"La giustizia show? Una malattia: noi pm dobbiamo finirla" di Errico Novi Il Dubbio, 13 agosto 2017 È l’invito ai colleghi magistrati di Ambrogio Cartosio, il nuovo procuratore di Termini Imerese, nel suo discorso di insediamento. "I pm non possono costruire brillanti carriere sulle infamie gettate addosso a chi è solo indagato". Parole forti. Giuste. E ancora più pesanti se a pronunciarle è un magistrato. Le ha scelte per il proprio discorso d’insediamento Ambrogio Cartosio, nuovo procuratore di Termini Imerese. Cartosio è un uomo mite, asciutto, accompagnato da recente notorietà per l’inchiesta sulla nave Iuventa ma dai modi che nascondono persino una certa timidezza. Non è un pm che insegue paginate sui giornali. Non a caso introduce il richiamo sulle inchieste come arma distruttiva dell’esistenza altrui con la questione del rapporto con i media, strettamente connessa all’altro tema. Rapporto che, attenzione, non deve consistere in chiusura e impenetrabilità. Anzi, Cartosio parte proprio dalla dichiarazione di avere, come progetto per l’ufficio alla cui giuda è stato assegnato, un’idea di "apertura" e di rapporto trasparente con la comunità, organi di informazione compresi. Cosa che evidentemente, secondo il nuovo procuratore di Termini imerese, è possibile senza ricorrere a indagini basate sul clamore, sulla ricerca dell’indagato eccellente. Un bell’esempio di cultura della giurisdizione rigorosa e nello stesso tempo consapevole delle esigenze che si impongono oggi ai magistrati. Come spesso ha ripetuto l’attuale vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, "sarebbe opportuno che gli uffici giudiziari avessero una capacità e si dotassero di strumenti atti a comunicare con l’esterno in modo efficace e corretto". Tra l’impenetrabilità e le inchieste spettacolo c’è dunque una via di equilibrio che sarebbe giusto percorrere. E sembra quel- la indicata dal capo dei pm di Termini. L’opinione pubblica, spiega Cartosio, "ha diritto di essere informata". Innanzitutto quando si procede "a compiere arresti, perché non siamo in un Paese dittatoriale in cui le persone spariscono come desaparecidos". Ma l’informazione "deve essere contemperata con il massimo rispetto per le persone che vengono arrestate, e che però sono la Procura e la polizia giudiziaria a indicare unilateralmente come autori di un reato. Saranno poi i giudici a stabilire se il soggetto è veramente colpevole". Potrebbero sembrare assiomi superflui da richiamare. Ma alla luce di come spesso viene gestita l’informazione sulle inchieste, andrebbero scolpiti ed esposti in tutti i palazzi di giustizia del Paese. La presunzione di colpevolezza così esemplarmente evocata spiega perché, continua il procuratore nel discorso con cui si è insediato due giorni fa, "i pm, nel rapporto con la stampa, debbano mantenere la massima continenza. Non devono seguire le lusinghe delle apparizioni su organi di stampa e tv, lusinghe che", avverte appunto il nuovo capo dell’ufficio inquirente siciliano, "possono far fare carriere brillanti, ma a volte si tratta di carriere costruite su un’infamia gettata addosso a persone che poi nel tempo si rivelano diverse da com’erano state dipinte". Tanto per essere chiaro con i 9 magistrati della Procura appena affidatagli, Cartosio ribadisce: "Questo ufficio darà le informazioni necessarie, ma non saranno ammessi protagonismi, non sarà ammesso, soprattutto, che la reputazione delle persone venga infangata facilmente". Il magistrato perbene. sa che il suo non è esattamente il tipico discorso d’insediamento di un procuratore, e allora alza il tono nell’aula magna del Tribunale di Termini imerese - dove con il presidente Raimondo Loforti lo ascoltano pm, giudici e personale degli uffici insieme con tutte le autorità locali - e spiega che quello del clamore mediatico sulle indagini "è un tema enorme, gigantesco, perché il proliferare di trasmissioni e dibattiti sulla presunta colpevolezza di questo o quel soggetto è diventata una vera e propria malattia sociale". E, ancora con ammirevole apertura, il procuratore dichiara: "Devono essere i magistrati a farsi carico di arginare questo fenomeno". Tutto qui? E no. Perché intanto Cartosio ricorda di essere stato "un allievo di Paolo Borsellino: ero con lui alla Dda e credo sia evidente che con Giovanni Falcone è stato lui a far diventare la lotta alla mafia una cosa seria: prima i capi degli uffici ti dissuadevano, sostanzialmente ti dicevano che era meglio dedicarsi ad altro "tanto la mafia non esiste". E come se non bastasse il procuratore di Termini infrange un altro tabù, il rapporto tra pm e avvocato: "Se il lavoro del pm ha una dignità, ce l’ha perché esiste l’avvocato. Che è lì a farti le pulci, a cercare di farti venire dei dubbi, che ti scuote dalle tue certezze. E tu, pm, devi essere capace di rivederle. Non è che ti abbarbichi a una convinzione sbagliata solo perché la tua controparte ti ha messo in condizione di riconoscerla come tale… È l’errore peggiore che si possa fare da parte di un pubblico ministero". Cartosio, per inciso, ha preso possesso dell’incarico direttivo a Termini dopo anni trascorsi da aggiunto a Trapani. Ufficio quest’ultimo dove negli ultimi mesi aveva svolto il ruolo di capo facente funzioni e dove si è appena insediato, come nuovo procuratore, Alfredo Morvilo, con cui il collega ora nell’ex città della Fiat si è avvicendato. Una figura, quella di Cartosio, che a 25 anni di distanza conferma come da quelle parti il seme lasciato da Falcone e Borsellino viva ancora nell’attività di qualche magistrato. Nomine e correnti: la rotazione piace ai magistrati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 agosto 2017 Il criterio da adottare nella nomina dei capi degli uffici giudiziari è da sempre al centro di accese discussioni, in primis fra i magistrati stessi. L’argomento è delicato in quanto dalla scelta del vertice dipende poi la "politica giudiziaria" di quel determinato ufficio ed i cui effetti sono facilmente intuibili. Basti pensare alla determinazione dei criteri di priorità nella trattazione degli affari civili e penali da parte delle Procure e dei Tribunali. La recente nomina di Giovanni Melillo, ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando, a procuratore di Napoli ha impresso un’accelerazione a questa discussione, spaccando sostanzialmente la magistratura. Melillo, come si ricorderà, era stato preferito al procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho nonostante fosse più giovane di servizio e avesse trascorso parte della sua carriera professionale lontano dalla giurisdizione. L’attuale Testo unico sulla dirigenza del Csm, infatti, superando il paramento dell’anzianità di servizio, si concentra molto sulla capacità organizzativa del magistrato, requisito ormai imprescindibile nella scelta del capo dell’ufficio. Non tutti, però, sono concordi con questo nuovo corso dell’Organo di autogoverno delle toghe. Andrea Mirenda, il presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona che in polemica con le scelte del Csm ha deciso il mese scorso di rinunciare alla funzione semi-direttiva per ricoprire il ruolo di magistrato di sorveglianza, ha avanzato una proposta che eliminerebbe sul punto il potere discrezionale di Palazzo dei Marescialli e il ruolo delle correnti della magistratura. Si tratta della "rotazione turnaria" delle funzioni direttive e semi-direttive fra i magistrati dell’ufficio. Una proposta bollata dal consigliere laico del Csm Pierantonio Zanettin (FI), componente della Commissione per gli incarichi direttivi, come "maoista". L’idea di Mirenda in questi giorni ha riscosso un discreto riscontro sulle mailing list dei magistrati. Va tenuto presente che, considerando l’attuale pianta organica, i posti di vertici disponibili sono solo per il 10% delle toghe. Ciò determina che il rimanente 90% si "disinteressa" da subito dell’autogoverno. All’obiezione che non tutti i magistrati hanno uguali capacità organizzative, Mirenda replica che quotidianamente ciascuna toga organizza il proprio ruolo. Il sistema, dunque, tollera "l’incapacità" del collega ad organizzare la gestione dei propri processi ma si "allarma" se quello stesso magistrato dovesse essere chiamato a svolgere un turno di gestione di un Tribunale. I magistrati, poi, in vista di quel "dovere di dirigenza" parteciperebbero necessariamente ed attivamente alle scelte via via adottate dal dirigente pro tempore, dando vita addirittura ad un loop virtuoso. E se proprio non si volesse accettare il criterio della turnazione in quanto non tutti i magistrati hanno una seria capacità organizzativa, "i tempi sarebbero maturi per la c. d. doppia dirigenza, con affidamento di quel compito ad un manager del Tribunale, nominato su concorso nazionale, esterno alla funzione giudiziaria e formatosi in università o in aziende che del management abbiano fatto il loro core shell, al pari di quanto accade negli ospedali pubblici, dove il dg non è un medico né opera i pazienti", conclude Mirenda. Sicilia: ultima tappa della Carovana per la Giustizia dei Radicali radicalparty.org, 13 agosto 2017 È partita da Roma il 28 luglio, ieri sera ultima tappa a Capo d’Orlando. Una ventina tra militanti e dirigenti del Partito Radicale, oltre agli avvocati delle Camere Penali. Un piccolo esercito impegnato nella raccolta firme per la proposta di legge per la separazione delle carriere tra Pubblico Ministero e Magistrato, stasera a Capo d’Orlando ultima tappa siciliana della Carovana per la Giustizia che ha tra gli altri obbiettivi la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere dei magistrati. Amnistia e indulto, premessa indispensabile per una Giustizia giusta. Superamento di trattamenti crudeli e anacronistici come il regime del 41 bis e il sistema dell’ergastolo, a partire da quello ostativo. Approvazione dei decreti delegati della riforma dell’Ordinamento Penitenziario. 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre 2017 per continuare le lotte di Marco Pannella. Sono state raccolte oltre 3000 firme, migliaia i chilometri percorsi e visitate 22 carceri. Tra i molti avvocati, consiglieri e cittadini, detenuti e no, accorsi per iscriversi al Partito Radicale, va sottolineata l’adesione di Bruno Contrada, ex numero due del Sisde e del fratello Vittorio. Anche Orazio Paolella e la sorella Luisa hanno deciso di entrare nel Partito di Marco Pannella. A Racalmuto si è riunita in via straordinaria anche l’Assemblea della Consulta delle regioni per gli Stati uniti d’Europa, in previsione del proprio 30ennale dalla costituzione, per confermare e ribadire la propria vocazione alla realizzazione della scelta federalista e all’attuazione del modello degli Stati Uniti d’Europa. Tra le molte iniziative anche #Fiammelle X Fiammetta, il Partito Radicale non si arrende "andiamo avanti, non molliamo ma rilanciamo a partire dalle parole di Fiammetta Borsellino" dichiara Maurizio Turco riferendosi alle dichiarazioni della figlia di Paolo Borsellino. Ieri sera l’ultimo tavolo di questo tour siciliano si tiene a Capo d’Orlando, Villa Piccolo di Calanovella. L’evento è organizzato dalle Camere Penali di Patti, alle stessa ora, Radio Radicale, si collegherà in diretta con i carovanieri per le ultime comunicazioni ai cittadini e alla stampa. Alle 17, invece, esponenti del Partito Radicale si recheranno a rendere omaggio alla tomba di Pietro Milio, avvocato penalista del foro, morto nel 2010 proprio a Capo d’Orlando. Tutti i carovanieri, in ordine alfabetico: Matteo Angioli, Rita Bernardini, Antonella Casu, Antonio Cerrone, Donatella Corleo, Flavio Del Soldato, Sergio D’Elia, Paola Di Folco, Maria Antonietta Farina Coscioni, Franco Giacomelli, Tiziano Giardiello, Ivan Innocenti, Maria Rosaria lo Muzio, Rocco Martino, Ernesto Mauro, Aldo Pazzaglia, Luciano Pentangelo, Maria Laura Turco, Maurizio Turco, Elisabetta Zamparutti. Nuoro: Badu e Carros, detenuti per la Riforma dell’ordinamento penitenziario di Paqujto Farina La Nuova Sardegna, 13 agosto 2017 Per sollecitare la riforma dell’ordinamento penitenziario, i detenuti della Sezione AS 3 di Badu e Carros partecipano alla manifestazione nazionale dei Radicali italiani, rifiutando il vitto del giorno 16 agosto. "Da anni aspettiamo la riforma - scrivono i detenuti - nuovi regolamenti per dare più dignità e speranza a chi vive in estrema ristrettezza". La protesta è portata avanti in concomitanza con la "Carovana per la Giustizia", promossa dai Radicali e dall’Unione delle Camere Penali. L’obiettivo è far in modo che il Governo emani, entro l’estate, i decreti attuativi del disegno di legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato il 23 giugno scorso. Le tre commissioni di studio nominate dal ministro Orlandi, dovranno redigere schemi di decreti legislativi riguardanti le modifiche della disciplina delle misure di sicurezza, dell’assistenza sanitaria e della revisione del sistema delle pene accessorie; gli strumenti normativi di giustizia riparativa, l’articolazione di una disciplina di ordinamento penitenziario minorile e, infine, le modifiche al vigente ordinamento penitenziario. Tutte misure di cui il sistema carcerario necessita, volte ad applicare ciò che peraltro già recita la nostra Costituzione. Lo slittamento dei termini a fine anno però ha suscitato malumore nelle file radicali, che ne avevano chiesto l’approvazione entro l’estate. Ferrara: Consiglieri comunali in visita ai detenuti nel giorno di Ferragosto di Stefania Carnevale* cronacacomune.it, 13 agosto 2017 La mattina di Ferragosto un gruppo di Consiglieri comunali visiterà la Casa circondariale di Ferrara per portare il saluto delle istituzioni alle persone detenute e al personale dell’istituto. Il carcere è una comunità situata nel nostro territorio che tende a essere dimenticata, sino a quando qualche tragico episodio riporta bruscamente l’attenzione su questo mondo separato e distante. Nei mesi estivi la lontananza fra la città e l’istituto penitenziario sembra aumentare: la sospensione delle attività ricreative, sportive e culturali, l’interruzione dei corsi di istruzione, l’affievolirsi della presenza di volontari, l’assenza di iniziative in grado di avvicinare carcere e cittadinanza concorrono nell’acuire il senso emarginazione e distacco che connota la vita detentiva. Le condizioni climatiche estreme, che hanno portato Ferrara a un infausto primato, sottopongono le persone recluse a uno stress fisico elevatissimo, che si aggiunge al disagio psicologico proprio di questo periodo. Con l’iniziativa Ferragosto in carcere, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale ha invitato i rappresentanti del mondo politico a visitare i reparti di detenzione, per portare idealmente la città all’interno dell’istituto penitenziario e al contempo portare fuori dalle mura di via Arginone informazioni e percezioni dirette sulle condizioni dei ristretti. La visita dei Consiglieri comunali avrà inizio alle 9.00 e sarà seguita da un incontro con i giornalisti. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Viterbo: carcere, assunto medico ortopedico a tempo indeterminato tusciaweb.eu, 13 agosto 2017 Assistenza sanitaria in carcere, assunto a Mammagialla un medico ortopedico a tempo indeterminato. È la dottoressa Loredana Pasquini cui, alla vigilia di ferragosto, è stato conferito l’incarico a tempo indeterminato di quattro ore settimanali di ortopedia presso la casa circondariale. La deliberazione del direttore generale Daniela Donetti è del 4 agosto. In base alle domande pervenute, la Asl ha pubblicato la graduatoria, comunicando il diritto di prelazione alla dottoressa Pasquini, che il 27 luglio ha presentato l’accettazione. Aperto e funzionante dal 14 febbraio del 1993, il carcere sulla Teverina, diretto da Teresa Mascolo, è costituito da tre padiglioni detentivi. La Asl di Viterbo, invece, ha preso in carico il servizio di medicina penitenziaria, transitato dal ministero della giustizia a quello della salute, soltanto a partire dall’ottobre 2008. Il responsabile Asl per il carcere è il dottor Giulio Starnini, responsabile anche del reparto di medicina protetta che dal 2006 si trova presso l’ospedale di Belcolle. In dieci anni di attività, tra marzo 2006 e marzo 2016, la medicina protetta di Belcolle ha effettuato 1993 ricoveri, di cui 1593 internistici (80%) e 400 chirurgici (20%). Sul fronte dell’assistenza sanitaria, invece, secondo una relazione del Simpse Onlus (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria), risalente al 2008, all’interno dell’istituto l’ottimale sarebbero almeno un infermiere per ognuno dei tre padiglioni (che contano ciascuno da un minimo di 60 ad un massimo di 300 detenuti) e due medici, nella fascia oraria dalle ore 7 alle 24, oltre a un medico e un infermiere nella fascia oraria dalle 24 alle 7. In base a dati risalenti ormai a quasi un decennio fa, il medico e l’infermiere penitenziario durante la giornata tipo devono fare fronte, a Mammagialla, ad almeno 50 interventi e distribuire almeno 600 terapie frazionate nell’arco delle 24 ore. Del personale alle dirette dipendenze dell’amministrazione penitenziaria fanno parte 327 agenti penitenziari, un numero comunque inferiore, secondo gli ultimi dati dell’amministrazione centrale penitenziaria, inferiore alle 405 unità previste. Il carcere, omologato per 432 detenuti, tanti quanto il numero delle stanze, dispone ovviamente di un’infermeria. Dispone, inoltre, per le attività e la socializzazione di una ludoteca, due campi sportivi, sei palestre, sei aule, un teatro, due biblioteche, due locali di culto, un laboratorio, tre officine. Attualmente, 31 detenuti sono iscritti al cosiddetto corso di alfabetizzazione, 35reclusi frequentano le superiori, 10 sono iscritti all’università. Sono 72 i detenuti impiegati nei servizi domestici, con turnazioni mensili. Sette invece sono impiegati in attività di sartoria e altri sette di falegnameria gestite da terzi. Biella: troppi detenuti e pochi agenti, in carcere una situazione esplosiva di Andrea Formagnana La Stampa, 13 agosto 2017 Continue aggressioni e personale esasperato: "Bisogna assumere nuovi agenti". Un carcere che scoppia, con troppi detenuti e pochi agenti. E la situazione rischia di diventare esplosiva. Lo hanno detto i poliziotti della penitenziaria, scesi in strada a protestare con un sit-in il 1° agosto. E lo confermano i numeri: i reclusi in via Dei Tigli, nel giro di due anni sono passati da 300 agli attuali 420 e presto potrebbero arrivare a 500. Nelle celle del nuovo padiglione-modello, al terzo letto è stato aggiunto il quarto. Ma all’incremento dei carcerati non corrisponde quello degli agenti, fermi a 160 quando dovrebbero essere in organico 238. La popolazione è per il 70% composta da stranieri e i reati per i quali stanno scontando la pena sono tra i più disparati. Per questo i detenuti avrebbero bisogno di trattamenti specifici. La questione-carcere, negli ultimi giorni, è stata affrontata anche dai parlamentari biellesi: Nicoletta Favero (Pd) e Roberto Simonetti (Lega) hanno voluto verificare di persona la situazione. Simonetti in settimana ha incontrato la direttrice Antonella Giordano: "Solo a luglio avevo presentato un’interrogazione. Dalla direttrice ho avuto conferma che dal ministero della Giustizia è stata chiesta una relazione per dare delle risposte". Aggiunge il deputato leghista: "Ad aggravare la situazione è l’arrivo di carcerati che provengono da altre strutture sature come San Vittore a Milano, a Marassi a Genova o il carcere di Padova. Vengono inviati quasi senza preavviso e chi gestisce la Casa circondariale deve trovare loro sistemazione in brevissimo tempo. La maggior parte sono stranieri che appartengono a gruppi etnici diversi e in conflitto tra loro, e nella composizione delle celle questo è un fatto che non può essere trascurato". La direttrice Antonella Giordano e il comandante della polizia penitenziaria appaiono impotenti di fronte a un’emergenza che non riguarda solo il carcere Biella. Gli agenti protestano, i carichi di lavoro e i rischi pure. L’altra settimana quattro uomini sono finiti in ospedale nel tentativo di calmare un detenuto. "I sottosegretari Ferri e Chiavaroli sono al corrente del clima teso che si respira nel nostro carcere - spiega la senatrice Pd Nicoletta Favero - e con altri colleghi terremo alta l’attenzione affinché si risolvano problemi di non poco conto". Per la senatrice "la qualità della vita in un carcere è indicatore del grado di civiltà", quindi bisogna assolutamente assumere nuovo personale. A essere carenti sono in particolare ispettori e sovrintendenti. I primi dovrebbero essere 25 e ce ne sono solo 4; stessa cosa per i sovrintendenti. Terrorismo. Gli ordini di morte per le stragi dell’Isis sono passati dall’Italia. E dalla Libia di Paolo Biondani e Alessandro Cicognani L’Espresso, 13 agosto 2017 Intercettazioni e documenti inediti sulla catena di attentati in Europa. Il terrorista di Berlino ucciso a Sesto fu attivato da altri complici. L’eccidio al concerto di Manchester pianificato da Dallas via Torino. Il Califfato nero ha trasferito covi e basi terroristiche dalla Siria a Tripoli. E dietro i "lupi solitari" c’è una brigata militare di veterani del jihad. L’inchiesta esclusiva sull’Espresso in edicola da domenica 13 agosto Gli ordini di morte per la strage di Manchester e per altri attacchi terroristici dell’Isis sono passati dall’Italia. Lo scrive l’Espresso, che nel numero in edicola da domenica 13 agosto ricostruisce, con documenti giudiziari e intercettazioni finora inedite, i primi risultati delle indagini internazionali sui più sanguinosi attentati commessi in nome del cosiddetto Stato Islamico. Sono inchieste scottanti, avviate in nazioni diverse e ancora in pieno svolgimento, che cominciano a decifrare come funziona e da quali ingranaggi è composta la macchina dello stragismo globale, in grado di mettere in moto singoli terroristi dal Medioriente al Nord Africa, dall’Europa agli Stati Uniti. Dietro una lunga serie di carneficine rivendicate dall’Isis - dagli attacchi con armi ed esplosivi di Parigi e Bruxelles, alle stragi di turisti in Tunisia, dal jihadista con il camion che ha travolto la folla il 19 dicembre 2016 a Berlino, all’eccidio di adolescenti all’uscita da un concerto il 22 maggio scorso a Manchester - le indagini stanno delineando una rete del terrore organizzata a sistema: non lupi solitari, non attentatori improvvisati e scollegati, ma un branco di potenziali kamikaze nascosti in Paesi diversi e pronti ad essere attivati a distanza. Le inchieste internazionali rivelano, inoltre, che gli strateghi del Califfato nero hanno trasferito covi e basi operative del terrorismo jihadista dalla Siria alla Libia, una nazione nel caos che ha mille legami con l’Italia. Anche Anis Amri, il terrorista del camion di Berlino, ucciso in una sparatoria con la nostra polizia a Sesto San Giovanni, risulta attivato da altri complici dalla Libia, non dalla Siria. I retroscena esclusivi dell’attentato di Manchester, con nuovi dettagli sui mandanti e sulla strategia scoperti dall’Fbi; Roberto Saviano racconta ai lettori cosa è e cosa fa Medici senza Frontiere e perché oggi come non mai è importante stare dalla sua parte, insieme alle analisi di Fabrizio Gatti e Roberto Esposito che spiegano perché le Ong sono diventate così "scomode". Il direttore Tommaso Cerno racconta cosa trovate sul numero in edicola da domenica 13 agosto Tra le nuove carte contro l’Isis c’è il testo di un’intercettazione impressionante sulla strage di Manchester: una conversazione importante, che ha spinto una squadra di magistrati federali statunitensi e poliziotti dell’Fbi a piombare in Italia a metà luglio per interrogare, per rogatoria, un giovane jihadista arrestato a Torino dai carabinieri del Ros. Gli inquirenti americani hanno scoperto che quel ragazzo di 28 anni gestiva dalla sua casa in Italia, all’insaputa di tutti gli amici e familiari, un canale segreto di comunicazione via Internet, utilizzato dai terroristi dell’Isis per reclutare jihadisti. E anche per organizzare attentati. In quel dialogo via Internet, intercettato dall’Fbi alcuni mesi prima della strage di ragazzini inglesi al concerto della cantante americana Ariana Grande, c’è un giovane aspirante terrorista che, dalla Gran Bretagna, chiede e ottiene l’autorizzazione a "uccidere civili con una bomba a Manchester". A dargli via libera sono un predicatore-ideologo abilitato a parlare dalla Siria in nome dell’Isis, chiamato con reverenza "sceicco", e un misterioso cittadino statunitense, poi arrestato dalle autorità americane come reclutatore di jihadisti. Entrambi, come il terrorista di Manchester, parlavano protetti da profili anonimi sul canale di messaggistica gestito dal ragazzo di Torino. Che era tra i soli cinque utenti autorizzati a intervenire in quella riservatissima comunicazione a distanza, ma è rimasto sempre zitto, in religioso silenzio. A Torino gli inquirenti americani non lo hanno trattato come un ipotetico complice, ma come un testimone: un prezioso ascoltatore passivo, uno dei pochissimi che hanno potuto sentire in diretta le comunicazioni tra i boss dell’Isis che pianificano gli attentati. L’inchiesta statunitense riguarda anche la strage di capodanno (39 vittime) in una discoteca di Istanbul affollata di turisti occidentali. Dopo l’arresto a Torino il giovane jihadista italo-marocchino, che si era radicalizzato molto in fretta con la micidiale propaganda del califfato su Internet, sembra aver preso le distanze dall’Isis con altrettanta rapidità: secondo il suo avvocato italiano, "ha deciso di collaborare con la giustizia". Se queste parole verranno confermate dai fatti, il suo ruolo chiave nelle comunicazioni segrete tra terroristi potrebbe farne il primo pentito italiano dell’Isis. Migranti. Il nostro nemico comune è il traffico di esseri umani di Luciano Violante Corriere della Sera, 13 agosto 2017 Caro direttore, è totalmente infondata la polemica contro le regole che il governo italiano ha fissato per le navi che prendono a bordo i migranti. Quelle regole, approvate anche dall’Unione Europea, non impediscono i soccorsi, ma stabiliscono le condizioni per effettuarli in condizioni di sicurezza e per evitare che i trafficanti utilizzino le Ong come anello del loro disumano commercio. Le autorità giudiziarie stanno accertando se in alcuni casi siano intercorsi addirittura accordi tra trafficanti e le navi di qualche Ong. Indipendentemente dall’esito di quegli accertamenti, è evidente che quando alcune navi sostano in mare aperto allo scopo di ricevere persone che navigano su barche di fortuna, quelle navi diventano, nonostante le migliori intenzioni, un elemento del traffico di esseri umani, un fattore che lo incentiva e che massimizza gli utili delle bande criminali. È perciò del tutto legittimo che uno Stato fissi regole e sanzioni per fare in modo che l’attività di raccolta dei migranti risponda a indiscutibili valori civili, ma non diventi un anello, per quanto involontario, del traffico. La visione prevalentemente bellica che molti mezzi di comunicazione danno delle discussioni politiche impedisce a volte di guardare al fondo dei problemi. Prevale la ragion banale, quella che si ferma in superficie, ignora la complessità dei problemi e riduce tutto ad una logica di schieramento. Non basta accogliere. Bisogna impedire che i ragazzi finiscano nel giro dei pusher e che le ragazze, una volta arrivate, siano costrette alla prostituzione da organizzazioni criminali imparentate con quelle che le hanno fatte partire. Bisogna prevenire i conflitti sociali sui quali soffiano forze più interessate al consenso che ai valori civili. Qualche settimana fa ero in Calabria e tornavo dall’Università di Arcavacata. Mi fermo per strada a prendere un caffè. Di fronte ci sono cinque o sei ragazzi neri che discorrono garbatamente tra loro. All’uscita dal bar mi ferma un signore anziano e mi chiede: "Mi spiega perché lo Stato per ognuno di quelli spende 35 euro al giorno e a mio figlio che è disoccupato non dà niente?". Questi problemi possono essere affrontati con una strategia che non si limiti all’accoglienza, ma che si occupi anche delle partenze. I cittadini sono disposti a qualche sacrificio se vedono che c’è una politica, un complesso di scelte razionali e difese da chi le ha proposte. Non ha senso varare delle regole e poi permetterne la violazione soprattutto quando quelle regole stanno cominciando a dare frutti. Se le partenze fossero libere e addirittura incentivate dalla certezza che dopo brevi tratti ci sarà una nave pronta per l’accoglienza, sarebbe difficile praticare una seria politica per la immigrazione. E se molti di coloro che arrivano, devono poi essere rimandati indietro perché privi dei titoli per fermarsi o per transitare, è umano dare corpo ad una illusione destinata a sgonfiarsi di lì a poco? Rispettare le regole è una forma di civiltà. Non rispettarle significa incentivare il caos, all’interno del quale prevale chi ha la forza, non chi ha il diritto. I valori migranti della sinistra in stato di choc di Tommaso Cerno L’Espresso, 13 agosto 2017 La polemica sulle Ong, le critiche a Minniti. Il Pd cade nella trappola della destra che vuole trattare i profughi come un’emergenza. Mentre è il fenomeno globale su cui si gioca la sopravvivenza dei progressisti. Su Twitter devono avere scoperto che l’essere umano da circa tremila anni discute, magari non in chat, del dualismo fra Giustizia e Legge. La solo apparente antinomia fra l’uso della forza da parte di uno Stato per ragioni pratiche e il più alto dovere dell’Uomo di immaginare e realizzare un mondo senza ingiustizie. Si tratta di una dicotomia antica, di non difficile comprensione, in virtù della quale schierarsi con "Medici senza frontiere", come Roberto Saviano e, poi, molti altri hanno fatto, dovrebbe essere un automatismo, soprattutto a sinistra. Eppure, al tempo stesso, non crea un reale conflitto con la scelta - per me inutile, prima ancora che dannosa - del ministro Marco Minniti e del suo codice. Riassumendo: il capo dell’Interno impone alle Ong di imbarcare poliziotti armati, esercitando - in modo un po’ spiccio, se vogliamo - il cosiddetto diritto positivo (dal latino positum, non vuol dire che è buono), ovvero la forza che uno Stato utilizza su un territorio attraverso le norme per un dato fine. In questo caso la presunta sicurezza dei mari. Ma ecco che Minniti si sente rispondere di no proprio dalle Ong come Medici senza frontiere, quelle cioè che non hanno nulla da nascondere né a lui né ad altri e che, pur nel rispetto delle regole, lavorano per una più alta idea di Giustizia, come spiega il filosofo Roberto Esposito. È così normale che l’ennesimo scontro fra tifoserie in Italia sembra assurdo. Ma il fatto più grave è che ci sia cascata la sinistra. Caduta nella trappola della destra che vuole trattare la questione mediterranea (discutendo, fra l’altro, di una Ong tedesca marginale nelle dinamiche che investono oggi la Libia) come un’emergenza. Visione dal fiato corto. Al contrario, la grande migrazione di inizio millennio non è nemmeno cominciata. E capire questo, cercando i contenuti e i tavoli giusti per discuterne, con soluzioni che anelino alla Giustizia, è il campo su cui si giocherà l’esistenza stessa di una sinistra in Europa nei prossimi decenni. Invece già si arranca adesso, litigando fra Minniti, Del Rio e Salvini (con tutto il rispetto per i tre), anziché renderci conto che in gioco c’è il senso da dare in futuro alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che afferma la circolazione degli "human being", oggi di fatto negata per ragioni economiche e geopolitiche, fino a costringere dei volontari in nave a sostituirsi all’Occidente che dopo la Seconda guerra mondiale s’era erto a garante dei diritti. Se la sinistra non fa questo salto, significa che ha fretta di soccombere, come ha già scritto Ezio Mauro su Repubblica. Inutile aggiungere che il ritornello della "fuga dalle guerre" per quietare gli animi degli elettori spaventati è un rifugio temporaneo. La sinistra non ne uscirà aprendo o chiudendo un porto, ma spostando il timone sui valori fondanti del suo nucleo: l’uguaglianza fra le persone. E in tema di migranti anche la guerra è una scorciatoia. Sappiamo bene, da molti anni, che in molti paesi non sono in corso conflitti armati, ma la causa che spinge gli "human being" ad abbandonare la propria terra è un nuovo tipo di invasione e, quindi, di guerra: il land grabbing. Una guerra che mette il "centro del mondo" contro le sue periferie, quasi una nemesi della crisi delle nostre città ormai divise in due blocchi sociali. Un fenomeno che ha assunto dimensioni rilevanti a partire dal 2007, l’anno della crisi dei prezzi dei prodotti agricoli. Speculatori soprattutto cinesi cercarono e trovarono nuove terre su cui insediare produzioni intensive di beni primari come prodotti agricoli e biodiesel. È per questo che l’Africa subsahariana e centrale sono diventate "terre di conquista". Con le multinazionali che esercitano pressioni sui governi dietro la promessa di acquedotti e strade, ospedali e scuole. Non è un tema di cui si parla a Palazzo Chigi. Che Minniti ci sia o che diserti il Cdm. Eppure è ciò di cui si dovrebbe parlare. E da cui dipende la vita di quelle persone. E il futuro della sinistra. Migranti. Medici Senza Frontiere: "testimoni scomodi, andiamo via" di Adriana Pollice Il Manifesto, 13 agosto 2017 Guerra alle Ong. Intervista al presidente di Medici Senza Frontiere Loris De Filippi "Sospendiamo le operazioni nel Mediterraneo. Siamo prigionieri tra il Codice Minniti e le minacce libiche". Anche Save the Children minaccia lo stop ai soccorsi "se non ci saranno condizioni di sicurezza". "I libici, con l’avallo dell’Italia, stanno avendo un atteggiamento molto minaccioso, per questo sospenderemo la nostra azione nel Mediterraneo centrale in attesa di capire meglio. Non possiamo mettere in pericolo la vita dei nostri colleghi. Se saremo costretti, abbandoneremo il capo": il presidente di Medici senza frontiere, Loris De Filippi, annuncia la sospensione delle operazioni della nave Vos Prudence. Il Viminale venerdì ha aggiunto un addendum al Codice di condotta per le Ong. Sos Méditerranée ha deciso di firmare mentre Msf resta ferma sulla sua posizione: "Il discorso tecnico sulle modifiche al codice per noi passa in secondo piano, i recenti sviluppi mostrano che c’è un disegno più ampio del governo italiano in accordo con la Guardia costiera libica per sigillare i confini e intrappolare i migranti". De Filippi, cos’è che non va nelle regole del ministero? Firmare non significa entrare in un sistema Sar di Ricerca e soccorso in mare ma partecipare a un progetto politico con il quale si decide di far gestire i flussi di migranti ai libici, un progetto in cui noi non vogliamo entrare. Rispetto alla versione precedente, l’addendum non contiene niente di rivoluzionario, fa delle concessioni funzionali a far firmare le Ong che si erano rifiutate ma non cambia l’impianto del discorso. Non aderiamo a un impegno a seguire il governo italiano in azioni che non hanno una finalità umanitaria. Cosa cambia per voi con il codice Minniti? Bisogna leggerlo accanto alle prese di posizione degli attori libici. Di fatto, il governo ha deciso di terziarizzare la gestione dei flussi migratori, così si passa da condizioni difficili a più difficili nei campi dove vengono ammassate le persone ricondotte indietro. Non sono campi, sono carceri. Le autorità libiche hanno chiaramente detto che non vogliono le Ong né nelle loro acque territoriali e nemmeno entro le 23, 24 miglia dove finora ci posizionavamo. Dovremmo stare oltre questa fascia per centinaia di chilometri, altrimenti rischiamo. Finora era invece permesso effettuare operazioni di Ricerca e salvataggio fino a 11miglia dalla terraferma. Nel 2016 ci spararono 13 colpi e la situazione era più stabile, ora che hanno un accordo con il governo italiano noi rischiamo altri attacchi. Siamo preoccupati, abbiamo deciso di sospendere l’attività della nostra nave Vos Prudence, mentre l’equipe medica di Msf continuerà a fornire supporto all’Aquarius di Sos Méditerranée. Terrete aperte le comunicazioni con il Viminale? Per ora ci fermiamo fino a che non avremo chiarimenti dalla Guardia costiera libica. Continuiamo ad avere contatti con loro e con il governo italiano. Proprio il Centro di coordinamento delle soccorso in mare di Roma venerdì ci ha inoltrato una comunicazione con cui ci avvisavano di stare miglia lontano dalla costa libica a causa delle minacce della Guardia costiera locale contro le Ong. Cosa succede se la Libia estende la sua zona Sar e impedisce alle Ong di entrarci? La Guardia costiera può effettuare i respingimenti entro le sue acque territoriali. In zona Search and rescue il codice internazionale dice che non è possibile. Se la linea Sar aumenta oltre le 90miglia, come vorrebbero fare, e le Ong non possono entrarci, allora ci saranno meno navi pronte a soccorrere le persone prima che anneghino. Chi non annegherà verrà intercettato e riportato in Libia. Non ci saranno testimoni terzi a osservare i respingimenti. L’Italia di questo si sta rendendo complice: solo navi della marina o natanti che hanno accettato il progetto politico implicito nel Codice saranno in zona. L’Europa appoggia l’iniziativa dell’Italia... È quello che hanno già fatto in Turchia: pagare Erdogan per chiudere il corridoio verso la Siria, in quel caso si trattava di 10 chilometri. Nel caso della Libia sono 1.400 chilometri, la possibilità che i migranti tentino di passare è alta, respingerli significa consegnarli a carceri che non solo questi pericolosi estremisti di Msf ma anche Amnesty International, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e testimoni diretti come Domenico Quirico descrivono come inumani. Cosa farà adesso Msf? In nessun modo appoggeremo un progetto di Ricerca e salvataggio con fini diversi da quelli umanitari, il nostro è un sistema Sar indipendente sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana e nel rispetto delle regole marittime. Se ci impediscono di entrare nei porti, se la Guardia costiera libica, con l’avallo dell’Italia, ha un atteggiamento aggressivo contro le Ong tenendoci oltre le 90 miglia o più, andremo via dal Mediterraneo centrale. Per ora vediamo cosa succede ma, mi sembra, che la possibilità di azione sia compromessa. Chiediamo alle autorità italiane e libiche di assicurare l’incolumità di chi effettua operazioni di soccorso e la possibilità di sbarcare in un porto sicuro. Migranti. Noury (Amnesty Italia): "i centri d’accoglienza in Libia sono in realtà prigioni" di Leonardo Filippi Ledft, 13 agosto 2017 Il codice di condotta per le Ong e la missione navale italiana in supporto alla Guardia costiera libica per arginare l’immigrazione verso il nostro Paese: il governo si affida a questa doppia manovra per fermare gli sbarchi. Dimenticandosi - però - dei diritti umani. A ribadirlo a Left, è il portavoce di Amnesty Italia Riccardo Noury: "Delle due l’una: o la Libia effettuerà respingimenti coadiuvata dall’Italia, perciò l’Italia sarebbe complice di respingimenti illegittimi, oppure l’Italia potrebbe compiere queste operazioni con le sue navi, passando poi ai libici le persone intercettate, e in quel caso l’Italia sarebbe direttamente responsabile di tali respingimenti". Qualsiasi azione che crei un blocco indiscriminato costituirebbe una grave violazione dei diritti, insomma. "Esatto, senza considerare poi che i centri d’accoglienza libici dove verrebbero condotti i respinti sono in realtà delle prigioni, alcune delle quali informali, magari vecchi capannoni industriali, o alberghi, o addirittura case private. Chiamarli "centri d’accoglienza" è del tutto sbagliato, sono luoghi di detenzione nei quali non c’è alcuna garanzia per l’incolumità fisica delle persone. Sappiamo che avvengono stupri e torture quotidianamente, ci sono prigionieri detenuti in ostaggio fino a quando i familiari non pagano, prigionieri venduti da una banda criminale all’altra. E, se noi contribuiamo a rafforzare questo sistema illegale, ne siamo pienamente complici. Perché questa operazione così aggressiva, quando gli sbarchi sono in diminuzione? Io la vedo così: la missione navale e la campagna di delegittimazione delle Ong sono la parte pubblica di un disegno più ampio. Nella parte pubblica si vuole mostrare al popolo, che fra poco andrà al voto, che si è duri e decisi nei confronti di un "fenomeno ingestibile", e io immagino che la politica neanche ci creda fino in fondo a questa parte. Poi c’è la parte sostanziale, quella meno visibile e più efficace, a causa della quale le partenze stanno diminuendo, che si svolge a sud della frontiera libica, dove le tribù sono state pagate - non sappiamo quanto perché non c’è trasparenza su questo - per bloccare la frontiera meridionale, e nello stesso tempo la cooperazione sempre più intensa con Niger e Sudan fa sì che il blocco dei migranti venga effettuato quasi nel loro punto di partenza. Tant’è che, per esempio, del milione di rifugiati che ha prodotto il conflitto in Sud Sudan, pochi decine di migliaia sono in Sudan, ma 900.000 e più sono in Uganda, hanno - cioè - preso la direzione opposta. Il punto è che i fondi per la cooperazione spesso sono poco trasparenti; sono fondi destinati in un certo senso allo "sviluppo", si, ma allo "sviluppo" di regimi dittatoriali. Quale è la sua opinione sul codice di condotta per le Ong? Amnesty International non deve cadere nello stesso errore che hanno fatto coloro che hanno promosso la campagna di demonizzazione delle Ong. Le Ong sono tante. Così come le leggi Ong non sono tutte il male, non è detto che siano tutte il bene. Io le mani sul fuoco ce le metto per quelle che conosco, come Medici Senza Frontiere. Dopodiché, si sta discutendo da giorni sulla differenza tra soccorrere una barca in difficoltà, considerato legittimo, e trasbordare persone da una barca momentaneamente fuori pericolo, considerato sbagliato. In realtà, manca la controprova che lasciare persone su una barca fatta arrivare fin lì dai trafficanti, sebbene sia ancora a galla, sarebbe la scelta migliore. Insomma, non c’è bisogno che vada in avaria la barca per definire come "in pericolo" persone che sono sotto ostaggio di trafficanti in una barca guidata da uno scafista. A volte poi soffermarsi troppo sui cavilli giuridici fa dimenticare la dimensione umana del dramma. Si. Guardando solo alle leggi, se poi si dimostrasse che la missione italiana del punto di vista di diritto internazionale fosse del tutto legittima, saremmo costretti a dare ragione a chi quella missione l’ha sostenuta. Mentre invece il punto è un altro. Il senatore Esposito l’ha esplicitato per bene, affermando "le Ong ideologicamente pensano solo a salvare le vite umane noi non possiamo permettercelo". Cioè noi, nel senso "le istituzioni italiane", "il governo italiano", non se lo possono permettere. Ecco, questa frase illustra bene il crollo etico della politica che stiamo vivendo. Arabia Saudita. Dieci premi Nobel contro le sentenze di morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 agosto 2017 In una lettera inviata a re Salman chiedono che sia salvata la vita a Mujtaba Sweikat e ad altri 13 giovani sciiti condannati per "terrorismo" e che in realtà avevano diffuso informazioni sulle manifestazioni contro la monarchia. Le confessioni, denunciano, sono state estorte con la forza. È una corsa contro il tempo per salvare la vita di Mujtaba al Sweikat e altri 13 giovani sciiti arrestati nel 2012 e condannati a morte per "terrorismo" da un Tribunale saudita. I centri internazionali per la difesa dei diritti umani sono convinti che i tempi dell’esecuzione di massa si siano fatti terribilmente stretti. Così dieci vincitori del premio Nobel per la pace - tra i quali Desmond Tutu, Tawakkol Karma, Shirin Abadi e Mairead Maguire - hanno deciso di rivolgersi direttamente a re Salman e al principe ereditario Mohammed per fermare il boia. I toni che usano nella lettera inviata al monarca e all’erede al trono non sono certo pacati. I premi Nobel denunciano che i 14 in attesa della decapitazione sono stati condannati al termine di un processo sommario e sulla base di confessioni estorte con la violenza. Mujtaba al Sweikat non aveva ancora 18 anni quando è stato arrestato. La sua "colpa" è stata quella di aver amministrato un gruppo su Facebook che riferiva delle manifestazione di protesta contro la monarchia. Durante gli interrogatori, denunciano gli attivisti sauditi, gli hanno fratturato una spalla. Un altro condannato a morte, Ali al Nimr, aveva "osato" inviare foto delle dimostrazioni. Un altro ancora, Munir Adam, è sordo e cieco. I premi Nobel chiedono non soltanto l’annullamento delle condanne a morte. Insistono affinché l’Arabia saudita rispetti le leggi internazionali e i diritti dell’uomo. Tutto regolare invece per il portavoce del ministero della giustizia saudita, Mansour al Qafari. Spiega che "tutti gli imputati in Arabia Saudita ricevono un processo giusto" e che le condanne a morte sono riviste da una corte d’appello e dalla Corte suprema, con un totale di 13 giudici che esaminano ogni caso. Saranno pure riesaminate dai massimi giudici del Paese ma quelle sentenze vengono annullate o modificate solo in casi eccezionali. Dietro la maschera della "lotta al terrorismo" si giustifica tutto in Arabia saudita, Paese dove i leader religiosi sunniti wahhabiti considerano i cittadini sciiti "apostati" e alleati naturali dei nemici iraniani. Per questo le forze di sicurezza e l’esercito hanno intensificato i rastrellamenti nell’area di Qatif, nelle regioni orientali del Paese a maggioranza sciita, comportandosi come se fossero in guerra. Ai morti e agli arresti si aggiunge la distruzione, quasi totale, della città di Awamiya (40mila abitanti) roccaforte dell’opposizione sciita. Egitto. Italiano arrestato a Marsa Alam, resta un giallo la morte del direttore di un hotel La Stampa, 13 agosto 2017 Si trova al momento in stato di fermo per quattro giorni il turista italiano che ieri è stato arrestato in un resort di Marsa Alam, sul Mar Rosso, con l’accusa di aver ucciso un egiziano dopo una violenta lite poi degenerata. L’uomo, assistito da un legale, è stato ascoltato oggi dalle autorità giudiziarie di Hurghada, dove è stato posto in "arresto provvisorio", fanno sapere fonti della Farnesina, mentre sono ancora in corso gli accertamenti per chiarire la dinamica dell’accaduto. Secondo le prime ricostruzioni fornite dalle autorità egiziane, il diverbio tra i due è scoppiato quando l’italiano (identificato dagli egiziani con il nome di Ivan Pascal Moro) è entrato, con le sue figlie di 6 e 15 anni, in una zona vietata della spiaggia dell’hotel ancora in costruzione. L’egiziano (inizialmente indicato come un manager dell’hotel, poi come un tecnico dei lavori) ha fatto notare al turista che non poteva restare lì per motivi di sicurezza. A quel punto la lite tra i due è degenerata, e circa un’ora dopo l’egiziano si è sentito male ed è morto. Secondo Samia Sami, responsabile degli Interni presso il ministero del Turismo, l’italiano "ha ammesso di aver colpito" la vittima che, a quanto si apprende, era cardiopatica e aveva subito due interventi al cuore. Si attendono ora i risultati dell’autopsia, annunciata per oggi dal direttore della polizia turistica, generale Moustafa Onsi. Intanto le due figlie di Moro sono state poste sotto la tutela dell’Ambasciata italiana al Cairo e affidate al console onorario Alberto Barattini. La madre le sta raggiungendo sul Mar Rosso per riportarle già domani in Italia. La missione diplomatica italiana "segue d’intesa con la Farnesina e in stretto contatto con le autorità locali la vicenda del connazionale", hanno fatto sapere già nella serata di ieri dal ministero degli Esteri. E dal canto loro, anche le autorità egiziane hanno assicurato collaborazione. Ma il nuovo incidente arriva un anno e mezzo dopo il drammatico caso di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso in Egitto nel gennaio 2016 in circostanze ancora da chiarire. L’Italia chiede ancora di conoscere la verità sull’accaduto che ha portato a una profonda crisi nelle relazioni tra i due Paesi. Da allora, l’ambasciatore italiano non è mai rientrato al Cairo. Venezuela. Diritti umani violati nelle carceri, la denuncia dei vescovi agensir.it, 13 agosto 2017 "Si fermi la caccia alle streghe". È l’appello dei vescovi venezuelani riportato in un comunicato della Conferenza episcopale locale. Un documento in cui si denunciano gli "oltraggi" - così sono chiamati - soprattutto verso prigionieri politici e criminali comuni. Nella nota, si parla di "trattamento crudele e disumano" nelle carceri, di "mancanza di igiene" e di "mancato rispetto del giusto processo". I vescovi chiedono la fine delle "persecuzioni e delle torture fisiche e psicologiche". Il presidente Usa, Donald Trump, non ha escluso l’opzione militare in Venezuela. Questo poche ore dopo l’apice della crisi con la Corea del Nord. Venti di guerra, da una parte all’altra del mondo. Il presidente venezuelano Nicolas Maduro è al centro delle osservazioni internazionali. Il responsabile del Comitato contro la tortura dell’Onu, Jens Modvig, ha parlato di "deterioramento dei diritti". La parola "dittatura" è stata utilizzata dal presidente peruviano, Pedro Kuczynski. Parlerò con Maduro solo quando sarà ristabilita la democrazia: questa, in sintesi, la risposta di Donald Trump dopo che il leader venezuelano aveva espresso la volontà di intrattenere con lui un colloquio. Paesi come Colombia, Cile, Argentina e Panama - ha fatto sapere il vicepresidente americano, Mike Pence, hanno preso posizione contro il "regime". Mentre la tensione aumenta, il ministro venezuelano della Difesa, Vladimir Lopez, ha annunciato la cattura di quelli che sono ritenuti gli autori di un attacco, compiuto domenica scorsa, contro una caserma militare nel centro nord del Paese. Camerun. Torture e persecuzioni in paese già scosso di Matteo Melani prideonline.it, 13 agosto 2017 Situata nell’Africa equatoriale dove l’arretratezza accomuna tutti gli stati, negli ultimi tempi la Repubblica del Camerun è finita al centro delle cronache per il mancato rispetto dei diritti umani. Nel mirino delle autorità ci sono sospettati di terrorismo e omosessuali che subiscono persecuzioni e violenze. La crisi economica e delle garanzie si estende anche nelle zone di foresta, dove la tribù dei Baka vede ogni giorno la negazione alle proprietà e alle risorse. Le torture ai presunti fiancheggiatori del terrorismo. Solo perché sospettati di appoggiare la strategia di Boko Aram, le forze dell’ordine camerunensi riserva loro trattamenti di violenza. Secondo il rapporto "Stanze segrete di tortura in Camerun: violazioni dei diritti umani e crimini di guerra nella lotta contro Boko haram" elaborato da Amnesty International, tra il 2013 e il 2017 ci sarebbero stati 101 casi di avvenute torture. Ci sarebbero 24 metodi diversi che le forze del Camerun riservano ai detenuti: dal pestaggio a sangue all’annegamento fino alla costrizione in posizioni lancinanti. Quest’ultimo trattamento sembra il più crudele. Alcuni detenuti hanno raccontato della posizione "della capra", cioè l’immobilizzazione degli arti dietro la schiena e le percosse. Un’altra tecnica adoperata ai danni dei sospettati è "l’oscillazione", con le vittime appese con gli arti legati dietro la schiena e picchiati. Trattamenti che descrivono la totale mancanza di garanzia nei confronti di altri esseri umani, seppur sospettati di sposare la teorie stragiste. "Abbiamo condannato ripetutamente e inequivocabilmente le atrocità e i crimini di guerra commessi da Boko haram - ha detto Alioune Tine, direttore di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale, ma nulla potrebbe giustificare la pratica della tortura commessa dalle forze di sicurezza contro i civili, spesso arrestati senza alcuna prova e costretti a sopportare dolori inimmaginabili". La guerra contro l’omosessualità. Anche contro gli omosessuali in Camerun vanno avanti le persecuzioni. Violenze, discriminazioni e arresti sono all’ordine del giorno. La colpa è solo una: l’orientamento sessuale. Lì l’omosessualità è considerata una violazione della legge contemplata dal codice penale, che prevede misure che vanno dall’ammenda fino a 6 anni di carcere. C’è chi è costretto a nascondersi e chi emigra. Nel 2011 aveva fatto scalpore l’incriminazione di due uomini accusati di omosessualità perché trovai vestiti da donna a una festa. Dopo la prigionia e maltrattamenti subiti, i due sono stati condannati in primo grado e poi prosciolti in appello. Tribu dei Baka: una comunità senza diritti. Nel frattempo la popolazione dei Baka continua a subire i soprusi delle grandi compagnie del legno, venendo depredati delle proprie terre. Con la complicità del governo camerunense uomini, donne e bambini vengono sfrattati dalle loro dimore, situate prevalentemente in zone di foresta. Per alcuni abitanti è diventato quasi una necessità aderire al bracconaggio. Cina. Attivista in gravi condizioni di salute. Amnesty International: "liberatela!" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 agosto 2017 Su Changlan, 45 anni, attivista per i diritti delle contadine e sostenitrice del movimento per la democrazia di Hong Kong, versa in condizioni di salute sempre più gravi a causa dell’ipertiroidismo e di disturbi cardiaci, fiaccata da ormai quasi cinque anni di privazione della libertà e di cure mediche inadeguate. Arrestata alla fine di ottobre del 2014, il 31 marzo di quest’anno - dopo quasi due anni e mezzi di detenzione preventiva. Su Changlan è stata condannata a tre anni di carcere per "incitamento a sovvertire i poteri dello stato", usando i social media per diffondere voci infondate e diffamatorie e per ripubblicare articoli contenenti critiche al sistema socialista. Le condizioni del carcere di Foshan, dove sta scontando la pena, sono incompatibili col suo stato di salute. Secondo il suo avvocato, Su Changlan è detenuta in una cella di circa 80 metri quadri che ospita da 50 a 70 prigioniere. I servizi igienico-sanitari sono del tutto inadeguati e le cure mediche insufficienti. E dire che, tenendo conto del periodo già trascorso in detenzione preventiva, a Su Changlan potrebbe mancare poco tempo per terminare di scontare la pena. Ciò nonostante, finora le autorità cinesi hanno rifiutato di disporre la scarcerazione per motivi di salute. Amnesty International ha scritto a Guo Shengkun, ministro della Giustizia di Pechino, sollecitandolo a prendere quel provvedimento. Non c’è altro tempo da perdere.