polizia penitenziaria "c’è un buco d’organico di 60 agenti" lanotiziagiornale.it, 14 agosto 2017 Un’emergenza nell’emergenza. Un circolo drammaticamente vizioso da cui difficilmente si potrà uscire senza un intervento determinato da parte dello Stato. Perché il problema non è solo colmare il vuoto d’organico di chi combatte contro la mafia nelle strade foggiane, ma anche monitorare la situazione del carcere dauno. Ed ecco allora l’allarme del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. Sono certamente apprezzabili gli interventi che lo Stato metterà in campo per "combattere, finalmente, la delinquenza organizzata del Foggiano e del Gargano", ma servono "analoghi provvedimenti urgenti" anche per il carcere di Foggia, che potrebbe divenire a breve "la residenza per decine di pericolosi malavitosi" e che vive già una "situazione incandescente". Secondo il Sappe, infatti, il penitenziario del capoluogo dauno fa i conti con un sovraffollamento "tra i più alti della nazione" e con una carenza di agenti "di almeno 60 unità". "Questa situazione - lamenta il sindacato - non consente di poter gestire la sicurezza del carcere in maniera adeguata, con il muro di cinta, soprattutto nelle ore serali e notturne pressoché sguarnito" e le sezioni detentive con gli addetti alla sorveglianza "ridotti al lumicino" e senza "possibilità di controllare in maniera adeguata, soprattutto gli appartenenti ai clan malavitosi della zona". Proprio per la carenza di agenti "nelle scorse settimane un detenuto appartenente all’Isis arrestato a Foggia con la partecipazione di parecchi appartenenti alle forze dell’ordine, sarebbe stato poi accompagnato il giorno dopo presso il tribunale con un pullman insieme ad altri 10 detenuti con soli otto poliziotti di scorta ed il coordinatore. Sempre lo stesso detenuto islamico sarebbe stato poi accompagnato davanti al magistrato da soli due poliziotti". Il sindacato chiede perciò che anche l’amministrazione penitenziaria "metta in campo tutte le risorse necessarie" in termini di uomini e mezzi. Napoli: nel rione bunker si gioca a sparare, due ragazzi feriti di Dario Sautto Il Mattino, 14 agosto 2017 Hanno 11 e 16 anni, colpiti dai pallini di una pistola finta modificata. Il silenzio dei genitori. Sono adolescenti, anzi poco più che bambini, hanno strane ferite e usano tutta l’omertà del caso. "Stavamo giocando con alcuni amici e ci siamo fatti male", raccontano ai medici che li stanno curando. È da poco passata la mezzanotte quando al pronto soccorso dell’ospedale di Boscotrecase arrivano due ragazzini. Hanno 16 e 11 anni, vengono da via Castello, dal rione Carceri di Torre Annunziata, a pochi metri da Palazzo Fienga, storica roccaforte del clan Gionta, e raccontano la stessa assurda storia. Ma quelle lividure a forma di cerchietto, quei segni rossi sulla pelle, quei graffi insoliti hanno una causa ben precisa. Sono stati causati da piombini sparati da pistole giocattolo, armi finte ma modificate per far male. Sembra che i due minori siano stati letteralmente "impallinati", come se avessero partecipato a una battuta di caccia, ma come prede. I due ragazzini non hanno voluto dire chi erano i loro "compagni di gioco", trincerandosi dietro un semplice "amici del quartiere". Quel gioco nel Quadrilatero delle Carceri è andato in scena a tarda sera, nonostante le vittime siano minorenni, uno dei quali poco più che un bambino. Quanti fossero i ragazzini a partecipare, se si tratti di un "branco" oppure se sia un caso isolato, per il momento non si sa. I due hanno i segni di quell’assurdo "gioco" sulle gambe, sul torace, sulle mani, sul volto. Uno di loro ha rischiato di essere preso ad un occhio, con tutte le conseguenze del caso. Per fortuna è riuscito a schivare il colpo più pericoloso. Tornati a casa, i genitori hanno deciso di portare i due ragazzini in ospedale per le medicazioni. Loro sono incensurati e lavoratori, non legati direttamente alle famiglie di camorra della zona, ma hanno spiegato bene ai ragazzini cosa dire e cosa non dire. Per i medici non è "nulla di grave", ma comunque non capiscono come si siano procurati quelle strane ferite. Approfondiscono il discorso con i due ragazzini e con gli adulti, anche per prestare le giuste cure. Vista la strana causa, allertano anche le forze dell’ordine, come da prassi in questi casi. Qualche medicazione, un paio di punti di sutura, una prognosi di otto giorni per il più grande, per fortuna nulla di preoccupante per il ragazzino di 11 anni, e le dimissioni accettate in gran fretta dai genitori che avevano solo voglia di andare a casa - a dormire, visto che era quasi l?una di notte - ed evitare altri "fastidi". Nel frattempo al pronto soccorso sono arrivati i carabinieri, che hanno avviato - e rapidamente chiuso - le indagini per mancanza di denunce. Hanno riscontrato solo il consueto muro di omertà che vige in questi casi, soprattutto in quel quartiere di Torre Annunziata, dove la camorra - seppure indebolita - fa sempre sentire la sua presenza. Non si sa quale "modello" di pistole "soft" sia stata utilizzata, ma è molto probabile che si tratti di più armi, modificate per essere più pericolose e, all’occorrenza, capaci di far male. Il commercio è praticamente libero e spesso le armi giocattolo finiscono nelle mani dei baby camorristi, che si "allenano" con le prime rapine e con bersagli mobili. Non è escluso che nella tarda serata di venerdì possa essere avvenuta una cosa del genere, ma è difficile da accertare. Di certo c’è che quei due ragazzini avrebbero potuto riportare ferite ben più gravi, se solo uno di quei pallini di piombo avesse preso la direzione sbagliata. I graffi e le lividure scompariranno in qualche giorno, e anche il ricordo di questa assurda vicenda. Nel frattempo, in quel rione le nuove generazioni continuano a crescere con esempi e valori sbagliati. Siamo diventati scettici e creduloni di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 14 agosto 2017 Le spiagge di Ferragosto dedite al santissimo rito della rosolatura collettiva non sembrano troppo scosse dalle notizie sulla fine del mondo che milioni di telefonini unti di olio abbronzante si ostinano a diffondere sotto gli ombrelloni. C’è stato un tempo in cui, quando un dittatore comunista e il presidente degli Stati Uniti si scambiavano minacce atomiche, nessuno dubitava che facessero sul serio. Oggi li si ascolta con la degnazione divertita che merita un bisticcio fra bulletti al bar. Sui siti web, i titoloni che li riguardano, accompagnati dalla foto delle loro maschere facciali, campeggiano accanto all’ultimo balletto di Vacchi - produttore di fama, nel senso che la sua fama è l’unica cosa che produce - ed è evidente che per il lettore medio hanno la stessa consistenza. Con una differenza: il balletto di Vacchi attira molti più contatti. Su Kim e Trump aleggia una sensazione di improbabilità, come del resto su qualsiasi altro attore della politica mondiale, eccettuati forse i leader russi e cinesi, percepiti ancora come seri. Nessuno crede più veramente che alle parole possano seguire dei fatti e ai fatti delle conseguenze concrete. È la psicologia dell’autista Atac, la società romana di autobus ridotti a carcasse che viaggia verso il fallimento nella totale incredulità dei suoi dipendenti, convintissimi che prima o poi qualcuno ci metterà una pezza. Pensano che alla fine non succederà nulla. E che, se anche succedesse, nessuno potrebbe farci niente. L’improbabile a braccetto con l’ineluttabile, che è poi l’atteggiamento con cui molti si accostano ai pericoli ambientali. L’astrofisico Stephen Hawking che, sia pure esagerando per amore di provocazione, predice l’aumento delle temperature terrestri ai livelli insostenibili di Venere ottiene meno spazio e molta meno attenzione dell’astrocialtrone David Meade, il rabdomante di complotti galattici secondo cui un pianeta misterioso si abbatterà sulla Terra il 23 settembre prossimo. Il 24 nessuno gli imputerà il mancato avveramento della profezia e lui, impavido, si metterà immediatamente a vaneggiare la successiva. L’aleatorietà del messaggio che galleggia per pochi secondi sul nostro smartphone ne garantisce la rapida dimenticanza e offre al suo autore la certezza dell’impunità. Lo hanno capito persino i suprematisti bianchi d’America, che all’epoca della carta stampata e della tv avevano la prudenza di girare incappucciati, mentre in questi giorni si muovono a volto scoperto, nella convinzione che anche chi li detesta si dimenticherà di loro all’arrivo del prossimo balletto di Vacchi. La democrazia del web - dove tutto è uguale a tutto, nonostante sia a disposizione di tutti, o forse proprio per questo - è una conquista formidabile, ma come tante altre conquiste ha lasciato sul terreno alcuni cadaveri. Uno è la scomparsa dell’autorevolezza, frutto malato del Sessantotto che la rivoluzione tecnologica ha portato alle estreme conseguenze. Nel 2011 migliaia di romani trascorsero la notte all’addiaccio per paura di un mega-terremoto contrabbandato dai seminatori di paura, malgrado tutti gli esperti ne avessero categoricamente escluso la possibilità. Ma, nell’appiattimento dei pulpiti, gli esperti hanno perso l’aura di sacralità che li circondava e si ritrovano a discutere alla pari con persone senza altro titolo che il seguito popolare che certe teorie garantiscono loro sul web. Solo i nostalgici di un passato che nel ricordo sembra più bello perché coincide con il tempo della loro gioventù possono negare che la velocità pervasiva della Rete spalanchi opportunità finora impensabili. Però ogni comunicazione troppo veloce diventa inevitabilmente più superficiale. E produce per reazione uno stato d’animo che potremmo definire "scetticismo credulone". Ci si deve difendere dalla scomparsa di una gerarchia nei messaggi, dall’eccesso di quelli allarmanti (l’ultimo, fresco fresco, riguarda le uova) e dal bombardamento di emozioni ad alta intensità e brevissima durata. Così l’uomo contemporaneo si è cucito addosso una corazza di cinismo e ha tacitato la sua innata capacità di stupefazione. La parola "ingenuo", che in latino significava libero, adesso indica uno stupido. Eppure il bisogno insopprimibile di credere in qualcosa ci spinge ancora a prestare orecchio a chi sa proporsi con l’aureola del cane sciolto e del perseguitato per spacciarci sogni e complotti che ci aiutino a sentirsi dalla parte giusta. È cosi che si finisce per credere poco a tutto, ma tantissimo in qualcosa, purché sia incredibile. La pressione dei migranti e le incognite dei leader di Ian Bremmer* Corriere della Sera, 14 agosto 2017 Per l’Italia e altri Paesi gli sbarchi hanno un grande peso. La Ue si gioca il suo futuro tra le spinte riformatrici di Macron e il fattore di stabilità di Merkel. Il forte rallentamento nella crisi dei migranti dal 2015 a oggi, la sconfitta del candidato populista e anti europeista in Francia, Marine Le Pen, per mano di Emmanuel Macron qualche mese addietro e la probabile rielezione di Angela Merkel in Germania hanno ravvivato le stime ottimistiche e ciò fa sperare che l’Europa abbia superato l’ennesima valanga di difficoltà. Ma occorre cautela. Ci saranno molti nuovi problemi da affrontare nei mesi a venire e l’attuale sensazione di fiducia potrebbe rivelarsi di breve durata. Innanzitutto, l’ingresso in scena del giovane ed energico Macron in Francia ha suscitato ammirazione e invidia in un’Europa alla ricerca di una nuova generazione di leader nei rispettivi paesi. È tuttavia innegabile che l’esito più notevole delle elezioni francesi di quest’anno sia stata la portata della sconfitta dei partiti di centrodestra e di centrosinistra, che hanno dominato la politica francese per decenni. Pro o anti Unione Europea, gli elettori francesi chiedono un cambiamento e Macron deve attuarlo con una legislatura in cui il settanta percento dei parlamentari è al governo per la prima volta. Se però l’inesperienza rischia di minare la sua capacità di rivitalizzare l’economia francese e rimettere in moto il mercato del lavoro, allora tutti quei volti nuovi al potere non raccoglieranno più molte simpatie. Nel complesso, Macron deve rimettere ordine nella fiscalità del paese prima che i tedeschi, assai guardinghi, si dichiarino disposti a lavorare con lui verso l’integrazione fiscale dell’Unione Europea, l’unione bancaria e altre riforme necessarie. Il nuovo presidente ha subito perso un dieci percento di punti nei sondaggi di popolarità rispetto ai suoi esordi, man mano che i cittadini imparano a guardare oltre il suo sorriso accattivante e i suoi discorsi ottimisti per fare i conti con i tagli alla spesa pubblica. E come hanno scoperto anche i suoi predecessori, la riforma del mercato del lavoro, per quanto abilmente presentata, fa scendere in piazza i sindacati. Poi c’è l’Italia, paese che resta prigioniero di una situazione di stallo politico. Le prossime elezioni, probabilmente nella prima metà del 2018, secondo tutte le previsioni produrranno l’ennesimo governo frammentato che non potrà far molto nel portare avanti le riforme politiche ed economiche, oppure un governo guidato dal Movimento Cinque Stelle che si dichiara apertamente ostile all’Europa. La crisi dei migranti continua a rimodellare lo scenario politico italiano. Un accordo tra Europa e Turchia ha fatto calare considerevolmente l’afflusso di disperati diretti in Grecia attraverso il mar Egeo, a danno dei paesi che si trovano su altre rotte. Nella prima metà di quest’anno, si sono registrati appena 9000 arrivi in Grecia e 4000 in Spagna, mentre l’Italia ha accolto oltre 90.000 profughi. La rabbia sale, in Italia, nel vedere che i governi francese ed austriaco sembrano più interessati a chiudere le frontiere con l’Italia anziché offrire di accogliere anche una minima parte di queste persone. Un sistema di quote a livello europeo, che impone a ciascun paese membro di accogliere un certo numero di rifugiati per alleviare la pressione migratoria sugli altri, non è ancora diventato esecutivo. In particolare, i paesi del quartetto di Visegrad in Europa dell’est - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia - dovevano accogliere circa 11.000 rifugiati come parte di questo sistema. A oggi, la Slovacchia e la Repubblica Ceca ne hanno accolti 28 in tutto, mentre Polonia e Ungheria nessuno. Ma non è questa l’unica sfida lanciata dai paesi dell’Europa orientale. In Ungheria, Viktor Orban ha abbracciato in tutto e per tutto il termine di "democrazia reazionaria" e si batte per consolidare il controllo politico sul paese, mentre il governo di destra in Polonia è al lavoro su una legislazione che consentirebbe di licenziare i magistrati e sostituirli con personaggi di suo gradimento. L’Unione Europea minaccia di tagliare i finanziamenti a questi paesi nel prossimo budget, ma nulla di credibile è stato fatto finora per costringerli a sottostare alle regole europee. Se tutto questo non fosse già abbastanza motivo di preoccupazione, in Turchia il presidente Recep Tayyip Erdogan fa di tutto per attribuirsi poteri simili a quelli di Putin, e questo crea non pochi problemi tra la Turchia e l’Europa. Erdogan ha scoperto che l’ostilità esibita in pubblico contro l’Europa fa lievitare la sua popolarità in patria e una sua nuova candidatura alle elezioni del prossimo anno certamente farà sorgere nuovi motivi di attrito con la Germania e altri paesi. Questo potrebbe inoltre mettere a repentaglio l’accordo siglato tra Erdogan e Unione Europea per trattenere in Turchia un gran numero di rifugiati, in cambio di finanziamenti e di svariate promesse politiche. L’accordo reggerà, con ogni probabilità, perché va a vantaggio di entrambe le parti. Se non dovesse funzionare, l’Europa dovrà prepararsi a una nuova crisi dei migranti, scatenando così l’ira populista da un capo all’altro del continente. Aggiungiamo poi le divergenze con Trump, le provocazioni di Putin e le complessità dei negoziati per la Brexit, con la loro altissima posta in gioco. Merkel resta un fattore di grande stabilità, mentre Macron potrebbe stimolare le riforme in Francia e a più lungo raggio in Europa, ma resta chiaro che i leader europei dovranno darsi molto da fare per i prossimi mesi di quest’anno, e oltre. *Traduzione di Rita Baldassarre Migranti. Altre due Ong dopo Msf rinunciano ai salvataggi in Libia di Francesca Paci La Stampa, 14 agosto 2017 Save The Children e Sea Eye vanno via: "I nostri equipaggi sono fatti di volontari e in questo momento in quel mare non ci sono le garanzie di sicurezza per continuare". "Sospendiamo la missione perché la situazione si è fatta difficile. I libici hanno già sparato contro la Ong spagnola Proactiva e contro un’imbarcazione della Guardia costiera italiana, adesso estendono il loro controllo fino al limite di 72 miglia, è troppo pericoloso. Il nostro equipaggio è composto da volontari e in questo momento non ci sono le garanzie di sicurezza per continuare". A spiegare a "La Stampa" la decisione di ritirarsi temporaneamente dal Mediterraneo seguendo l’esempio di Medici senza Frontiere, è Claus-Peter Reisch, skipper della Sea Eye, una delle prime organizzazioni non governative internazionali a sottoscrivere il codice voluto dal ministro dell’interno Minniti nonché quella spedita la settimana scorsa dalla Centrale operativa romana a soccorrere la nave dell’ultradestra Defend Europe rimasta in panne nel Canale di Sicilia. Da ore Sea Eye riceve messaggi minacciosi sui social network. Reisch, che annuncia lo stop di una missione responsabile del salvataggio di oltre 5 mila persone dall’inizio del 2017 nelle stesse ore in cui Save the Children ritira la sua Vos Hestia, racconta una scelta molto dibattuta: "Ce ne andiamo a malincuore, avevamo firmato senza obiezioni l’intesa con il Viminale, ci andava bene anche avere i militari a bordo perché quelle italiane sono forze dell’ordine regolari e legittime e perché la Sea Eye ha grande rispetto per il popolo italiano, lasciato solo dall’Europa ad aiutare centinaia di migliaia di poveretti. Ma la Guardia Costiera libica proprio no, loro per me sono la stessa cosa dei trafficanti, ho visto e fotografato le imbarcazioni "Libyan coast guard" che smontavano i motori dei gommoni appena liberatisi dei migranti, fanno parte del medesimo circolo e si spartiscono un affare grossissimo". Continua il braccio di ferro nel Mediterraneo, dove ad oggi, dopo il ritiro di tre Ong e le altre navi ferme per controlli di routine, resta a pattugliare le acque internazionali solo l’Acquarius di Sos Mediterranée, l’organizzazione che era riuscita a far stralciare alcuni punti dal codice di condotta fino a sottoscriverlo e che ha a bordo una équipe di Medici senza Frontiere. Poi c’è la Defend Europe, che festeggia su Twitter in quanto, dalla resa delle Ong alla riduzione degli sbarchi, considera una propria vittoria personale. "Finché verrà garantita la sicurezza del nostro equipaggio rimarremo in zona di ricerca e soccorso (Sar, Ndr.) salvando chi è in pericolo e prevenendo il ritorno forzato delle persone soccorse in Libia" dicono da Sos Mediterranée. Il nodo gordiano è quello dei centri di detenzione libici, la ragione per cui, spiega Stefano Argenziano di Msf, altri si sono già tirati indietro: "Non ci preoccupa tanto la sicurezza quanto il fatto di essere arrivati alla fine di un processo che vuole bloccare donne e bambini in Libia, un carcere a cielo aperto, tra stupri e torture". Un mese fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato "A perfect Storm", nel quale vengono documentati gli abusi sistematici delle strutture che in Libia dovrebbero accogliere i migranti respinti nel Mediterraneo. Una testimonianza tra le altre per una riflessione necessaria, chiosa il direttore generale di Amnesty Gianni Rufini: "La Guardia costiera libica ha specificato che non accetterà le navi nelle Ong spingendosi in acque in cui non ha competenza. A questo punto ritirarsi è giusto, perché, tenute a distanza in questo modo, le Ong sarebbero altrimenti chiamate ad assistere impotenti ai naufragi o ai libici che riportano i migranti a terra nei campi di concentramento in cui ormai nessuno può più ignorare come la gente venga affamata, violentate e venduta". Dalle carte della Nato ai report su Siria e Libia: i segreti rubati da russi e cinesi di Floriana Bulfon La Repubblica, 14 agosto 2017 Dal 2013 al 2016 gli hacker hanno bucato le difese del ministero degli Esteri e della Rappresentanza italiana all’Ue. Assalti intensificati quando l’Europa discuteva di Iran, Ucraina e sanzioni a Mosca. I messaggi inviati dalle sedi diplomatiche sulle crisi in Siria e Libia con l’aggiornamento degli interessi italiani in Tripolitania. Le discussioni sull’impatto delle sanzioni alla Russia. I contenuti di riunioni informali tra i ministri della Difesa europei e di quelle del Comitato politico strategico sul contrasto al terrorismo. E poi i report dei negoziati per il raddoppio del gasdotto Nord Stream, le posizioni dei governi sui flussi migratori sulla rotta balcanica; il consiglio Ecofin con tanto di ordine del giorno commentato e le relative posizioni paese e persino le attività di addestramento della Nato. È il prezioso bottino di cui si sono impadroniti i cyber criminali entrati nella rete informatica della rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Ue e della Farnesina. Un’altra prova della debolezza delle infrastrutture strategiche italiane che si aggiunge alla vulnerabilità del vecchio software anti-hacker dell’Esercito di cui ha parlato ieri Repubblica. L’offensiva è durata dal 2013 al 2016 e ha consentito di accedere alle informazioni sul personale diplomatico, alti vertici compresi. La prima incursione su cinque postazioni della nostra Rappresentanza a Bruxelles dura due giorni, poi le talpe si annidano all’interno della rete e durante un anno e mezzo attaccano altre quattro volte. 1760 i messaggi esfiltrati. Nelle loro mani entra di tutto: dall’approvazione del decreto ricapitalizzazione banche in Grecia agli aggiornamenti sulla presenza Usa in Afghanistan, dall’analisi della situazione in Donbass al rapporto della delegazione Ue sullo stato dell’economia russa. Neppure l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi è al sicuro, arrivano ad avere informazioni fin nei dettagli dell’incontro a Roma con il presidente iraniano Hassan Rouhani. Gli attaccanti vanno a caccia anche di tutte le comunicazioni relative alla tecnologia industriale, al dual-use e alle commesse commerciali. Si impossessano dei dettagli sulla straordinaria scoperta di giacimenti di gas nel Mediterraneo di Eni, la più grande mai effettuata nell’area, e persino di quelli sulla partecipazione italiana alla cybertech in Israele. Chi sono i predatori? I nostri analisti ritengono gli attacchi riconducibili a "Uroburos", un malware diffuso dal gruppo Apt 28, per molti legato al Gru, l’agenzia di intelligence militare russa. Ad agire però non sono solo loro. L’intrusione alla Rappresentanza è stata perpetrata anche dai cinesi K3Chang e Zegost. Hanno obiettivi chiari: avere informazioni sulla tutela degli interessi finanziari europei, le misure antifrode. Gli attacchi coincidono con i momenti in cui l’Unione prende decisioni delicate su Iran e Ucraina. Prima del luglio 2015, quando è stato trovato un accordo sul nucleare iraniano, agiscono sia i russi sia i cinesi. Lo stesso nel gennaio 2016 mentre il Consiglio revoca le sanzioni economiche e finanziarie. Tra il 2 e il 7 settembre 2015 si registra un picco dell’attività di "Uroburos" che torna in azione anche a dicembre. Proprio gli stessi periodi in cui l’Ue deve decidere sulla proroga delle sanzioni nei confronti della Russia. La Rappresentanza, guidata prima da Carlo Calenda, oggi ministro dello Sviluppo Economico e poi dall’ex ambasciatore al Cairo Maurizio Massari, è un ottimo accesso alle informazioni che passano sulla rete della Farnesina, ma per i criminali non è sufficiente. L’attacco è incrociato. Tra il 13 e il 14 aprile 2015, 126 utenze del ministero degli Esteri ricevono un messaggio da un account gmail con l’oggetto "Helicopter Initiatives". La mail contiene un link ad un sito creato appositamente e chiuso non appena raggiunto l’obiettivo. Lo ricevono l’ambasciatore a Malta Giovanni Umberto De Vito e quello a Baghdad Massimo Marotti, membri della rappresentanza presso le Organizzazioni Internazionali a Vienna e della Nato. E ancora il capo di gabinetto, l’ambasciatore Ettore Sequi, oggi a Pechino, e il suo vice Michele Baiano, adesso vice segretario generale. Di fatto l’intero vertice della Farnesina è spiato. Quanto all’attribuzione non è certa, ma si ritiene altamente probabile che sia stato sempre Apt28. Trascorrono appena pochi mesi e durante l’estate a colpire, secondo gli analisti, sono i cinesi. Questa volta puntano sul ministro e attuale premier Paolo Gentiloni e poi la direzione generale per gli affari politici e di sicurezza, le unità di politica estera e di difesa comune. Ancora oggi non è chiaro cosa abbiano rubato. Dal ministero, dopo aver ammesso un’incursione fino a primavera 2016, si sono affrettati a a dire: "a seguito del primo attacco c’è stato un intervento di rafforzamento", di più "nessun documento sensibile è stato preso". L’attacco però è proseguito almeno per l’intero 2016. E dire che avevano agito già nell’estate 2013, con la stessa modalità. Dopo tre anni, solo nell’ottobre 2016, è stato costituito un team interministeriale che non potrà però rimediare alla perdita di informazione strategiche per la sicurezza nazionale. Siria. Ci sono prove a sufficienza per condannare Assad per crimini di guerra La Stampa, 14 agosto 2017 La rivelazione di Carla Del Ponte, membro dimissionario della Commissione Indipendente d’inchiesta sulla Siria. Carla Del Ponte, membro dimissionario della Commissione Indipendente d’inchiesta sulla Siria, è convinta che vi siano prove a sufficienza per condannare il presidente siriano Bachar al-Assad per crimini di guerra. Lo ha affermato in interviste pubblicate oggi dai domenicali Matin Dimanche e Sonntags Zeitung. La ticinese - ex procuratrice della Confederazione, ex procuratrice generale del Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia nonché di quello che si è occupato del genocidio in Ruanda - precisa anche di aver inviato giovedì la propria lettera di dimissioni dalla Commissione d’inchiesta sulla Siria. Esse "saranno effettive dal 18 settembre, data della prossima sessione della Commissione". Secondo l’ex magistrata, le prove raccolte finora a carico del presidente siriano sono sufficienti per condannarlo per crimini di guerra. Ma a causa del veto posto dalla Russia presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu alla creazione di un tribunale internazionale ad hoc, per il momento non vi sarà né un atto di accusa né una corte che si occupi del reati della guerra siriana. Questa situazione è - secondo la ticinese - "frustrante", "una tragedia". "Senza giustizia in Siria non ci sarà mai la pace e quindi non vi potrà essere nessun futuro", precisa l’ex procuratrice. "Non ho mai visto un conflitto così violento, nel quale vi siano così tanti bambini uccisi, torturati, decapitati. I bimbi sono le prime vittime di questo conflitto". "Le mie dimissioni vogliono anche essere una provocazione. Devono servire a mettere sotto pressione il Consigli di sicurezza, che deve rendere giustizia alle vittime", aggiunge Del Ponte. Se mai si arrivasse all’istituzione di un tribunale internazionale per la Siria, la 70enne ticinese si dice pronta ad assumerne la guida. In caso contrario si dedicherebbe volentieri alla scrittura di un libro sulle esperienze in seno alla Commissione d’inchiesta dell’Onu sulla Siria. Malawi. Così si salvano i bimbi invisibili di Marcello Buttazzo La Stampa, 14 agosto 2017 La Comunità di Sant’Egidio in campo nell’Africa subsahariana dove due bambini su tre non sono registrati all’anagrafe e diventano prede dei trafficanti di organi. In alcune contrade del mondo, la povertà estrema e la miseria nera sono accidenti contro i quali è necessario lottare tutti i giorni con pertinacia, con vigore. In particolare, due bambini su tre in Africa subsahariana non sono registrati all’anagrafe. Sono i cosiddetti "bambini invisibili", facili prede dei trafficanti di esseri umani, che li sfruttano nel lavoro minorile, come schiavi sessuali o per l’espianto degli organi. I governi locali fanno quello che possono per salvaguardare l’infanzia violata. Da anni e anni, in Africa, si distingue per alacrità e umanità la Comunità di Sant’Egidio, la quale ha avviato il programma "Bravo", preparato appositamente per tutelare i bambini calpestati. La Comunità di Sant’Egidio ha registrato 3,5 milioni di persone in Burkina Faso, ha avviato l’iscrizione gratuita allo stato civile dei bambini del Malawi, ha formato centinaia di operatori della maternità e sensibilizzato oltre mille capi-villaggio. Quando l’indigenza mortificante stringe con la sua presa tentacolare e ferrea, occorrerebbe anche l’intervento massiccio e mirato delle istituzioni. Preminentemente, dovrebbero essere quelle occidentali, da sempre solerti a depredare e a spogliare i Paesi a Sud del mondo, che per una mansione etica dovrebbe provvedere fattivamente. Per intanto, la Comunità di Sant’Egidio si muove nelle città africane a protezione dei tanti "bimbi di strada", anche piccolissimi, che dormono in luoghi di fortuna (anche nei canali di scolo) e si arrangiano vendendo vecchie scarpe, raccogliendo rifiuti, chiedendo l’elemosina al mercato. Meritorio e provvidenziale l’adoperarsi di Sant’Egidio, che assicura a questi piccoli sfortunati cibo, vestiario, medicine, scuola, sperando di aprire in futuro ricoveri notturni. Kenya. Un voto di sangue; scontri in tutto il paese. L’opposizione: "100 morti" di Raffaella Scuderi La Repubblica, 14 agosto 2017 Nove morti e pochi feriti per il governo, ventiquattro per Medici senza Frontiere e per la Croce Rossa, oltre cento vittime a detta dell’opposizione. "Terrore di Stato, meticolosamente preparato", urla James Orengo, esponente della National Super Alliance. I numeri che arrivano dal Kenya sono discordanti, ma dopo dieci anni l’incubo è tornato. Tra le vittime anche una bimba di 8 anni, Moora Nyarangi, la cui morte è stata documentata in un video che gira sui social. Le zone prese d’assalto dalla ferocia della polizia, secondo quanto riferiscono attivisti e testimoni, sono le roccaforti di Raila Odinga, il perdente: Kisumu, Kibera e Mathare. Non sono state neanche risparmiate le chiese. Fotografie e video documentano l’irruzione della polizia durante una messa a Litevan, nella contea di Kawangware. Nel filmato, diffuso su Twitter, si vedono gli agenti irrompere attraverso le finestre e lanciare gas lacrimogeni. Erano presenti molti bambini. Il ministero degli Interni, che sta coordinando le operazioni di polizia, sostiene che non ci sono morti e che gli agenti non stanno usando proiettili. Diversa la versione di Msf, che ha dichiarato di avere accolto almeno 7 feriti gravemente colpiti da armi da fuoco. "L’avevano annunciato: "Non riunitevi". E hanno deciso di far rispettare l’ordinanza, sparandogli addosso e facendo irruzione nelle case, brutalizzando donne e bambini". Questa è la testimonianza di uno dei blogger e attivisti per i diritti umani più famosi del Paese, Kefah Wesley. Lo raggiungiamo al telefono mentre sta lasciando Kusumu, regno di Raila Odinga. "Ho visto decine di morti - ha raccontato - La polizia attacca chiunque si raduni. Ho visto i manifestanti protestare in strada. Erano disarmati. E la polizia ha comunque sparato sulla folla. Non erano proiettili di gomma, ma di armi da fuoco. Non si può parlare di pace, che è la conseguenza della giustizia. Qui non è stata fatta giustizia. La Commissione elettorale non ha dato la possibilità all’opposizione di verificare i dati dei voti. I kenyani non lo accetteranno mai. Qui la pace è finita. Ma il vero problema sono i media che non parla delle morti ingiuste di chi ha protestato e impediscono ai cittadini di accedere alla verità". Anche Human Rights Watch, denuncia l’uso eccessivo della forza da parte degli agenti. Le violenze sono iniziate venerdì, il giorno in cui Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente dell’indipendenza kenyana, è stato dichiarato il vincitore delle elezioni appena concluse. Raila Odinga ha perso per la quarta volta e ha denunciato brogli e hackeraggio del sistema elettorale. Wafula Chebukati, capo della commissione elettorale, ha dichiarato che hackeraggio c’è stato, anche se il danno sarebbe stato arginato. Dov’è la verità? Kenyatta fa parte dell’etnia più potente e ricca in Kenya, i kikuyu, che governano il Paese dall’indipendenza. Con lui l’economia è cresciuta insieme alla corruzione. E il suo vice presidente, William Ruto, sembra avere una forte influenza - a detta di molti nefasta - su Kenyatta. In molti attribuiscono a lui la mala gestione del Paese. Kenaytta ha fatto un appello alla pace e all’unità. Odinga no: "Non ho controllo sulla mia gente", ha dichiarato due giorni dopo le elezioni, quando i risultati lo davano chiaramente perdente. Non è stata una dichiarazione rassicurante. E le conseguenze le stanno subendo i kenyani. Iran. La vita dei prigionieri politici in sciopero della fame è in pericolo ncr-iran.org, 14 agosto 2017 La Resistenza Iraniana esprime grande preoccupazione per la salute e la sicurezza dei prigionieri politici in sciopero della fame e in isolamento nella sezione 4 del carcere di Gohardasht a Karaj, ad ovest di Teheran. Tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani, soprattutto l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, l’Inviato Speciale sui Diritti Umani in Iran e l’Inviato Speciale sulla Tortura, sono chiamati ad agire con urgenza per salvare la vita di questi prigionieri politici. Abolqassem Fouladvand, Hassan Sadeghi, Saeed Masouri, Reza Akbari Monfared, Jafar Eqdami, Amir Qaziyan, Khaled Heradani, Zaniyar e Loqman Moradi si trovano in isolamento. Molti altri prigionieri della sezione 4, come Mohammad Banazadeh Amir Khizi, Pirouz Mansouri, Majid Assadi e Payam Shakiba sono alcuni dei detenuti in sciopero della fame per protestare contro le misure repressive imposte ai prigionieri politici nella sezione 4 del carcere di Gohardasht. Le autorità hanno vietato a questi prigionieri politici qualunque visita dei familiari e li hanno messi sotto pressione perché interrompano il loro sciopero della fame. I prigionieri politici che stanno protestando sono alcuni detenuti della sala 12 della sezione 4 del carcere di Gohardasht, che sono stati aggrediti domenica 30 Luglio, insultati e picchiati dai secondini e poi trasferiti con la forza alla sala 10 di questa sezione (comunicato del Cnri - 1°Agosto). Le autorità carcerarie hanno privato questi prigionieri politici dei fondamentali prodotti per l’igiene e di abiti decenti. Il fascismo religioso al potere in Iran esercita la sua autorità tramite le esecuzioni, la tortura e gli arresti. Il leader supremo Ali Khamenei e il presidente Hassan Rouhani, con la sua maschera "moderata", sono le due facce della medaglia di questo regime medievale. Gli alti esponenti del regime iraniano devono essere posti di fronte alla giustizia per i loro continui e crescenti crimini, contro il popolo iraniano. Qualunque relazione con Teheran deve dipendere dal fatto che i mullah migliorino la disastrosa situazione dei diritti umani e dal rilascio di tutti i prigionieri politici senza nessuna condizione. di Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Cina. Un mese fa la morte di Liu Xiaobo. Appello per porre fine alla persecuzione della moglie di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 agosto 2017 Un mese fa moriva il Nobel per la pace e prigioniero di coscienza cinese Liu Xiaobo. Di Liu Xia, sua moglie, si sono perse le tracce dal 15 luglio, giorno in cui venne organizzato un frettoloso funerale e le ceneri di Liu Xiaobo vennero disperse in mare. Con la prolungata detenzione e la mancata fornitura di cure mediche adeguate, le autorità cinesi si sono accanite contro suo marito. Ma, non soddisfatte, hanno proseguito ad accanirsi anche contro di lei. Dal 2010, quando a suo marito venne conferito il Nobel per la pace, Liu Xia è sottoposta a un immotivato e illegale provvedimento di arresti domiciliari a Pechino. Non è noto in quale zona della capitale si trovi attualmente. In occasione del primo mese dalla morte di Liu Xiaobo, quasi 70.000 persone hanno sottoscritto una lettera aperta al presidente cinese Xi Jinping chiedendo che siano annullate le restrizioni arbitrarie nei confronti di Liu Xia e sia posto definitivamente termine alla persecuzione nei suoi confronti.