Se la rabbia diventa il primo partito di Bruno Vespa Il Mattino, 12 agosto 2017 "La rabbia non è solo fascista", disse Alessandro Di Battista nel 2015 difendendo il disagio in una periferia romana che aveva suscitato le proteste di Casapound. Aveva ragione. È il successo perdurante - tra alti e bassi - del Movimento 5 Stelle sta nell’aver saputo incanalare quella rabbia in un filone ideologicamente indecifrabile. Basti ricordare la tolleranza sull’"abusivismo di necessità" accennata l’altro giorno da Giancarlo Cancelleri, candidato del partito a governatore della Sicilia. Roba da sindaci meridionali degli anni 60 e 70. È difficile che alle prossime elezioni politiche gli elettori saranno ispirati ancora dagli schieramenti tradizionali. Si prenda il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Lo conobbi negli anni 90 quando era uno dei consiglieri più intelligenti di Massimo D’Alema. Figlio di un generale dell’Esercito, era stato un comunista a tutto tondo, segretario del Pci nella sua Reggio Calabria e poi nella regione prima degli incarichi nazionali. Ha seguito tutte le declinazioni del partito, fino al Pd. La sua politica dell’immigrazione è di sinistra? No. Di destra? Nemmeno. È una politica di buonsenso. Il 28 giugno Minniti era su un volo di Stato per Washington quando ha saputo che tredicimila immigrati erano diretti in Italia su 27 navi. Ha annullato gli impegni americani, ha invertito la rotta, è rientrato in Italia e ha dato la sterzata che ha dimezzato in luglio e nei primi dieci giorni di agosto gli arrivi dalla Libia. Da politico fine, è andato in Vaticano a spiegare che la misericordia deve essere compatibile con l’ordine pubblico e ha ottenuto che il nuovo presidente della Cei facesse altrettanto. Roberto Saviano e altri della sinistra-sinistra strillano come aquile, ma Minniti (sostenuto da Mattarella e Gentiloni) va avanti per la sua strada, l’unica percorribile. Cambiamo fronte. Silvio Berlusconi sta vivendo la sua ennesima giovinezza personale e politica. Dimagrito, disteso, trattato con rispetto da tutti, anche dai giornali che lo hanno appeso per vent’anni alla forca. Che cosa vuole fare il Cavaliere? La rivoluzione, dice sorridendo. Vuole un’aliquota ragionevole di "tassa piatta" uguale per tutti (provvedimento di "destra"), aumentando fortemente la fascia esente (provvedimento di "sinistra"). È molto impressionato dal disagio di milioni di persone. Se il suo partito andrà al governo, vuole perciò portare il minimo della pensione a mille euro (come fece nel 2001 con il minimo a un milione di lire) e studiare un reddito minimo garantito che salvi tanta gente dalla miseria senza scoraggiarne la ricerca di un lavoro. Provvedimenti, questi, di "sinistra" adottati - se ci riuscisse - con privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica che sarebbero invece di "destra". In Inghilterra non ci sarebbe stato Blair se non ci fosse stata la Thatcher. Negli Stati Uniti non ci sarebbe stato Clinton senza Reagan. E in Italia Renzi senza Berlusconi. E se andiamo un po’ più indietro, gli stessi elettori centristi due volte hanno fatto vincere Prodi e due Berlusconi sulla base di considerazioni pratiche e non ideologiche. Rispetto a quei tempi, le parole Destra e Sinistra hanno perso ulteriormente di significato. L’ha capito benissimo Beppe Grillo che raccoglie rabbia unisex. Se i partiti tradizionali vogliono batterlo, si ispirino ad Abramo Lincoln, che non era certo un conservatore: "Non si rafforzano i deboli indebolendo i forti. Non si aiutano i salariati schiacciando i datori di lavoro. Non si promuove la fratellanza fomentando l’odio di classe. Non si aiutano i poveri distruggendo i ricchi". Diceva Margaret Thatcher che se il buon Samaritano non avesse avuto un po’ di soldi, non avrebbe combinato niente. Giudici e politica, che pensa il M5S? di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2017 Il 27 e 28 luglio, due avvenimenti apparentemente slegati tra loro, hanno riguardato due magistrati che hanno avuto, per così dire, la "fortuna" di ricoprire importanti incarichi (fuori ruolo) nel gabinetto del ministro di Giustizia non esercitando, così, per alcuni anni, le gravose funzioni giurisdizionali. Il primo caso riguarda il magistrato Giovanni Melillo il quale - pur non avendo mai avuto la direzione di un ufficio giudiziario e pur non avendo, negli ultimi anni in cui è stato capo gabinetto del Guardasigilli, svolto funzioni giurisdizionali - è stato dal Csm preferito nell’incarico di Procuratore della Repubblica di Napoli ad altro magistrato che, in quegli stessi anni, non solo svolgeva, con eccezionali risultati, le funzioni inquirenti, quanto dirigeva la Procura di Reggio Calabria, in prima linea nel contrastare la più temibile delle associazioni criminali. Il secondo caso riguarda il magistrato Luigi Birritteri, già vice-capo gabinetto del ministro di Giustizia e, poi, per anni, potente capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Birritteri, con decreto emesso il 28 luglio dal presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri, è stato nominato consigliere di Stato, incarico per il quale è richiesta "una valutazione di piena idoneità sulla base (an- che) degli studi giuridico-amministrativi compiuti". Non vi è dubbio che Birritteri - già attivo militante nella magistratura associata (ha ricoperto la carica di presidente della giunta dell’Anm di Agrigento) - sia stato un valido magistrato penale impegnato, (come gip, gup, giudice a latere in Corte di Assise e sostituto procuratore generale di Caltanissetta) in processi di criminalità organizzata sostenendo l’accusa in processi di mafia quali la strage in cui rimase ucciso Rocco Chinnici e quella dell’Addaura contro Giovanni Falcone. Era, pertanto, auspicabile che un magistrato il quale ha svolto le funzioni di pm e giudice penale anche in importanti processi di contrasto al crimine organizzato, continuasse a fornire il suo contributo nell’ambito della magistratura ordinaria, anziché transitare definitivamente nei ruoli del Consiglio di Stato previa "valutazione di piena idoneità sulla base (anche) degli studi giuridico-amministrativi compiuti". "Valutazione di piena idoneità" che vi sarà stata anche per altro magistrato nominato, con medesimo decreto, consigliere di Stato, Monica Tarchi, in servizio presso il Tribunale del Riesame di Firenze, con un lungo fuori ruolo prima all’ufficio legislativo del ministero di Giustizia, poi presso il ministero per le Politiche europee con funzioni di Consigliere giuridico ed, infine, ancora al ministero di Giustizia presso l’ufficio dell’ispettorato generale. Questi episodi impongono alcune considerazioni. Il Csm non è - a differenza di quanto "pontifica" il suo vicepresidente, avvocato Legnini - diverso da quelli precedenti e non lo sarà mai fino a quando non sarà reciso il perverso cordone ombelicale che lega i componenti togati alle correnti dell’Anm e i componenti laici (sempre più) alla politica (non si era mai visto che un sottosegretario in carica diventasse vicepresidente del Csm). Probabilmente non si riuscirà mai a emanare una normativa che costringa i magistrati a far solo i magistrati e a esercitare esclusivamente le funzioni giurisdizionali per svolgere le quali hanno partecipato al concorso in magistratura e, cioè, redigere e scrivere sentenze, e i provvedimenti di competenza, partecipare alle udienze, svolgere indagini, scrivere richieste e requisitorie, il tutto a tempo pieno con esclusione di esenzioni totali o parziali di qualsiasi genere. La giustizia ne guadagnerebbe sia in efficienza che in trasparenza eliminando in radice il sospetto di possibili condizionamenti. La terza considerazione è che il Consiglio di Stato deve essere costituito esclusivamente da coloro che, in possesso di determinati requisiti, abbiano superato il relativo concorso e dai magistrati dei Tar che ne facciano richiesta, con esclusione dell’odioso privilegio accordato all’esecutivo di nominare un quarto dei componenti. Si eliminerebbe, così, il sospetto di abusi o favoritismi e, soprattutto, il sospetto che l’esecutivo cerchi di collocare in tale consesso, deputato al controllo anche sugli atti del governo, persone di sua fiducia. Emblematico il caso della fidata vigilessa Antonella Manzione voluta dal "finto rottamatore" Renzi prima a capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio e poi al Consiglio di Stato, suscitando polemiche per la mancanza anche del requisito dell’età. Su questi delicati temi attinenti alla terzietà della magistratura, sarebbe interessante conoscere se il Movimento 5 Stelle abbia concrete proposte da sottoporre ai cittadini nel futuro programma elettorale. Giustizia minorile, l’alt del governo che esautora il Senato Il Dubbio, 12 agosto 2017 Cosa si rischia con lo stralcio della riforma dal ddl civile. Si tratta come minimo di una vicenda legislativa tormentata. Che adesso ha condotto il ministero della Giustizia a prevedere lo stralcio delle norme che riformano i Tribunali dei minori dal ddl sul processo civile. Scelta accolta positivamente, per esempio, dai Garanti per l’Infanzia delle varie Regioni italiane ma che invece il Consiglio nazionale forense ha giudicato, in una nota, pericolosa perché rischia di compromettere il lavoro fin qui svolto in Parlamento. Nella commissione Giustizia del Senato, presieduta da Nico D’Ascola, è in discussione appunto la riforma del processo civile già approvata alla Camera, dove aveva trovato accoglimento anche il superamento dell’autonomia dei Tribunali e delle Procure minorili e la sostituzione con sezioni specializzate all’interno dei Tribunali ordinari. Una parte degli operatori aveva a quel punto avviato un pressing incessante nei confronti del governo, con petizioni e diverse proposte di stralcio. Alcuni dei coordinamenti che riuniscono in particolare gli assistenti sociali, fortemente penalizzati dalla riforma, e appunto i Garanti avevano poi sottoscritto l’appello "Salviamo i Tribunali per i minorenni" dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia. Tra i firmatari, persino Valerio Onida, Gherardo Colombo, don Luigi Ciotti, e anche Giacomo Guerrera, presidente di Unicef Italia. Sponsor di livello per una mobilitazione che rischia però di compromettere alcuni aspetti decisivi per la razionalizzazione della giustizia minorile, a cominciare dalla necessità di rendere omogenei i riti tra i diversi Tribunali, in cui attualmente gli assetti procedimentali sono assolutamente imprevedibili nella loro diversità da sede a sede. Ma in Parlamento il pressing anti- riforma ha trovato pure interlocutori di spessore, il che aumenta il rischio che effettivamente il riassetto della giustizia minorile finisca su un binario morto. È il caso del presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola. "Il Tribunale dei Minori sta a mezza via tra le Istituzioni giudiziarie e quelle sociali, occupandosi anche di politiche di reinserimento dei minori che hanno commesso delitti e di coesione delle famiglie, che costituiscono il punto di riferimento principale dell’azione della magistratura dei minori. Una forma di giustizia rieducativa, riparativa e risocializzante". Attività fondamentali che vanno difese e valorizzate. "Il punto politico prima che giuridico è che lo Stato sociale non può essere smantellato completamente". Cosa che d’altra parte non avverrebbe con la riforma, in cui è stata preservata l’unicità delle funzioni anche per le sezioni specializzate. Ma D’Ascola, come altri, è su posizioni complessivamente contrarie alla modifica dell’assetto attuale. "Noi - prosegue il presidente della commissione Giustizia - avevamo presentato gli emendamenti contrari alla soppressione del Tribunale per i minorenni e sono contento che questa scelta non debba affrontare il conflitto della votazione su posizioni contrastanti ma che da parte del governo si sia data una dimostrazione della capacità intellettuale di risolvere i problemi in maniera armonica e condivisa". La decisone dello stralcio insomma finirebbe per interrompere il dibattito sulla questione. Per chiudere la partita si dovrà aspettare però il mese di settembre e il voto finale in commissione Giustizia. "Spero che già con i primi giorni di settembre si possa procedere allo stralcio della parte della riforma concernente la soppressione del Tribunale dei minorenni", dice D’Ascola. La cui posizione, assolutamente legittima, evoca il congelamento del dibattito sul tema. E non è detto che a settembre vada così. La tutela dei diritti e l’iniziativa economica diritti di Edmondo Bruti Liberati Corriere della Sera, 12 agosto 2017 Il professor Enriques dopo severe critiche sul rapporto tra diritto ed iniziativa economica e sulla prevedibilità delle decisioni giudiziarie: "Lungi da me l’idea di concludere con un proclama per la rifondazione della cultura giuridica italiana. Ma chi avesse sinceri istinti riformatori non potrebbe esimersene". Per chi, come me, ha operato per poco meno di mezzo secolo - con ruoli, funzioni e responsabilità diverse - nella magistratura italiana ritenendo sempre di ispirarsi a "sinceri istinti riformatori" l’invito alla riflessione è benvenuto. Prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Il monito di Montesquieu: "I giudici sono soltanto la bocca che pronuncia le parole della legge, esseri inanimati che non possono regolarne né la forza né la severità" rimane attuale, contro il soggettivismo e l’arbitrio interpretativo. Ma non vi sono formule magiche: è un difficile percorso che si muove nel mutato rapporto giudice-legge nell’"età della decodificazione". Enriques liquida la questione: "Ed è ovvio che la lettera della norma non conta: tanto è scritta male. Ma è un circolo vizioso: perché Parlamento e governo dovrebbero sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi poteri per re-interpretarle a proprio piacimento". Mauro Cappelletti nel suo studio del 1984 Giudici legislatori? esordiva: "Questo studio comparativo non è inteso a dimostrare la verità, banale, anche se infinite volte, in ogni epoca e con tanta inesauribile perseveranza negata o nascosta, della creatività della giurisprudenza". Il tema è ben presente nel mondo della common law. Aharon Barak avverte che il suo studio concerne "la deliberazione del giudice, quando questi, dopo aver compreso e soppesato i diversi fattori, si trova a dover scegliere tra un certo numero di possibilità, ognuna delle quali è legittima". (A. Barack, La discrezionalità del giudice (1989), Milano 1995). "Soggezione dei giudici alla legge" prescrive l’articolo 101 comma 2 della Costituzione. Ma legge è oggi non solo la legge approvata dal Parlamento (non di rado all’esito di un compromesso che evita decisioni nette lasciando ampi margini alla applicazione giurisprudenziali), ma la Costituzione e la normativa sovranazionale. È una grande responsabilità per il giudice muoversi in questo mare aperto, consapevole dell’esercizio della discrezionalità, sorretto dal dovere di continuo aggiornamento professionale nella ricerca del delicato equilibrio tra innovazione giurisprudenziale e confronto con il precedente. Intervento giudiziario ed iniziativa economica. Ancora il professor Enriques: "Le ragioni dello sviluppo economico […] non hanno alcuna influenza sul sistema di valori, che implicitamente o esplicitamente, è alla base delle sentenze". Tema complesso che non dovrebbe consentire scorciatoie argomentative. Nel 2014 la Procura della Repubblica di Milano individuava, a meno di un anno dalla data inaugurazione di Expo 2015, gravi episodi di corruzione e turbativa d’asta. I tempi della giustizia non sono i tempi dell’economia e delle attività imprenditoriali, ma la giustizia può cercare di adottare tutte le misure organizzative affinché questa distanza si riduca. La Procura di Milano ha svolto il ruolo che le compete di accertamento rigoroso dei fatti di reato. La magistratura penale non deve farsi carico di "compatibilità", ma può e deve operare con scelte organizzative e di strategia di indagine che assicurino la massima celerità, mettendo le altre articolazioni delle istituzioni in condizione di adottare tempestivamente i provvedimenti di loro competenza. Ciò che è avvenuto con le iniziative dell’Anac e della Prefettura di Milano che dopo l’esecuzione di misure cautelari nei confronti di responsabili operativi dei lavori in corso, hanno adottato iniziative gestionali ed amministrative atte ad assicurare la prosecuzione delle opere in condizioni di ripristinata legalità. Un intervento giudiziario tempestivo presuppone una organizzazione giudiziaria adeguata; sono note le difficoltà ma sarebbe ingeneroso ignorare il grande impegno sul tema dell’innovazione organizzativa da parte delle istituzioni giudiziarie italiane. Ed infine io mi auguro che la cultura giuridica italiana rimanga saldamente ancorata al principio dettato dall’articolo 41 della nostra Costituzione a proposito della iniziativa economica "Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità". Il monito appare tanto più attuale quando emergono i problemi causati dalla incontrollata globalizzazione. Il ministro Delrio: "contro gli abusi edilizi l’unico deterrente sono le demolizioni" di Lucio Luca La Repubblica, 12 agosto 2017 Il ministro a Repubblica, dopo le inchieste sull’abusivismo da Nord a Sud pubblicate sul nostro giornale. E dice: "Il governo è pronto a impugnare i condoni delle Regioni". "Il governo è pronto a impugnare le leggi regionali che consentono condoni agli scempi edilizi". Lo annuncia in un’intervista a Repubblica il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, che si schiera apertamente dalla parte del sindaco di Licata Angelo Cambiano, sfiduciato dal Consiglio comunale dopo il suo impegno contro la demolizione delle case abusive. "Quel sindaco è un eroe - dice il ministro - gli hanno bruciato la casa, è costretto a muoversi con la scorta e malgrado tutto non ha mai fatto un passo indietro. La solidarietà è scontata, ora la politica però deve fargli sentire davvero il suo appoggio. Spero che non molli e continui la sua battaglia di civiltà. Non è lui che deve andarsene ma chi quel territorio l’ha saccheggiato e sfregiato per troppi anni". Il ministro commenta i dati venuti fuori dall’inchiesta condotta nelle ultime settimane dal nostro giornale: oltre 15 milioni di richieste di condono in 30 anni, il 17,5 per cento di case abusive costruite nel 2015, addirittura una nuova costruzione su due fuori legge in diverse regioni del Sud: "È un vizio antico - dice - anche se non molti anni fa le cifre erano ancor più drammatiche. Il vero deterrente sono le demolizioni: se chi commette un abuso perde il possesso del bene e lo vede distruggere, ci penserà cento volte prima di commetterne un altro. Ed è anche una questione di cultura della legalità, sulla quale evidentemente non si è mai investito abbastanza". Non condanniamo a cento anni di solitudine gli ultimi militanti delle BR degli anni 70 di Giulio Petrilli osservatoriorepressione.info, 12 agosto 2017 Nicolò De Maria arrestato nel 1980, Susanna Berardi arrestata nel 1982, Cesare Di Leonardo arrestato nel 1982. Solo alcuni dei trenta donne e uomini della storia delle Brigate Rosse ancora in carcere. Trentotto anni di reclusione. Una vita! Le Brigate Rosse non esistono più da tanto tempo, perché’ tenerli ancora in carcere? Non hanno rivisto la loro posizione ideologica? Ma per questo devono morire in carcere? Arrivare alla soglia di una detenzione quarantennale vuol dire distruggere totalmente una persona! Contro questa pena di morte, vale la pena di battersi per una loro libertà incondizionata! Dopo trentotto anni di carcere dovrebbe avvenire per qualsiasi detenuto! Qualsiasi pena dopo così tanti anni di carcere è di fatto espiata! Costruiamo insieme una lotta per affermare almeno il principio che superati i trentacinque anni di carcere una persona deve tornare in libertà! Abruzzo: modificata la legge sull’elezione del Garante regionale dei detenuti cityrumors.it, 12 agosto 2017 Il Consiglio regionale ha approvato a maggioranza un emendamento per sbloccare l’impasse sull’elezione del garante per i detenuti della Regione Abruzzo, che va avanti da 3 anni per via della maggioranza qualificata richiesta di 21 voti, più di quelli della sola maggioranza di centrosinistra, mai raggiunta nelle decine di votazioni svolte, non essendosi trovato l’accordo su un nome, meno che mai sulla candidata di punta dell’amministrazione, Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale. La norma prevede che dopo 3 votazioni a vuoto e non prima di 45 giorni dall’ultima, se nessun candidato raggiunge la soglia delle 21 preferenze, alla quarta basta la maggioranza assoluta dei voti dei consiglieri. Con un’altra norma inserita oggi, il Consiglio, con propria deliberazione a maggioranza qualificata, può revocare il garante. L’emendamento, del consigliere Paolo Gatti, vice presidente del Consiglio in quota all’opposizione, era inserito in una legge che parla di disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, quest’ultima promossa dal capogruppo del Pd, Sandro Mariani. Hanno votato a favore i consiglieri di centrosinistra, il consigliere del gruppo misto in quota Sinistra italiana Leandro Bracco e quello di minoranza del Nuovo centro destra Giorgio D’Ignazio. Contrari Cinque Stelle e Forza Italia. Il proponente Gatti è uscito dall’aula. "Esprimo soddisfazione per l’approvazione del progetto di legge che modifica il sistema di elezione del Garante dei detenuti in Abruzzo, finalmente anche la nostra Regione potrà dotarsi di uno strumento di garanzia a tutela dei cittadini che vivono nelle carceri regionali- è quanto dichiara Sandro Mariani primo firmatario della legge. La legge prevede che "Se dopo tre votazioni effettuate in tre sedute consecutive, nessun candidato raggiunge il quorum richiesto, il Consiglio procede ad ulteriore votazione, ed è nominato Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale il candidato che ottiene la maggioranza assoluta dei voti dei Consiglieri assegnati". "La nostra proposta - continua Mariani - non stravolge alcun principio democratico ma prevede semplicemente un nuovo quorum dopo la terza votazione al fine di agevolare la nomina del Garante dei detenuti che finora non ha trovato una larga condivisione anche per i meccanismi che prevedevano un quorum dei due terzi dei voti favorevoli espresso in aula dai Consiglieri. Ringrazio i colleghi Berardinetti e D’Alessandro co-firmatari del provvedimento ed il Consigliere Maurizio Di Nicola per il grande lavoro svolto in Commissione, tutti coloro che ne hanno consentito l’approvazione in aula. Respingo al mittente le accuse di aver prodotto una norma "ad personam", su questa legge non vi è scritto alcun nome e cognome ma è soltanto il giusto diritto della maggioranza di poter produrre una nomina e dotare così la nostra regione di uno strumento di garanzia, tra l’altro richiestoci da molti settori della società civile abruzzese. Mi auguro che sia terminato il tempo in cui le forze politiche si dividono su un "nome" facendo pagare ai più deboli ed indifesi la propria indisponibilità a convergere sull’elezione di uno strumento garante dei cittadini. Il garante dei detenuti non è il garante del Pd o della maggioranza, ma è il garante di coloro che sono sottoposti a misure restrittive nelle nostre carceri. Un numero ed un quorum non possono celare le responsabilità di una maggioranza che ha ricevuto il mandato dagli elettori di operare delle scelte. Sul nome del garante - conclude Mariani - mi farò carico di un ulteriore confronto con le altre forze politiche". Perugia: evaso un altro detenuto. Ferri: "episodi gravi, da non sottovalutare" di Remo Santini La Nazione, 12 agosto 2017 Il caso dei permessi premio. Parla il sottosegretario alla Giustizia Ferri. Un italiano che era detenuto nel carcere di Perugia perché accusato di rapina e altri reati (fine pena marzo 2018) l’altra sera non è rientrato in cella dopo un permesso, e ora è ricercato dalla polizia. Si tratta dell’ennesimo episodio avvenuto nelle ultime settimane. Un cittadino straniero, condannato all’ergastolo, a luglio non è rientrato in carcere a Volterra dopo un permesso premio di 10 giorni: è ancora ricercato. E pensare che era considerato un detenuto modello: in carcere si era messo a studiare e aveva ottenuto il diploma di geometra. Poi c’è il caso del detenuto del carcere di Livorno (anche lui fuori per un permesso premio) che non ha fatto rientro nella casa circondariale delle Sughere. È allarme? Su questi episodi abbiamo intervistato il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Sottosegretario Ferri, tre evasioni dal carcere in nemmeno un mese. Che sta succedendo? "Sono episodi gravi da non sottovalutare, ma certamente isolati e che non possono inficiare la tenuta del sistema. Si tenga presente che il numero di permessi premio che vengono concessi è superiore a 32.000 e che nelle carceri italiane vi sono 54.000 detenuti, dati che ci consentono di affermare che il nostro sistema carcerario funziona sia in termini di sicurezza, che di rieducazione. Negli ultimi anni, anche grazie alla legislazione di questi Governi, si è puntato molto sulla funzione rieducativa della pena perché è l’unica strada certa che consenta di ridurre il tasso di recidiva. In questo senso va anche la recente riforma dell’ordinamento giudiziario di cui a breve usciranno i decreti delegati. Nei casi di cronaca è singolare notare come ad esempio il detenuto che, solo poche ore fa, non è rientrato nella struttura perugina avesse da scontare solo pochi mesi di pena". Ma secondo lei il modello di pena detentiva funziona davvero? "Proprio ieri sono stato in visita all’isola di Pianosa dove ho potuto verificare, ancora una volta, come esista un modello dì pena detentiva che funziona legato al lavoro e che trova un punto dì equilibrio tra la responsabilizzazione del detenuto, le esigenze rieducative e la certezza della pena". Quale è la pena aggiuntiva per i detenuti che si comportano in questo modo e poi vengono riacciuffati? "Il soggetto è punibile a titolo dì evasione, con la conseguenza che si applicherà l’articolo 385 del Codice penale che punisce tale condotta con la reclusione da 1 a 3 anni". Si può pensare ad un inasprimento delle pene? "Può essere una soluzione proprio al fine di rafforzare l’effetto deterrente perché si tratta di episodi gravi. Del resto, l’evasione del detenuto beneficiario del permesso interrompe il percorso di rieducazione intrapreso e mina l’accordo di fiducia con l’Amministrazione della giustizia". Ma sulla base di quali parametri vengono fatte le valutazioni per concedere i permessi premio? "La disciplina attuale include anzitutto le previsioni riguardanti la natura e l’entità della pena. La concessione del permesso è sempre ammessa per il condannato alla pena dell’arresto, ed è consentita in ogni tempo nei confronti del condannato alla reclusione non superiore a quattro anni. Al condannato alla pena superiore a tale soglia e al condannato all’ergastolo, il per-messo può essere concesso dopo l’espiazione rispettivamente di almeno un quarto e di almeno dieci anni della pena. Inoltre, si deve trattare di soggetti che abbiano tenuto una regolare condotta, anche nel corso delle attività culturali e ricreative svolte in carcere, e di non risultare socialmente pericolosi". Certezza della pena inesistente. Anche in merito a ultimi casi di immigrati che hanno rubato oppure si sono resi protagonisti di episodi dì violenza, c’è da registrare che sono stati scarcerati dopo 24 ore a seguito di processi per direttissima. "Più sicurezza e certezza della pena con la riforma processo penale. Molto importanti sono stati gli interventi sui reati di maggiore allarme sociale, per i quali è stato previsto un deciso inasprimento delle sanzioni penali, in particolare nei minimi edittali, che garantirà una più efficace punibilità degli autori dì queste gravi condotte, un più alto grado di deterrenza ed una maggiore sicurezza per i cittadini. La magistratura ha oggi strumenti più adeguati per perseguire autori di questi reati". Pescara: a Farindola riaperto il sentiero grazie al lavoro dei detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 12 agosto 2017 La frana di Rigopiano dello scorso gennaio l’aveva cancellato. inaugurato il 3 agosto. la sottosegretaria alla giustizia Federica Chiavaroli si è fatta promotrice di un progetto che ha coinvolto 8 reclusi di Pescara per il recupero e il ripristino della zona. Grazie al lavoro di otto detenuti del carcere di Pescara, è stato riaperto il 3 agosto il sentiero della Vitella d’Oro nel territorio di Farindola, colpito lo scorso gennaio dalla tragedia della valanga di Rigopiano. L’Abruzzo si rialza dalle terribili calamità che lo hanno messo in ginocchio grazie dunque anche ad un protocollo sottoscritto d’intesa tra il ministero della Giustizia, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, l’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e il Comune di Farindola. Al taglio del nastro era presente la sottosegretaria alla Giustizia Federica Chiavaroli che nei mesi dell’emergenza ha seguito con particolare attenzione i risvolti della situazione. "Durante una visita a Farindola - racconta al Dubbio - constatavo come, oltre alla distruzione dell’hotel Rigopiano, molte altre risorse di quel Comune fossero state gravemente danneggiate dall’eccezionale ondata di maltempo. In particolare risultava impraticabile uno dei sentieri naturalistici più belli di quel territorio, incluso nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, che consente di raggiungere la famosa cascata della Vitella d’Oro. Sia il Comune di Farindola che l’Ente Parco erano privi delle risorse umane per provvedere al ripristino, per cui la situazione di quel percorso non pareva destinata ad una rapida risoluzione". Per questo la senatrice Chiavaroli decide di rendersi promotrice del progetto per coinvolgere i detenuti in un percorso di giustizia ripartiva diretto al recupero e al ripristino dell’uso turistico del sentiero. "Gli operatori della Casa Circondariale di Pescara - prosegue il sottosegretario - hanno individuato 8 detenuti idonei ad usufruire di lavoro all’esterno e moti- vati a compiere un percorso dalle finalità riparatrici e solidaristiche, il Provveditore Regionale ha garantito la disponibilità di personale di Polizia Penitenziaria per la sorveglianza dei detenuti e dei mezzi di trasporto necessari per condurre i volontari a Farindola, l’Ente Parco ha fornito due operai specializzati in grado di coordinare le operazioni, il Comune di Farindola ha fornito i pasti ai detenuti coinvolti nel progetto grazie al coinvolgimento della locale Associazione Alpini". L’iniziativa è stata accolta positivamente dai reclusi: "i detenuti sono stati immediatamente entusiasti del progetto e di poter realizzare un intervento utile alla ripresa della Comunità di Farindola. Bisogna tener conto che loro, come tutte le persone da casa, hanno seguito - tramite i continui collegamenti televisivi con grande apprensione la vicenda dell’Hotel Rigopiano. Poter offrire un contributo concreto, nonostante la situazione penitenziaria contingente, ha rappresentato una grande opportunità per dare prova di solidarietà e partecipazione". Sulla scia di quanto finora realizzato sono stati avviati i contatti preliminari per una prosecuzione del progetto su altre aree, in quanto il territorio ferito dal sisma è molto ampio ma lo si desidera risanare fornendo l’opportunità di compiere lavori socialmente utili anche a chi espia la pena in misura alternativa o a chi accede a percorsi di messa alla prova. "Il lavoro compiuto a Farindola dai detenuti - prosegue la sottosegretaria ha un valore eccezionale perché dimostra che, chi ha sbagliato, ha una grande motivazione personale a compiere gesti di riparazione nei confronti della società ferita dal reato. Certo, deve averne la possibilità, e su questo fronte ritengo che l’Amministrazione Penitenziaria stia facendo davvero il possibile, aprendosi sempre più a qualsiasi opportunità. Il sentiero ripristinato dai detenuti non è mai stato così bello e di questo si sono resi perfettamente conto anche i farindolesi, che hanno accolto l’impegno di questi particolari "volontari" nel modo più caloroso possibile. Con la locale Associazione Alpini, che ha preparato i pasti per i detenuti- volontari, è nato un rapporto di amicizia che piano piano ha coinvolto tutta la Comunità". Tuttavia è raro dare notizie di iniziative come questa, mentre è più facile creare allarmismi riportando i dettagli delle evasioni. "Attraverso questo progetto - replica la sottosegretaria Chiavaroli - gli abitanti del Paese hanno toccato con mano come offrire a queste persone una possibilità rieducativa e di riscatto sociale garantisca la sicurezza e il benessere della Comunità molto più della mera segregazione. Certo un gran merito va attribuito all’équipe di osservazione e trattamento della Casa Circondariale di Pescara che ha saputo individuare le persone giuste e realmente motivate. È chiaro che nel compimento di questi percorsi la professionalità degli operatori nel proporre ai detenuti impegni proporzionali al percorso rieducativo compiuto (se compiuto) è la vera garanzia di sicurezza. Se a questo si aggiunge, come nel caso di specie, la disponibilità della Polizia Penitenziaria a garantire una sorveglianza professionale e discreta, non credo vi siano ragioni di nutrire timori. Io sono molto grata a quella parte della stampa (ancora poca purtroppo) che sceglie di dare rilevanza ad esperienze di bello e di efficienza, piuttosto che alle criticità, perché questo consente anche di comunicare all’esterno quali alte professionalità siano presenti in carcere, a partire proprio dalla Polizia Penitenziaria che ha, tra i suoi compiti, quello di partecipare alle attività rieducative. Risocializzare è, in fin dei conti, l’unico modo efficace per evitare la recidiva nel reato e garantire la sicurezza delle nostre comunità". Busto Arsizio: i detenuti firmano per la Separazione Carriere dei magistrati varesepress.info, 12 agosto 2017 Particolare e interessante l’iniziativa radicale creata a Busto, nello spirito del vecchio partito Radicale che sembra riemergere con le importanti (condivisibili o no dipende dai punti di vista) battaglie sui diritti covili. L’impegno dei Radicali per dare voce ai diseredati, agli esclusi, agli ultimi prosegue anche nel territorio varesino con un certo seguito. Non capita tutti i giorni che qualche politico visiti le carceri, se non per fare vetrina in campagna elettorale, dimenticandosene il giorno dopo. Chi è in carcere ha sbagliato e deve pagare, cercando quando possibile di ritornare alla vita civile recuperando il tempo perduto. Gli altri che invece decidono di essere "irrecuperabili" è giusto che stiano al " fresco" per non creare danni a sé e agli altri. Fatta questa doverosa precisazione, è anche giusto che ci sia qualcuno che si occupi concretamente di chi soffre all’interno delle carceri, ma magari anche delle guardie che vivono assieme ai carcerati con una situazione altrettanto difficile. Segue il comunicato in versione integrale: "Matteo Tosi della lista Civica Busto Grande e Gianni Rubagotti, iscritto al Partito Radicale, sono dovuti tornare al carcere di Busto Arsizio venerdì pomeriggio dopo essere venuti lunedì a causa dell’elevato numero di detenuti interessati a firmare la proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati promossa dall’Unione delle Camere Penali italiane. 84 le firme raccolte in una collaborazione che continuerà con la adesione di Tosi alla iniziativa nonviolenta del Partito Radicale che parte a metà agosto e la sua disponibilità a proporre la proiezione del docufilm Spes contra Spem che parla di ergastolo ostativo alla Direzione dell’istituto di pena. "Le firme" ha dichiarato Gianni Rubagotti "comprendono anche quelle di detenuti senza diritto di voto che non saranno convalidate. È stato fatto per permettere anche a loro di esprimere il loro parere su un argomento che riguarda tutti i cittadini. In collaborazione con la amministrazione del carcere e con Tosi i detenuti sono stati riuniti in gruppi per spiegare loro la proposta lasciandoli ovviamente liberi di non aderire una volta conosciutala." "Ho aderito come consigliere comunale perché serviva un autenticatore e a maggior ragione come Garante dei Diritti dei Detenuti" ha spiegato Matteo Tosi "perché tutte le iniziative che fanno sentire i detenuti dei cittadini normali sono iniziative che mi interessano e trovo che interessino anche a loro. Si è visto infatti l’interesse, il numero di domande e anche l’informazione che già esisteva sul tema e sull’attività del Partito Radicale, quindi mi sembrava doveroso partecipare." Tosi ha voluto anche esprimersi sull’iniziativa nonviolenta del Partito Radicale per chiedere al ministro Orlando di emettere i decreti attuativi sulla riforma dell’esecuzione penale entro luglio come aveva promesso. "Come ho detto oggi di fronte ai detenuti io stesso farò una giornata di digiuno per velocizzare la emissione dei decreti perché la situazione delle carceri è delirante e quindi c’è bisogno di questa riforma in tempi brevi e prima della prossima scadenza elettorale" L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan è una associazione radicale nata il 3 ottobre 2015 a Milano. È transpartitica e trans-territoriale e promuove le battaglie dei soggetti radicali a Milano e in altri territori dove ha o trova militanti. Organizza serate culturali con sede fisica e in streaming (in collaborazione con Liberi Tv) per permette a chiunque sia collegato a internet di fruirne e intervenire". Milano: i giovani detenuti del Beccaria appiccano un incendio al carcere Libero, 12 agosto 2017 L’obiettivo sarebbe stato quello di venire portati tutti insieme ai cancelli del piano terra del carcere e poi magari, chissà... Di certo c’è che un incendio è scoppiato all’una della scorsa notte all’interno della sezione riservata ai "giovani adulti", cioè coloro che (massimo 25enni) hanno commesso un reato mentre erano ancora minori del Beccaria. "Sarebbe stato impossibile, a quel punto, garantire la sicurezza con le poche unità presenti", ha commentato Alfonso Greco, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe che ha dato la notizia. Soltanto la sera prima, all’esterno del carcere, in prossimità del cancello d’ingresso al parcheggio in uso alla polizia penitenziaria, era stato appiccato un rogo ed era stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Il 24 luglio ci fu un principio d’incendio, con bottiglie di plastica infuocate lanciate dalle celle verso il corridoio. scaglionandoli e non facendoli tutti insieme. Bastava coordinarsi meglio e allestire un cantiere alla volta", spiega Marco Cagnolati (Forza Italia), consigliere del Municipio 3. Da Metropolitana Milanese, la controllata del Comune incaricata del rifacimento della fognatura, fanno sapere che "gli operai saranno impegnati per tutto il mese, senza fermarsi nemmeno il giorno di Ferragosto, per concludere i lavori il prima possibile, vista anche la problematica dell’incrocio con via Crescenzago". Aggiungendo che "per fare i lavori si è scelto agosto per limitare i disagi al traffico". Chieti: una storia dal volontariato, Francesco Lo Piccolo e Voci di Dentro di Fabio Ferrante centralmente.com, 12 agosto 2017 Lo Piccolo da dieci anni si dedica al volontariato in carcere con convinzione e idee innovative. Una vita dedicata al giornalismo come inviato del Messaggero del nord Italia, poi la scelta di venire a Chieti per trovare maggiore tranquillità e dove porta a termine la sua carriera giornalistica. Qui inizia la sua avventura nel mondo del volontariato che sta portando a cambiare il modo di vedere il carcere e i suoi ospiti. Francesco Lo Piccolo entra nel 2007 in carcere per un laboratorio di giornalismo ai detenuti e decide, insieme ad altri pionieri, di fondare un’associazione di volontariato carcerario che prende il nome della rivista frutto del primo lavoro nell’istituto di Chieti: Voci di Dentro Onlus. Uomo di grande spirito e di immensa cultura, accanito lettore, sempre pronto a mettersi in gioco fino alla scelta di tre anni fa di conseguire la laurea in scienze sociali e superare tutti gli esami previsti dal percorso di studi nei tempi previsti. La prima attività dell’associazione è quella della redazione del giornalino omonimo, al quale collaborano come redattori i detenuti, ma dal 2008 ad oggi Voci di Dentro ha fatto passi da gigante nel portare all’esterno delle mura carcerarie i concetti di riabilitazione e reinclusione sociale per una categoria da sempre etichettata e che trova numerose difficoltà a tornare alla vita normale. Alta è infatti la percentuale di recidiva, spesso legata a una vera e propria scelta di vita, ma molto più frequentemente conseguenza dei muri di gomma contro i quali si scontrano gli ex detenuti una volta scontata la pena. L’associazione Voci di Dentro prova ad abbattere queste mura con l’esposizione in piazza di una riproduzione di una cella, con convegni, con le attività in carcere e con progetti innovativi. Il progetto "La Città" all’interno del carcere di Pescara nasce proprio dalla visione di Lo Piccolo che auspica l’abbattimento delle barriere architettoniche per il percorso di riabilitazione di chi commette reati. La Città è uno spazio all’interno della struttura, in cui i detenuti possono muoversi liberamente all’interno dei locali ognuno con una propria destinazione: la sala lettura, il laboratorio di scrittura, il laboratorio sartoriale, l’area relax e altro. Proprio come una piccola città, in cui riproporre la vita di tutti i giorni, le situazioni di vita quotidiane, riabituandosi alla condivisione sociale senza le costrizioni e gli obblighi previsti nell’impianto carcerario. Lo Piccolo trasmette all’ascoltatore tutta la sua passione e la profonda convinzione che ha nel lavoro di Voci di Dentro. Un percorso spesso difficile che ha vissuto alti e bassi, come nel 2013 quando l’associazione ha visto la più bassa partecipazione alle attività facendo correre il rischio di sciogliere il sodalizio. Ma la voglia di non mollare del Presidente, ha portato oggi ad avere circa 10 persone ogni mattina in servizio presso il carcere di Pescara, oltre ai laboratori all’istituto di Chieti e alle attività esterne. Questo grazie alla rotazione mensile di 20 tirocinanti di scienze sociali e psicologia dell’università di Chieti e ai circa 50 soci che si alternano per garantire tutte le iniziative. Oggi Voci di Dentro punta a crescere ancora di più, ci spiega Lo Piccolo, partecipando a bandi europei e nazionali, cercando di diventare un’opportunità per i giovani professionisti che possono costruire nel sociale un vero e proprio lavoro. La svolta della Chiesa sui migranti dopo l’incontro segreto con Gentiloni di Luigi Accattoli e Dino Martirano Corriere della Sera, 12 agosto 2017 Il premier si è ritrovato un mese fa con papa Francesco a casa dell’arcivescovo Angelo Becciu, numero due della Segreteria di Stato. Due antefatti con protagonista il Papa spiegano il nuovo atteggiamento della Cei sui migranti, che la vede favorevole alla stretta del governo su Ong e scafisti: un invito di Francesco ai governanti perché gestiscano con "prudenza" l’apertura agli immigrati, fatto il 1° novembre scorso; un incontro fino a oggi restato riservato del Papa con il premier Paolo Gentiloni, un mese fa in casa dell’arcivescovo Angelo Becciu, numero due della Segreteria di Stato. È toccato poi a Becciu, cui compete il rapporto con i governanti italiani, ascoltare e consigliare sia gli esponenti del nostro mondo politico sia il vertice dell’episcopato perché la "solidarietà" papale e vaticana con l’Italia trovasse sbocchi concreti. Il pronunciamento fatto giovedì dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che richiamava con lo stesso "vigore" sia la necessità dell’accoglienza sia quella di "un’etica della responsabilità e del rispetto della legge", costituisce la prima applicazione all’Italia della linea della "prudenza" indicata da Francesco il novembre scorso, durante il volo di rientro dalla Svezia. "Credo che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare": così aveva parlato il Papa in quell’occasione. Alla vigilia della visita a Milano del marzo scorso, in un’intervista al mensile Scarp dè Tenis Francesco aveva completato quel ragionamento, riconoscendo che l’impegno all’accoglienza va inteso come dovere di "accogliere tutti coloro che si possono accogliere", perché "non c’è posto per tutti". Del dovere e dei limiti dell’accoglienza il Papa aveva poi parlato il 10 giugno scorso con il presidente Mattarella e poco dopo con il nostro premier Paolo Gentiloni nell’incontro riservato a casa dell’arcivescovo Becciu. Durante la visita al Colle, Bergoglio aveva detto: "Grazie signor presidente, per quello che state facendo, per la generosità dell’Italia nei confronti dei profughi e degli immigrati". E Mattarella aveva risposto: "È un nostro dovere Santità. Speriamo che anche la comunità internazionale e l’Unione Europea se ne facciano sempre più carico". Poi, nel discorso pronunciato nei giardini del Quirinale, il Papa aveva aggiunto: "Per quanto riguarda il vasto e complesso fenomeno migratorio è chiaro che poche Nazioni non possono farsene carico interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel proprio tessuto sociale". Sono dunque molte le tappe, e le premesse, che conducono alle dichiarazioni del capo dei vescovi italiani favorevoli alle regole volute dal governo per le Ong e alla stretta sugli scafisti. La sera precedente (mercoledì) il ministro dell’Interno Marco Minniti - forte anche di una blindatura sulla linea dura contro i mercanti di esseri umani avallata dal Quirinale e da Palazzo Chigi con le due note di lunedì - ha poi completato il giro di consultazioni nei palazzi vaticani recandosi nella sede della Cei per incontrare il cardinale Bassetti. E proprio dopo le spiegazioni del responsabile del Viminale, che ha illustrato il complesso modulo di intervento sul fronte immigrazione, il presidente della Cei ha fatto le sue considerazioni sugli scafisti e su chi organizza gli aiuti umanitari: "Per difendere i deboli nessuno può spalleggiare tali criminali". Migranti maltrattati al Cie, giudice condanna il governo: "Danni all’immagine di Bari" La Repubblica, 12 agosto 2017 La sentenza della prima sezione civile del tribunale accoglie il ricorso di due avvocati che si sono sostituiti al Comune: "Pensate a quanto è accaduto alle comunità Auschwitz e Guantánamo". La presenza del Centro di identificazione e espulsione a Bari reca un danno di immagine al Comune "in conseguenza dei trattamenti inumani e degradanti praticati in danno dei detenuti" nel Cie. Per questo la prima sezione civile del Tribunale di Bari ha condannato la Presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno a versare un risarcimento di 30mila euro. La sentenza, firmata dal giudice monocratico Concetta Potito, è stata pronunciata su ricorso degli avvocati Luigi Paccione e Alessio Carlucci, che hanno agito "in sostituzione" del Comune e della Provincia di Bari. "Il Cie di Bari - scrive il giudice nelle motivazioni - viste le risultanze probatorie, non risulta di certo idoneo all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità in quanto essere umano. Il risarcimento è ritenuto necessario per via dell’ingente danno arrecato alla comunità territoriale tutta, da sempre storicamente dimostratasi aperta all’ospitalità, per via delle scelte gestionali dell’Amministrazione statale. Quest’ultima - secondo il giudice - è rimasta inerte dinanzi alle numerose segnalazioni circa le condizioni in cui versavano gli immigrati del Cie, nonché dinanzi a richieste di verifica delle condizioni igienico-sanitarie del Centro". La sentenza rimarca che "il danno all’immagine si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente provata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita". Il giudice indica alcuni esempi: "Si pensi ad Auschwitz, luogo che richiama alla mente di tutti immediatamente il campo di concentramento simbolo dell’Olocausto - osserva il magistrato - e non di certo la cittadina polacca sita nelle vicinanze. Ma si pensi anche a Guantánamo, ad Alcatraz: istintivamente il pensiero corre subito e soltanto ai noti luoghi di prigionia di massima sicurezza, e non certo alla base navale nell’isola di Cuba all’interno della quale il primo è ubicato, né tantomeno all’isola nella baia di San Francisco ove era sito il carcere". Anche in Italia si trovano esempi, come Lampedusa, il cui nome - afferma il giudice citando una precedente ordinanza del 3-9 gennaio 2014, "ormai evoca immediatamente più la parte, vale a dire il campo profughi che vi è ospitato (insieme con i periodici e per lo più drammatici approdi di migranti dal mare e con i fatti anche luttuosi o scandalosi che vi sono accaduti e vi accadono) che il tutto, e cioè l’isola protesa nel Mediterraneo". Nel loro ricorso gli avvocati Paccioni e Carlucci avevano anche chiesto al giudice di ordinare la chiusura del Cie di Bari. Su questo però il magistrato ha ritenuto "inutile" pronunciarsi, essendo il Cie già chiuso. Inoltre, i due legali avevano chiesto un risarcimento del danno "per la violazione dei diritti umani all’interno del Cie". Anche su questo, il giudice non si è pronunciato perché ha ritenuto che la richiesta avrebbe dovuto essere avanzata dalle persone ristrette nel Cie. Libia. A Tripoli con i migranti respinti dall’Europa fra torture, umiliazioni e fame di Domenico Quirico La Stampa, 12 agosto 2017 Violenze dopo il salvataggio in mare, poi il trasferimento nei centri d’accoglienza: "I poliziotti ci portano via tutto. Ma ritenteremo il nostro viaggio". Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il popolo dei barconi che le motovedette libiche "salvano" prima che entrino nel nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se stessi? I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare? A quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare? Per questo sono venuto in Libia, a cercare una risposta. Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto. Vi racconterò allora dove ho incontrato i migranti salvati. Se non mi credete, è facile verificare. I centri libici per i clandestini, dunque. È lì che ho sentito l’odore dei poveri. Sapete: non mi ha più lasciato il puzzo della miseria, si è attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito. Ho gettato via i vestiti che indossavo, ed è rimasto lì, mi è entrato dentro. Mi insegue e mi perseguita. Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore sudiciume immondizia urina secrezioni catarri cibi guasti o di poco pregio vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una dolente pazienza di vivere. Forse il problema è che coloro che decidono il destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono, parlano con i ministri in belle sale refrigerate. I centri per l’immigrazione clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri. Sigle e numeri. Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non possono uscire, non possono comunicare con le famiglie. Mi hanno chiesto: "Che reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per traversare il mare". Non ho saputo rispondere. Tripoli scorre veloce, le cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato della fallita Manhattan del Colonnello, simboli spenti delle sue follie, che innalzano al cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie. L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni. Una grande macchina ferma. Il centro è in una strada che i libici chiamano "la ferrovia" perché qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo di Balbo è a un passo. L’ho scelto apposta: credo sia una sorta di vetrina, il ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai migranti. Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano anche partite di calcetto tra i detenuti: "Se viene subito si gioca Marocco contro Kenya". In realtà erano migranti della Costa d’Avorio, ma, si sa, son tutti "negri" al di sotto del Sahara. Dentro sono in 1400 (lo spazio è per 400 persone), gli uomini da una parte le donne dall’altra, si parlano urlando attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni Unite, 244 "a spese loro", 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono stati distribuiti in altri centri. "Abbiamo perso tutto" - La prima cosa che incontri è, gettato in un angolo, il mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano, mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un vecchio camion frigorifero, sequestrato. Dentro hanno trovato dieci migranti morti durante la traversata del deserto, dal Sud. Poi c’è la gabbia, un cortile coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni stanzoni, le celle. La prima impressione è quella di entrare in una serra umida e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone. I corpi, la notte quando le porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto all’altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella spazzatura umana. Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore si volgono verso di me, c’è come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto all’altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti, bolsi. Vedo braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le sfumature della estenuazione. Non sono ancora entrato e già mi chiudono in mezzo, dolcemente, come una mano. Ascolto voci, stordito dal caldo e dall’odore che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla terra. Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza. "Ci hanno portato via tutto, i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi". I guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al momento dell’espulsione. Il sogno dell’Europa - Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la spalla: fuori posto, staccata dal corpo. A quelli rosi dalla febbre i compagni hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perché possano appoggiare il busto alla parete. "Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di Mitiga… Ah, lì come sapevano picchiare". È il problema di sempre: raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola? Il tempo di luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti. Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di paragone. Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le mascelle. Mi spiega perché tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio, appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: "L’Europa dove vivi tu è la felicità, nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire". Le nostre spiegazioni sulla migrazione: formule venute a finire qui come le vecchie auto arrugginite che solcano le strade di Tripoli. Soltanto un ragazzo della Guinea mi ha detto che non riproverà. È fradicio di stanchezza: "Basta, è inutile. Non ho famiglia, nessuno che mi attenda né in Guinea né in Europa. Raccontare perché rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?". Quando esco dalla prigione ho le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno scritto numeri di telefono delle loro famiglie: "Chiama, chiama, ti prego. Tu che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori". Ho provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non conosco o silenzi che affondano nel sospetto o nella disperazione. Con qualche padre o fratello ho parlato: cerco di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Mi piacerebbe dire di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e, alla fine, ce la faranno. Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio. La tragedia delle donne - Mi sposto nella zona riservata alle donne: la situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie. Accanto scola in una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita come vecchie. Ho capito perché quando i poliziotti hanno tirato fuori da una borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale. La magia nera per legare le migranti prostitute. E un quaderno in cui sono segnate, meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove dinari. Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte incinte: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da denti, altre due si contendono una caramella. Un neonato nudo giace abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme. Al centro della stanza una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano accanto, la urtano, lei non si muove. Prega, sì prega: un canto monotono per ringraziare dio che non l’ha abbandonata. Il sudiciume del luogo non riesce a coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. Sì, la Parola è davvero senza fine. Libia. Haftar e le minacce alle navi italiane: "Senza il nostro accordo, è un’invasione" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 12 agosto 2017 Parla il leader che controlla la regione della Cirenaica: "Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi". Sin dalle prime battute in quasi un’ora e mezza di intervista il generale Khalifa Haftar fa capire che a questo punto non intende davvero bombardare le navi militari italiane in Libia. Ma l’uomo forte della Cirenaica spiega anche le ragioni del suo acceso risentimento contro il governo italiano e nei confronti del premier di Tripoli, Fayez Sarraj. Lo abbiamo incontrato nella capitale giordana mentre sta preparando una visita nei prossimi giorni a Mosca. Su cui specifica: "Con la Russia abbiamo un rapporto storico. Ma che io sappia non hanno alcuna intenzione di costruire una loro base militare in Cirenaica". Generale può spiegare come mai ai primi di agosto ha dichiarato che avrebbe potuto attaccare le navi italiane che incrociassero nelle acque territoriali del suo Paese? "In primo luogo voglio ribadire che libici e italiani sono amici. Abbiamo superato il retaggio dell’aggressione fascista. E, proprio perché i nostri rapporti sono eccellenti, tengo a combattere chiunque provi a rovinarli. In Italia veniamo in vacanza, i nostri feriti sono curati, abbiamo antiche relazioni economiche. Ma devo anche dire che noi libici teniamo alla nostra indipendenza e sovranità. Nessuno può entrare con mezzi militari nelle nostre acque territoriali senza autorizzazione. Sarebbe un’invasione e abbiamo il diritto-dovere di difenderci, anche se chi ci attacca è molto più forte di noi. Vale per l’Italia, come per qualsiasi altro Paese". Ma l’arrivo delle navi italiane è il frutto di un accordo tra Roma e Sarraj, nel contesto del controllo del traffico dei migranti. Lei sa bene che non c’è alcuna mira aggressiva. Dove sta il problema? "Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Non solo, nessuno ci ha mai detto nulla. È stato un fatto compiuto, imposto senza consultarci". Dunque quelle navi della marina militare italiana nel porto di Tripoli e dintorni restano obbiettivi potenziali? "No, non è questo il caso. Non si tratta di un atteggiamento specificamente anti-italiano. Vale per qualsiasi nave militare straniera che resta un obbiettivo legittimo, se non si coordina con le mie forze armate". La sua è un’accusa a Sarraj, che non rispetta le vostre intese di cooperazione firmate a Parigi il 25 luglio sotto l’egida del presidente Macron? "Assolutamente sì. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi. Ma la violazione è anche italiana. A Roma sono corresponsabili, sanno benissimo che Sarraj non ha alcuna autorità per permettere alle vostre navi di venire nelle nostre acque territoriali. Non ha chiesto il parere a me e neppure al suo Consiglio presidenziale. La sua è una scelta individuale, illegittima e illegale". Lei stesso in gennaio ha spiegato in un’intervista al Corriere di avere contatti regolari con i servizi segreti italiani. Neppure loro l’hanno avvisata in anticipo? "Nulla. Nessuno mi ha detto nulla dall’Italia. Per me è stata una sorpresa totale. Dopo che ho protestato è venuto personalmente il numero due dei vostri servizi a scusarsi, promettendo che avrebbe investigato per capire dove a Roma avevano sbagliato". È il fallimento delle intese di Parigi? "Non direi. Io credo ancora in quelle intese, restano l’unica piattaforma su cui costruire la transizione per cercare di alleviare le sofferenze del popolo libico. Penso inoltre sia possibile tenere elezioni politiche in Libia il marzo prossimo, come si è programmato a Parigi, e probabilmente anche prima". Quindi Sarraj resta un partner, anche se ogni volta che parla con lei i suoi alleati lo attaccano duramente? "Sarraj è messo alla prova. Vediamo se riesce a mantenere la parola data. Anche se sino ad ora ha sempre fallito a causa delle sue debolezze strutturali. Lo provano le sue ultime mosse, ha già tradito anche le promesse fatte al nostro incontro di Abu Dhabi in primavera. Il suo problema è che dipende dalle milizie, non possiede un esercito regolare come il nostro. Ecco perché subisce anche il peso delle bande di scafisti e della criminalità che gestisce il traffico dei migranti in Tripolitania". Eppure, negli ultimi giorni il traffico di migranti verso l’Italia pare diminuire. I flussi crescono per contro verso la Spagna. Lei cosa suggerisce? "Il problema migranti non si risolve sulle nostre coste. Se non partono più via mare ce li dobbiamo tenere noi e la cosa non è possibile. Anche gli accordi del vostro ministro degli Interni Minniti con le tribù, le milizie e le municipalità del nostro deserto sono solo palliativi, soluzioni fragili. Dobbiamo invece lavorare assieme per bloccare i flussi sui 4.000 chilometri del confine desertico libico nel sud. I miei soldati sono pronti. Io controllo oltre tre quarti del Paese. Possiedo la mano d’opera, ma mi mancano i mezzi. Macron mi ha chiesto cosa ci serve: gli sto mandando una lista". Per esempio? "Corsi di addestramento per le guardie di frontiera, munizioni, armi, ma soprattutto autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati di 150 uomini ciascuno altamente mobile e posizionati ogni minimo 100 chilometri". Costo? "Stimo circa 20 miliardi di dollari distribuiti su 20 o 25 anni per i Paesi europei uniti in uno sforzo collettivo". Una somma comunque enorme! "Nulla, se paragonata a quella che l’Europa stanzia per Erdogan. La Turchia prende 6 miliardi e passa da Bruxelles per controllare un numero infinitamente inferiore di profughi siriani e qualche iracheno. Noi in Libia dobbiamo contenere flussi giganteschi di gente che arriva da tutta l’Africa. Se ogni governo europeo contribuisce ad aiutarci, per voi la spesa diventa irrisoria". Lei continua a parlare del suo impegno nella lotta contro il terrorismo. Ma c’è ancora un vero pericolo Isis in Libia dopo la sua apparente sconfitta nella roccaforte di Sirte l’autunno scorso? "È molto diminuito. A Bengasi e nel deserto sotto il nostro controllo l’abbiamo battuto. Restano pericolosi circa 300 militanti di Isis a Derna e 200 a Sabrata". Agli inizi di giugno le milizie di Zintan, sue alleate, hanno liberato il figlio maggiore di Gheddafi, Saif al Islam. Lei ha avuto un ruolo? "No e non gli ho mai parlato da quando è stato liberato. Saif non mi ha mai chiesto alcuna assistenza. È un cittadino libico come tutti gli altri, con obblighi e doveri. L’era di Gheddafi è cosa del passato, anche se so che tanti tra i suoi ex sostenitori oggi mi sono favorevoli". Nord Corea. L’escalation della retorica e i rischi potenziali di un conflitto di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 12 agosto 2017 Con la minaccia di Pyongyang di effettuare un lancio "dimostrativo" di missili verso l’isola americana di Guam, aumentano i rischi di una risposta militare Usa circoscritta. Donald Trump usa le parole di John Wayne in un film di guerra, "locked and loaded" (un’arma carica, pronta all’uso), per minacciare ancora una volta, la terza, di devastare la Corea del Nord se Kim Jong-un non cambia rotta sui preparativi nucleari e in America, il timore che la crisi finisca fuori controllo, sale improvvisamente alle stelle. Fin qui era diffusa la sensazione che la "guerra delle parole" sarebbe rimasta tale e l’opinione pubblica era, in parte, distratta dai fatti nuovi nell’inchiesta Fbi sulle interferenze di Mosca nelle elezioni Usa e dallo scontro fra Trump e il suo partito, i repubblicani, per il mancato smantellamento della riforma sanitaria di Obama. Tra l’altro, a ben guardare le sortite del presidente americano, spazi di manovra sembrano essercene ancora: Trump lancia avvertimenti ultimativi, fa intravedere scenari apocalittici ma, mentre nei giorni scorsi aveva promesso di intervenire anche contro nuove "minacce", ora parla di "azioni" e si augura che il dittatore nordcoreano cambi rotta. Eppure la tensione sale e l’allarme si diffonde anche in Cina (avverte Kim che se attacca dovrà cavarsela da solo, a meno che non siano gli americani ad agire per primi), in Russia (che giudica molto alto il rischio di conflitto e invita chi è più forte, l’America, a essere anche più prudente e responsabile) e si fa sentire perfino la cancelliera tedesca Angela Merkel (basta con l’escalation della retorica). Questo nuovo clima da "allarme rosso" è legato a due fattori. Da un lato la sensazione che la guerra delle parole sia diventata una spirale della quale può essere perso il controllo in qualunque momento: "L’escalation verbale è micidiale ed è proprio ciò che desidera Kim Jong-un, lo tiene al centro della scena mondiale", avverte il generale James Thurman, uno che quella regione la conosce bene, visto che è stato capo delle forze Usa in Sud Corea. In secondo luogo, se la prospettiva di un attacco nucleare generalizzato degli Stati Uniti rimane abbastanza remota, con la minaccia di Pyongyang di effettuare tra qualche giorno un lancio "dimostrativo" di missili verso l’isola americana di Guam, aumentano i rischi di una risposta militare Usa circoscritta, come il bombardamento della base dalla quale starebbero per partire i missili coreani. Ma la Corea non è la Siria, colpita mesi fa da Trump con un’azione di rappresaglia circoscritta alla base aerea dalla quale sono partiti i bombardieri che hanno sganciato ordigni chimici. Pyongyang può colpire facilmente, anche con armi convenzionali, la Corea del Sud e il Giappone. Seul è alla portata dell’artiglieria di Kim. È chiaro che ogni azione, anche limitata, rischia di alimentare reazioni a catena incontrollabili. E l’opinione pubblica Usa, sconcertata, si trova a discutere di opzioni che riteneva impensabili e di problemi mai considerati fin qui. Il Congresso può impedire a Trump di lanciare un attacco nucleare? Forse sì, ma verrebbe stabilito un precedente pericoloso per la difesa americana da eventuali altri attacchi. Se Kim lancia i suoi vettori, gli Usa possono abbatterli coi loro missili antimissile? Sì, ma nessuno sa quanto valide siano queste difese. Se lo scudo, mai sperimentato, mostrasse delle falle, sarebbe un disastro. Egitto. Anche un insegnante tra le vittime delle esecuzioni extragiudiziali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 agosto 2017 Al termine di quattro mesi di ricerche e verifiche, Amnesty International è giunta alla conclusione che un insegnante scomparso dopo l’arresto il 9 aprile in Egitto sia stato vittima di un’esecuzione extragiudiziale. L’ennesima del 2017, come sempre celebrata come "eliminazione di terroristi" da parte delle forze di polizia, certe di poter contare sull’impunità. Le testimonianze oculari, quelle di colleghi e familiari e le prove documentali raccolte da Amnesty International indicano che Mohamed Abdelsatar venne arrestato nella scuola dove insegnava, l’istituto "Abdel Samie Saloma", affiliato al centro d’insegnamento religioso di al-Azhar, nel governatorato di Behira. Questa conclusione smentisce quanto dichiarato il ministero dell’Interno il 6 maggio, ossia che l’uomo era stato ucciso nel corso di uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Amnesty International ha intervistato due parenti e tre colleghi di lavoro di Abdelsatar e ha esaminato 10 documenti, tra cui lettere provenienti dal suo ambiente di lavoro, il registro delle presenze dei docenti e le denunce presentate dalla sua famiglia dopo l’arresto e la sparizione. Il fratello di Abdelsatar ha riferito di averlo visto per l’ultima volta la mattina in cui era uscito di casa per recarsi a scuola e che i familiari si sono recati più volte alla stazione di polizia e all’ufficio del procuratore senza ricevere mai notizie fino a quando il ministero dell’Interno non ne ha annunciato la morte. Nonostante Abdelsatar fosse stato arrestato sul posto di lavoro, il ministro dell’Interno ha accreditato la versione secondo la quale lui e un altro uomo, Abdallah Ragab, erano stati uccisi durante uno scontro a fuoco con la polizia a Tanta, nel governatorato di Gharbia, dopo aver opposto resistenza all’arresto. Sempre secondo la dichiarazione del ministero dell’Interno, i due uomini facevano parte dei gruppi armati "Hasm" e "Liwaa al-Thawra" ed erano ricercati per "sostegno a gruppi terroristici". Amnesty International non è a conoscenza di alcuna prova fornita dalle autorità egiziane a supporto di tali accuse. Dal 2015 le autorità egiziane hanno fatto più volte annunci di questo tipo ma non hanno mai fornito le circostanze degli "scontri a fuoco" e della morte dei "ricercati". Uno dei colleghi di Abdelsatar che assistette all’arresto, ha raccontato di aver visto, intorno alle 10.30 del 9 aprile, un’automobile di colore rosso di fronte al cancello della scuola con a bordo persone in abiti civili. Un uomo che indossava un completo scese dall’automobile, entrò nell’edificio e ne uscì con Abdelsatar, ordinandogli di salire a bordo. Come documentato da Amnesty International in un rapporto di un anno fa, il personale dell’Agenzia per la sicurezza nazionale è solito usare veicoli civili e indossare abiti civili nel corso delle operazioni. Un altro collega, che al momento dell’arresto era a scuola, ha riferito che diversi impiegati e studenti avevano assistito alla scena. Amnesty International ha anche esaminato una serie di documenti, tra cui lettere inviate dal direttore dell’istituto scolastico alla stazione di polizia di Abu Elmatamer e all’ufficio locale del centro religioso di al-Azhar, segnalando l’arresto di Abdelsatar e chiedendo informazioni. L’organizzazione per i diritti umani ha potuto visionare il registro delle presenze dei docenti. Il 9 aprile compare la firma d’entrata di Abdelsatar ma non quella di uscita, sostituita dalla nota "arrestato a scuola durante l’orario di lavoro". Lo stesso registro elettronico di classe che Abdelsatar aggiornava quotidianamente è fermo al 9 aprile. Il fratello di Abdelsatar ha raccontato che quando, l’8 maggio, si è recato all’obitorio per ritirare la salma, questa presentava estesi graffi alla mano destra e segni di due colpi d’arma da fuoco sulla schiena. Solo quest’anno Amnesty International ha documentato numerosi casi sospetti di esecuzioni extragiudiziali da parte della polizia egiziana. Recentemente ha sollecitato indagini sull’uccisione di quattro uomini, avvenuta tra il 20 e il 23 giugno, che secondo i loro familiari erano stati sottoposti a sparizione forzata e torturati per almeno quattro settimane. In un altro caso, risalente ad aprile, un video pervenuto ad Amnesty International mostra un gruppo di militari nel Sinai del Nord uccidere sette persone prive di armi, tra cui un diciassettenne. Il 13 gennaio, sempre nel Sinai, la polizia era stata responsabile dell’esecuzione extragiudiziale di sei uomini dopo averli tenuti in isolamento per tre mesi. Grecia. Cinque mesi in carcere da innocente, la storia di Felice Maldarella di Lucia Portolano Il7 Magazine, 12 agosto 2017 Per fortuna trasportava arance. Una storia che ha del grottesco se non fosse che il protagonista ha vissuto un incubo. E soprattutto un’ingiustizia. Cinque mesi di carcere da innocente. Accusato di traffico di clandestini. Dopo un lungo calvario è stato assolto con formula piena. Sballottolato tra le carceri della Grecia in condizioni disumane. Lui è Felice Maldarella, camionista ostunese di 48 anni, il 13 luglio dopo 5 mesi finalmente è tornato a casa. Era stato arrestato il 7 marzo scorso al porto di Igoumenitza in Grecia perché nel suo tir sierano nascosti cinque clandestini. Ma lui con questa storiaccia non c’entrava nulla. Anzi, era stato lui stesso a denunciare che il suo camion era stato manomesso, e per questo aveva chiesto un controllo alla polizia. Ma in pochi minuti si è ritrovato le manette ai polsi. E spedito in una cella all’aperto ad Igoumenitza dove è rimasto 8 giorni prima di essere trasferito al carcere di Patrasso. Una storia assurda, ma stando a quanto racconta il camionista non è la sola nel paese ellenico. Non sarebbe l’unico straniero ad avere subito un’ingiustizia simile. "Dovevo imbarcarmi per tornare a Brindisi, quando ho visto che il portellone del mio tir era stato manomesso- racconta Felice- chiedo ad un amico greco, che conosceva bene l’italiano, di accompagnarmi alla polizia di frontiera per denunciare il fatto. Chiedo proprio io un controllo con lo scanner per vedere cosa c’era all’interno. Da quelle parti i clandestini saltano da un mezzo all’altro come canguri. Bisogna stare attenti". Il camionista aspetta diverse ore sino a quando non arriva il suo turno per i controlli di polizia. Mentre il mezzo passa nello scanner vengono trovati nascosti all’interno cinque clandestini. Loro stessi interrogati dicono di non conoscere il conducente e di non aver mai avuto con lui nessun contatto. Né di averlo mai pagato. "Ma nonostante fossi stato io a denunciare la cosa- aggiunge il camionista- mi sono visto improvvisamente ammanettare e portare via". Nell’assoluta incredulità l’uomo si è ritrovato in un luogo dove c’erano delle cellette all’aperto, non era un vero e proprio carcere, ma un posto di transito. "Sono stato qui 8 giorni- spiega con rabbia Felice- erano cellette 3 metri per 5. In questo posto angusto e sporco mi hanno messo con altre 10 persone. Eravamo lì dentro uno accanto a l’altro per terra. Non c’era neanche un lavandino per lavarci e ci passavano tra i piedi i topi. C’era una fossa turca al centro, dove tutti potevano fare i bisogni". Un incubo. Un’esperienza che Felice Maldarella non augura a nessuno. Ma ora chiede il conto. Vuole il risarcimento danni. Ha perso 11 chili, non mangiava più. Per cinque mesi non ha preso lo stipendio e non ha potuto mandare i soldi a sua figlia che studia a Milano. Il camion è stato sequestrato. A questo si sono aggiunte le spese per pagare gli avvocati. E poi quelle terribili notti in cella da innocente. "Non ho mai visto nessun rappresentante dell’ambasciata italiana in 5 mesi- aggiunge- ho dovuto impiegare due avvocati greci. Gli italiani non li fanno proprio entrare. Ho conosciuto stranieri rimasti in carcere per 1 anno e mezzo per una sigaretta di hashish, poi un greco dopo pochissimo lo hanno mandato a casa nonostante fosse stato beccato con 10 chili di droga". È furioso il camionista ostunese. In Grecia non vuol metterci piede neanche per andare in vacanza. Ci andava con il suo tir, per conto di un’ azienda di San Vito dei Normanni, almeno tutte le settimane. Fa questa lavoro dal 2003, da quando si è separato dalla moglie. Dopo gli 8 giorni in cella a Igoumenitza tra sporcizia e topi è stato trasferito al carcere di Patrasso dove è stato più tempo, qui le cose andavano meglio. Ma poi è arrivato il trasferimento al carcere di Corfù. Giorni chiuso in una stanzetta 2 metri per 2 metri. Con lui c’era un’altra persona. Dalla doccia usciva acqua salata. Questa era posizionata sopra la fossa del bagno turco, sempre nella stessa cella. "In carcere in Grecia bisogna comprare tutto- dice il camionista- anche la carta igienica. Se non hai i soldi muori". A Corfù si è celebrato il processo. "L’udienza è durata tre quarti d’ora- racconta ancora l’uomo- c’è stata la testimonianza del mio amico greco, poi del poliziotto. Ed infine la mia deposizione. In pochissimo sono stato assolto. Si rende conto: 5 mesi di carcere per tre quarti di udienza con assoluzione. La verità e la mia innocenza era davanti agli occhi di tutti". Felice Maldarella non intendere fermarsi, con il suo avvocato Angela Cavallo, presenterà richiesta di risarcimento danni. "Voglio andare sino in fondo - dice l’uomo - perché sono stati lesi i miei diritti. Voglio fare questa battaglia affinché non accada ad altri. Perché la mia non è l’unica storia". Spagna. Cosa sta causando la crescente violenza dei detenuti spagnoli di Cecilia Scaldaferri Agi, 12 agosto 2017 Malgrado la diminuzione della popolazione penitenziaria, pesanti tagli all’organico delle guardie hanno provocato secondo i sindacati una ‘escalation’ di aggressioni e minacce. Il servizio del Pais. Cosa succede nelle prigioni spagnole? Si esacerba la violenza tra la popolazione carceraria, mentre la vita delle guardie penitenziarie - che hanno subìto anche tagli di organico - sembra farsi sempre più dura. Dall’inizio dell’anno in Spagna si sono già registrati una trentina di episodi di violenza dei detenuti contro le guardie: si va dai colpi ai morsi fino addirittura a mosse di arti marziali. Una situazione denunciata dal sindacato, che punta il dito contro la carenza di organico. Come ha ricostruito il quotidiano El Pais, sono 19 le carceri più violente della Spagna, dove tra il 2011 e il 2016 si è registrato il 57,7% di tutti i 2.208 episodi a livello nazionale. A detenere il ‘primato’ è la prigione situata a Estremera, un sobborgo di Madrid, con 124 casi, seguita dall’istituto penitenziario di Soto del Real (98), sempre nella zona della capitale, dove si trova rinchiusa la maggior parte dei detenuti più ‘famosi’. Vengono poi quelli di Zuera (79), Valencia e Siviglia II, entrambe con 75 episodi, e Port I (68). A completare la lista ci sono Albolote (Granada), Botafuegos (Algeciras), Malaga, Cordoba, Puerto III, Villabona (Asturie), Palma de Mallorca, Las Palmas II, Dueñas (Palencia), A Lama (Pontevedra), Teixeiro (A Coruña), Madrid IV e l’ospedale psichiatrico di Alicante. L’ultimo caso ad attrarre l’attenzione dei media, e a suscitare le vive proteste del sindacato Acaip, è avvenuto nella prigione di Caceres: un detenuto ha cominciato a lanciare insulti e minacce alle guardie che hanno dovuto immobilizzarlo, ma una di loro è rimasta ferita. È un ulteriore esempio di quella "escalation" denunciata dalla rappresentanza dei lavoratori ma smentita dal ministro dell’Interno, Juan Ignacio Zoido, che nega l’esistenza di qualsiasi ondata di disordini. Il numero di aggressioni subite dalle guardie penitenziarie negli ultimi anni oscilla con cali e riprese, a fronte di una popolazione carceraria diminuita in modo significativo: dai circa 60mila detenuti nel 2011 a poco più di 51mila l’anno scorso. Come mostrano i grafici del quotidiano spagnolo, sei anni fa si sono registrati 427 casi (di cui 10 gravi, 190 lievi e 227 senza lesioni), scesi a 406 l’anno seguente e a 314 nel 2013, quando è stato segnato il numero più basso di incidenti nel periodo considerato. Nel 2014 gli episodi sono tornati a crescere (359), con un lieve calo a 342 l’anno successivo ma una ripresa nel 2016 (360). Secondo l’Acaip, tra le ragioni principali di questa situazione ci sono i tagli all’organico subiti dal personale carcerario durante la crisi, che hanno provocato un deficit di 2.100 posti di lavoro. Il numero di agenti di sorveglianza è sceso da 15.574 a 14.991, mentre il totale della forza lavoro è passato da 22.919 a 21.838. Un numero "chiaramente insufficiente", ha sottolineato il portavoce del sindacato, Nacho Gutierrez: "Il nostro lavoro - ha ricordato - non è solo monitorare e contare, ma anche reinserire, e con l’attuale numero di persone a disposizione è impossibile". Per cercare di porre un freno, le autorità di recente hanno approvato un protocollo anti-aggressione che prevede anche un inasprimento delle pene ai detenuti. Ma il documento non ha ricevuto il plauso sperato, con solo due sindacati - Csif e Ugt - che l’hanno sostenuto. L’Acaip, insieme al Ccoo, lo ha respinto sostenendo che "non risponde alle aspettative" e non tiene in considerazione "gli insulti, le vessazioni e i colpi che non lasciano traccia". Messico. Conflitto tra gang in prigione: 9 morti di Roberto Bernocchi notizie.it, 12 agosto 2017 Ennesimo conflitto avvenuto in una prigione in Messico tra gang rivali. Dallo scontro hanno perso la vita nove detenuti. Continuano i conflitti fra diverse gang rivali all’interno delle prigioni in Messico. Nell’ultimo episodio che è capitato a perdere la vita sono stati in tutto nove detenuti. È questo dunque un primo bilancio degli scontri avvenuti tra persone facenti parti di gang rivali, almeno secondo quanto riferito dalle autorità locali. Questa ultima vicenda è capitata a Reynosa, una città presente nello stato di Tamaulipas e che si trova nelle vicinanze del confine con gli Usa. Scontri fra gang rivali in Messico: i casi precedenti - Quello avvenuto nella prigione di Reynosa è solamente l’ultimo episodio che riguarda i conflitti all’interno delle prigioni presenti in Messico. Lo scorso luglio, ad esempio, ben ventotto detenuti sono morti in un carcere di Acapulco, nello Stato di Guerrero sempre in Messico. Quello è stato in assoluto uno degli episodi più gravi di violenza avvenuto negli ultimi anni nelle prigioni del Paese. In quella circostanza, la scontro è accaduto proprio nel giorno in cui in Messico si trovava in visita John Kelly, il Segretario alla Sicurezza Interna degli Stati Uniti. Secondo quanto ricostruito dai funzionari della sicurezza locale, alle base degli scontri fra i detenuti sembra che ci fosse la rivalità fra due differenti gang presenti nell’ala della massima sicurezza della stessa prigione in cui erano rinchiusi. Dal conflitto, inoltre, altre tre persone sono rimaste ferite. Il carcere di Acapulco, secondo quanto riferito dalle autorità locali, è sovraffollato di circa il 30%. La prigione, infatti, ospita 1951 uomini e 110 donne, mentre ha una capacità totale di sole 1624 persone. In Messico la violenza è recentemente aumentata e sta continuando sempre più a salire. Il 2017 sta per diventare uno degli anni più sanguinosi, come dimostra anche l’aumento del 30% degli omicidi nei primi cinque mesi dell’anno. A giugno, altre sette persone (tra cui tre agenti di polizia) erano state uccise nel corso di uno scontro armato avvenuto nel carcere di Tamaulipas (lo stesso luogo in cui è avvenuto lo scontro che vi abbiamo descritto in precedenza e in cui sono morte nove persone). A marzo, invece, ventinove detenuti erano evasi dalla stessa prigione situata al confine con gli Stati Uniti, un’area in cui sono attive diverse bande che sono coinvolte in traffico di droga, racket e in sequestri.