Reinserimento sociale dei detenuti: cosa può fare un privato per aiutare lo Stato di Giovanna Melandri Il Foglio, 11 agosto 2017 Qualche settimana fa a Torino è stato presentato il primo schema fondato sul principio Pay by Result (PbR), finalizzato a sostenere il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Non si tratta di una notizia di tecnica finanziaria, per addetti ai lavori; in realtà quella che sta partendo potrebbe trasformarsi ben presto in una rivoluzione copernicana delle politiche sociali. Il contesto è ovvio: come reperire risorse aggiuntive per l’innovazione del welfare in un momento in cui i budget per l’inclusione sono pressati da gravosi tagli ovunque in Europa e le Pa, sempre più impantanate in procedure bizantine, faticano a spendere bene i fondi disponibili? Le politiche "evidence based" rappresentano un’interessante opportunità per sostenere l’innovazione sociale. Il meccanismo Pbr fonde insieme, in un processo trasparente e virtuoso, fondi pubblici e capitali privati, esigenze sociali e mentalità imprenditoriale; condizionando la spesa di fondi pubblici alla verifica positiva del raggiungimento di risultati chiari e prede-finiti. Nati nel contesto anglosassone, ma oggi diffusi in molti paesi, i PbR si fondano su accordi attraverso i quali la Pa, dopo aver individuato un’area di bisogno sociale e chiari obiettivi da raggiungere, accantona risorse economiche che vengono "anticipate" da investitori socialmente orientati e utilizzate per realizzare, attraverso operatori del Terzo settore, interventi innovativi. Solo al raggiungimento degli obiettivi sociali, verificati da un soggetto terzo, la Pa restituisce agli investitori l’investimento iniziale, più un eventuale ritorno finanziario. In sostanza, la Pa paga a risultato raggiunto e l’investitore si assume un rischio collegato all’eventuale fallimento dell’intervento sociale. Lo schema Pbr supera molti vizi delle modalità con cui vengono erogate oggi le risorse pubbliche. Non si tratterà più di mungere la vacca (sempre meno grassa) della Pa né di spalancare le porte ai doni del filantropo di turno, al contrario si sperimentano modelli di cooperazione da cui pubblico, privato e terzo settore, trarranno profitto ed insegnamento. Gli strumenti Pbr sfidano tutti sul terreno dell’efficienza e dell’innovazione: la Pa adempie ai propri doveri condividendo il rischio finanziario con dei privati e questi, a loro volta, si misurano con sfide di tale portata da costringerli a un virtuoso scatto di responsabilità e di organizzazione e il Terzo settore è chiamato esplicitamente alla sfida dei "risultati". Il cuore degli schemi Pbr è la valutazione, che si pone - in modo innovativo - come un passaggio fondamentale del procedimento. Senza la certificazione del raggiungimento degli obiettivi sociali prefissati, infatti, non vi sarà né erogazione di fondi pubblici a copertura dell’investimento di capitale privato, né sviluppo e scalabilità degli interventi stessi. Ecco la rottura culturale: l’introduzione del principio delle evidenze a sostegno delle politiche pubbliche. Passaggio strategico - quasi dirompente - in un paese disabituato a interrogarsi sugli effetti delle politiche e portato, invece, a riprodurre irriflessivamente ciò che è stato fatto nel passato. La sperimentazione di politiche "evidence based" ci porta in un mondo nuovo, post ideologico ma non post valoriale. Ma veniamo all’esperienza torinese: grazie alla collaborazione del ministero della Giustizia il primo esempio italiano di applicazione dello schema Pbr consentirà il reinserimento lavorativo degli ex detenuti della casa circondariale di Torino. Il modello sperimentale è il frutto di un lungo lavoro di ricerca di Human Foundation e di Fondazione Crt. Il risultato che ci attendiamo è di supportare l’amministrazione penitenziaria nella sua missione di risocializzazione, mettendo a sua disposizione delle "evidenze" sull’effettiva capacità del modello di intervento di contrastare la recidiva e, qualora l’esito sia positivo, scalarlo e replicarlo. Ora, lanciata la prima sperimentazione, non resta che estendere il modello ad altre aree delle politiche sociali, sapendo che attraverso l’impiego dei PbR, la Pa può finalmente spostare il focus dalle attività all’impatto sociale reale generato. Ecco la rivoluzione copernicana: politiche sociali fondate sui risultati. Il cielo notturno è vietato ai prigionieri di Adriano Sofri Il Foglio, 11 agosto 2017 Ventinove anni fa, dal carcere, la richiesta di poter vedere le stelle cadenti il 10 di agosto. Il cielo notturno è vietato ai prigionieri. Anche ora, d’estate. Il cielo notturno non si vede all’aperto, né dalle finestre. Il tempo delle tenebre è attissimo a ogni male. Niente cielo stellato sopra di noi - dentro di noi, niente. Compilo una domandina: "I sottoscritti detenuti, ristretti presso codesta Casa Circondariale (seguono 289 firme) fanno ossequiosamente istanza alla S. V. Ill.ma per essere condotti nottetempo in data odierna sul terreno del campo di calcio onde contemplare le stelle cadenti ed esprimere ciascuno un desiderio che sa lui. Con osservanza etc.". (Questo era scritto nel 1988. Vale ancora. Ora, fa solo ancora più caldo). La cultura giuridica dell’Italia va riformata di Luca Enriques* Corriere della Sera, 11 agosto 2017 Il freno all’impresa e all’innovazione non è colpa dei Tar, ma della concezione che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé. Tra i tanti fattori che ostacolano la crescita dell’economia italiana, la giustizia amministrativa finisce regolarmente tra i soliti sospetti, come ci ha ricordato Gerardo Villanacci (Corriere della Sera, 4 agosto). Ma, replica Giulio Napolitano (7 agosto), qual è l’alternativa? Far confluire la giustizia amministrativa in quella ordinaria porterebbe solo a un allungamento dei tempi e a una despecializzazione dei giudici. In effetti, non è che i Tar e il Consiglio di Stato sfigurino rispetto alla magistratura ordinaria: le loro decisioni che incidono sull’iniziativa economica, semplicemente, fanno più spesso notizia di quelle dei giudici civili. Se l’amministrazione della giustizia frena l’iniziativa economica, privata o pubblica, e gli investimenti, non è perché è articolata in un certo modo, ma perché riflette una cultura giuridica essa stessa di ostacolo all’impresa e all’innovazione. Più precisamente, il problema è la concezione che i magistrati (e di riflesso gli avvocati) hanno del diritto e di sé. Il diritto, per il giudice italiano, non è strumento che serve gli individui e le loro formazioni sociali, per agevolarne le interazioni, ma ordine superiore al quale la realtà economica deve piegarsi. Il ruolo del giudice è quello non di dare una soluzione prevedibile a una controversia sulle base di regole di interpretazione ben definite (riducendo l’incentivo stesso a ricorrere ai tribunali), ma, quando va bene, di trovare la soluzione che nel caso singolo meglio realizza il valore costituzionale della solidarietà e/o che assicura l’esercizio della proprietà e della libertà di iniziativa economica entro i confini della loro funzione o utilità sociale. Le ragioni dello sviluppo economico, sia pure compresse nella più dignitosa dizione dell’esigenza di certezza del diritto o in quella più mondana di "buon senso comune", non hanno alcuna influenza sul sistema di valori che, implicitamente o esplicitamente, è alla base delle sentenze. Ed è ovvio che la lettera della norma non conta: tanto, è scritta male. Ma è un circolo vizioso: perché Parlamento e governo dovrebbero sforzarsi di scrivere bene le norme, se poi i giudici hanno enormi margini per re-interpretarle a proprio piacimento? Né aiuta la concezione che spesso (e con le dovute eccezioni) i magistrati italiani, come tanti funzionari pubblici, hanno di sé: non di soggetti che prestano un servizio ai singoli utenti che si rivolgono loro, ma di titolari di un potere che la cultura giuridica prevalente, come si è appena visto, rende quasi assoluto. Di qui, nella peggiore delle ipotesi, i casi di corruzione che pur- troppo non risparmiano le magistrature ovvero, secondo un malcostume purtroppo diffuso, l’esercizio della funzione come dispensa di favori a questa o quella parte, a questo o quell’avvocato. Si può ovviamente dissentire dall’idea che l’obiettivo della crescita economica o anche solo l’aspirazione alla certezza del diritto possano giustificare la riduzione dei margini che un giudice ha per venire incontro, in piena buona fede, alla parte più debole di un contratto, al consumatore che non aveva capito che servizi stesse acquistando, e così via. Il punto è che non sono il riparto della giustizia tra ordinaria e amministrativa, la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi o le tecnicalità dell’ordinamento giudiziario i veri ostacoli all’iniziativa economica. È piuttosto una cultura giuridica stratificatasi nel corso di decenni: ritocchi ai codici o gattopardesche riorganizzazioni non la scalfirebbero. Lungi da me l’idea di concludere con un proclama per la rifondazione della cultura giuridica italiana. Ma chi avesse sinceri istinti riformatori non potrebbe esimersene. *Professore di diritto societario Università di Oxford Faida del Gargano, è una guerra di mafia (ma non per i giudici) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 agosto 2017 Le armi utilizzate, kalashnikov e fucile a pallettoni, l’identità della vittima designata: un noto pregiudicato appena uscito di galera, già scampato a un altro agguato: che altro serve per parlare di faida tra cosche? Dopo una strage come quella dell’altro ieri, si fra presto a dire mafia. Basta guardare alle armi utilizzate, kalashnikov e fucile a pallettoni, e all’identità della vittima designata: un noto pregiudicato appena uscito di galera, già scampato a un altro agguato. Che altro serve per parlare di faida tra cosche? Tuttavia a guardare le carte processuali - le uniche che fanno testo, al di là delle impressioni e delle ricostruzioni sociologiche - la mafia del Gargano è un affare molto più complicato, che gli stessi giudici fanno fatica a riconoscere come tale. Mario Luciano Romito, il boss ammazzato mercoledì, non era stato mai condannato per associazione mafiosa, né il suo clan fu riconosciuto come tale. Solo i vecchi alleati dei Li Bergolis, al termine di un accidentato percorso giudiziario, hanno avuto questo poco commendevole riconoscimento. Dopodiché, rotto l’antico patto che li riuniva nel cosiddetto Clan dei Montanari, hanno scatenato la vendetta contro i Romito, che però sono rimasti un’associazione per delinquere "semplice", dedita per lo più al contrabbando. La catena di omicidi che hanno colpito ora una ora l’altra fazione ha tutte le caratteristiche della "guerra di mafia", ma la mafia - ufficialmente - c’era solo da una parte. "Noto un certo ritardo culturale della magistratura giudicante, che appare non del tutto consapevole di ciò che accade sul territorio", disse qualche mese fa al Corriere il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, capo della Direzione distrettuale antimafia competente su ciò che accade in provincia di Foggia; commentava una sentenza del tribunale di Foggia che aveva escluso l’aggravante del metodo mafioso per le estorsioni contestate a un altro clan del Gargano, i Notarangelo, che ha potuto allargare i suoi affari proprio in conseguenza della rottura tra i Li Bergolis e i Romito. In quel caso il tribunale sostenne la tesi di un "abbagliante affresco criminale" che ai loro occhi appariva invece "sbiadito e scolorito, se non inesistente", arrivando a ipotizzare un tentativo di condizionamento (andato a vuoto) da parte delle associazioni antiracket. Appena scarcerati, gli imputati hanno cominciato a ammazzarsi fra loro, restituendo sostanza all’affresco mafioso negato dai giudici. La corte d’appello di Bari, poche settimane fa, ha riconosciuto l’aggravante anche sul piano giudiziario, ma è solo una tappa di un cammino che appare ancora lungo e irto di difficoltà. Nonostante gli omicidi a ripetizione, e adesso anche le stragi. La mafia è mafia, la corruzione è un’altra cosa di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 11 agosto 2017 San Marco in Lamis ci ha ricordato che la mafia esiste. Il paese è stato brutalmente svegliato dalla illusione che la mafia fosse stata sconfitta o, quantomeno, fortemente indebolita. Di qui un coro di voci tese ad affermare che oggi la mafia si è trasformata. La nuova mafia usa le armi della corruzione ed è, perciò, la lotta alla corruzione la nuova frontiera della lotta alla mafia. Con un chiaro progetto: estendere la legislazione speciale per la lotta alla mafia ad un numero sempre più ampio di reati. L’effetto sarebbe quello di trasformare il paese in uno stato di polizia. Chiedere il rispetto dei limiti dello stato di diritto non significa, è bene sottolineare, essere accondiscendenti con l’illegali- tà, ma stare attenti a che non sia alterato un corretto rapporto tra stato e cittadini. È quello che ci ricorda la lettura del fortunato libello ‘ dei delitti e delle penè di Cesare Beccaria, che questo giornale ripropone ai suoi lettori in questo mese di agosto. La brutalità di quanto avvenuto a San Marco in Lamis costringe tutti a recuperare il senso delle proporzioni. La legislazione antimafia viola, sotto molti aspetti, i principi dello stato di diritto. La sua forte, eppure discussa, giustificazione sta nella necessità per lo stato di disporre di strumenti di contrasto adeguati alla eccezionalità di un sistema criminoso che si erge a soggetto istituzionale alternativo, capace con la violenza e l’intimidazione di assoggettare alla propria volontà un territorio. Gli omicidi di San Marco in Lamis, che annoverano tra le vittime anche due innocenti agricoltori colpevoli solo di essere stati testimoni, dicono che le ragioni di quella legislazione speciale sono serie. E ci dicono, soprattutto, che la mafia non è stata né sconfitta né indebolita. Forse quella siciliana ha avuto dei colpi. Ma le altre mafie, calabrese, napoletana, pugliese, albanese, cinese, vivono e prosperano sul territorio italiano con tutto il loro potenziale di violenza e di sopraffazione. Bisogna, allora, prendere atto che l’esercizio intellettuale, che si è registrato da qualche tempo a questa parte, e che si è intensificato negli ultimi mesi, volto ad individuare altri bersagli da colpire come mafiosi, ha avuto un effetto: togliere risorse ed energie alla lotta alla mafia, considerata come un territorio già conquistato e finito nelle retrovie. Perché tutto questo? Un sospetto c’è. La lotta alla mafia non ha più un dividendo politico alto se usata quale strumento per infangare gli avversari. È finita l’epoca dei processi ad Andreotti ed a Mannino. Molto più redditizia la lotta alla corruzione, che consente di travolgere gli avversari, rendendo irrilevanti le successive assoluzioni. In questo Mani Pulite è stata esemplare, avendo consentito di spazzare via un intero ceto politico a prescindere dalle effettive responsabilità individuali. Ma proprio il ricordo di Mani Pulite evoca una immagine. Nei giorni, nei mesi, negli anni in cui la giustizia spettacolo offriva in pasto all’opinione pubblica l’immagine dei più importanti dirigenti del paese in manette, le strade dell’Italia erano vergognosamente invase da migliaia di giovani ragazze dell’est, costrette a prostituirsi da organizzazioni senza scrupoli e, soprattutto, libere di agire. La lotta a questa forma di schiavitù non avrebbe dato dividendi politici, né notorietà né onori. La compagnia dell’antimafia che se ne infischia delle cosche di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 agosto 2017 L’altro giorno nelle campagne di San Marco in Lamis, provincia di Foggia, la mafia pugliese ha trucidato quattro persone. Due delle vittime forse erano anche loro legate ai clan, le altre due erano due contadini di passaggio, che hanno visto e hanno provato a scappare, ma sono stati inseguiti, raggiunti e scannati sul posto, perché erano testimoni pericolosi. Mi pare che una strage mafiosa di queste dimensioni e di questa ferocia non avvenisse da diversi anni, forse dobbiamo risalire alla mattanza di Duisburg di dieci anni fa per trovare un precedente. Eppure sulla stampa non ha avuto grande risalto. Guardavo ieri mattina le prime pagine dei giornali più legati all’idea di giornalismo gridato (e cioè Libero, il Giornale, Il Fatto Quotidiano e La Verità) ma la notizia della strage pugliese non appare. Zero titoli, zero righe. Neppure sulla prima pagina di un giornale di livello intellettuale decisamente superiore, come il manifesto, ci sono titoli né righe. E sui giornali che invece se ne occupano non ho trovato dichiarazioni di esponenti politici nazionali, o di uno dei capi della commissione parlamentare antimafia. Neanche ho visto interviste a magistrati del settore. Fatto insolito. L’unico che si è occupato della cosa - oltre al ministro Minniti è il Superprocuratore Roberti, e la cosa va a suo merito. Non mi indigno, perché la bellezza del giornalismo - e della politica, e forse anche della magistratura - è che ciascuno è autorizzato a valutare le notizie come crede. Però mi stupisco un po’. Perché mi pareva che un omicidio plurimo così feroce - al di là di come la si pensi sulla politica, o sulla mafia, o sulla giustizia - fosse degno di essere preso in considerazione dal sistema dell’informazione. E potesse suggerire delle riflessioni, anche importanti, su eventuali novità nel pianeta mafioso. Tanto più che siamo in pena estate, le notizie mancano e molti giornali, proprio ieri, per trovare un titolo da mettere in prima pagina si sono dovuti occupare di un certo Gianluca Vacchi, che io non ho ancora capito bene chi sia e perché sia famoso, oltre che per una discreta quantità di muscoli e - pare - di milioni. Però questa situazione mi spinge a due riflessioni serie. Una delle quali riguarda la mafia e l’altra riguarda il giornalismo. Partiamo dalla mafia. Da molti anni l’intellettualità italiana è attiva sul tema della lotta alla mafia. Per lei è un fiore all’occhiello. L’antimafiosità dell’intellettualità italiana è la prova della sua tempra morale. E schierata compatta dietro ogni iniziativa della magistratura. In particolare lo sono alcuni giornali, e sicuramente - ad esempio - il Fatto è tra questi. Come mai, invece, sulla strage di Foggia questo disinteresse? Temo che la spiegazione sia scritta in quel famoso articolo di Leonardo Sciascia, che negli anni ottanta, con una geniale intuizione, segnalò l’esistenza dei "professionisti dell’antimafia". All’inizio questa categoria riguardava un certo numero di persone che combatteva realmente la mafia, e poi faceva della lotta alla mafia uno strumento politico, o di potere, o di carriera. Successivamente si è sviluppata, col tempo, si è trasformata in "compagnia antimafia", si è allargata a dismisura, ha conquistato la commissione parlamentare (che si è messa alla sua testa, insieme a un paio di intellettuali doc e qualche giornalista) ed è diventata un luogo dove nessuno sa niente di mafia, nessuno si occupa di combatterla, ma in molti si applicano alla possibilità di usare la categoria dell’antimafia per ragioni di lotta politica e come strumento per manganellare gli avversari. Si è creata una completa scissione e autonomizzazione tra mafia e antimafia. Si è persa ogni connessione. L’antimafia esiste a prescindere dalla mafia e non è molto interessata all’evoluzione della mafia. È indipendente. Così succede che se per caso in un paese del casertano arrestano un assessore e lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa, l’intera compagnia dell’antimafia scatta come un sol uomo, e grida contro quest’assessore, e lo dichiara colpevole, e chiede conto al suo partito e ogni tanto chiede anche le dimissioni del ministro dell’Interno. Non parliamo dell’ipotesi che nella città più grande d’Italia vengano arrestati un po’ di tangentari incalliti e anche loro colpiti col famoso articolo 416bis (associazione mafiosa), anche se abbastanza presto appare a tutti evidente che la mafia non c’entra nulla. Titoli a nove colonne (si diceva così una volta) su tutti i giornali per giorni e giorni, riunioni, dichiarazioni, sit-in, flash-mob, fiaccolate e convegni. E molta indignazione su Facebook. Se poi la mafia, la mafia vera, attuale, vivente, prende un kalashnikov e cosparge di sangue la campagna di Foggia, tutti pensano che sia un piccolo fatto di cronaca nera, da lasciare ai neristi. Perché? Esattamente per la ragione che dicevamo prima. Loro dicono: "Noi siamo l’antimafia, che ci importa a noi della mafia?". L’avete vista, ieri, Rosy Bindi? Macché. Si è occupata recentemente del campionato di calcio, delle tifoserie, di come si fanno i giornali, ha interferito nella compilazione delle liste elettorali, ma una strage mafiosa non sembra materia per la sua commissione. La seconda riflessione riguarda di striscio la questione mafiosa, ma riguarda il giornalismo. E il modo nel quale sta evolvendo. Sempre più lontano dai fatti, dalle cose che succedono, da quelle che una volta si chiamavano le notizie. È attratto da tutt’altro. Il giornalismo è sempre stato un campo di battaglia politica, e lo è in tutto il mondo. Persino negli Stati Uniti, dove forse esiste il giornalismo migliore e più moderno del pianeta, la politica c’entra sempre ed è uno dei campi di azione Da noi però sta avvenendo un completo ribaltamento della struttura del giornalismo. Il giornalismo sta diventando - per un numero sempre crescente di giornali - esclusivamente uno strumento di battaglia politica. E le notizie che non abbiano implicazioni nella battaglia politica sono diventate prive di interesse. Una volta alla riunione di redazione si elencavano prima tutte le notizie, poi si decideva come occuparsene, in quale gerarchia ordinarle, ed eventualmente come commentarle e come costruire su di esse delle battaglie politiche o culturali. Oggi alla riunione di redazione si decide che battaglia aprire (in genere è una battaglia contro Renzi...) e poi si vede se ci sono notizie che possono essere utili per questa battaglia, e si lavora su di esse. Tutte le altre notizie, se c’è posto, nelle ultime pagine. Albamonte (Anm): "per arginare lo stalking si deve procedere d’ufficio" Il Dubbio, 11 agosto 2017 La proposta del Segretario Anm per fermare i femminicidi. Secondo il magistrato "anche un familiare o un vicino di casa può sporgere denuncia al posto della vittima. Questo potrebbe aiutare". "Lo stalking oggi è perseguibile a querela nella maggior parte dei casi: intervenire anche lì, come è stato fatto per altri reati, per la procedibilità d’ufficio, il che vuol dire che anche un familiare o un vicino di casa può sporgere denuncia al posto della vittima, potrebbe aiutare". Lo ha affermato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte, parlando di violenza contro le donne a "La vita in diretta" su Raiuno. "Poi - ha ricordato Albamonte - c’è tutta la fase successiva: noi non abbiamo un sistema che garantisca il recupero degli autori di certi reati durante i periodi della detenzione, nessuno purtroppo può dire se quando escono sono risocializzati e immuni dal compierne altri. Potrebbero uscire anche peggiori". Per il presidente dell’Anm, "il sistema penale serve ad assicurare alla giustizia i responsabili" ma "non c’è un’attenzione adeguata a quello che succede dopo la chiusura del processo, quando nonostante le condanne si continua ad avere paura. La parte su cui secondo me bisogna lavorare è quella di seguire le vittime, e in qual- che modo anche gli autori, anche dopo le vicende giudiziarie per evitare che certi comportamenti si ripetano". Proprio sulla nuova legge sullo stalking, era nata un polemica tra sindacati e governo. "Lo Stato non può tradire le donne due volte, prima esortandole a denunciare e poi archiviando le denunce, o peggio, depenalizzando il reato di stalking", aveva detto, dura, la segretaria della Cgil Camusso. Una presa di posizione che era arrivata a pochi giorni dall’efferato femminicidio della oncologa Ester Pasqualoni, uccisa dallo stalker contro il quale aveva presentato due denunce, entrambe archiviate. Secondo i sindacati, "nella legge di riforma del codice penale, approvata il 14 giugno 2017, si prevede l’introduzione di un nuovo articolo: il 162 ter, che prevede l’estinzione dei reati a seguito di condotte riparatorie. Uno di questi reati è lo stalking". Una circostanza del tutto smentita dalla presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, che aveva definito "una vera e propria bufala" quella lanciata dai sindacati in merito allo stalking che sarebbe stato di fatto depenalizzato dalla riforma del processo penale. "Non si può fare demagogia e populismo sulla pelle delle donne - aveva spiegato Qui siamo quasi al procurato allarme, si fanno girare notizie prive di reale fondamento, strumentalizzando gravi fatti di femminicidio che forse potevano essere evitati, ma non certo per carenze o mancanze di strumenti normativi". Don Zerai indagato, chi salva vite è un eroe e non un criminale di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2017 Oskar Schindler ben avrebbe potuto essere indagato, imputato, condannato dalla Germania nazista per avere salvato più di mille ebrei dallo sterminio. Carlo Angela, papà del giornalista televisivo Piero, dando rifugio nella sua clinica a tantissimi ebrei, li salvò dalla furia nazi-fascista e dunque dalla morte. Moussa Abadi era un ebreo siriano e, insieme al vescovo di Nizza, Paul Rémond, salvò centinaia di bambini ebrei nascondendoli da chi li rastrellava. Don Mussie Zerai è un sacerdote di origine eritrea. Nel 2015 è stato candidato al Nobel per la pace. Da tanti anni vive nel nostro Paese. Ha aiutato, attraverso il suo telefono, immigrati disperati che rischiavano la morte in mare. A ogni squillo proveniente dal mare aperto avvertiva la guardia costiera e poi le Ong che prestano soccorso in mare. Il cerchio è oramai chiuso: don Mussie Zerai è indagato dalla Procura di Trapani per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Male, anzi malissimo. I cultori della legalità formale saranno soddisfatti. Ma è questo il ruolo del diritto penale? Ma è questa la funzione della giurisdizione? In questa vicenda paradossale, le istituzioni si sono chiuse in se stesse, ignorando quale debba essere la funzione del diritto in una democrazia. La giustizia è qualcosa di più importante e nobile che incriminare don Mussie Zerai o i responsabili delle Ong che non firmano i protocolli governativi. È incredibile che tutto questo avvenga in terra di mafia, dove gli apparati della sicurezza e della repressione avrebbero ben altri terreni investigativi su cui cimentarsi. Don Mussie Zerai è accusato di favorire un reato che andrebbe abolito, ossia il reato di immigrazione clandestina. Il Parlamento aveva dato mandato al governo di farlo, ma la delega non è stata esercitata poiché a prevalere è stata la "percezione di insicurezza". Va ricordato che l’abrogazione di quel reato ignobile fu promossa da un parlamentare del M5s, lo stesso Movimento oggi in prima linea nella criminalizzazione delle ong e di chi presta aiuto umanitario. Ci vorrebbe in Parlamento un blocco umanitario-progressista che non abbia paura di urlare che chi salva vite è un eroe e non un criminale. E che non abbia paura di urlarlo così ad alta voce da poter essere sentito anche a Trapani. La più banale, la più ovvia delle verità, oggi sovvertita da questa follia, da questo incubo, da questa tragedia che stiamo vivendo. Le regole del diritto in mare di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 11 agosto 2017 Durante la guerra in Iraq, dopo la cattura di Saddam Hussein, si aprì nei suoi confronti un "processo". Agivano le autorità americane e irachene. Il governo del Regno Unito, stretto alleato degli Stati Uniti nelle operazioni militari, rese pubblica la sua estraneità a quel processo indirizzato verso la condanna a morte. Perché lo fece e perché ricordarlo ora, volendo trattare dell’Italia in rapporto alle operazioni delle Ong e delle autorità libiche nel Mediterraneo? Perché richiama alcuni principi del diritto dei diritti umani cui l’Italia è legata e che vanno tenuti presenti nelle circostanze attuali. Il Regno Unito, parte della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la pena di morte, ben a ragione, considerò che una sua partecipazione avrebbe implicato esercizio di poteri statali in violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione europea. E ciò anche fuori del suo territorio nazionale. I rischi di responsabilità internazionale per l’Italia emergono sotto almeno due aspetti. Essi riguardano ciò che avverrà concretamente in mare, indipendentemente da ciò che prudentemente si scrive nei documenti. Si tratta sia della natura effettiva dell’assistenza fornita dalla Marina italiana, sia del comportamento che terranno le autorità italiane nei confronti delle navi delle Ong che non hanno sottoscritto il codice di comportamento o che, avendolo accettato, in singole situazioni nel violino le disposizioni. Per il primo aspetto rileva l’episodio che ho ricordato iniziando: responsabilità italiane esistono anche fuori delle sue acque territoriali. La Libia non ha ratificato alcuno dei trattati internazionali sui rifugiati e in generale sui diritti umani, ma l’Italia è vincolata a tutti i trattati in materia. In particolare l’Italia è parte della Convenzione europea dei diritti umani. Se le navi italiane dovessero imbarcare migranti, la Convenzione si applicherebbe integralmente e direttamente, poiché quelle navi sono territorio nazionale. Ma anche la collaborazione con le navi libiche potrebbe dar luogo a responsabilità italiana. Si dice che la Marina italiana assicura appoggio logistico, ma cosa vuol dire in pratica? Se in concreto i mezzi militari italiani dovessero "aiutare troppo" le autorità libiche, fino a fornire una vera partecipazione italiana, la responsabilità italiana non sarebbe esclusa dal fatto che l’attività si svolge in acque libiche. I campi in cui i migranti vengono riportati sono generalmente ritenuti orribili, inumani e nessuna cernita le autorità libiche faranno per identificare coloro che avrebbero diritto allo status di rifugiato in Italia o alla protezione umanitaria italiana. Ai libici ciò non interessa, ma all’Italia sì, poiché non può rendersi partecipe di violazioni delle norme sui rifugiati e sul divieto di trattamenti inumani. Quanto al secondo aspetto, credo che il c.d. codice di comportamento delle navi delle Ong non entri di per sé in conflitto con regole che vincolano l’Italia. Il documento non impedisce in alcun modo alle navi delle Ong di soccorrere persone in pericolo. Le regole oggetto degli accordi tendono a impedire che le navi delle Ong intralcino l’attività delle motovedette libiche nelle acque libiche e che finiscano con il trasformare la loro presenza in mare a ridosso delle acque libiche in un’assicurazione agli scafisti che il loro viaggio sarà breve e sicuro. Ma il problema che non si può ignorare riguarda la condotta che l’Italia terrà nei confronti di navi di Ong che hanno rifiutato il codice di comportamento oppure in concreto non lo hanno osservato. Se una nave carica di migranti si presenta davanti a un porto italiano chiedendo di attraccare e dichiarando di avere malati a bordo o bambini o donne incinte prossime a partorire, l’Italia respingerà quella nave? È ipotesi che è stata lanciata troppo leggermente. Se lo facesse, quali sarebbero le conseguenze giuridiche internazionali e, prima ancora, quali le conseguenze politiche? Assistiamo in queste ore a profonde divergenze nel governo, che sarebbe sbagliato minimizzare. Non più schermaglie tese a far guadagnare spazio a questo o quel personaggio o gruppo politico, ma finalmente il confronto aperto tra posizioni che hanno alle spalle culture radicate nei secoli, di natura non solo religiosa, fortemente presenti nella società italiana. Su questo giornale Marcello Sorgi ha ricordato l’articolata presenza di importanti realtà cattoliche e dell’area politica che si è chiaramente schierata facendo ad esse riferimento. E Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha ricordato la convergenza di posizioni cattoliche e di quelle laiche derivanti dall’Illuminismo umanitario. Esse sono all’origine del movimento di cui la Convenzione europea dei diritti umani è il prodotto. Nessun governo in Italia reggerebbe l’opposizione di quel vasto mondo e lo scontro che qualunque "incidente" non mancherebbe di accendere. Un simile incidente non avrebbe quindi solo il carattere dell’illegalità internazionale, ma entrerebbe subito nel campo della vera politica. Lo Stato perde a Licata: il Comune caccia il sindaco anti-abusivi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 11 agosto 2017 Sfiducia ad Angelo Cambiano, il primo cittadino di Licata, nell’agrigentino, "eroe per caso" contro gli abusivi. Dopo le minacce e gli attentati rimosso dal consiglio comunale. "L’eroe per caso" della guerra agli abusivi, il giovane sindaco di Licata, ha tenuto duro per mesi. A dispetto degli insulti, delle minacce, degli attentati, del peso di doversi muovere con la scorta. Lo sapeva, però, che il suo destino era segnato. E la mozione di sfiducia è stata solo il passaggio formale. Poche settimane e la Sicilia va alle elezioni regionali. E chi ce l’ha il fegato di sfidare il Pau, cioè il Partito abusivi uniti? È una sconfitta pesante, per l’immagine e l’onore di tutta l’isola, la demolizione politica e clientelare, in consiglio comunale, di Angelo Cambiano, il simbolo stesso del rispetto della legge sulle demolizioni dei villini costruiti all’interno della fascia vietatissima dei 150 metri dal mare. Una sconfitta per Angelino Alfano che, tirato in ballo dalle suppliche a "far sentire l’appoggio del governo", aveva sventolato il suo appoggio al primo cittadino in difficoltà davanti alla rivolta dei fuorilegge: anche gli alfaniani hanno votato per la decapitazione della giunta comunale. E una sconfitta più ancora per lo Stato, che si era illuso di riuscire finalmente a imporre, in quell’angolo di Sicilia, il rispetto della legge. Trent’anni di condoni - Per capire la dimensione della batosta, però, va fatto un passo indietro. Ricordando come dal primo condono craxiano del 1985, seguito dai due berlusconiani del 1994 e 2003, centinaia di migliaia di abusivi siciliani, protagonisti di un furioso saccheggio delle coste (si pensi a Triscina: cinquemila villette illegali tirate su a due passi da Selinunte) scelsero di versare un piccolo acconto avviando le procedure del condono, necessarie per bloccare le inchieste e le demolizioni, per poi non occuparsene mai più. Certi che la burocrazia isolana, tra le peggiori del pianeta, avrebbe ingoiato tutto. Cosa puntualmente avvenuta. Basti dire che la "sanatoria delle sanatorie" offerta da Totò Cuffaro ai 400 mila isolani che da anni lasciavano marcire le pratiche dei vecchi condoni, fu accolta con l’1,1% di adesioni a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania, lo 0,025% ad Agrigento. E l’incasso fu di 1 milione e 85 mila euro: un settecentesimo del previsto. L’ambiente era tale che nel 2001 lo stesso vescovo agrigentino Carmelo Ferrara, alla minaccia dello Stato di buttar giù almeno le più oscene delle 607 costruzioni illegali costruite dentro il parco archeologico, rispose attaccando le "ruspe immorali", denunciando "una campagna di mistificazione contro la città" e incitando alla ribellione "contro lo stato-padrone". I villini da abbattere - Fu questo, "il contesto" di sciasciana memoria nel quale Angelo Cambiano diventò un "eroe per caso". Era un giovane docente di matematica, non aveva fama di fanatico ambientalista e la lista civica che l’aveva eletto non era fatta di rivoluzionari. Anzi. Ma il commissario di governo uscente, con le chiavi della città, gli consegnò anche un tesoretto di 300 mila euro accantonati per cominciare a buttar giù, finalmente, almeno i villini colpiti da ordinanze inappellabili di demolizione. Cioè 216 su centinaia e centinaia. Come già i lettori sanno: tutte seconde case, quasi tutte sul mare, tutte tirate su a dispetto della legge. In altre situazioni, forse, lo stesso Angelo Cambiano avrebbe preferito poter dire, come tanti altri sindaci, "spiacente, le ruspe costano e non abbiamo soldi". Meno grane. Meno odio. Meno rischi. I soldi in cassa, però, lui li aveva. I magistrati Renato Di Natale e Ignazio Fonzo, che già avevano dato una scossa imponendo ai comuni di prendere di petto il tema, glielo ricordarono. E lui ne prese atto. Facendo il suo dovere, cosa rara in certe realtà, nonostante la rivolta di tanti amici e amici degli amici: "Picchì giustu a ‘nattre?" Perché solo a noi? Perché le ruspe qui e non in altri comuni e contro altri abusi? Il coraggio di un sindaco - Confronto duro. Tanto che l’associazione "Periscopio, Osservatorio permanente sui rispetto della legalità" (sic) arrivò a firmare un "esposto querelatorio" contro il prefetto, il sindaco, i dirigenti dell’urbanistica e così via accusandoli di aver "prevaricato nelle loro funzioni istituzionali nella nota e triste vicenda". Per non dire degli appelli ("Perché proprio adesso, dopo anni? Perché proprio noi se in Sicilia ci sono un milione di case abusive?") e infine delle minacce. Ci voleva coraggio a tener duro in nome dello Stato. Angelo Cambiano lo ha avuto. Ma come reggere un "contesto" in cui decine di deputati e senatori e consiglieri regionali si vantano di essere contro le ruspe e lo stesso governatore Rosario Crocetta nega le voci di una sanatoria ma pensa alla "possibilità dell’utilizzo sociale di alcuni immobili costruiti abusivamente che potrebbero, dopo la loro acquisizione al patrimonio pubblico, essere inseriti in piani di recupero..."? Come interpretare certi messaggi quali l’ultima apertura del candidato grillino alla Regione Giancarlo Cancelleri verso gli "abusivi per necessità", storica formuletta che le vecchie volpi partitiche d’ogni colore usano da sempre per stoppare le ruspe? L’altra "rivolta" - Non bastasse, il sindaco di Licata non è il primo a esser buttato fuori. A gennaio era già stato costretto ad andarsene Pasquale Amato, primo cittadino di Palma di Montechiaro: mezzo paese (a partire dai delinquenti che lo tempestavano di lettere minatorie) non gli perdonava di aver appoggiato una serie di demolizioni obbligate da sentenze definitive. Al posto suo, oggi, c’è Stefano Castellino che, come hanno scritto i giornali locali, si è presentato "con le idee chiare". Primo punto: basta ruspe. I soldi, dice, possono essere spesi meglio. Il tutto, si capisce, nella convinzione "che la legalità, la trasparenza e la chiarezza siano essenziali". Ma che statista. Battitura solidale in carcere? Illegittima la sanzione disciplinare irrogata al detenuto dirittoegiustizia.it, 11 agosto 2017 In materia di procedimento disciplinare penitenziario, la contestazione disciplinare fatta al detenuto deve contenere "l’enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, con l’indicazione dei relativi articoli di legge", in virtù dei principi fondamentali di garanzia che lo regolano. (Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 37792/17; depositata il 28 luglio). Voto di scambio, basta la promessa di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39064/2017. La corruzione elettorale è un reato di pericolo astratto, di pura condotta e a dolo specifico: non è necessario pertanto lo scambio dei beni o delle prestazioni, ma solo la promessa o l’accordo tra le due parti. La Terza sezione penale della Corte di cassazione (sentenza 39064/17) ha reso definitiva la condanna a 8 mesi di reclusione e a 12mila euro rideterminata dalla Corte d’appello di Napoli nei confronti di un cittadino elettore. Questi, in concorso con altri due coimputati - una candidata alle comunali e il fratello - aveva promesso il sostegno in cabina elettorale non tanto proprio, in quanto residente altrove, ma di tre familiari abitanti nel piccolo centro all’epoca della consultazione incriminata, nel 2009. Due anni più tardi il fratello dell’imputato, destinatario della promessa di voto di scambio, era stato assunto in un’agenzia di sicurezza (peraltro a tempo determinato e per soli 3 mesi). A fronte delle lamentele contenute nel ricorso, in cui i difensori dell’elettore lamentavano la genericità delle contestazioni e - appunto - il riscontro molto scolorito alla promessa della candidata, la Terza penale ribadisce che la struttura del reato di corruzione elettorale prescinde del tutto, in ogni sua formulazione, dal vero e proprio scambio delle prestazioni e, anzi, anche dalla realizzazione di una sola di esse. Il primo comma (l’articolo è l’86 della legge 579/1960) punisce il candidato (o chi per lui) offre o promette qualunque utilità a uno o più elettori, anche utilità dissimulate (per esempio rimborsi, vitto alloggio o spese e servizi). La seconda ipotesi punisce l’elettore che, per dare o negare firma o voto, accetta offerte o promesse o riceve denaro o altra utilità. In entrambe le fattispecie, annota l’estensore della Terza, si prescinde completamente dalla realizzazione del pactum sceleris, avendo il legislatore del 1960 arretrato la soglia di punibilità al momento dell’accordo e/o della promessa. Ciò è reso ben evidente nel caso in cui l’iniziativa spetta al "politico" - o a chi per lui - in cui il reato, che peraltro è a concorso eventuale e non necessario, si consuma al momento in cui viene profferita la promessa a vantaggio del terzo. Se poi si realizzerà la promessa, come nel caso di specie e a "scoppio" ritardato, ciò è del tutto indifferente per far scattare la punibilità. Ma anche nell’ipotesi più strutturata del comma 2 - il vero e proprio accordo tra elettore e candidato - il reato si consuma al momento dell’accettazione dell’offerta o della promessa (e ovviamente anche alla ricezione del denaro), restando indifferente ogni e ulteriore esecuzione dell’accordo. Tra l’altro la corruzione elettorale è reato pluri-offensivo, perché presidia sia l’interesse dello Stato a libere e corrette consultazioni, ma anche allo stesso tempo il diritto politico di ogni elettore alla libera espressione, e prima ancora determinazione del voto. Omesse ritenute, non serve il fine di evasione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39072/2017. Per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali basta la consapevolezza di non versare all’Inps quanto dovuto, mentre non serve lo scopo dell’evasione contributiva. E la responsabilità per il comportamento illecito, ricade sempre sul datore di lavoro che non può "sfilarsi" dai suoi obblighi sulla base di una delega. La Cassazione (sentenza 39072) respinge il ricorso del presidente del Cda di una società per azioni, condannato per il reato previsto dall’articolo 2 del Dl 463 del 1983. Il ricorrente, tra le altre contestazioni, inseriva anche la sottovalutata assenza del dolo visto l’omissione era dovuta a una causa di forza maggiore: una crisi aveva colpito l’impresa proprio nel periodo dei mancati pagamenti. Inoltre, secondo il vertice del board, i giudici, svalutando del tutto l’elemento soggettivo del reato, avevano "tarato" la sanzione solo sull’entità delle somme non versate, senza considerare che la sua era un’azienda di 500 dipendenti e dunque il debito non poteva che essere alto. La Cassazione - come scrivono gli stessi giudici - coglie l’occasione "per sgombrare definitivamente il campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema". I giudici chiariscono che, per il reato preso in esame, non è richiesto il fine di evasione contributiva, "tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto". La scelta di non pagare prova il dolo: i motivi della scelta non lo escludono. Né si può parlare di causa di forza maggiore dovuta alle difficoltà economiche dell’impresa, perché nei reati omissivi la forza maggiore scatta solo con l’assoluta impossibilità e non con la semplice difficoltà ad adempiere. Non passa neppure il tentativo di scaricare la "colpa" sul consigliere delegato a pagare le ritenute. Un soggetto, non solo privo della necessaria autonomia finanziaria, ma comunque impossibilitato ad attrarre su di sé una responsabilità che resta del datore di lavoro, come soggetto attivo del rapporto previdenziale. Il datore, infatti, anche quando delega ad altri il versamento delle ritenute, conserva l’obbligo di vigilare sull’adempimento da parte del terzo. Un onere che incombe su di lui anche se perde la titolarità dell’impresa di cui era a capo al tempo dei mancati pagamenti. Inoltre non può essere considerato un risarcimento del danno neppure il pagamento dei contributi effettuato prima del giudizio: il versamento non è spontaneo e non è integrale lasciando fuori gli interessi e le spese eventualmente sostenute dall’Istituto per recuperare il credito. Per finire la Cassazione chiude negando diritto di cittadinanza, in sede di legittimità, all’affermazione secondo la quale il ricorrente aveva avuto la "sfortuna" di gestire un elevato numero di lavoratori. Reati tributari, più spazio al sequestro di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2017 Sempre più frequenti i sequestri in presenza di reati tributari. L’obbligatorietà della confisca di beni e somme, anche per importo equivalente all’ammontare evaso in caso di condanna per un delitto fiscale, comporta infatti che le Procure procedano preventivamente al sequestro di tali beni in previsione della futura confisca. Con la riforma dei reati tributari (Dlgs 158/2015) è stata prevista una norma ad hoc (articolo 12 bis) all’interno del decreto 74/2000, che ha confermato l’obbligatorietà della confisca nelle ipotesi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti. La misura riguarda i beni costituenti il profitto o il prezzo del reato tributario, che non appartengono a persona estranea al reato, ovvero, quando ciò non sia possibile, dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Questa norma esisteva nel nostro ordinamento sin dal 2008 ma ora è stata organicamente inserita nel decreto legislativo 74/2000. La confisca colpisce il vantaggio conseguente all’evasione fiscale e, quindi, svolge una funzione di disincentivo nei confronti dei contribuenti autori dei reati tributari. In tale ambito essa è normalmente per equivalente, ossia riferita ad utilità patrimoniali nella disponibilità del reo, di valore corrispondente all’evasione commessa. Scatta in caso di condanna o di patteggiamento, ma per assicurare la futura esecuzione all’esito dell’accertamento della responsabilità penale dell’indagato, è possibile sottoporre a vincolo determinati beni di valore equivalente all’evasione. Ne consegue così che dinanzi ad una contestazione di un reato tributario, la Procura può già nelle more delle indagini, dispone il sequestro finalizzato alla successiva confisca, in caso di mancato pagamento delle somme dovute. La rateazione - La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Secondo la giurisprudenza di legittimità se da un lato, nel corso della rateazione, può escludersi la confisca, dall’altro è legittimo il sequestro preventivo, poiché è volto a garantire il recupero delle somme qualora il versamento "promesso" non si verifichi (sentenza 35246/2017). In sostanza, il sequestro preventivo non è obbligatorio, ma può essere legittimamente disposto fin quando il debito tributario non sia stato completamente estinto. La Cassazione ha anche chiarito che l’interessato può chiedere la riduzione del sequestro in misura corrispondente alle rate già pagate presentando specifica istanza al Pm (sentenza 35781/2017). Quindi, nell’ipotesi in cui fosse stato ordinato e disposto il sequestro per l’intero debito, senza cioè considerare eventuali versamenti già eseguiti, può esserne chiesta la riduzione, lasciando così sottoposto a tutela solo il valore corrispondente a quanto ancora dovuto. La disponibilità - La confisca va ordinata su beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato. Per "disponibilità" si deve intendere l’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà. Mutuando, quindi, il concetto del "possesso civilistico", si tratta di tutti quei beni che ricadono nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di essi sia esercitato per il tramite di terzi. Perciò la "disponibilità" del bene non necessariamente corrisponde al suo uso effettivo, che di per sé è neutro (sentenza 6595/2017). Patteggiamento - La norma prevede che la confisca operi anche in presenza di patteggiamento. In realtà ben raramente ciò si potrà verificare, perché dal 2011 per accedere all’applicazione della pena su richiesta delle parti è obbligatoria l’estinzione preventiva del debito tributario. Quindi, avendo l’imputato già restituito quanto dovuto all’erario, nulla potrà essergli confiscato. Milano: tra le guardie e le detenute c’è Francesca di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 11 agosto 2017 Educatrice a San Vittore. Nel gergo burocratico il suo lavoro è chiamato "funzionario giuridico pedagogico". "Il carcere è un servizio pubblico, aperto 24 ore su 24". Non è una battuta, e nemmeno un paradosso. Francesca Masini lavora a San Vittore da 7 anni, e prima per altri 10 in una cooperativa s’è occupata di gestione degli alloggi per il reinserimento dei detenuti in misura alternativa Lei è una di quelli che si chiamavano (ma ancora tutti li chiamano così) educatori: "Ora la dizione esatta è funzionari giuridico pedagogici, vale a dire che facciamo un intervento pedagogico ma su persone in custodia". La galera, vista da lontano, può sembrare una cosa semplice: detenuti e guardie. La realtà è molto più varia: ci sono anche medici, funzionari, psichiatri, assistenti sociali, volontari, sacerdoti, infermieri. E il lavoro degli educatori comincia quando una persona arrestata mette piede a San Vittore: "La nostra funzione è di accogliere i nuovi giunti, informarli sul contesto, e insieme con i sanitari - psicologi, psichiatri, medici - fare in modo che gestiscano lo shock dell’ingresso". Francesca è una giovane donna bionda, dall’aria gentile e sorridente. La persona che tutti vorrebbero trovarsi di fronte, in un qualunque servizio pubblico. Ma il carcere, oltre a essere più vario di come uno si immagina, è molto più complicato. Le persone che arrivano qui hanno addosso un carico di sofferenza che tiene insieme molte cause: l’esser rinchiuso, la prospettiva di esserlo a lungo, il distacco dalla famiglia, l’aver bisogno di soldi, un processo che verrà. E a questo si aggiunge, spesso, la malattia. "Il nostro non è un lavoro seriale - dice Francesca - Io devo conoscere queste persone una per una, a partire dal reato di cui sono accusate, che mi raccontano loro o che leggo in un rapporto delle forze dell’ordine". Lei si occupa di donne: "Era più facile quando, all’inizio, avevo a che fare con gli uomini. Con le donne è tutto diverso, perché spesso per loro questo è un carcere dentro un altro carcere. Hanno un carico di problemi e di legami, e un maggior senso di responsabilità verso le famiglie fuori". Fra le altre cose, segue anche l’attività dell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri), una struttura creata nel 2006 per accogliere detenute con bambini fino a 3 anni. Un grande appartamento al piano terra di uno stabile della Provincia, sorvegliato da agenti in borghese. Prima le madri detenute con bambini piccoli stavano nel nido all’interno di San Vittore. Esiste un progetto (ma le strutture sono da realizzare) per alzare a 6 anni l’età dei bambini da ospitare in queste case-famiglia. Delle donne detenute a San Vittore il 74 per cento sono straniere, il che ovviamente complica tutto. Spesso non hanno un sostegno esterno, e chiedono di lavorare: "Qui cerchiamo di offrire una possibile attività. Alcune hanno un lavoro pagato. Altre un’attività ricreativa o culturale che serva a riempire il vuoto in attesa del processo". Gli educatori devono badare anche a quel che succede fuori: "Ovviamente nei limiti stabiliti dalla magistratura, per esempio per incontri e telefonate. Io non posso telefonare ai familiari delle detenute, anche se cerchiamo di risolvere problemi. È un lavoro di rete, insieme con l’area sanitaria e con la polizia penitenziaria, e si condivide con l’équipe di reparto". Molte detenute hanno bisogno di cure mediche che fuori non avevano avuto, o non avevano cercato: "Alcune hanno patologie che fuori non vengono trattate, e non mi riferisco solo alle straniere che magari sono meno informate. Cioè queste detenute sono persone malate che hanno commesso un reato, e posso dire che a volte paradossalmente c’è qui una risposta più dignitosa e rispettosa di quella che hanno avuto fuori". Il che è soprattutto vero per quel che riguarda il disagio psichico: "E cioè il fallimento del servizio sanitario sulle patologie psichiche". Per non parlare dei casi limite: "Ci sono madri che arrivano a sporgere denuncia per far avere cure al figlio. È quel che succedeva anni fa soprattutto per i casi di dipendenza da eroina, e ora succede per le patologie psichiche". Difficili da affrontare se non si ha una preparazione specifica: "È un problema anche per gli agenti, che si devono appoggiare a uno psichiatra per sapere come comportarsi". Quindi non più "educatori", ma funzionari del ministero della Giustizia con obiettivi pedagogici: "Noi proviamo a restituire alla società persone diverse. Questo è il nostro mandato, e ci proviamo". Reggio Emilia: l’assistenza medica dei detenuti costa 5 milioni reggionelweb.it, 11 agosto 2017 Dal rapporto 2016 sulle condizioni di salute in carcere in Emilia Romagna (fonte Regione Emilia Romagna) emerge che nel carcere di Reggio Emilia al 31 dicembre 2015 è equilibrato il rapporto fra numero di detenuti presenti (188) e numero di posti che può contenere (200). Fra gli aspetti importanti all’interno della struttura penitenziaria, l’assistenza sanitaria dei detenuti. Mediamente coloro che ne hanno fatto ricorso hanno età compresa entro 45 anni e quasi tutti uomini (97%). Di questi la maggior parte, ovvero il 45%, ha meno di 35 anni, mentre il 60% dei detenuti del carcere assistiti dai sanitari è di origine straniera. Per curare i pazienti detenuti presso la struttura penitenziaria di Reggio Emilia nel 2015 sono stati spesi circa 5 milioni e mezzo di euro, di questi 3 milioni e mezzo sono arrivati dal Fondo nazionale specificatamente dedicato, mentre i restanti 2 milioni dal fondo sanitario regionale. Complessivamente la Regione ha investito nel medesimo anno 17 milioni di euro per curare i detenuti dei carceri presenti nelle diverse città. Ma quali sono i motivi per cui i detenuti-pazienti del carcere di Reggio Emilia si sono rivolti a medici o infermieri? Quasi tutti hanno effettuato test inerenti le malattie infettive, quali Hiv, tubercolosi, epatite B ed epatite C, test a seguito dai quali sono state necessarie le cure specifiche. Ma ci sono anche altre ragioni di ricorso alle cure mediche, sebbene in percentuale minore, quali ad esempio problematiche psicologiche, sovrappeso e disturbi cardiaci. L’assistenza sanitaria in carcere viene garantita a 360 gradi e il paziente detenuto può sempre fare affidamento sulla professionalità e assistenza sanitaria degli specialisti presenti nella struttura penitenziaria reggiana. Palermo: 10 mesi per 10 minuti di ritardo; la pena infinita di Tito, detenuto domiciliare di Enrico Bellavia La Repubblica, 11 agosto 2017 Dieci mesi per dieci minuti di ritardo, trenta giorni agli arresti per ogni giro della lancetta sull’orologio dei secondi. Altri conti in sospeso da aggiungere a quelli da saldare. In una partita che non sembra chiudersi mai. È quello che tocca a Tito, dagli agi di una tranquilla vita borghese al girone infernale del carcere e poi sempre più giù in una spirale di guai, verdetti, balordaggini e condanne che rendono la sua vita, già grama, un inferno in terra. Una tortura, confida ai suoi, per gli anni di pena che si sommano e che fatalmente, rischiano di essere di più di quelli che gli restano da vivere con un male che lo divora e un trapianto che tarda arrivare. Lentamente, ma inesorabilmente, Tito è andato a fondo. Ci ha messo del proprio, ma molto lo ha fatto la ruota della giustizia, muovendosi alla cieca come un ingranaggio impazzito ma capace di colpire sempre e comunque fino a stritolare. La prima volta in carcere fu per un errore. Aveva 27 anni allora, Tito: una moglie e una figlia appena nata. Un lavoro da odontotecnico affermato e qualche digressione con l’eroina. Era riuscito a ripulirsi quando lo coinvolsero in una storia di droga. Promettevano di buttare via la chiave ma finì assolto. SENZA un soldo di risarcimento. Con la fedina penale illibata e la vita macchiata. Dalle smorfie degli ex amici e dalle lusinghe dei nuovi conosciuti dentro. Sfregiata dal carcere che non fortifica se non quelli che la galera se la mangiano a morsi. Tito non era di quella pasta. E una volta fuori, persi gli agi qualche reato si mise a farlo per davvero. La droga, perlopiù, e l’incauta ospitalità a un tipo che viaggiava armato e che gli lasciò il "ferro" in casa, accompagnandolo con un biglietto di sola andata per un altro po’ al fresco. Un passato "burrascoso", dice lui. Che provò anche a rimettersi in carreggiata mentre gli anni, tra una grana e l’altra correvano via. Riaprì lo studio, prese la laurea in Medicina, ma ora alla porta bussavano poveracci e disperati per una protesi da pagare con comodo. La moglie che nel frattempo ha guadagnato la pensione, dividendosi tra il lavoro di impiegata di banca e le visite al carcere racconta che lui non diceva mai di no e anche per questo finì per procurarsi altri guai. Poi arrivò la malattia al fegato e la condanna definitiva per l’arma. Tre anni e due mesi. Passati da un pezzo i cinquanta, chiese e ottenne di curarsi fuori. Ma non da uomo libero come avrebbe voluto. Gli concessero di scontare la pena a casa con una finestra di due ore al giorno per uscire e curarsi. E quello che doveva essere uno spiraglio è diventata la sua trappola. Controlli delle forze dell’ordine a ogni ora che hanno spinto la moglie a cercarsi un’altra casa, inseguita dall’incubo delle divise. Una trafila sfibrante per farsi autorizzare ogni spostamento in ospedale, fuori dagli orari, ricoveri mancati e cure saltate. Tito è rimasto da solo a far la conta delle pasticche da mandar giù, delle ricette e dei controlli, a cerchiare in rosso sul calendario i giorni delle visite. Sarà per i farmaci, sarà per il male, ogni tanto perde il contatto con la realtà e gli capita di dimenticare di guardare l’orologio e far tardi alla conta delle 11. Una prima volta lo hanno graziato, una seconda la roulette gli ha riservato 1 anno e mezzo da sommare a quelli della pena residua e una terza, l’ultima, 10 mesi per 10 minuti da aggiungere a tutti gli altri. In un tempo che si dilata e che lui, teme, sia comunque breve. Livorno: visita dell’Osservatorio Carcere Ucpi alla Sezione Distaccata della Gorgona camerepenali.it, 11 agosto 2017 La relazione dell’Osservatorio Carcere sulla visita alla Sezione Distaccata della Gorgona della Casa Circondariale di Livorno. La nostra delegazione è composta da Giuseppe Cherubino, Filippo Fedrizzi, Davide Mosso, Ninfa Renzini e Gabriele Terranova, per l’Osservatorio Carcere, Enrica Accardo, Nando Bartolomei, Aurora Matteucci e Lorenza Musetti, per la Camera Penale di Livorno. É con noi anche Marco Solimano, Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Livorno. Si parte dal Porto Mediceo di Livorno con il battello privato Urgon (nome storico dell’Isola), che effettua servizio di trasporto pubblico ed è attualmente l’unico mezzo per raggiungere l’isola della Gorgona, dopo poco più di un’ora di navigazione. Il costo del biglietto è di 52 € a persona, per chi, come noi, non fruisce dell’escursione guidata sull’isola. Attualmente anche i rifornimenti avvengono con questo mezzo, poiché sono state recentemente soppresse, per ragioni economiche, le due motovedette della Polizia Penitenziaria che effettuavano i trasporti logistici. Apprendiamo che è questo uno dei motivi di una vivace protesta in atto del personale, condotta anche con uno sciopero della fame, che trova eco anche sulla stampa (Agenti: i veri reclusi siamo noi). Nei giorni successivi alla visita, è stata diffusa la notizia che, in accoglimento di queste rivendicazioni, l’Amministrazione si è impegnata a ripristinare il servizio di almeno una delle due motovedette. Prima ancora di attraccare, il personale del battello ci informa che è vietato fotografare l’isola perché area penitenziaria. Appena sbarchiamo, lasciamo cellulari, macchine fotografiche ed ogni altro strumento tecnologico. Raggiungiamo a piedi, guidati da Marco Solimano, la Caserma della Polizia Penitenziaria, attraversando il piccolo borgo di pescatori che si snoda intorno all’insenatura del Porto, dove solo pochi fortunati, quasi tutti discendenti delle tre famiglie che furono inviate a colonizzare l’isola nel 1820, possiedono delle abitazioni in concessione demaniale. Ci riferiscono che l’unica persona che dimora stabilmente sull’isola, oltre al personale della Casa Circondariale, è una signora ultranovantenne, mentre gli altri residenti fanno la spola con la terraferma. La Caserma domina la baia e gode di un grande e bellissimo terrazzo panoramico. Ci riceve il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, Comm. Gisberto Granucci, in assenza della Direttrice, Dott.ssa Santina Savoca, che viene di rado, poiché dirige anche l’Istituto di Livorno, del quale quello che si trova sull’isola, da tre anni, è divenuto una sezione distaccata a custodia attenuata, sebbene sul sito del Ministero della Giustizia venga ancora indicato come Casa di Reclusione autonoma. C’è anche il Dott. Stefano Turbati, responsabile dell’Area Educativa, che ci accompagnerà per tutta la visita. Il colloquio preliminare con il Comandante si svolge sulla terrazza, dopo un caffè presso lo spaccio della Caserma, unico luogo dove i pochi dimoranti dell’isola possono effettuare acquisti, anche di beni di prima necessità. Ci viene riferito che, prima dell’accorpamento alla Casa Circondariale di Livorno, l’assegnazione dei detenuti alla Gorgona era vagliata, con criterio di premialità, da una commissione composta dal Direttore e dagli educatori, che ne valutava l’idoneità sul piano disciplinare, lavorativo ed anche sanitario (non possono essere ammesse persone con patologie che richiedano cure particolari perché il presidio sanitario sull’isola è minimale, anche se è sempre presente un medico e personale infermieristico). Oggi invece gli ingressi vengono decisi autonomamente dall’Amministrazione Penitenziaria secondo le regole ordinarie e si è registrato un significativo incremento di soggetti giunti a seguito di sfollamenti da altri Istituti, talvolta senza adeguata selezione e perfino senza che ne abbiano fatto richiesta. Ciò rappresenta un problema perché la vita sull’isola comporta un elevato grado di isolamento dall’esterno al quale non tutti sono in grado di adattarsi. E ciò vale anche per il personale qui dislocato, che effettua lunghi turni lontano dalle famiglie, accumulando i riposi per tornare periodicamente a casa. Inoltre, la stessa natura del complesso penitenziario, che si estende su spazi aperti, richiede che la popolazione detenuta sia idonea al regime di custodia attenuata, che comporta anche la libertà di muoversi con una certa libertà. Qualche mese fa, alcuni detenuti che non avevano gradito l’assegnazione a questo istituto hanno ingerito per protesta delle pile e, per trasportarli in Ospedale, è stato necessario l’intervento dell’elisoccorso. Eventi drammatici che, in un Istituto come questo, diventano di difficile gestione. L’Istituto ospita attualmente 80 reclusi, 19 dei quali in regime di art. 21 O.P., con alta percentuale di stranieri. Rispetto ad un anno fa, c’è stato un incremento di 20 unità. La capienza regolamentare è di 84, quella massima tollerabile, secondo il Ministero, di 120, ma il Comandante sostiene che, in base al numero delle camere detentive disponibili, che sono 56, la capienza massima si aggiri realisticamente intorno alle 100 unità. Tutti lavorano, anche se non tutti in attività compatibili con i rispettivi profili lavorativi elettivi. Le attività presenti sono agricole e di allevamento animali (mucche, pecore, maiali, galline, tacchini, conigli, cavalli, asini), oltre a quelle funzionali alla gestione dell’Istituto (cucina, pulizie, manutenzione degli ambienti ecc.). C’è anche un vigneto dove si produce un vino di pregio, gestito in concessione dall’Impresa Frescobaldi, che impiega alcuni detenuti ed ha anche assunto a tempo indeterminato 2 ex reclusi dell’isola. L’organico del personale di Polizia Penitenziaria ammonta a 54 unità, ma solo 25 attualmente sono coperte, ciò accentua la necessità di un regime di vigilanza che si affidi molto al contegno responsabile dei detenuti e l’esigenza che questi siano adeguatamente selezionati. Gli educatori sono 3, come prevede la pianta organica, ma ci viene segnalato che, per ragioni logistiche, ci sono difficoltà a svolgere regolari riunioni di equipe. É praticamente assente il personale volontario, che non ha la possibilità di organizzare alcuna attività, non potendo soggiornare sull’isola e visti gli orari dei trasporti, che non consentono di trattenersi sufficientemente nelle ore pomeridiane, quando i detenuti sono liberi dal lavoro. Incamminandoci a piedi sulla strada che risale la collina retrostante la baia del porto, incontriamo il vecchio ufficio postale, oggi in disuso, e la Chiesa, con annessa abitazione del cappellano, che non vi soggiorna stabilmente, ma garantisce la celebrazione delle funzioni religiose tutte le domeniche alle 11:00. Accanto alla Chiesa, c’è l’ambiente destinato ai colloqui con i familiari, con un’ampia area verde attrezzata. I colloqui si svolgono solo il sabato, ma hanno una durata di 6 ore consecutive, nel corso delle quali i detenuti possono cucinare in apposita cucina e consumare i pasti con i loro familiari. Visto che non è agevole venire spesso, ci si è attrezzati per cumulare le ore di colloquio e consentire di fruirne accorpandole. Qui si svolgono anche i colloqui con gli avvocati. I colloqui telefonici avvengono ancora attraverso il centralino, senza l’uso di schede e non è stata purtroppo allestita alcuna possibilità di usare strumenti per colloquio in videoconferenza. Nelle vicinanze c’è anche una foresteria, attualmente non in uso. Ce n’è un’altra, ad esclusivo uso del personale di Polizia Penitenziaria, con 15 posti. Ci viene spiegato che, per scelta dell’Amministrazione, poiché c’è penuria di acqua, si preferisce contenere il numero delle presenze sull’isola per non dovere sostenere costi necessari a fronteggiarne un maggiore fabbisogno. Anche per questa ragione è stato accantonato un progetto di albergo diffuso che era stato in passato preso in considerazione. Del resto, il fatto che anche reclusi in regime detentivo ordinario si muovano liberamente per motivi di lavoro non permette di consentire l’accesso all’isola di estranei. I pochi turisti che possono accedervi, sono costantemente accompagnati e seguono un itinerario di visita rigidamente predeterminato. Il Garante Solimano ed il Dott. Turbati ci spiegano che è questo il principale limite ai contatti con l’esterno. Perfino i volontari qui non possono venire perché dovrebbero fermarsi a pernottare, ma non è consentito. Questo impedisce di organizzare attività trattamentali diverse dal lavoro. Per tale ragione, ad esempio, si è dovuto recentemente accantonare anche il progetto di un corso di diritto costituzionale che era stato ideato da volontari e che aveva raccolto l’adesione di un docente universitario. In passato non è sempre stato così, come testimoniano i corsi di formazione (scuola edile e corso sub), che ancora sono indicati sul sito del Ministero. Risalendo lungo la collina, incontriamo l’edificio che ospita i reclusi in art. 21O.P., che godono di celle singole, con bagno e doccia piuttosto angusti. Lo stato degli ambienti non è molto accogliente, ma in compenso c’è una spaziosa cucina, con annesso refettorio, dove ogni detenuto dispone del suo armadietto e del suo frigorifero. Un detenuto è intento a preparare la pasta per la pizza e ci fa notare che, all’esterno, c’è anche il forno a legna. Ci soffermiamo a colloquiare con alcuni dei detenuti presenti, che si mostrano soddisfatti del proprio regime detentivo e motivati dalle particolarità che offre questo istituto, anche se comporta la rinuncia alle visite dei familiari, per chi ne ha. Uno dei presenti, ha la famiglia a Firenze, ma riceve visite non più di 3 o 4 volte all’anno. Un altro detenuto si lamenta per l’assenza di corsi di formazione, sottolineando che l’attività che presta in questo istituto non gli consente di migliorare il suo curriculum lavorativo. Si muovono liberamente anche al di fuori della sezione detentiva ed anche oltre gli orari lavorativi. La sezione chiude dalle 21:00 alle 06:00 e, di notte, quando le celle sono chiuse, non c’è nessun operatore. In caso di necessità, i reclusi dovrebbero poterli chiamare con un campanello, ma non funziona. Risalendo lungo la strada per alcune centinaia di metri, incontriamo infine, la sezione detentiva a custodia attenuata. É primo pomeriggio e molti detenuti sono presenti, avendo già esaurito i propri impegni lavorativi che, essendo spesso connessi ad attività agricole o di allevamento animali, cominciano la mattina molto presto. La Sezione è recintata e presidiata dal personale di vigilanza. Nell’orario di apertura delle celle, dalle 06:00 alle 21:00, i reclusi si muovono liberamente negli spazi comuni, che anche qui comprendono cucina e refettorio, oltre ad una palestra (con attrezzi piuttosto vecchi), una barberia ed un campetto da calcio in ottime condizioni. C’è anche una biblioteca, fornita di circa 1400 volumi. Il detenuto che svolge funzioni di bibliotecario, ci mostra il registro del prestito e l’inventario dei libri, sottolineando che ha svolto un corso di catalogazione. Le camere detentive si affacciano direttamente su un porticato aperto che circonda il cortile. Quindi gli spazi comuni sono in massima parte all’aperto. A monte, dove si trova il campetto da calcio, non c’è recinzione e la sezione detentiva confina direttamente con un impervio pendio coperto dal bosco. Nelle ore del mattino, quando si recano al lavoro, anche i detenuti della sezione a custodia attenuata si muovono liberamente sull’isola per raggiungere i propri posti di lavoro. Anche qui ci soffermiamo a colloquiare con diversi detenuti e notiamo che alcuni scontano pene medio - brevi. Molti sono stranieri ed uno di essi ci riferisce che fra circa sei mesi raggiungerà i limiti di pena per chiedere l’espulsione. Alcuni si lamentano per l’eccessivo isolamento e per i lunghi ritardi nella consegna della corrispondenza. Qualcuno ci dice che non tutti riescono ad adattarsi alla vita sull’isola, sia per l’isolamento, sia per l’impegno lavorativo, che è significativamente maggiore rispetto agli altri Istituti. Per questo, alcuni, dopo avere fatto domanda per venire, se ne pentono. Le camere detentive sono quasi tutte doppie ed hanno bagni con doccia piuttosto angusti. Quelle del piano superiore hanno anche un antibagno. Visitiamo anche la cucina, dove lavorano 3 detenuti. Uno di questi ci dice che anche la consegna dei generi alimentari avviene spesso in ritardo. I rifornimenti arrivano tutti dalla terraferma e non è consentito l’utilizzo dei prodotti dell’attività agricola e di allevamento che si volge sull’isola. Lasciata la sezione detentiva, proseguiamo visitando le stalle, gli ovili, i recinti degli animali, l’orto, il tutto seguendo una strada sterrata contornata a monte dal bosco, dalla quale si gode di una splendida vista sul mare. Accompagnati dal Dott. Turbati, ci soffermiamo anche nei pressi delle rovine del vecchio Convento dei frati che colonizzarono l’isola nei secoli passati e presso un piccolo cimitero che ospita le tombe degli antenati delle 3 famiglie degli isolani (come si nota dai cognomi, che sono sempre gli stessi), insieme a quella di un ex recluso che qui ha finito i suoi giorni ed ha chiesto di esservi sepolto. La visita si conclude con l’impressione che questo Istituto, che coniuga l’isolamento geografico con la custodia attenuata, rappresenti un esperimento di grande interesse, soprattutto per l’ottima offerta lavorativa di cui godono i detenuti, tutti impegnati in attività che si svolgono all’aria aperta e che danno prodotti di pregio. É un vero peccato che, salvo l’eccezione del vino Frescobaldi, i prodotti non siano valorizzati commercialmente, ciò che potrebbe fornire anche risorse per sviluppare ulteriori attività trattamentali diverse dal lavoro, che sono invece drammaticamente carenti. Ha inoltre trovato piena conferma, anche per un episodio di violenza fra reclusi verificatosi il giorno successivo alla nostra visita di cui abbiamo appreso dalla stampa, la concretezza del rischio che una insufficiente selezione della popolazione detenuta qui destinata rischi di compromettere l’equilibrio del sistema, che peraltro si giova di un organico di operatori decisamente ridotto. Forse sarebbe auspicabile - ed è un suggerimento che si permettiamo di rivolgere all’Amministrazione - che entrambe le sezioni dell’Istituto fossero trasformate in sezioni riservate a semiliberi ed a soggetti ammessi al lavoro all’esterno, garantendo così un vaglio giurisdizionale agli ingressi e riducendo gli ostacoli che oggi limitano l’accesso di ospiti sull’isola, in modo da favorire anche una maggiore interazione sociale. Chissà che non se ne possa discutere in futuro proprio in questa splendida cornice, organizzandovi un convegno sui temi dell’esecuzione penale, come si propongono i colleghi della Camera Penale di Livorno che hanno partecipato alla visita. Roma: una donna da mesi in carcere fra topi, insetti e varie carogne di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 11 agosto 2017 Francesca Occhionero, accusata di aver spiato politici e finanzieri, è in cella da sette mesi "Qui è una fogna, detenute con le piaghe, bagni guasti e odori insopportabili: un inferno". Nonostante il parere favorevole del pubblico ministero Eugenio Albamonte alla sostituzione della misura cautelare, Francesca Maria Occhionero, 49 anni, rimarrà in carcere su decisione del giudice del tribunale di Roma Antonella Bencivinni, che a fine luglio ha bocciato la richiesta della concessione dei domiciliari presentata dall’avvocato dell’indagata, Roberto Bottacchiari. Occhionero era stata arrestata il 9 gennaio scorso insieme al fratello Giulio con l’accusa di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico aggravato e intercettazione illecita di comunicazioni informatiche, nonché di avere spiato le mail di 18.000 personaggi del mondo politico e della finanza, tra cui Matteo Renzi, Mario Draghi e Mario Monti. La donna ha scritto una lettera, consegnata al suo legale e indirizzata alla società intera, per denunciare le condizioni inumane in cui è costretta a vivere da sette lunghi mesi all’interno del carcere di Rebibbia, le quali rendono la custodia cautelare in carcere una sorta di pena preventiva o anticipata, che sopraggiunge addirittura prima di un giudizio di colpevolezza. Conta i giorni, Francesca. Sono già 183, dal momento in cui ha varcato la soglia ferrosa della galera fino a quello in cui scrive. Secondo la donna, il problema del sovraffollamento, che affligge il sistema penitenziario italiano, è legato ad un ricorso eccessivo alla carcerazione preventiva, la quale peraltro tende a dilatarsi il più possibile anche a causa della lentezza cronica della macchina della giustizia nel nostro Paese, ripercuotendosi così sull’indagato (o sull’imputato), privato della sua libertà personale. Nella sua lettera, Occhionero avanza il dubbio, o il sospetto, che la custodia cautelare e la situazione infernale in cui vive, anzi "sopravvive", come lei stessa specifica, siano uno strumento di pressione, un mezzo per sfinirla ed estorcerle così a tutti i costi una confessione o per ottenere una prova. Nelle nostre carceri ci sono oltre 13mila persone in attesa di giudizio, segno che il problema è reale. "Nel cortile della mia sezione c’è una fogna a cielo aperto, con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni; ebbene, qui si svolge l’ora d’aria!", racconta Francesca. E ancora: "Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in isolamento sanitario per giorni, senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto del trattarsi di malattie infettive. Infatti, il reparto nido è stato isolato in quarantena per scabbia". La donna, che condivide una cella di meno di 9 metri quadrati e dorme su un materasso di gommapiuma usurato, bruciato e pieno di acari e pulci, lamenta di essere piena di sfoghi e di punture di insetti. Non mancano casi di micosi infettive. "Altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto vengono lavati con spugnette bisunte e senza detersivi. Non vi è mancata la presenza di scarafaggi e persino di un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento. Il congelatore non funziona. Nella cella la temperatura è ormai prossima a quella di un forno", scrive Occhionero. Una vera e propria cronaca dall’inferno: gabbiani e piccioni depositano i loro escrementi sul davanzale delle finestre, talvolta i primi attaccano i secondi, lasciandoli i loro corpi smembrati ed in putrefazione sotto il sole cocente. L’odore infesta la cella. Sottrarsi è impossibile. Lo sciacquone del water (privo di coperchio) perde acqua ininterrottamente. "La cipolla della doccia, completamente intasata dal calcare, è un proiettile pronto a partire con la pressione dell’acqua". "Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno. Tutto galleggiava. Le lenzuola del letto erano zuppe. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo. Nel mentre, il bagno, il water e il bidet erano del tutto inutilizzabili. Abbiamo usato i secchi", racconta ancora Francesca. Le risse tra detenute sono continue, dal momento che vengono costretti a convivere soggetti assolutamente incompatibili tra loro, molti dei quali con gravi patologie psichiatriche. "È mio libero pensiero ritenere che continuare a fare uso della custodia cautelare sia un abuso del diritto, un’ingiustizia" prosegue l’indagata, che ritiene che "l’evidente forzatura" del suo mantenimento in carcere si evinca anche dalle illegittime formule adottate per trattenerla, avendo i giudici ancorato l’esigenza della custodia cautelare alla mancata collaborazione della donna. Se così fosse, ossia se la carcerazione preventiva, protesa in queste condizioni disumanizzanti, avesse davvero la funzione distorta di spingere l’indagato ad una ammissione di colpevolezza, sospetto che tuttavia Francesca respinge, "si tradurrebbe in una vera e propria tortura". Pianosa (Li): sì ai privati, ma con regole scritte quinewselba.it, 11 agosto 2017 L’occasione del convegno sullo stato delle carceri italiane per parlare del futuro dell’isola. "È ora di salvare il suo patrimonio immobiliare". Martedì scorso, a Pianosa, l’Associazione Onlus Antigone ha presentato il suo XIII rapporto sullo stato delle carceri italiane. Con l’occasione non poteva non essere affrontato anche il tema del futuro che si vuole garantire all’isola. Un tema che nessuno, dopo quasi venti anni dalla dismissione del carcere, è riuscito ad affrontare con decisone e soprattutto con chiarezza di idee. "Pianosa - ha commentato con una sua nota l’ex sindaco di Portoferraio Giovanni Fratini - ha bisogno certamente di una rigorosa politica di tutela, ma oltre a questo credo sia altrettanto necessario ed urgente valorizzare il suo vasto patrimonio immobiliare, di cui fanno parte anche edifici di particolare valore storico ed architettonico. In sostanza dobbiamo preoccuparci di preservare le bellezze naturalistiche e insieme recuperare il vecchio borgo e tutti gli edifici che ci raccontano la storia passata e recente dell’isola. Qualche passetto in avanti, in questi anni, è stato fatto, ma, per arrestare il degrado, occorre molto di più ed agire in fretta. Prima di tutto è auspicabile che i Soggetti pubblici interessati, Ministeri dell’Ambiente, della Giustizia, delle Politiche agricole e delle Politiche sociali, Regione Toscana, Parco nazionale e infine Comune di Campo nell’Elba si siedano intorno ad un tavolo e riescano a sottoscrivere un protocollo d’intesa che indichi finalmente quali strade devono essere battute per far rivivere Pianosa, per creare le condizioni di un suo futuro sviluppo economico, compatibile con la delicatezza e la bellezza dell’ambiente naturale e che stabilisca, inoltre, le azioni che ciascuno deve compiere e le risorse finanziarie che deve attivare. In un documento approvato all’unanimità dal Consiglio comunale, l’Amministrazione di Campo nell’Elba, anni or sono, espresse "la ferma volontà di agire come attore principale per la tutela, la riqualificazione e il rilancio economico dell’isola". Parole sensate. Ma che sono rimaste solo parole. Eppure Pianosa è una frazione del Comune di Campo nell’Elba, di una straordinaria bellezza e con un suo ben definito tessuto urbano, da anni purtroppo in uno stato di completo abbandono. Dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro che non si può continuare ad intervenire " a pezzi e bocconi", con interventi isolati, non inseriti in un documento di programmazione economica e in un piano di recupero che individui le diverse possibilità di riuso dei singoli edifici per attività di carattere scientifico, culturale, agricolo ed anche turistico-ricettivo. Non reputo scandaloso, infatti - dice ancora Fratini - favorire nell’isola (senza mettere un mattone in più; anzi demolendo quanto è stato costruito con scarsa sensibilità ambientale) anche una presenza turistica stanziale oltre a quella giornaliera; ovviamente contingentata e sottoposta a regole comportamentali che la rendano compatibile con l’ambiente naturale. Della elaborazione ed approvazione di quei due strumenti di programmazione economica ed urbanistica deve farsi carico il Comune di Campo nell’Elba. Naturalmente d’intesa con l’Ente Parco, la Regione Toscana e tutti i competenti Ministeri. Ma sono atti di sua competenza. Dobbiamo però prendere coscienza che per arrestare il degrado, per rianimare un paese che sembra non avere più futuro, non possiamo continuare a fare affidamento solo su finanziamenti pubblici. Solo con questi impiegheremmo altri 20 anni, ma probabilmente molto di più, per rimettere a nuovo tutto l’abitato dell’isola del diavolo. È necessario dunque- secondo l’ex sindaco di Portoferraio - accettare anche risorse finanziare private. Prevedere l’intervento di privati che presentino progetti coerenti con gli obiettivi di " rilancio economico" e rispettosi delle norme di attuazione del piano di recupero. In questo mi sento di dare perfettamente ragione al neo Sindaco di Campo nell’Elba. Ma attento, Sindaco, prima di consentire l’ingresso del privato occorre avere ben chiari gli obiettivi che si vogliono raggiungere e soprattutto scrivere norme che pongano vincoli ben precisi e che non siano suscettibili di interpretazioni di comodo". Torino: il ristorante "Liberamensa" nel carcere Le Vallette di Giulia Martinelli Città Nuova, 11 agosto 2017 Piatti di ottima qualità preparati e serviti dai detenuti. Un’opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. Già funzionanti un panificio e un vivaio dove si produce zafferano, oltre a catering e gastronomia. Qualità ed impegno sociale. È su queste basi che nasce Liberamensa, il ristorante nato per volere della cooperativa Liberamensa, con l’obiettivo di offrire opportunità di reinserimento attraverso la formazione e il lavoro ai detenuti del carcere Le Vallette di Torino. Il ristorante nasce infatti dietro le sbarre, in un luogo completamente ridisegnato dagli architetti Andrea Marcante e Adelaide Testa, che hanno deciso di aderire al progetto portando un design innovativo all’interno di un luogo difficile. Un ristorante per "menti libere", come si legge sul sito di presentazione, ad occuparsi della preparazione dei piatti e del servizio ai tavoli sono infatti i detenuti che nel tempo hanno seguito corsi di preparazione ed hanno imparato diversi mestieri. Dal cameriere al cuoco, da chi si occupa della presentazione dei piatti a chi rimane in sala, ognuno ha imparato un compito preciso che deve portare avanti con responsabilità e che potrà essergli utile anche una volta tornato in libertà. Il ristorante infatti, oltre ad essere una testimonianza positiva di come il carcere possa trasformarsi realmente in un luogo di rieducazione e di cambiamento, dà l’opportunità a queste persone di rimettersi in gioco e sfruttare le capacità acquisite una volta scontata la pena. In cucina i ragazzi devono usare la propria fantasia, in sala rapportarsi con i clienti, il lavoro diventa così paradossalmente un momento per liberare la mente, dimenticando la pena e la vita dietro le sbarre, un primo passo insomma verso la libertà. Il menù è tipicamente piemontese, tutti i prodotti poi sono stagionali e a km 0. All’interno della Casa Circondariale di Torino si trova infatti anche il forno "Farina nel sacco", dove dal 2008 si producono pane, pasta fresca e dolci che arrivano direttamente sui tavoli del ristorante. Ma non solo, è presente infatti anche un vivaio, dove vengono coltivate erbe aromatiche e zafferano. Grazie alla collaborazione con agenzie di organizzazione di eventi, Liberamensa cura inoltre servizi di catering e gastronomia. Per ora il ristorante è aperto due volte a settimana, il venerdì e il sabato a cena. Obbligatoria la prenotazione. Per maggiori informazioni basta consultare il sito www.liberamensa.org. Firenze: il 18 agosto una delegazione Radicale in visita a Sollicciano ilsitodiFirenze.it, 11 agosto 2017 Il prossimo 18 agosto, una delegazione dell’Associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi" si recherà in visita nel carcere di Sollicciano per verificare, anche con la collaborazione della direzione dell’istituto, la situazione interna e i problemi da riportare fuori dalle mura del carcere, affinché la città ne sia informata e possa contribuire a risolverli. Il sovraffollamento è di nuovo ai limiti dell’emergenza anche nel carcere fiorentino, i cui problemi strutturali stanno raggiungendo una dimensione preoccupante. Un penitenziario è sempre una realtà difficile, e ogni carcere è una cosa a sé, con le sue difficoltà e le sue speranze. Speranze che però diventano irrealizzabili se la città lo espelle. Al pari di un ospedale o di un plesso scolastico, il carcere dovrebbe, invece, essere inserito a pieno titolo nel tessuto urbano e sociale di un territorio, e divenire la cartina al tornasole per accertare la coesione territoriale tra le istituzioni deputate all’amministrazione della cosa pubblica nei suoi molteplici aspetti. Solo così si potranno svolgere in piena sicurezza i percorsi rieducativi e di reinserimento sociale previsti dalla nostra Costituzione. Solo così il carcere smetterà di essere scuola del crimine e discarica sociale, diventando esperienza di crescita per tutti. La visita della delegazione radicale sarà anche l’occasione per presentare la nuova iniziativa politica che il Partito Radicale, con Rita Bernardini in primis, intraprenderà a breve: un "grande Satyagraha collettivo" per rendere effettiva la riforma dell’ordinamento penitenziario. Una riforma approvata a giugno, che potrebbe risolvere molti dei problemi che affliggono da tempo Sollicciano e altri istituti di pena, se solo venisse attuata. Per metterla in atto mancano i decreti, che, come spesso accade nel nostro Paese, sono ancora di là da venire. Ancora una volta, come già accaduto nel recente passato, saranno le persone che nel carcere vivono a scendere a fianco dei radicali nella lotta nonviolenta per la giustizia giusta. "Nelle carceri è entrato il dialogo! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione" (Aldo Masullo). La delegazione sarà accompagnata dal cappellano del carcere, Don Vincenzo Russo. Ascoli: scivoli e altalene, un’area verde per i colloqui a misura di bambino di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 agosto 2017 Dieci gazebo, altalene e scivoli nel piccolo parco giochi che accoglierà le famiglie e i figli dei detenuti. Finanziato da Cassa Ammende e realizzato dagli stessi reclusi, oggi l’inaugurazione al carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno). La direttrice: importante mettere sempre i bambini al primo posto. È un cielo senza sbarre quello che da oggi potranno vedere i bambini dei detenuti del carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno) durante gli incontri con i genitori rinchiusi. E poi altalene, uno scivolo, 10 gazebo e poltroncine per vivere quelle poche ore di contatto lasciandosi alle spalle cancelli e perquisizioni. Il progetto era nell’aria da diverso tempo e ora, finalmente, è diventato realtà. È stata inaugurata questa mattina all’interno della casa circondariale del capoluogo piceno l’area verde destinata ai colloqui con i familiari. I 10 gazebo, sistemati su due file da 5, introducono i giochi che hanno preso posto sopra un prato di erba sintetica. L’area colloqui all’aperto è stata ricavata nel grande spazio che per anni ha ospitato un campo di calcio, restando poi, per molto tempo inutilizzato. Il progetto è stato finanziato da Cassa Ammende ma sono stati gli stessi detenuti del giudiziario a realizzarlo. Due mesi di lavoro, nelle ultime settimane anche sotto il sole battente di un’estate caldissima, con l’obiettivo comune di dare il proprio contributo per costruire qualcosa di bello e di utile per le famiglie che aspettano a casa il loro ritorno, per sé e per i bambini che verranno. "Hanno lavorato con slancio e impegno - commenta la direttrice dell’istituto, Lucia Di Feliciantonio - pensando che lo stavano facendo soprattutto per i loro cari e per i familiari dei loro compagni. Vedere oggi questo angolo di carcere trasformato in un parco giochi, con i bambini sugli scivoli e sulle altalene o impegnati a tirare calci a un pallone, nonostante il caldo intenso di questi giorni, ci emoziona. Ai lavori per la realizzazione del piccolo parco ha lavorato con grande coinvolgimento anche la polizia penitenziaria e l’armonia che si è creata con i detenuti rappresenta un valore aggiunto". All’inaugurazione hanno partecipato una decina di famiglie con bambini al seguito, presente anche Don Dante, storico responsabile del gruppo Caritas-carcere, che ha benedetto il campo. La realizzazione dell’area verde segue una serie di altri progetti realizzati nell’istituto ascolano per rafforzare i legami familiari e quei contatti fondamentali sia per la crescita dei bambini che per il futuro dei loro genitori, in vista del delicato momento del fine pena e del reinserimento nella società. È il caso della sala colloqui interna, dipinta e colorata con scene di cartoni animati a tutta parete nel 2012 e arredata con scaffali pieni di giochi e libri per bambini, o dei pomeriggi extra colloquio, organizzati dalla direzione in occasione delle maggiori ricorrenze come il Natale, la Pasqua e la festa del papà. Non ultimo, l’adesione alla "Partita dei Bambinisenzasbarre", progetto che l’omonima associazione ha lanciato 3 anni fa a livello nazionale e che vede in campo squadre di detenuti con figli e di detenuti senza bambini sfidarsi sotto gli occhi dei propri cari in una giornata di festa che parte dalla passione calcistica per avvicinare le persone. Momenti preziosi, in cui il tempo e lo spazio in carcere assumono contorni diversi, in cui il desiderio di avere ancora una famiglia, in quelle ore si trasforma in una possibilità, che puoi anche toccare. "L’area verde - sottolinea Lucia Di Feliciantonio - testimonia una più ampia attenzione al rafforzamento della genitorialità, nella consapevolezza che per costruire una società migliore è necessario mettere sempre, e in ogni caso, al primo posto i bambini". Migranti. Vescovi di chiesa e di governo: "Le Ong rispettino la legge" di Luca Kocci Il Manifesto, 11 agosto 2017 Il cardinale Bassetti, nuovo presidente della Cei: "Non offrire pretesti agli scafisti". E si allinea alla linea dura del governo. Nel dibattito di questi giorni sul tema dei migranti che approdano sulle coste italiane dopo aver attraversato il Mediterraneo anche grazie al soccorso delle navi delle organizzazioni non governative, le parole pronunciate ieri dal nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinal Bassetti, appaiono come un sostegno nemmeno troppo implicito alla "linea dura" del governo, incarnata dal ministro dell’Interno Minniti, e un sostanziale via libera al codice di condotta imposto dal Viminale alle Ong. Sì all’accoglienza ma nel "rispetto della legge" e senza dare l’impressione "di collaborare con i trafficanti di carne umana", sono state le parole pronunciate ieri da Bassetti durante l’omelia per la festa di San Lorenzo, patrono di Perugia, diocesi di cui il cardinale ha mantenuto la guida pur essendo stato nominato a maggio - su indicazione dei vescovi italiani - da papa Francesco alla presidenza della Cei come successore del cardinal Bagnasco. Frasi pacate, di apparente buon senso, che però, contestualizzate, sembrano totalmente allineate a quelle del governo Gentiloni e dei ministri Minniti e Alfano, che a loro volta si sforzano di non lasciare la bandiera della "legalità" - l’ipocrita espressione per giustificare la lotta ai migranti - nelle mani di Salvini e Di Maio. "Altro motivo di angoscia per me pastore della Chiesa, ma anche cittadino consapevole della necessità della ricerca del bene comune per il suo Paese, è la situazione che riguarda i migranti e i rifugiati", le parole pronunciate ieri da Bassetti. "Questa sfida - ha proseguito il cardinale presidente della Cei - va affrontata con una profonda consapevolezza, grande coraggio e immensa carità", "che però non bisogna mai disgiungere dalla dimensione della responsabilità. Responsabilità verso chi soffre e chi fugge; responsabilità verso chi accoglie e porge la mano". È questo lo "snodo decisivo", secondo Bassetti: "Ribadisco ancora oggi, di fronte alla "piaga aberrante" della tratta di esseri umani, come l’ha definita papa Francesco, il più netto rifiuto ad ogni "forma di schiavitù moderna". Ma rivendico, con altrettanto vigore, la necessità di un’etica della responsabilità e del rispetto della legge. Proprio per difendere l’interesse del più debole, non possiamo correre il rischio, neanche per una pura idealità che si trasforma drammaticamente in ingenuità, di fornire il pretesto, anche se falso, di collaborare con i trafficanti di carne umana. Dobbiamo promuovere, come ci insegna il Papa quotidianamente, la cultura dell’accoglienza e dell’incontro che si contrappone a quella dell’indifferenza e dello scarto. Ma dobbiamo farlo con grande senso di responsabilità verso tutti". È un cambiamento di linea della Chiesa italiana, negli ultimi anni sempre sostanzialmente compatta, in consonanza con papa Francesco, nella difesa dei migranti? Probabilmente no. Ma la testimonianza evidente, nel caso qualcuno avesse ancora dei dubbi, che le posizioni sono diversificate. Solo pochi giorni fa Marco Tarquinio, direttore di Avvenire (quotidiano della Cei), scriveva in un editoriale che "non si possono commissariare le organizzazioni umanitarie con uomini armati a bordo" e difendeva con forza l’operazione Mare Nostrum, che "ha salvato l’anima all’Europa". E il responsabile immigrazione della Caritas italiana, Oliviero Forti, spiegava che "al di là dei codici, c’è in gioco la vita umana, la nostra preoccupazione maggiore". Da questo punto di vista, il nuovo presidente della Cei non ha rappresentato una scelta di "rottura" rispetto alla presidenza Bagnasco, caratterizzandosi semmai per un profilo più pastorale e meno politico, ma sempre attento a muoversi con cautela, tenendo conto degli equilibri e dei rapporti di forza, questi sì politici, che si andranno a definire fino alle elezioni. Ed è sempre meglio non restare troppo scoperti, né a destra né a manca. Migranti. "La nostra priorità è togliere i rifugiati dai centri di detenzione libici" di Carlo Lania Il Manifesto, 11 agosto 2017 Barbara Molinario (Unhcr). Una volta fermati dalla Guardia costiera libica donne e bambini vengono di nuovo rinchiusi in condizioni terribili. Le Ong? Indispensabili per i salvataggi. "Purtroppo ancora oggi i migranti fermati in acque libiche vengono rinchiusi nei centri di detenzione, dove le condizioni di vita sono terrificanti. Come Unhcr stiamo lavorando con le autorità e con l’Oim perché si possano aprire al più presto dei veri centri di accoglienza nei quali ospitare migranti e rifugiati". Barbara Molinario dell’Unhcr fa il punto sul lavoro che l’Agenzia Onu per i rifugiati sta svolgendo in Libia. "Un Paese nel quale siamo presenti fin dal 1991 anche se purtroppo nel 2014 per motivi di sicurezza il nostro staff internazionale è dovuto andare via", spiega. "Nonostante questo a oggi con i nostri partner riusciamo ad essere presenti in tutti i dodici porti in cui vengono portati i migranti dopo essere stati fermati in mare dalla Guardia costiera libica. E qui forniamo assistenza medica, cibo, beni di prima necessità. Da là poi, però, i migranti e i rifugiati vengono trasferiti in centri di detenzione". Quando saranno pronti i centri di accoglienza? Ci stiamo lavorando insieme alle autorità libiche e ai nostri partner. Questa è la strada da percorrere perché con tutte le difficoltà che vivono, le violenze subite e i rischi corsi in mare non è giusto che i migranti tornino nei centri di detenzione. Cosa ne ha ostacolato finora la creazione? Si tratta di un processo molto lungo condizionato dal fatto di non avere lo staff internazionale nel Paese, dalla necessità di individuare i luoghi adatti e avere le autorizzazioni da parte delle autorità. Tutto questo richiede del tempo. In più bisogna tener conto delle difficoltà legate ai problemi di sicurezza. L’Unhcr riesce ad entrare in 13 dei circa 30 centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. In che condizioni vivono i migranti? In condizioni terribili. Mancano i servizi sanitari, manca l’assistenza medica e mancano le condizioni di sicurezza. Trattandosi di centri di detenzione per tutti, anche per le donne o per chi ha delle problematiche particolari, per persone vulnerabili e bambini è ovvio che la priorità per noi è di negoziare la loro liberazione e metterli in sicurezza. Bisogna considerare che in Libia esistono centri di detenzione gestiti da vari soggetti. Quelli nei quali entriamo ricadono sotto la responsabilità del governo di Tripoli, ma poi ci sono quelli in mano alle milizie e quelli gestiti dai trafficanti che tengono rinchiusi i migranti fino al momento della partenza. Da luglio si registra una diminuzione degli arrivi. A cosa è dovuta? A un insieme di fattori. In parte a qualche giorno di maltempo, ma anche al fatto che la Guardia costiera libica è stata più operativa e ha intercettato un numero elevato di persone in mare. Bisogna dire però che è troppo presto per affermare che si tratta di un trend. A oggi gli arrivi sono bene o male in linea con quelli dell’anno scorso e dell’anno prima. Il problema comunque non sono i numeri ma la necessità di trovare un’alternativa al fatto che persone debbano rischiare la vita in mare. Non si tratta quindi solo di potenziare le operazioni in Libia, ma anche di chiedere che vengano fornite delle vie legali per arrivare in Europa. È fondamentale continuare a dirlo, altrimenti non si arriverà mai a una soluzione. L’Italia ha fatto uno sforzo incredibile nell’accogliere centinaia di migliaia di persone fino a oggi ma è impensabile che possa continuare così. L’Europa deve essere più solidale. Purtroppo non è così, come dimostrano i dati sui ricollocamenti: a oggi è partito circa il 20% del target. Fa tutto parte dello stesso problema, il fatto che venga allentata la pressione sull’Italia tramite i ricollocamenti, tramite delle soluzioni in Libia e tramite l’apertura di vie legali, in modo che chi è in fuga non debba attraversare il Mediterraneo in barca. Il governo italiano spinge molto perché Unhcr e Oim si occupino dei centri di accoglienza in Libia. Non avete paura di fare la parte della foglia di fico per coprire i respingimenti dei migranti? Quello dell’Unhcr è un mandato umanitario, quindi noi lavoriamo con tutti gli attori in tutte le situazioni perché c’è un estremo bisogno di migliorare la situazione in Libia dove oltre ai migranti ci sono anche 300 mila sfollati libici. Cosa pensa del lavoro che svolgono le Ong? Senza ombra di dubbio sono fondamentali per i salvataggi in mare. A prescindere dal Codice di condotta quello che è importante è che possano continuare a fare il loro lavoro, anche quelle che non hanno firmato il Codice come sta di fatto sta accadendo e come ci auguriamo continui a essere, perché nonostante tutto lo sforzo della Guardia costiera italiana e di tutti gli altri attori nel Mediterraneo comunque non basterebbero. Senza le Ong sicuramente avremmo un numero di morti maggiore. L’appello di Ong, intellettuali e sinistra: "Migranti, in corso uno sterminio di massa" di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 11 agosto 2017 Il testo è un atto di accusa contro Europa e governo italiano: "In corso una carneficina, chi ci governa ne è complice". Il titolo dell’appello è "Io preferirei di no", e richiama i tempi del fascismo, quando alcuni professori si opposero al regime. Il contenuto è un duro atto di accusa contro le politiche migratorie del governo e in particolare del ministro dell’Interno Marco Minniti. "È in corso un nuovo sterminio di massa - esordisce il testo - Donne, bambini, uomini, intere famiglie costrette a fuggire dalla guerra e dalla fame. Costretti a farlo indebitandosi, subendo violenze e torture nelle carceri libiche, rischiando di annegare, di morire di sete e di ustioni da carburante su barconi fatiscenti". In tutto questo, si legge, "il nostro Governo non è indifferente a questa carneficina ma complice: invia navi militari per impedire ai migranti di lasciare le coste dell’Africa; si accorda con i dittatori dei paesi che perseguitano i profughi per bloccare ai confini chi tenta la fuga; perseguita le Ong che - senza alcun fine di lucro - salvano i migranti in mare; impone loro condizioni che rendono impossibile o vano l’intervento, come il divieto di trasbordare i profughi su imbarcazioni più grandi o l’obbligo della presenza sulle navi di ufficiali militari armati, inaccettabile per le associazioni umanitarie che operano in terre di conflitto solo grazie alla loro neutralità". L’appello, aperto ad altre sottoscrizioni online, è firmato da numerose personalità del mondo della cultura come lo scrittore Erri De Luca e il critico d’arte Tomaso Montanari; dell’associazionismo come dall’Arci e da Cecilia Strada di Emergency; della Chiesa come Alex Zanotelli e la Comunità di San Benedetto al Porto di Genova che fu di don Andrea Gallo; dal sindacato Usb e dalla politica: tra gli altri, il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, quello di Rifondazione Maurizio Acerbo, Pippo Civati, il movimento del sindaco di Napoli Luigi de Magistris. La sfida è quella contro il "governo che criminalizza chi salva vite umane, a disobbedire ai sindaci che intimano di non accogliere i profughi, a denunciare la loro complicità con questo deliberato sterminio". "Preferirei di no", risposero i professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Furono solo 12 su 1.200. Stavolta - si chiude l’appello - sappiamo di essere di più, e desideriamo creare un luogo dove chi pensa che la fuga dalla guerra e dalla fame sia un diritto e l’accoglienza un dovere possa ritrovarsi, mobilitarsi, esprimere la propria solidarietà nei confronti di chi rischia la vita e di chi la salva. Non staremo in silenzio, non staremo a guardare". Migranti. "Aiutiamoli a casa loro" significa nei lager libici? di Roberto Della Seta huffingtonpost.it, 11 agosto 2017 La contabilità degli arrivi di migranti dal Nord Africa dice che le cose vanno benissimo: a luglio -52,5% rispetto al luglio 2016, nei primi giorni di agosto -76% sullo stesso periodo dell’anno scorso. Insomma, la strategia del ministro Minniti, basata sul codice di regole restrittive per le Ong che effettuano salvataggi in mare e sugli accordi con i poteri libici perché trattengano i migranti in fuga, sembra funzionare alla grande. Certo, come già avvenuto per l’intesa stretta mesi fa dall’Europa con la Turchia per chiudere la rotta migratoria da Siria e Iraq verso i Balcani, è bene non farsi troppe domande su ciò che accade nel "retropalco", in questo caso in terra libica. Perché ciò che accade è un’autentica schifezza, è la negazione sistematica di ogni principio umanitario. Accade, come raccontano le duemila testimonianze raccolte da Medici per i Diritti Umani (Medu) e come denunciato dall’inviato Unhcr per il Mediterraneo Vincent Cochetel, che i migranti trattenuti finiscono in lager come quello di Sabha, una fortezza nel deserto nel sud est della Libia circondata da filo spinato e miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro, dove subiscono privazioni e atrocità di ogni genere. A confermare che la Libia si sta trasformando - meglio sta tornando ad essere come già ai tempi di Gheddafi - un immenso campo di concentramento per migranti in fuga dai loro paesi, è stato nei giorni scorsi il viceministro degli esteri Mario Giro: "I migranti - ha detto Giro, una vita di impegno per l’Africa con la Comunità di Sant’Egidio - finiscono in centri di detenzione nelle mani delle milizie, che ne approfittano per fare i loro commerci; questa politica non raggiunge nemmeno l’obiettivo di alleggerire la situazione, c’è molta gente che vive su questi traffici". Viene da dire, amaramente, che ora si capisce meglio il senso dell’auspicio renziano "Aiutiamoli a casa loro". Per un momento avevamo creduto che il leader Pd si limitasse a ripetere una abusata banalità: l’unico modo efficace per evitare che folle di africane e africani cerchino sicurezza e spesso trovino la morte avventurandosi nel Mediterraneo per raggiungere l’Europa, è che l’Africa diventi un continente senza più miseria né guerre. Verità impossibile da negare ma ardita da sostenere per chi governando l’Italia da anni ha mantenuto a livelli infimi i fondi per gli aiuti allo sviluppo (0,26% del Pil contro lo 0,51% della media europea) e fatto crescere l’export di armi verso l’Africa; e verità che lascia il tempo che trova quando si tratta di dare soccorso qui ed ora a migliaia di migranti in fuga dai loro attuali inferni. Ma no, l’invocazione di Renzi era molto più concreta, e il ministro degli interni Minniti si è incaricato di renderla esplicita e anche di cominciare a metterla in pratica. Questo il nuovo progetto: l’Italia è disposta a tutto pur di fermare l’afflusso di richiedenti asilo e di migranti dall’Africa, anche ad "aiutarli a casa loro", nel senso di lasciarli marcire nei campi di concentramento libici. La "dottrina-Minniti" è chiara ed è coerente: il fine, ridurre il flusso delle partenze di migranti dalle coste libiche, giustifica i mezzi per raggiungerlo, cioè la messa in mora delle Ong umanitarie impegnate nel Mediterraneo e l’affidamento ai ras libici del lavoro sporco di "ospitare" i migranti in veri e propri lager. Su questa idea si è realizzata un’inedita convergenza di accenti e di argomenti tra destra, grillini, Pd; convergenza che ha visto il Partito democratico ritrovarsi su un terreno valoriale, riassumibile nello slogan "prima gli italiani", da sempre patrimonio della destra. Pagherà questa scelta, consentirà al Pd di raccogliere consenso in quella larga fetta di elettorato, oggi più larga di ieri, sensibile ai richiami securitari e sovranisti? Difficile, più probabile che alla fine quell’elettorato scelga l’originale salvinian-grillino alla fotocopia Pd. Di sicuro questa degenerazione politico-culturale della leadership democratica rende sempre più urgente la messa in campo di un’alternativa di progetto, di visione, di proposta di governo: perché come ha scritto Ezio Mauro, una sinistra che rinnega "quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della globalizzazione", ha perso del tutto il suo senso storico. Stati Uniti. I corsi di cucina in cella dello chef delle star Usa di Valentina Stella Il Dubbio, 11 agosto 2017 Bruno Abate ha ideato il programma "Recipe for change" in una prigione dell’Illinois. È difficile credere che qualcosa di semplice come preparare o gustare una pizza possa cambiare delle vite. Ma è esattamente quello che sta succedendo da 6 anni dietro le mura del carcere della Contea di Cook, a Chicago. Il merito è dello chef italiano Bruno Abate che ha ideato il programma "Recipe for change" - Ricetta per il cambiamento - per offrire una opportunità di trasformazione ai detenuti, insegnando loro i segreti dell’arte culinaria. Nato a Napoli e cresciuto a Milano, Abate si trasferisce a metà degli anni Novanta a Chicago, dove apre due ristoranti di successo, prima "Follia" e poi "Tocco", che si pregiano della presenza di clienti come Mariah Carey, Johnny Depp, Morgan Freeman e Clint Eastwood. Ma il suo tempo non lo impiega solo per deliziare i palati; 25 ore della settimana le trascorre all’interno del carcere per dare una chance ad alcuni reclusi tra i 9000 che in attesa di giudizio affollano l’istituto di pena di Chicago. Secondo alcune statistiche i detenuti liberati dalla prigione della Contea di Cook ritornano in carcere dopo 3 anni. Per scongiurare questo fenomeno della recidiva, Abate insegna loro un mestiere. Chef Abate come nasce l’idea di recipeforchangeproject.org? Una serie di coincidenze: 7 anni fa ero andato a trovare mia figlia in Italia e mi aveva raccontato di un’amica che aveva il padre in prigione ma stava bene perché lo facevano lavorare. La stessa notte rientrai in America: verso le 3: 30 del mattino, la mia Tv si accese all’improvviso da sola. Trasmettevano un documentario sulle carceri americane. Ero stupito del fatto che oltre 2500 minorenni fossero stati condannati all’ergastolo. Ho guardato per po’, e improvvisamente ho sen-È tito il bisogno di far qualcosa per migliorare le cose. Mi alzai, e iniziai a scrivere furiosamente per ore quello che dovevo fare. Quando mi sono svegliato la mattina, ho trovato 10 pagine. È come se Dio mi avesse fornito la mappa. Ma non sapevo a chi rivolgermi. Poi un amico è venuto nel mio ristorante, e ho scoperto che era il fratello dello sceriffo di Cook County, Tom Dart. Ha condiviso subito le mie idee e mi ha permesso di portare avanti il mio progetto. Come è stata accolto dai detenuti? Come un dono di Dio: i miei studenti sono felici, apprezzano il fatto che ci sia qualcuno che si interessi di loro, che gli restituisca la dignità. Nella Costituzione italiana abbiamo l’articolo 27 che promuove la rieducazione del detenuto. Negli Usa manca un simile articolo in Costituzione… In Italia i carcerati vivono una condizione migliore, e anche la giustizia italiana ha più rispetto di loro e funziona meglio di questa. Il detenuto qui in America invece è considerato come uno scarto che non si può recuperare. Qui le carceri non se la passano bene! In America i detenuti devono indossare una divisa, in Italia no: questo li disumanizza. Qui con 2 dollari e 78 si coprono tre pasti, il 30% dei quali sono a base di soia. I detenuti hanno spesso problemi ai reni e al fegato per la cattiva alimentazione. E spesso io devo comprare i prodotti del bagno, altrimenti rischiano di non lavarsi. In cosa consistono nel dettaglio i corsi, a che tipo di detenuti si rivolgono, come vengono selezionati e che prospettive offrono ai reclusi? Partiamo dal comportamento da tenere in cucina insieme agli altri, l’igiene sanitaria, fino alla nutrizione, le spezie e le erbe fresche, la panificazione e la pasta fresca, i sughi e la pizza. Il 99% dei detenuti non conosce il basilico! La selezione viene fatta da persone qualificate all’interno del carcere. Nei miei corsi non possono accedere reclusi violenti, in attesa di giudizio per omicidi oppure per abusi sessuali. Le prospettive? Per quei pochi che non vengono condannati la nostra associazione trova loro un lavoro, anche presso il mio ristorante, e abbiamo un database che li segue e attraverso cui possiamo capire se ritornano in carcere. La cosa più importante è di dar loro qualcosa da sognare, qualcosa in cui sperare. Il mio programma riesce a salvare 200- 250 persone all’anno, spero di fare di più. Questa iniziativa ha permesso di facilitare un incontro tra il carcere e il tessuto sociale? Certamente, l’impatto è stato enorme, il mio programma ha iniziato a buttare giù delle barriere culturali che prima mai nessuno si sarebbe immaginato. Inoltre ogni giorno trascorso nel mio programma viene scontato dalla pena. Non esisteva nessun programma di questo genere in Usa: dare la possibilità ai detenuti di ordinare una pizza che gli viene consegnata in cella, a loro spesa - 5 dollari, non accade in nessun altro carcere al mondo. Li responsabilizza ed è un risparmio per l’amministrazione. Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano durante l’insegnamento? Il mio programma è molto rigido: inizialmente spiego a tutti le regole, chi non le rispetta è fuori dal programma. Poi ci sono le difficoltà culturali, e il doversi rapportare con persone che hanno subito molte sofferenze fin dall’infanzia. Con quali fondi viene portato avanti il progetto? Il programma viene sostenuto principalmente da fondi privati. Quali sono gli ingredienti principali affinché un tale progetto riesca? L’ingrediente principale per il successo di questo programma è la passione per quello che fai, pensare di salvare un essere umano e i suoi figli. Crede sia esportabile in altre prigioni? Il programma è stato creato per diffonderlo in altre strutture carcerarie, purtroppo non sarà facile, ma con l’aiuto di Dio e la mia persistenza e amore riusciremo ad aprire altre porte. Missione italiana in Libia: Haftar bellicoso, Serraj in difficoltà di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 11 agosto 2017 Il generale della Cirenaica chiede l’aiuto dell’Egitto contro la missione militare italiana, il Cairo in imbarazzo. E la Marina di Serraj: le acque libiche interdette alle ong e navi italiane solo di supporto alla Guardia costiera libica. Le ultime iniziative italiane in Libia, in particolare l’avvio della missione navale, non godono di molto favore tra i libici. Ieri a Tripoli è stata la stessa Marina militare che fa capo al governo Serraj - sponsorizzato dall’Italia e dall’Onu - a mettere dei paletti alla presenza delle navi militari italiane, oltre che a rivendicare gli spari della Guardia costiera libica contro l’imbarcazione umanitaria Golfo Azzurro dell’ong catalana Proaticiva Openarms tre giorni fa. "Abbiamo concesso alla Marina italiana di entrare nella base di Tripoli per la manutenzione delle nostre unità navali", ha detto in una conferenza stampa il comandante Abdulhakeem Abu Houya. Lo stesso Abu Houya ha quindi sottolineato come "la Marina non accetterà la violazione delle acque territoriali libiche". Nel frattempo il generale Kalifa Haftar mercoledì è volato al Cairo dove ha incontrato il capo di Stato maggiore dell’esercito egiziano Mahmoud Hijazy. Haftar - secondo il resoconto di Libyan Express - ha chiesto all’Egitto di fare da deterrente verso un eventuale appoggio militare da parte dell’Italia al suo rivale libico Serraj, mettendo in serio imbarazzo il suo interlocutore. Ieri il generale egiziano ha chiarito all’l’ambasciatore Usa in Libia, Peter Bodde che l’Egitto è impegnato per la pacificazione e l’unità territoriale della Libia. E quindi non fomenterà la guerra tra Tripolitania e Cirenaica. Per cercare di calmare i timori bellicosi dell’uomo forte della Cirenaica, il nuovo inviato speciale dell’Onu per la Libia Ghassam Salameh, dopo la visita a Roma e le incomprensioni con il ministro Alfano - ha chiarito ieri di non aver mai avvallato la missione militare italiana - ieri a Bengazi ha incontrato Haftar. Iran. Arrestato a 15 anni, condannato a morte a 16, impiccato questa mattina di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 agosto 2017 Per la terza volta dal maggio 2016, le autorità iraniane avevano programmato l’esecuzione di Alireza Tajiki, arrestato nel 2012 e condannato a morte nel 2013, quando aveva rispettivamente 15 e 16 anni, con l’accusa di aver violentato e poi ucciso un suo amico. Questa mattina ci sono riuscite. L’hanno impiccato. Il processo nei suoi confronti era risultato gravemente irregolare, basato prevalentemente su "confessioni" che Tajiki aveva denunciato di essere stato costretto a fare sotto tortura e che aveva successivamente ritrattato, dichiarandosi innocente dalla prima udienza in avanti. Ieri Tajiki era stato trasferito in isolamento e alla famiglia era stato chiesto di recarsi alla prigione Adel Abad di Shiraz per l’ultimo saluto. Nessuna comunicazione ufficiale era invece arrivata all’avvocato, che secondo la legge dev’essere informato di un’imminente esecuzione con 48 ore di anticipo. L’applicazione della pena di morte nei confronti di persone che all’epoca del reato avevano meno di 18 anni è contraria al diritto internazionale. A più riprese le autorità giudiziarie iraniane hanno dichiarato che Tajiki era "maturo" e pienamente consapevole "dell’illegalità dell’atto commesso e della conseguente punizione". L’Iran è uno dei pochi paesi al mondo che continua a mettere a morte rei minorenni, già quattro quest’anno. Amnesty International ha i nomi di almeno 89 condannati a morte in attesa dell’esecuzione per reati commessi quando avevano meno di 18 anni. Venezuela. Svegliamoci è in corso un lungo golpe di Bernard-Henri Lévy* Corriere della Sera, 11 agosto 2017 Servono anche dure sanzioni economiche e finanziarie contro Caracas e gli oppositori ancora liberi andrebbero accolti a Parigi, Madrid e Washington. Ed ecco che il sogno si tramuta in incubo; ecco che in un miscuglio d’incompetenza e di scempiaggine si mette in atto la spartizione pianificata del Paese per mano di una "borghesia bolivariana", avida e al soldo di Cuba, Paese anch’esso stremato e incapace di credere ancora al suo modello: e tutto crolla. Ecco comparire un nuovo Padre Ubu, che affonda le mani nelle idrovore finanziarie dell’azienda nazionale del petrolio per nutrire il suo clientelismo e alimentare i fondi opachi che i satrapi del regime gestiscono senza alcun controllo, e tutto questo fa precipitare il Paese in coda alle nazioni che si dirigono a rotta di collo verso la miseria più nera - a titolo indicativo, oggi in Venezuela c’è un’inflazione pari a quella dello Zimbabwe o della Germania degli anni Venti. Il pensiero torna a Candide, rientrato dal suo Paese della Cuccagna dove l’oro, quel petrolio giallo, scorreva a fiotti. Si ripensa agli scritti di Luis Sepúlveda, di Alejo Carpentier e altri ancora, dove il mito dell’Eldorado - ahimè - finisce sempre male. L’Eldorado sgonfiato si paga, e a caro prezzo. Ipocrisie della politica - Ben presto il saccheggio del Paese si accompagna a un dispiegamento di violenza che lo spinge sull’orlo della guerra civile. Centoventi morti in poche settimane. I vertici delle opposizioni perseguitati, epurati, sequestrati, imprigionati. Le torture nei commissariati di polizia. E per finire, si raggiunge il colmo con la farsa elettorale che consente a un’assemblea "decostituente" di accaparrarsi tutti i poteri e di smantellare, a suo piacimento, il fragile equilibrio istituzionale del Paese. Davanti a questo disastro, vorremmo porre due domande. Una domanda molto francese, per cominciare. Fino a quando il signor Mélenchon, leader della "France Insoumise", indomita, continuerà a elogiare le virtù di questo regime assassino? Quanti morti gli serviranno per chiamare gatto un gatto e riconoscere negli sgherri di Maduro i fratelli gemelli di coloro che un tempo seminarono il terrore in Cile o in Argentina? E che cosa aspetta per pronunciare le parole che sono privilegio dell’uomo libero, nelle alleanze e nelle dichiarazioni: sì, mi sono sbagliato; no, questo regime brutale non è "fonte d’ispirazione"; e questa storia di alleanza bolivariana, iscritta nell’articolo 62 del mio programma con lo scopo di "avvicinarmi" agli eredi dei caudillos (Castro, Chávez...) dei quali ho pianto la scomparsa, è stata decisamente una cattiva idea? Per il momento, nulla. Come per gli spagnoli di Podemos o i greci di Syriza, come per Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, anche per i sostenitori di Mélenchon gli eroi dalle mani insanguinate hanno la scusa della lotta contro "l’imperialismo". E, quando si svegliano, è solo per rovesciare le parti e, come quel tale Djordje Kuzmanovic, oscuro portavoce del partito, accusare i manifestanti pacifici, che lottano per la democrazia e per la legalità, di essere come i golpisti di Pinochet nel Cile degli anni Settanta. Oppure, come Alexis Corbière, per denunciare la "disinformazione" e, aggiungendo la beffa al danno, per insultare la memoria dei morti (tutti ragazzi dei "quartieri bene" che hanno avuto quello che si meritano), o per dare al conflitto ragioni razziali ("spesso le persone di colore provengono dai quartieri popolari"), o per criminalizzare l’opposizione, esposta all’efferatezza delle milizie paramilitari del governo ("spesso le persone vengono date alle fiamme"). Questi "indomiti" sono forse oppressi oppure ostaggi? Tali propositi, in ogni caso, sono indegni di un partito che aspira a incarnare l’opposizione in Francia. Il nostro silenzio - La seconda domanda si rivolge alla comunità internazionale, anch’essa preoccupata, e per due motivi. Innanzitutto per la responsabilità di garantire protezione, prevista dalla Carta delle Nazioni Unite, che esige una risposta forte; una condanna ferma da parte di un Consiglio di sicurezza coraggioso; dei gesti simbolici di sostegno, come l’accoglienza a Parigi, Madrid e Washington, degli ultimi rappresentanti dell’opposizione ancora liberi di muoversi; una manifestazione di solidarietà da parte delle rappresentanze francese, spagnola, americana eccetera, con il Parlamento venezuelano che il "colpo di Stato costituente" di Maduro vuole dissolvere; e infine, ovviamente, sanzioni economiche e finanziarie che vadano al di là dei blandi avvertimenti del Mercosur e delle rodomontate pusillanimi di Donald Trump. Del resto, tutto quello che accade a Caracas ci riguarda, tutti noi, anche nella lotta contro il terrorismo e contro la finanza criminale che lo alimenta. Qual è il senso dell’alleanza "bolivariana" stipulata dal fu Chávez con Mahmoud Ahmadinejad, ex presidente della Repubblica iraniana? Che ne è stato dei membri delle Farc colombiane? Un loro capo, Iván Ríos, mi aveva confidato poco prima di morire nel 2007 che erano stati inviati "in missione" nel Paese del "socialismo del XX secolo". E quale fiducia concedere a quei dirigenti dell’opposizione antichavista che denunciano, per ora a orecchie sorde, che nulla si sa dei legami di Maduro con la Corea del Nord, la Siria di Bashar Assad e con quel tale attivista degli Hezbollah che ha fatto perdere le proprie tracce? Sono solo alcune delle domande che esigono una risposta chiara. Un regime messo alle strette è capace di ogni nefandezza e pertanto la situazione in Venezuela merita di essere sottoposta a commissioni d’inchiesta, a un Tribunale Russell, e di suscitare maggior interessamento da parte della stampa occidentale. Qualsiasi cosa, piuttosto che il silenzio imbarazzato che accoglie, per ora, questo interminabile colpo di Stato. India. Una suora e i detenuti del Madhya Pradesh di Rita Baldassarre L’Osservatore Romano, 11 agosto 2017 "Di solito noi disprezziamo questa gente in prigione e pensiamo che essi meritano la loro punizione. È raro che pensiamo di loro qualcosa di positivo". Eppure, essi sono semplicemente "esseri umani che hanno sbagliato". Parole di madre Meena Barwa, che racconta del suo recente incontro con alcuni detenuti, che ormai lei sente e tratta come veri fratelli. La religiosa, che nel 2008 è sopravvissuta alle violenze scatenatesi durante il pogrom anticristiano nel distretto di Kandhamal, in Orissa, pochi giorni fa insieme ad altre tre consorelle e a sedici donne cattoliche si è recata in una prigione del Madhya Pradesh per legare un rakhi al polso di diversi carcerati: una cerimonia simbolica che fa diventare "fratello e sorella". Il rito celebrato è quello del Raksha Bandhan, che significa "il legame della protezione". Esso è collegato all’omonima festa in cui si celebra il rapporto fra i fratelli e le sorelle. In questa circostanza le sorelle legano un rakhi (un "sacro laccio") al polso del loro fratello. Ma con il tempo è divenuto comune anche celebrare così ogni rapporto di amicizia fra uomo e donna, anche se i due non sono biologicamente legati. E il gesto praticato dalle religiose e dalle donne cattoliche nella prigione indiana intende proprio diffondere amicizia e sottolineare la inestinguibile dignità presente in ogni detenuto. "È stata la prima volta per me. Io, altre tre suore e sedici donne - racconta madre Meena all’agenzia Asia News - siamo andate nella prigione e abbiamo legato il rakhi a ottantanove detenuti. Avevamo programmato la cosa in modo molto semplice: legare il rakhi, cantare due canzoni, segnare la loro fronte con la tipica polvere rossa e servire alcuni dolci". Una vera sorpresa per molti carcerati. "Non appena abbiamo iniziato a cantare - prosegue la religiosa - gli uomini hanno cominciato a piangere e hanno pianto ancora di più mentre legavamo il rakhi. Mi sono commossa e il mio cuore era pieno di compassione e di amore. Molte di noi piangevano insieme a loro".