Evasioni da permessi premio, sono solo lo 0,04 per cento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2017 Nei primi sei mesi del 2017 sui 16.872 concessi solo sette detenuti non sono tornati in cella. Nella quasi totalità dei casi i fuggiaschi vengono di nuovo arrestati. Si tratta di strumenti necessari per il reinserimento previsto dalla costituzione. Il carcere è davvero un colabrodo? Le recenti quattro evasioni dai permessi premio nel giro di due giorni ha creato polemiche da parte di alcuni sindacati di polizia e alcuni giornali hanno cavalcato l’onda. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, rispondendo alle polemiche, ha ricordato che "migliaia di detenuti escono dal carcere, vanno a lavorare e poi rientrano". Il Dubbio ha verificato se la situazione descritta dal Guardasigilli sia effettivamente così. Analizzando gli eventi critici nelle carceri, riportato dal documento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si evince che nell’arco del 2016 ci sono state 35 evasioni dai permessi premio. Mentre il sito del ministero della Giustizia riporta che, sempre nel 2016, sono stati concessi 32.617 permessi premio. Ciò vuol dire che solo lo 0,10 per cento di chi ha usufruito dei permessi premio, è evaso. Se prendiamo ad esempio l’anno 2017, dai permessi premio - stando alla cronaca, perché non ci sono ancora i numeri ufficiali - sono evase sette persone, l’ultima ieri a Torino. Dalle statistiche del Dap, nel primo semestre di quest’anno sono stati concessi 16.872 permessi premio. Quindi parliamo solamente dello 0,04 per cento di chi ha usufruito queste concessioni. Dati più che trascurabili, statisticamente irrilevanti se si considera che quasi sempre gli evasi vengono arrestati di nuovo, come è successo con Johnny lo Zingaro. Quindi, gli allarmi di questo periodo causati dalle presunte responsabilità dei permessi a proposito dell’inesistente aumento del numero delle evasioni, si rivelano in realtà infondati. La percentuale di chi evade è fisiologica, mentre l’effetto sulla vita carceraria di quelli andati a buon fine deve essere considerato positivo. Queste polemiche e le reazioni dell’opinione pubblica influiscono sulla politica penitenziaria e in particolare in materia di permessi, che subiscono notevoli limitazioni dovute da una inesistente emergenza. Ma cosa sono i premessi premio e perché sono uno strumento valido per il percorso rieducativo? Previsti dall’art. 30ter dell’ordinamento penitenziario, sono parte integrante del programma di trattamento e possono essere concessi dal magistrato di sorveglianza ai condannati che non risultino socialmente pericolosi e abbiano tenuto una condotta regolare per interessi affettivi, culturali o di lavoro. La concessione dei permessi premio è ammessa nei confronti dei condannati all’arresto o a una pena non superiore ai quattro anni, anche se congiunta all’arresto; dei condannati alla reclusione superiore ai quattro anni che abbiano espiato almeno un quarto della pena; dei condannati alla reclusione per uno dei reati indicati nei commi 1,1-ter e 1-quater dell’art. 4 bis ord. penit. che abbiano espiato almeno metà della pena e, comunque, non oltre i 10 anni e, infine, è ammessa ai condannati all’ergastolo dopo l’espiazione di almeno 10 anni. La durata di un permesso premio non può superare i 15 giorni e non possono essere concessi più di 45 giorni complessivi di permessi l’anno. Altri limiti alla concessione di permessi sono previsti per autori di particolari reati: i condannati per reati associativi possono avere i permessi premio solo se collaborano con la giustizia; i condannati per i delitti di cui agli articoli 289 bis e 640 del codice penale che abbiano provocato la morte del sequestrato devono aver espiato almeno i due terzi della pena o 26 anni se ergastolani; i condannati per altri reati gravi (commessi per finalità di terrorismo, omicidio, rapina aggravata, estorsione aggravata, traffico aggravato di droga) possono avere i permessi premio solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva (art. 4 bis ord. penit., comma 1 periodo 3). Chi è evaso oppure ha avuto la revoca di una misura alternativa, è escluso dai permessi premio per due anni. Non può averla per cinque anni chi ha commesso un reato punibile con una pena massima pari o superiore a tre anni, durante un’evasione, un permesso premio, il lavoro all’esterno o mentre si trovava in misura alternativa. I permessi premi sono validi perché servono esattamente a garantire più sicurezza: aiutano il detenuto a riconciliarsi con la società esterna. Sono strumenti necessari e irrinunciabili per il reinserimento dei detenuti in base all’articolo 27 della Costituzione, il quale stabilisce e garantisce che le pene, oltre a non poter consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, devono tendere alla rieducazione del condannato, cioè devono consentire la risocializzazione ed un positivo rientro dello stesso nel contesto sociale di provenienza. La forza educativa del teatro in carcere, l’esperienza (di successo) italiana di Teresa Valiani Redattore Sociale, 10 agosto 2017 Dopo la partecipazione al congresso Iti-Unesco a Segovia con i delegati di 70 nazioni, Vito Minoia a fine mese a Stoccolma per incontrare gli operatori svedesi e finlandesi "e sviluppare relazioni internazionali". Entusiasmo per i dati che raccontano una recidiva abbattuta per chi si dedica al teatro. Un congresso internazionale che ha radunato i delegati di 70 nazioni, i numeri e l’esperienza italiana che hanno fatto scuola e l’intervento del presidente del Coordinamento nazionale di Teatro in carcere, Vito Minoia, che diventa il fulcro di nuove iniziative di collegamento e di una ulteriore valorizzazione internazionale della buona pratica italiana da parte dei rappresentanti di Svezia, Finlandia, Canada, Filippine e Belgio. È accaduto a Segovia (Spagna), in occasione del 35mo Congresso Mondiale dell’Iti-Unesco (Istituto Internazionale del Teatro), a cui Minoia è stato invitato per raccontare l’esperienza quarantennale nelle carceri della penisola e i risultati ottenuti dai "Dopo l’importante evento spagnolo - annuncia il presidente - nei prossimi mesi mi occuperò di una serie di incontri per lo sviluppo di significative relazioni internazionali. Il primo si terrà tra 2 settimane a Stoccolma, dove incontrerò i protagonisti della scena penitenziaria svedese e dove ci raggiungeranno anche altri operatori dalla Finlandia. Tra il 23 e il 28 agosto sarò a Stoccolma e grazie alla straordinaria accoglienza ricevuta a Segovia (il mio intervento è stato molto apprezzato da Ann Mari Engel, Vicepresidente dell’Iti-Unesco, presidente del Centro svedese dell’Iti) avrò l’opportunità di avviare relazioni con gli operatori che intervengono teatralmente negli istituti penitenziari della Svezia. Tra gli estimatori della nostra esperienza, anche Hanna Helavouri, referente del Centro Iti Finlandia, che si è adoperata per consentire l’arrivo a Stoccolma anche dei protagonisti della scena penitenziaria islandese, affinché riuscissi a incontrarli". L’intervento di Minoia al Congresso mondiale si è incentrato sulla forza educativo-inclusiva del teatro in carcere, a partire da una riflessione sul rapporto tra Etica ed Estetica nel fenomeno dell’arte scenica negli istituti penitenziari. "Fenomeno - si legge nel report - che nell’arco degli ultimi 4 decenni in Italia sta caratterizzando ricerca e pratiche diffuse di alto rilievo qualitativo". Nella relazione ai delegati, è stato illustrato il lavoro del Coordinamento nazionale di Teatro in Carcere, fondato nel 2011 su impulso del lavoro ventennale della Rivista europea "Catarsi-Teatri delle diversità" e che oggi coinvolge 44 esperienze di 15 Regioni italiane differenti. Spiccano, il Protocollo d’Intesa con il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), al quale ha aderito l’Università Roma Tre, per lo studio, lo sviluppo di ricerche ed iniziative per la promozione del teatro in carcere in tutta la nazione e la Giornata Nazionale del Teatro in Carcere promossa ogni anno in concomitanza con il World Theatre Day organizzato proprio dall’Iti Unesco ogni 27 marzo in tutto il mondo. Quest’anno all’evento hanno aderito 54 istituti penitenziari e 42 altre istituzioni, organizzando un Cartellone di 99 iniziative in 17 Regioni differenti (4 gli eventi promossi anche all’estero). Minoia ha poi illustrato le altre iniziative, a partire dalla Rassegna nazionale "Destini Incrociati", che ogni anno consente a decine di operatori e migliaia di spettatori di entrare in contatto con questa particolare forma di teatro. L’evento, sostenuto dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, dopo aver toccato Firenze, Pesaro e Genova, a novembre si terrà per la quarta volta a Roma. Ultima iniziativa in ordine cronologico è stata l’istituzione, in collaborazione con la Rivista "Catarsi-Teatri delle diversità", del "Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere" che a novembre scorso ha assegnato per la sua prima edizione un riconoscimento alle esperienze di Jacqueline Roumeau Cresta (Cile) e Zeina Daccache (Libano) e che il 4 e 5 novembre prossimi, a Urbania (Pesaro e Urbino), vedràla seconda edizione nell’ambito del Convegno internazionale "Le Scene Universitarie per il teatro in Carcere" con il patrocinio dell’Università degli Studi "Carlo Bo". La prima parte dell’intervento dedicata all’emergenza educativa in carcere, nella seconda parte Minoia ha risposto alle domande dei delegati Iti che hanno apprezzato i dati sulla recidiva "che si riduce dal 65% al 6% in chi pratica esperienze teatrali in carcere", la capacità di costruire una Rete tra esperienze e la possibilità di sviluppare progetti sperimentali con adolescenti e detenute/detenuti adulti grazie ad un prezioso intervento educativo che vede coinvolte le Istituzioni, la scuola e le famiglie. Gli azzeccagarbugli degli scempi edilizi: "Con noi sanate tutto" di Cristina Nadotti La Repubblica, 10 agosto 2017 Sfruttano i cavilli e i tempi lentissimi della giustizia. Così il condono è diventato una specializzazione per gli avvocati più intraprendenti. La colpa è del proprietario dell’immobile. Anzi, no: lo studio legale specializzato in abusi edilizi promette sul suo sito che "ci sono casi in cui si può impostare una strategia tendente ad alleggerire la responsabilità chiamando in causa il titolare del cantiere edile". Se poi anche il titolare del cantiere ha un buon legale, saranno altri ad andare a giudizio. O forse nessuno, perché alla fine si paga una multa, oppure il reato è prescritto. Il titolare dello studio legale di Ariccia che promette "strategie di alleggerimento" preferisce non rispondere, ma c’è invece chi ha voglia di raccontare quanto sia difficile occuparsi di diritto urbanistico in Italia. "Quando, anni fa, ho scritto la mia tesi sull’argomento - racconta Michela Scafetta, avvocata a Roma e a Napoli - ero convinta che il nostro sistema di leggi fosse perfetto. Ho svolto il praticantato a Pomigliano d’Arco e lì mi sono scontrata con un mondo che non credevo potesse esistere: la legalizzazione dell’abuso edilizio". L’avvocata riferisce di clienti che si rivolgono in maniera preventiva ai legali, e nei casi di piccoli abusi in appartamenti affermano: "Ma se io faccio fare tutto in una notte, chi se ne accorge? Trovo un tecnico che regolarizza il tutto e il gioco è fatto". Oppure c’è chi vuole convincere l’architetto ad abbattere un muro portante, dicendosi pronti ad assumersi piena responsabilità della cosa: "Se il tecnico è incorruttibile - osserva l’avvocata - il problema non si pone, ma se invece si fa convincere, allora può capitare che i palazzi crollino...". Spesso i clienti girano più studi legali finché trovano chi li asseconda. "Giorni fa a Napoli - racconta ancora Scafetta - ho ricevuto un cliente che dopo aver girato molti studi pugliesi che gli avevano spianato la strada di fronte a un abuso edilizio per un villaggio vacanze nel Gargano, in una zona vincolata e considerata non edificabile, mi esponeva il suo piano d’attacco per verificare anche con me se avrebbe potuto farla franca. Al mio parere fermo che l’opera è abusiva, che non può essere sanabile e implica un reato penale, il cliente per niente preoccupato mi ha detto: "Avvocato, l’importante è che riesco a patteggiare". Per alcuni costruttori, perciò, la "strategia di alleggerimento", le spese per l’avvocato e per pagare la sanzione vengono previste tra i costi di realizzazione dell’opera. "La normativa è farraginosa - conferma l’avvocato Bergaglio, che esercita invece a Milano - da noi arrivano persone che hanno compiuto abusi per ignoranza o perché mal consigliati, ma anche, è vero, perché sanno di poter sfruttare ogni appiglio e cavillo". Secondo il penalista milanese però le cose stanno cambiando: "Un tempo mettere in conto l’abuso era conveniente, adesso, vista la stretta sui condoni, nella grande lottizzazione il rischio è troppo alto. Da me arrivano soprattutto persone che si ritrovano nei guai: per deontologia mai assisterei qualcuno per dargli indicazioni su come aggirare le norme, non insegno a delinquere". Ma come in ogni ambito, c’è chi di fronte al guadagno chiude un occhio: "Dal punto di vista economico - osserva Bergagli - la parcella per casi di abuso edilizio non è alta, direi tra i 4 mila e i 15 mila euro, a fronte di parecchio lavoro. Diverso è se si tratta di grandi lottizzazioni". L’avvocata Lory Furlanetto, dei Centri di azione giuridica di Legambiente, allarga il discorso: "In Italia il problema è una cultura incapace di considerare l’abuso un costo enorme che paga tutta la collettività, e non soltanto per i danni all’ambiente, ma per le casse dei comuni. Non colpevolizzerei gli avvocati, a facilitare l’abusivismo ci sono anche studi notarili e tecnici pronti a istituire pratiche di condoni finti su opere inesistenti, se all’orizzonte c’è una sanatoria". Quella mafia senza paura in uno Stato che non c’è di Attilio Bolzoni La Repubblica, 10 agosto 2017 È una mafia da paura perché non ha paura di niente e di nessuno. Perché si sente forte e invincibile, perché non ha mai trovato qualcuno che ha provato a fermarla. Una mafia padrona in uno Stato che non c’è. Le recenti statistiche di morte raccontano tanto ma non raccontano tutto sulla cosiddetta mafia garganica, boss e mezzi boss di Cerignola, di Foggia, di Manfredonia, di Vieste. Luoghi lontani, lontanissimi dal grande crimine organizzato rappresentato dai Totò Riina siciliani o dai Piromani e dai Morabito calabresi, eppure questi sconosciuti Romito o De Palma o Libergolis - i nomi dei protagonisti di una guerra che ha fatto 18 omicidi dall’inizio dell’anno, erano stati 17 nel 2016 - sembrano diventati i "re" di un territorio imprigionato dal terrore e avvolto nel silenzio. Una mafia che può contare sulla propria violenza che piega ogni resistenza civile ma soprattutto può contare sull’assenza di un nemico, del nemico naturale che dovrebbe contrastarla: lo Stato italiano. Troppo distratto per occuparsi della "faida del Gargano", troppo "piccola" la mafia imperante nella parte settentrionale della Puglia per attirare uomini e mezzi occupati altrove a combattere ben altre emergenze criminali. Troppo "locale", forse anche troppo stracciona. Tanti "troppo" che da ventiquattro mesi hanno trasformato una striscia di terra in un campo di battaglia che è fuori controllo, è zona franca, è cosa loro. Qualche riga più su abbiamo scritto che le statistiche più nuove non offrono un’analisi completa su ciò che sta accadendo nella provincia di Foggia, ma c’è un dato molto significativo - svelato dal procuratore capo della repubblica di Bari Giuseppe Volpe al nostro Giuliano Foschini - che spiega quale "buco nero" è questa Puglia dove si scannano più che nella Chicago degli Anni Trenta o nell’infernale Palermo della seconda guerra di mafia fra la primavera del 1981 e l’autunno del 1983. Il procuratore capo Volpe dice che ci sono 280 - duecentottanta - omicidi "irrisolti", omicidi senza colpevoli, dal 1970 ad oggi. Vuol dire che non ci sono state indagini adeguate, vuol dire che nessuno ha investigato su un fenomeno criminale con l’attenzione dovuta, vuol dire che quella provincia foggiana dobbiamo considerarla un’area estranea, staccata dal resto dell’Italia. Un posto con le sue leggi che non sono le nostre leggi. Vogliamo far comandare lì e per sempre i Romito e i Libergolis? Vogliamo che siano loro, solo loro, i signori del territorio come in effetti lo sono stati in questi ultimi anni? Una volta li chiamavano "i porcai" perché avevano allevamenti di maiali e campavano anche di quello. Ma i "porcai", piano piano e nell’indifferenza più totale, sono diventati una forza criminale che può permettersi scorribande come quella di ieri. Non sono più "porcai" ma trafficanti di droghe che hanno un rapporto privilegiato con i clan albanesi che abitano difronte, sono riciclatori di denaro sporco investito nelle strutture alberghiere del Gargano, sono estorsori che succhiano il sangue agli operatori turistici di una delle coste più belle della Penisola. Hanno fatto il "salto di qualità". Senza ostacoli, senza problemi. Liberi di fare agguati, inseguimenti, esecuzioni. Ha ragione Michele Merla, il sindaco di San Marco in Lamis, a dire: "Solo chi non vuole non vede quello che sta succedendo". Forze di polizia a ranghi ridotti, la procura distrettuale di Bari a distanza di sicurezza, Foggia che non è Italia e non è Europa ma solo una sacca infetta. Così quelli che chiamavano "i porcai" si possono scatenare. Così gente come i Romito e i Libergolis diventano mafia. Bombe, giovani gangster e teste mozzate. La scia di sangue della mafia dimenticata di Carlo Lucarelli La Stampa, 10 agosto 2017 Le vendette tra famiglie trasformano questa zona della Puglia in un far west. Agguati in pieno centro e fra i turisti, ma la faida sembra ancora sottovalutata. Già è la parola ad essere fuorviante. Faida. Per carità, tecnicamente è giusta, anzi, è stata usata anche per le mattanze calabresi degli Anni 80 e 90, però anche allora dava un’impressione sbagliata. Faida. Una serie di vendette familiari che si tramandano nel tempo e che riguardano una comunità ristretta, famiglie appunto, gruppi di amici, al massimo clan. Viene da pensare istintivamente ad un paio di cose, anzi, tre. Ad una causa scatenante, così persa nella profondità del tempo e magari futile come un furto di galline o l’occhiata sbagliata ad una ragazza, che nessuno se ne ricorda più. Viene da pensare ad una situazione degradata e lontana, da frontiera selvaggia, violenta e senza legge, dove ci si fa giustizia da soli con la pistola al cinturone. E viene da pensare che in fondo si ammazzano tra loro, per cui vabbè. In provincia di Foggia, in questi giorni, per la cosiddetta "faida del Gargano" sono state ammazzate quattro persone. Sono le ultime di una lunga lista che solo dall’inizio dell’anno conta ben diciassette morti, più due scomparsi per quella che chiamiamo letterariamente lupara bianca e che di solito significa comunque essere ammazzato. In Puglia, in quella regione ricca, bella e organizzata, che con il Far West ha in comune soltanto l’essere chiamata "la California del Sud". E non si ammazzano neanche tra di loro e basta, dal momento che nell’ultima strage, oltre a due uomini ritenuti parte di un clan criminale ci sono due contadini che passavano semplicemente di là e hanno visto quello che non dovevano vedere, e che così si aggiungono ai più quaranta nomi di pugliesi letti ogni anno tra più di novecento nel Giorno della Memoria e del Ricordo delle vittime innocenti per mafia. Perché per quanto tecnicamente sia giustissimo chiamarle faide, di questo comunque si tratta. Guerre di mafia. Eppure, non è che quello che sta accadendo in parte della Puglia, e mica solo dalla fine dell’anno, abbia suscitato tanto scalpore. O almeno, non abbastanza, perché chi le cose le vive direttamente se ne è accorto da un pezzo e di denunce e iniziative anche istituzionali ce ne sono state, ma a me sembra, appunto, non abbastanza. In una regione ricca e piena di interessi, quando la criminalità organizzata spara e ammazza dovremmo immediatamente pensare ad obbiettivi che fanno paura e invece pare che a livello nazionale, dall’opinione pubblica ma anche da parte delle istituzioni, la situazione venga percepita come la normale fisiologia di una mafia minore, già sconfitta a suo tempo. Mafia minore. È così che è sempre stata considerata la mafia pugliese, la cosiddetta Sacra Corona Unita, nonostante le decine di morti ammazzati, le bombe, le stragi da film di gangster come quella del Circolo Bacardi di Foggia nell’86, la testa mozzata di Nicola Laviano fotografata e mostrata in giro, i miliardi - prima di lire e poi di euro - derivati dai traffici e dal controllo di attività illecite ma anche lecite, almeno apparentemente. Una mafia giovane, nata artificialmente in carcere e colonizzata dalle cosiddette mafie maggiori, Cosa Nostra, Camorra, ‘Ndrangheta. Mafia minore, insomma. E forse sta anche qui la mancanza di attenzione attuale ad un fenomeno che avrebbe dovuto farci paura da un pezzo, ancora prima che arrivassero - solo tra gli ultimi - due fratelli che passavano di lì per caso con il loro furgoncino, e uno dei due, che corre disperato inseguito dai killer per i campi, come il giudice Rosario Livatino ad Agrigento. Perché alle mafie, dal punto di vista mediatico ma anche politico, succede quello che accade ai delitti di cronaca. Ce ne sono alcuni più "fortunati" - tra virgolette - che per il tipo di vittima o di assassino, per il luogo o il momento in cui sono avvenuti, colpiscono l’immaginazione, si guadagnano un nome - Cogne, via Poma, la strage di Erba - ed entrano a far parte di una narrazione mediatica che va oltre le inchieste e le motivazioni delle sentenze. Cosa Nostra è un vero e proprio marchio internazionale e basta pronunciarlo per pensare ad una serie di cose che vanno dalla Trattiva alle stragi al sigaro cubano di Luciano Liggio e al Sacco di Palermo, passando per "Il Padrino", gli orrendi ristoranti spagnoli che utilizzavano il nome della Mafia e al piccolo Santino Di Matteo sciolto nell’acido. Un mondo, col quale abbiamo una familiarità che fa subito scattare un immaginario, con tutte le informazioni, le sensazioni e le emozioni che si porta dietro. Prima di Gomorra e di Roberto Saviano, per esempio, c’era a Casal di Principe una mafia sconosciuta e totalmente oscurata da una star del crimine come Cutolo, che nessuno avrebbe potuto nominare neanche uno dei suoi boss. Oggi Sandokan Schiavone, per esempio, lo conosciamo tutti, e la pericolosità pervasiva e massiccia dei Casalesi, anche questo vero e proprio marchio di fabbrica, ci fa abbastanza paura. Ora, non è che bastino gli scrittori a cambiare il mondo, la mafia pugliese è anche stata raccontata da film come "Galantuomini" di Edoardo Winspeare o da romanzi come il bellissimo "L’estate fredda" di Gianrico Carofiglio, solo per citarne alcuni, ci sono stati processi e inchieste - tra cui quelle dello stesso presidente della Regione, Michele Emiliano - che veramente l’hanno quasi sconfitta, ci sono stati articoli e saggi, eppure quello che sta accadendo adesso in Puglia a me sembra non abbia ancora la visibilità e la concreta inquietudine che merita. Sono io che mi sbaglio? Per mia personale e banale disinformazione, per esempio? Insomma, cosa sta succedendo nella bella, ricca e organizzata Puglia - aggettivi che uso con affetto e convinzione- una fisiologica attività criminale? Morti che fanno male come tutti i morti ammazzati, ma che restano nell’ambito di una "faida"? O una inquietante, pericolosa e ancora non compresa guerra di mafia? Import di falsi grossolani: non è necessario l’inganno di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2017 Corte di cassazione, sentenza 9 agosto 2017, n. 39025. L’importazione di capi d’abbigliamento contraffatti è un reato di pericolo, pertanto non è nemmeno necessario che siano idonei a ingannare un consumatore mediamente attento. In sostanza, la semplice introduzione nello Stato del falso marchiano integra la fattispecie di reato (punito con la reclusione da 1 a 4 anni e multa fino a 35 mila euro). La Seconda sezione penale della Corte di cassazione - sentenza 39025/17 - torna sulla tutela dei marchi rendendo definitiva la condanna di due cittadini cinesi accusati di aver, tra l’altro, importato ripetutamente diverse tipologie di beni falsificati, da ultimo una serie di sciarpe di materiale sintetico con la falsa etichetta "Pashmina cachemire". Secondo i difensori, le corti di merito non avevano tenuto in considerazione proprio la grossolanità della falsificazione, stante appunto lo scadente materiale di realizzazione. Si sarebbe insomma trattato di un falso innocuo o grossolano, percepibile ictu oculi e idoneo semmai a integrare gli estremi della "mera imitazione figurativa che si assume idonea, al più, a determinare una violazione del diritto d’autore". Per la corte di Cassazione, invece, la norma incriminatrice (l’articolo 474 del Codice penale) è rivolta a tutelare, in via principale e diretta, non l’acquirente dei marchi protetti ma bensì la pubblica fede, "intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e nei segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno ed i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione". Da qui la considerazione, appunto, di reato di pericolo, che viene in essere a prescindere dalla effettiva realizzazione dell’inganno. Tra l’altro, aggiunge la Seconda, nel caso specifico i contraffattori avevano anche riprodotto con una certa precisione proprio i marchi distintivi protetti dalla norma. Ai due imputati era contestata inoltre un’ipotesi di ricettazione, fattispecie più grave di quella invocata dai difensori, la contravvenzione di "acquisto di cose di provenienza sospetta". Secondo i giudici di legittimità, che hanno anche qui avallato le conclusioni delle corti di merito, in assenza di plausibili spiegazioni sulla "legittima acquisizione" delle merci, la consapevolezza della provenienza illecita è stata desunta dalla mancanza di documenti giustificativi degli acquisti e di documenti fiscali, in aggiunta alla scadente qualità dei materiali e delle caratteristiche dell’imballaggio. Tutto questo è rivelatore, secondo la Seconda sezione penale, della volontà di occultamento "logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede". Per questi motivi la Cassazione ha definitivamente negato anche la sospensione condizionale della pena ai due imputati cinesi. Depenalizzazione: il danneggiamento è ancora reato se la cosa è esposta alla fede pubblica di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 9 dicembre 2017 n. 39031. Chi danneggia una cosa esposta alla pubblica fede, come la vetrina di un negozio, non può invocare la depenalizzazione. Se è vero che il danneggiamento è stato, infatti, depenalizzato con il Dlgs 7/2015 è altrettanto vero - ricorda la Cassazione con la sentenza 39031 di ieri- che il "colpo di spugna" non riguarda le ipotesi aggravate. Viene così accolto il ricorso del Pm contro l’assoluzione, con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, decisa dalla Corte d’appello. L’imputato era accusato di aver graffiato la vetrata di una porta di sicurezza di un negozio. Un fatto commesso su "cose esposte per necessità o consuetudine alla pubblica fede", ipotesi prevista dall’articolo 625 n.7 del Codice penale dedicato alle aggravanti. La Cassazione chiarisce che la ratio della norma non è correlata alla natura pubblica o privata del luogo in cui si trova la cosa, ma alla sua esposizione alla pubblica fede, che ricorre quando il bene è protetto solo grazie al rispetto dei consociati. Nel caso specifico, la vetrina si trovava in un posto al quale c’era libero accesso per mancanza di recinzioni. Furto d’auto: l’officina che si cautela non paga di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2017 Tribunale di Perugia, sentenza 29 maggio 2017, n. 903. Il titolare di un’officina di autoriparazioni non risponde del furto del veicolo in custodia se dimostra di aver adottato tutte le cautele per evitare la sottrazione del mezzo. È quanto emerge dalla sentenza 903/2017 del Tribunale di Perugia (giudice Ilenia Micciché). La controversia scaturisce dall’opposizione a un decreto monitorio, con cui il Tribunale aveva ingiunto al proprietario di un trattore di versare 5.400 euro a una Snc per lavori di riparazione del mezzo. Contro il provvedimento l’uomo aveva presentato opposizione contestando che fossero stati effettuati i lavori, e domandando, in via riconvenzionale, il risarcimento del danno per il furto del trattore avvenuto negli spazi di pertinenza dell’officina. Il tribunale osserva che, a fronte dell’adeguata prova del credito, le contestazioni dell’opponente erano generiche e formali; sicché non v’è "dubbio (…) che competa alla parte opposta il pagamento della somma portata nel decreto ingiuntivo". Quanto alla richiesta di risarcimento, la disciplina contenuta nell’articolo 1780 del Codice civile (intitolato "Perdita non imputabile della detenzione della cosa") si applica anche quando l’obbligazione della custodia e della riconsegna è "necessariamente compresa nel contenuto del contratto diverso dal deposito"; come nel caso in esame, in cui "l’obbligo di custodia e di restituzione assume funzione accessoria, in quanto finalizzato all’adempimento dell’obbligazione principale" dell’autoriparatore. Sicché - aggiunge il Tribunale, citando la sentenza 13359/2004 della Cassazione - in caso di sottrazione della cosa depositata, il depositario, per ottenere la liberazione dalla propria obbligazione di restituire il bene, è tenuto a fornire la prova che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile. La società incaricata di riparare il trattore aveva dimostrato che, la notte in cui era avvenuto il furto, il trattore era stato lasciato nel piazzale dell’officina, chiuso con una chiave custodita in un locale della stessa struttura; inoltre, l’impianto di allarme interno ed esterno era stato attivato. Il custode aveva quindi "adottato tutte le cautele ordinariamente esigibili per evitare il rischio di sottrazioni da parte di terzi", e il furto era stato consumato perché gli ignoti autori del reato erano "riusciti a eludere abilmente il sistema di allarme, portando via anche senza chiave l’automezzo, che era pacificamente "marciante". Nessun’altra precauzione si poteva pretendere dalla Snc per prevenire il furto; tanto più - che la zona in cui era avvenuto non è "nota per essere ad alto tasso di criminalità". In conclusione, "l’evento è da ritenersi con ampia certezza" imprevedibile e dunque non imputabile alla società. Il Tribunale ha confermato il decreto ingiuntivo e respinto la domanda riconvenzionale di risarcimento. La responsabilità dell’appaltatore nello smaltimento abusivo di rifiuti. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2017 Appalto - Smaltimento abusivo dei rifiuti - Responsabilità dell’appaltatore - Presupposti. Quando il rifiuto è abbandonato dall’impresa/ente che lo ha prodotto, perché ne risponda il titolare/legale rappresentante della diversa impresa/ente che ha commissionato i lavori, è necessario che questi si sia ingerito a qualsiasi titolo nell’attività di produzione o gestione del rifiuto. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 19 luglio 2017 n. 35569. Appalto - Smaltimento abusivo dei rifiuti - Responsabilità del direttore dei lavori - Per la sola qualità rivestita - Esclusione. Al di fuori delle espresse previsioni dell’articolo 29 del D.P.R. n. 380 del 2001, che attribuisce al direttore dei lavori la responsabilità della conformità delle opere alle previsioni del permesso di costruire ed alle modalità esecutive stabilite dal medesimo, lo stesso non ha alcun obbligo di vigilanza in relazione a quanto accade nel cantiere in cui viene realizzata l’opera e la normativa in materia di rifiuti non attribuisce specifiche responsabilità al direttore dei lavori. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 19 novembre 2009 n. 44457. Appalto - Smaltimento abusivo dei rifiuti - Le qualità, di committente, cui deve essere equiparata quella di appaltante nell’ipotesi del subappalto, e di direttore dei lavori, non determinano alcun obbligo di legge di intervenire nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice o subappaltatrice ovvero di garantire che la stessa venga effettuata correttamente. Con riferimento alla posizione del committente e del direttore dei lavori i doveri di controllo imposti, ai sensi della Legge n. 47 del 1985, articolo 6 ed attualmente del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 29 riguardano esclusivamente la conformità della costruzione alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire, nonché l’osservanza delle altre prescrizioni contenute nel testo unico per l’edilizia, mentre nessun obbligo è imposto dalla legge a tali soggetti riguardo alla osservanza della disciplina in materia di smaltimento dei rifiuti. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 22 giugno 2011 n. 25041. Appalto - Smaltimento abusivo dei rifiuti - Responsabilità del committente - Esclusione - Assenza di disciplina di obblighi giuridici. Il committente dei lavori edili non può, per ciò solo, essere considerato responsabile della mancata osservanza da parte dell’assuntore di detti lavori, delle norme in materia di smaltimento dei rifiuti, non essendo derivabile da alcuna fonte giuridica l’esistenza, in capo al committente, di un dovere di garanzia della esatta osservanza delle suindicate norme; mentre non può accettarsi, almeno nella sua assolutezza, la tesi secondo cui il titolare di una concessione edilizia committente dei lavori ha una posizione di garanzia in ordine al corretto svolgimento dei lavori stessi da parte dell’appaltatore anche in ordine alla gestione dei rifiuti. • Cassazione penale, sezione III, sentenza 19 ottobre 2004 n. 40618. Trento: maltrattamenti e suicidio in carcere, il giudice archivia di Donatello Baldo ildolomiti.it, 10 agosto 2017 Per Luca Sorricelli nessuno aveva "previsto" che si impiccasse. Per l’accusa di maltrattamenti è invece necessario che le condotte siano protratte nel tempo "nel maltrattare o denigrare il soggetto passivo". "Il Giudice per le indagini preliminari, letti gli atti di due procedimenti penali (…) riguardanti le ipotesi di maltrattamento contro detenuti, nonché il decesso di Luca Sorricelli, (…) osserva quanto segue". E le osservazione che seguono portano dritto all’archiviazione. Quindi non ci sarà nessun processo: la richiesta di archiviazione presentata dal Pubblico ministero è stata accolta. A nulla è valsa l’opposizione del Garante nazionale dei detenuti, rappresentato da Nicola Canestrini, e non è stata considerata nemmeno la contrarietà del fratello del giovane suicida, rappresentato da Stefano Trinco, che ha perso la vita nel carcere di Spini nel dicembre scorso. Stiamo parlando di due fatti distinti, riuniti in un’unica richiesta di archiviazione, che riguardavano gli episodi di presunto maltrattamento inflitti dalle guardie carcerarie (ignote negli atti) avvenuti all’interno della Casa circondariale trentina e il suicidio di Luca Sorricelli avvenuto nello stesso carcere all’indomani dell’arresto per aver incendiato una pompa di benzina a Rovereto. Di quest’ultimo fatto ha scritto anche Il Dolomiti, chiedendosi come mai una persona con una storia clinica di disagio psichico fosse stata considerata idonea alla carcerazione. Sorricelli si era recato in pronto soccorso subito dopo il fatto, spontaneamente, visibilmente alterato. Fu visitato di notte dagli psichiatri che dissero che sì, poteva tranquillamente essere detenuto. Gli altri fatti, quelli di presunto maltrattamento, si riferiscono invece alle testimonianze raccolte dai medici del carcere, trasformate poi in denuncia dal Garante nazionale dei detenuti. Testimonianze circostanziate ma secondo il giudice, se anche fossero vere, non potrebbero trasformarsi in un’accusa per maltrattamenti. Capiamo il perché: "I fatti in sé, singolarmente considerati, non possono configurare il reato di maltrattamenti. Quantunque ritenuti provati questi sporadici episodi di percosse - spiega il giudice - e fermo restando che trattasi, ove veri, di fatti assolutamente deprecabili, non sembra però possibile poterli complessivamente ricomprendere in un contesto unitario". Per accusare le guardie di maltrattamento, se individuate (le accuse, ricordiamolo, erano contro ignoti), si sarebbe dovuto dimostrare "un constante atteggiamento dell’agente nel maltrattare o denigrare il soggetto passivo". Questo dice la legge, e il giudice è chiamato ad applicarla. Quindi troppo poche botte per poter procedere. Ma sono anche altri i motivi che hanno portato all’archiviazione, ad esempio la mancata denuncia di parte. Nell’ordinanza di archiviazione si legge però che i detenuti che avevano confidato al medico i maltrattamenti "se interpellati avrebbero negato per paura di ritorsioni". Ma così è: per i maltrattamenti viene accolta la richiesta di archiviazione perché "fatti occasionali ed episodici, pur penalmente rilevanti in relazione ad altre figure di reato (ingiurie, minacce, lesioni, percosse) (…) non possono assurgere alla normativa (…) il cui requisito oggettivo è la abitualità e il cui dolo è quello di esercitare una persistente tirannia sul soggetto passivo". Ma veniamo alla morte in carcere, per suicidio, di Luca Sorricelli. Anche questa posizione è stata archiviata. "Nella notte tra il 16 e il 17 dicembre 2016 il detenuto si suicidava mediante impiccamento all’interno della casa circondariale di Trento". Ecco la scarna descrizione riportata dall’ordinanza. Il Tribunale di Rovereto aveva convalidato l’arresto in flagranza per il reato di incendio doloso: l’imputato aveva appiccato fuoco ad un distributore, così, senza motivo. "Poiché il detenuto aveva gravi problemi psichiatrici - afferma l’ordinanza - i Carabinieri avevano acquisito la relazione di una psichiatra dell’Apss che certificava la compatibilità con il carcere. Ma non fu l’unica a valutare l’idoneità del soggetto alla detenzione, lo stesso fece lo psicologo del carcere: "Aveva giudicato il detenuto con disturbo paranoide, a basso rischio suicidio, ritenendo necessaria una più specifica consulenza psichiatrica". E nel pomeriggio successivo un altro psichiatra lo visitò: ancora una volta la diagnosi di disturbo paranoide, "in fase di approfondimento diagnostico/terapeutico". E si scopre che nelle ore precedenti al suicidio il detenuto aveva rifiutato di assumere la terapia prescrittagli mettendo in atto un espediente per indurre in errore l’infermiere. Sembra, ma non è verificato, che la terapia, per uno scambio di persona, sia finita ad un altro detenuto. Ma per la legge, la colpa, e quindi la responsabilità penale, "presuppone la prevedibilità del fatto". Quindi nessuno dovrà rispondere si questa morte, del suicidio di un giovane con "gravi disturbi psichiatrici", come sottolineato nell’ordinanza. Nessuno ha ipotizzato un alto rischio di suicidio (solo "basso", si legge sempre nell’ordinanza), quindi troppo poco. "Nell’assenza di colpe specifiche imputabili ad alcuno - afferma il Giudice - va accolta anche in questo caso la richiesta del Pubblico ministero. Quindi, P.Q.M., come si usa scrivere in questi casi sulle sentenze e sulle ordinanze, "il Giudice per le indagini preliminare dispone l’archiviazione del procedimento penale". Brescia: sciopero della fame per il degrado di Canton Mombello di Lilina Golia Corriere della Sera, 10 agosto 2017 L’iniziativa del Partito Radicale che ieri, con il supporto dei colleghi socialisti, ha visitato Canton Mombello sempre più fatiscente e sovraffollato. "Una polveriera pronta ad esplodere". "Il carcere di Canton Mombello è una polveriera pronta ad esplodere" per la sua vetustà e per il sovraffollamento. Questione di convivenza e sopravvivenza, per chi è rinchiuso in cella, ma anche per chi lavora nel carcere cittadino, affermano radicali e socialisti, reduci da una visita nell’istituto cittadino. "Solo la gestione illuminata della direttrice, Francesca Gioieni, e del comandante degli agenti penitenziari, Maria Luisa Abossida, e l’elevata preparazione di tutto il personale riescono a scongiurare il peggio", afferma Lorenzo Cinquepalmi, segretario regionale del Psi, cui fa eco il collega di partito Roberto Bianchi che evidenzia "il valore aggiunto dell’umanità, declinata al femminile, che si percepisce nella struttura carceraria bresciana". ù Ma la situazione resta pesante. Struttura sempre più fatiscente. "I muri sono scrostati, sia nelle celle che in alcuni uffici. I lavori potrebbero essere eseguiti dai detenuti, dietro compenso. A bilancio c’è una voce per la loro retribuzione, ma mancano i fondi per l’acquisto dei materiali. Ci stiamo organizzando per donare latte di pittura per la tinteggiatura". Gli spazi, ridotti per i 313 detenuti -- il 50% sono stranieri - (ma la capienza è di 189), devono essere resi vivibili ("tre persone nella stessa cella faticano a muoversi contemporaneamente e in infermeria non ci sono ambienti climatizzati", si fa notare). "La struttura è stata costruita alla fine dell’Ottocento e tale è rimasta", sottolinea l’assessore per le pari opportunità del Comune di Brescia Roberta Morelli. La privazione della libertà, prevista dalla pena, non prescinde dalla conservazione della dignità. Per questo la mobilitazione radicale ha già previsto nuove iniziative a sostegno dell’attuazione della riforma carceraria. "Dalla settimana prossima partirà negli istituti di pena italiani uno sciopero della fame - annuncia Gianni Rubagotti dei radicali - come avevamo fatto qualche mese fa per la carovana per l’amnistia, con l’adesione di oltre 20mila detenuti, su una popolazione carceraria di 56mila in tutta Italia". E poi c’è il capitolo dell’animazione all’interno del carcere e delle misure alternative. "Gli educatori presenti sono 2 sui 6 previsti dalla pianta organica", fa notare Matilde Scazzero, rappresentante del Psi e segretaria generale della Uilpa. Difficile promuovere iniziative che riabilitino i detenuti in un’ottica di reinserimento sociale. Si organizzano alcuni laboratori di arte e "si lavora per un incremento delle iniziative culturali", spiega Morelli, auspicando maggiori possibilità con l’ampliamento di Verziano, ma non è sufficiente. Anche l’impiego lavorativo è molto limitato. "Sono solo due i detenuti, retribuiti, impegnati in una cooperativa che organizza la raccolta dei rifiuti. Gli altri, svolgono mansioni all’interno del carcere", aggiunge Cinquepalmi che fornisce un dato significativo: "tra chi accede alle misure alternative, dopo la riabilitazione, si ha una possibilità di recidiva pari al 3%, per gli altri si arriva al 50%". Altra nota dolente la salute dei detenuti. "128 hanno problemi di dipendenza, 13 sono sieropositivi, 100 hanno disturbi del comportamento o psichiatrici". E nella situazione già pesante si aggiunge la carenza di organico amministrativo (una sola addetta che si alterna tra Canton Mombello, Verziano e l’Uepe) e anche degli agenti penitenziari, costretti a lavorare in condizioni difficili (167 in servizio, su 195 previsti, di cui 28 addetti al Nucleo traduzioni). Ultimo capitolo. "la direttrice durante la visita - spiega ancora Cinquepalmi - lamenta la mancanza di sensibilità per la situazione da parte del Comune e l’assenza di un rapporto costante tra il garante nominato dal Comune e i detenuti" Udine: l’allarme del Garante "carceri sovraffollate? colpa delle leggi sulle droghe" di Giulia Zanello Messaggero Veneto, 10 agosto 2017 Corleone: "la metà dei detenuti ha a che fare con le droghe ma il Parlamento non interviene". Il carcere di Udine va ridisegnato. Mancano uno spazio verde, la sala di lettura, un refettorio comune, spazi di convivialità e culto, senza contare che la stanza dei colloqui è troppo compressa e non consente un minimo di intimità tra le persone detenute e i parenti. "Si tratta di interventi indispensabili, occorre trovare i fondi e le risorse o, considerando la prossima apertura del carcere di San Vito al Tagliamento, se Udine non verrà riqualificato, ne chiederemo la chiusura". Parola di Franco Corleone, coordinatore nazionale garanti dei detenuti territoriali che, in città in occasione dell’incontro "Dalla semina americana al deserto italiano", con la presentazione dell’ottava edizione del libro bianco con i dati della situazione delle carceri, compresa quella udinese, dopo aver visitato la struttura detentiva di via Spalato non fa sconti ed elenca, una dopo l’altra, le criticità. Tema dell’incontro promosso dalla Onlus "Società delle ragioni" è coordinato da Massimo Brianese è stato però il sovraffollamento delle strutture, a livello nazionale e sul piano locale, soprattutto in considerazione del numero di detenuti per violazione delle leggi antidroga che in Italia sono al 32 per cento con oltre 17mila 700 persone, mentre in Friuli Venezia Giulia 156, praticamente un quarto del totale che raggiunge 614 persone (20 donne), di cui 101 sono tossicodipendenti e 248 stranieri, pari al 40 per cento. In regione dal 1990 al 2016 le segnalazioni ai prefetti per consumi di sostanze stupefacenti sono state 12mila 900, di cui la maggior parte a Udine con 6mila 187 sanzioni amministrative, mentre a Gorizia 2.450, Trieste 2.287 e Pordenone 2.018. Nel capoluogo friulano sono detenute 128 persone, 35 per violazione delle normative antidroga e 53 tossicodipendenti, ma il dato che emerge è quello di un sovraffollamento delle carceri: al 30 giugno di quest’anno nei cinque istituti della regione erano presenti 627 persone (249 stranieri), ben 151 in più rispetto alla capienza regolamentare di 476 persone e a Tolmezzo i detenuti provengono per la gran parte dal Sud. "Oggi la fotografia del carcere ci restituisce una realtà in cui praticamente la metà dei detenuti ha a che fare con le droghe - spiega ancora Corleone, il mondo del consumo è diverso rispetto a qualche anno fa e occorre cambiare rotta, ma il Parlamento, sul tema, rimane ancora in silenzio nonostante i solleciti". Depenalizzare, favorire la messa alla prova, predisporre progetti alternativi per la detenzione femminile: questa la "ricetta" per rendere le strutture detentive più vivibili e adatte a ospitare il numero previsto di persone. Anche per la consigliera regionale Silvana Cremaschi è fondamentale mettere a punto pene alternative, a maggior ragione per le donne, senza sconti ma promuovendo un reinserimento sociale. Sicurezza, dunque, ma anche dignità per le persone recluse: "Udine è una città sensibile alle persone con più difficoltà, è importante garantire i diritti quanto soddisfare i bisogni per questo è primaria la figura di una garante per i detenuti" ha indicato il sindaco Furio Honsell, mentre il provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Fvg Enrico Sbriglia, soffermandosi sul nuovo centro che sorgerà a San Vito e ospiterà 300 persone, ha aggiunto: "Il numero di detenuti che accoglierà la regione non cambierà, ma saranno distribuiti in maniera più equa". Catania, "Carovana per la giustizia", i Radicali al Palazzo di Giustizia per Borsellino di Giuseppe Vatinno affaritaliani.it, 10 agosto 2017 Continua la "Carovana per la giustizia" organizzata dal Partito Radicale in Sicilia dopo il precedente della Calabria. Oggi, mercoledì 9 agosto, alle ore 22 la Carovana per la giustizia del Partito Radicale si recherà al Palazzo di Giustizia di Catania per depositare delle fiammelle affinché si faccia luce sulle recenti dichiarazioni - "25 anni di schifezze e menzogne" - di Fiammetta Borsellino in merito all’inchiesta condotta sulla strage che uccise suo padre, il magistrato Paolo Borsellino. "Ai magistrati in servizio dopo la strage di Capaci - dice Fiammetta Borsellino - rimprovero di non aver sentito mio padre nonostante avesse detto di voler parlare con loro. Dopo via D’Amelio riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria di bufali". "Chiedo scusa, anche pubblicamente e anche per conto di chi non l’ha fatto e avrebbe dovuto, per uno dei più colossali errori giudiziari commessi. Chiedo scusa a innocenti che sono stati condannati all’ergastolo". Lo ha detto Fiammetta Borsellino, al termine dell’audizione all’Antimafia parlando dei depistaggi delle indagini sull’attentato in cui morì suo padre" Dichiara invece Maurizio Turco, della Presidenza del Partito Radicale: "Prima di lasciare Catania passeremo davanti al Palazzo di Giustizia ed accenderemo delle fiammelle per fare luce sulle recenti dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Appena le ha pronunciate tutti gli organi di informazione le hanno rilanciate ma subito dopo le hanno seppellite negando a quelle verità un minimo di dibattito pubblico. Un pezzo deviato dello Stato - il regime italiano - ha una sola paura: che i cittadini conoscano, capiscano, decidano. E quindi è esso a decidere di cosa devono venire a conoscenza per meglio orientare la decisione popolare. Al di là della democrazia liberale, non ci sono che derive autoritarie e totalitarie. E come tutti i colpi di Stato, più o meno cruenti, si occupa la tv di Stato per condizionare i cittadini somministrando loro la "corretta informazione". E non c’è dubbio che fare luce sulle parole di Fiammetta Borsellino sia per loro scorrettissimo". Genova: con le magliette equo-solidale i detenuti ritrovano la speranza di Giulia Polito Corriere della Sera, 10 agosto 2017 Prostitute, transessuali, rom, malati: tutte le persone più fragili costrette spesso a vivere ai margini della società. È a loro che Fabrizio De André ha dedicato gran parte della sua produzione artistica. A loro, i dimenticati del mondo, le "anime salve" che continuano ad incantare e far innamorare ogni generazione. Le sue frasi più celebri non potevano quindi trovare un luogo più adatto come il carcere per "rivivere". Stavolta però non nei dischi, bensì sulle magliette da indossare che per alcuni detenuti in regime di alta sicurezza rappresentano oggi un’occasione importante per poter, in qualche misura, ripartire da zero. Anche se sempre da dietro le sbarre. Accade nella casa circondariale di Marassi, dove è nato un laboratorio serigrafico in cui sono impiegati alcuni detenuti. Nato circa 9 anni fa da un’idea della cooperativa Bottega Solidale, all’inizio sviluppava grafiche partendo proprio dalle frasi di De Andrè. Le grafiche poi sono diventate le magliette, che seguono una filiera etica ed equo solidale partendo dal Bangladesh, passando dal carcere ligure e finendo, oltre che nelle botteghe, anche nella grande distribuzione con Carrefour e Coop. "Partire da De André è stato naturale per noi genovesi - racconta il responsabile del progetto Paolo Trucco - soprattutto per le tematiche affrontate nei suoi testi che ben si prestavano al lavoro nel carcere. Poi da De Andrè ci siamo dedicati anche ad altri artisti: Fossati, Guccini, Gaber, Bandabardò e tanti altri". Oltre alle linee di magliette, il laboratorio crea anche altri prodotti legati soprattutto ad alcuni eventi. L’idea è quella di diversificare le attività per espandere l’esperienza imprenditoriale che ad oggi fattura tra i 220 e i 350 mila euro. Anche per questo la cooperativa è entrata all’interno della rete di Freedhome, che raggruppa una dozzina di attività all’interno delle carceri italiane per metterle a sistema. "È fondamentale partire dal piccolo con le proprie componenti e riuscire poi a far rete per dimostrare che le nostre sono buone prassi". "L’esperienza nel mondo carcerario è stata nuova per noi - racconta Trucco - e negli anni ci ha sempre più entusiasmato. Siamo partiti da un percorso conoscitivo, i detenuti che lavorano con noi si sono saputi mettere in discussione. Così siamo riusciti a superare l’ottica assistenziale del lavoro e creare un’ambiente in cui si lavora per raggiungere alti standard di qualità". E, così come ogni progetto di economia carceraria, importante è stata anche la collaborazione con le direzioni del carcere: "Il punto è avere unità di intenti: credere nel ruolo rieducativo del carcere e lavorare affinché la pena abbia realmente senso". Cagliari: condannato a 20 anni evade dal carcere minorile, fermato dai carabinieri Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2017 Paolo Enrico Pinna è accusato di aver ucciso il 19enne Gianluca Monni e il 29enne Stefano Masala, nel maggio 2015. All’epoca dei fatti era minorenne. Non si conoscono ancora i dettagli della fuga. Il ragazzo è stato bloccato nello stesso pomeriggio in cui è scappato. È evaso dal carcere minorile di Quartucciu, a Cagliari, dove era rinchiuso dopo la condanna a 20 anni per due omicidi. Ma la fuga di Paolo Enrico Pinna, 19 anni, è durata soltanto qualche ora. I carabinieri l’hanno fermato tre ore dopo la fuga, intorno alle 18.30, a Maracalagonis, ad una ventina di chilometri dal capoluogo sardo, a bordo di un trattore che aveva rubato poco prima. Pinna è stato condannato a 20 anni di reclusione per gli omicidi di Gianluca Monni (18 anni) ucciso l’8 maggio del 2015 a Orune mentre aspettava il pullman per andare a scuola con alcune fucilate a pallettoni, e di Stefano Masala, 29 anni di Nule, scomparso la sera precedente, a cui venne rubata l’auto per far ricadere su di lui le colpe dell’omicidio di Monni. Il detenuto, che sembra non avesse premeditato la fuga, aveva intenzione di raggiungere la Barbagia. Era rinchiuso nel carcere minorile di Quartucciu perché all’epoca dell’omicidio, era il 2015, era minorenne (17 anni). Al momento non si conoscono i dettagli dell’evasione, ma polizia e carabinieri stanno verificando la dinamica, e l’eventuale responsabilità di complici interni o esterni alla struttura. Sembra che durante l’evasione sia stata utilizzata anche una scala. Da quanto si apprende in base a una prima ricostruzione il detenuto, che ora dovrà rispondere anche dei reati connessi all’evasione, era lavorante dentro la stessa struttura carceraria e collaborava con una ditta che stava eseguendo dei lavori di ristrutturazione all’interno dell’istituto. Per fuggire il giovane avrebbe usato una scala che era fra gli attrezzi utilizzati per i lavori in corso e che probabilmente aveva nascosto durante la pausa pranzo. Nel carcere minorile di Quartuccio ci sono al momento 15 detenuti, un minorenne e 14 "giovani adulti", cioè fino ai 25 anni. Quella di Pinna è solo l’ultima evasione di questa estate. Dopo la fuga d’amore di Johnny lo Zingaro, negli ultimi giorni quattro carcerati hanno fatto perdere le proprie tracce approfittando di permessi premio in diversi centri e istituti d’Italia. Cremona: appello su Facebook al detenuto in fuga "devi costituirti" di Carlo Bazoli Corriere della Sera, 10 agosto 2017 Una lettera su Facebook, quasi un messaggio in bottiglia affidato al mare digitale. A scrivere un diacono, don Mario, del Cremonese. Destinatario un detenuto affidato dai giudici alla struttura della Caritas e sparito al primo giorno di fatiche. "Devi costituirti". Ha tradito la sua fiducia fuggendo attraverso i campi di mais, ma lui, forse perché è un religioso, non si è perso d’animo e gli ha scritto: "Ti chiedo di costituirti, allora sarai perdonato". Il mittente della lettera è don Marco Ruggeri, 46 anni, cinque figlie, ordinato diacono il 17 novembre 2013. Da allora è per tutti semplicemente don Marco. Volontario in carcere da 13 anni, è il responsabile dell’Isla de burro, il centro gestito dalla Caritas diocesana e specializzato nella "pet therapy", la terapia basata sull’interazione uomo-animale. In questo caso i 14 asini e il giovane mulo che, guardati a vista da sei operatori, si muovono tranquilli nel recinto intorno al terreno abbandonato e ora recuperato, accanto alla parrocchia di Zanengo, frazione di Grumello Cremonese. È da lì che il quattro agosto Claudio Gutierrez, 48 anni, detenuto cileno in permesso premio e con fine pena marzo 2018, pregiudicato per reati vari (sequestro di persona, possesso di armi, furto, rapina, spaccio di droga) è scappato. Si sospetta possa fare parte di una delle gang di latinos che hanno messo radici nel Milanese. "Era il primo recluso ospitato nella nostra struttura e avrebbe dovuto tornarci per altri 45 giorni - racconta don Marco -. Sono andato a prenderlo il mattino al penitenziario di Cremona. Ha cominciato ad occuparsi della pulizia degli asini, raccolto fieno e spalato letame. Ma è sparito poco dopo. Mi sono accorto quasi subito dell’accaduto e ho dato l’allarme, ma le ricerche delle forze di polizia erano complicate perché la zona è circondata da campi con il frumento che in questa stagione è molto alto. Era l’ultima cosa che mi aspettavo facesse". Ripresosi dal colpo, don Marco si è messo al computer e ha scritto una lunga lettera al fuggitivo. Parole accorate ma anche con tratti spigolosi, tutto pubblicato su Facebook. Attacco confidenziale: "Ciao Claudio, ovviamente non so dove sei e allora lascio qui, come una sorta di messaggio in bottiglia virtuale, qualche pensiero per te". Le righe successive sono dedicate agli effetti che l’evasione potrebbe avere sul centro cremonese. "Di questa pubblicità non avevamo bisogno. Ed è responsabilità tua avermi fregato (ti sono bastati pochi minuti, complimenti) e avere sputato sulla fiducia che ti era stata data, non solo da noi, ma prima ancora dalla direttrice del carcere, dagli educatori e dal magistrato di sorveglianza". Il diacono non lo dice espressamente nella lettera, ma il timore è che scatti un giro di vite sul rilascio dei permessi e la concessione delle misure alternative. Alla Isla de burro continueranno ad andare bambini, ragazzi disabili e malati psichiatrici, ma bisognerà vedere se le porte resteranno ancora aperte per i detenuti. Sarebbe un peccato "perché le esperienze di carceri che accolgono animali - scrive don Ruggeri - raccontano di un forte calo dell’aggressività, auto ed etero-diretta, e di una diminuzione di consumo di psicofarmaci". Poi l’appello: "Ti chiedo di costituirti e, se anche solo per qualche istante farai silenzio nel tuo cuore e ascolterai la voce della coscienza, capirai che è l’unica cosa giusta e sensata che puoi fare. Intanto non smetto di pregare per te. Addio, arrivederci, chissà...". Deluso, don marco non smette di sperare. "Dubito che Claudio l’abbia vista, ma magari apre Facebook e ci capita su". Caserta: poliziotto penitenziario aggredito "spray per difenderci dai detenuti violenti" Il Mattino, 10 agosto 2017 L’Osapp, l’organizzazione sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, denuncia l’ennesima violenza nei confronti di un poliziotto penitenziario nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Caserta) ribadendo la richiesta al ministro Orlando di "spray antiaggressione per gli agenti". "Ieri mattina, intorno alle ore 9 - spiega la nota del sindacato - nel reparto Tevere del carcere di Santa Maria Capua Vetere un detenuto Italiano ha ferito con il bastone di una scopa un assistente di Polizia Penitenziaria che è stato immediatamente soccorso e trasportato presso il nosocomio cittadino dove ha riportato una prognosi di cinque giorni di riposo e cure. ù Per quanto si è appreso - come riferisce l’Osapp - il detenuto avrebbe agito in questo modo perché contrariato dalla mancata autorizzazione all’effettuazione di una telefonata all’esterno, in quanto già concessa ed effettuata il giorno precedente, mentre l’assistente di polizia penitenziaria aggredito prestava in quel momento servizio da solo in un reparto di 150 detenuti soggetto al regime di custodia aperta o vigilanza dinamica in cui i ristretti possono aggirarsi a loro piacimento per l’intera sezione detentiva senza alcun limite". Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono 250 detenuti pari al 25% in più del consentito e di questi 500 sono detenuti Alta Sicurezza, mentre il personale di polizia penitenziaria è del 20% inferiore alla dotazione organica prevista per una carenza pari a circa 80 unità. "Tali condizioni - spiega il segretario dell’Osapp, Leo Beneduci - hanno da tempo comportato che il carcere di Santa Maria Capua Vetere, collocato in un territorio al centro delle zone di maggiore operatività della camorra, è uno dei carceri in cui è più pericoloso prestare servizio. Peraltro - prosegue - a nulla sono valsi gli appelli del sindacato rivolti sia a mitigare le precarie condizioni di vivibilità e di lavoro esistenti presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere e sia indirizzati a frenare il crescente fenomeno delle aggressioni che coinvolge gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria, minandone le condizioni psico-fisiche e la funzionalità operativa ed istituzionale oltre ad ingenerare decine di migliaia di giornate di assenza ogni anno del personale dal servizio. In tal senso - conclude Beneduci - anche nella giornata odierna la nostra Organizzazione Sindacale ha richiesto al Ministro Orlando e ai Sottosegretari Chiavaroli e Migliore, per via epistolare, di dotare il personale di Polizia Penitenziaria in servizio nelle sezioni detentive almeno di spray antiaggressione, ma dubitiamo grandemente che l’attuale Guardasigilli, stante l’andamento degli ultimi anni, dimostri una qualche sensibilità al problema". Civitavecchia: il Sottosegretario Ferri in visita anche al carcere di via Tarquinia trcgiornale.it, 10 agosto 2017 Dopo la visita della scorsa settimana al penitenziario di Aurelia, ieri pomeriggio il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri si è recato in visita alla casa di reclusione Passerini. Si è trattato di una visita già prevista e preannunciata dallo stesso Ferri alla direttrice del carcere Patrizia Bravetti. Il Sottosegretario ha dichiarato che la visita costituiva un passaggio importante per completare il monitoraggio sulle due strutture di Civitavecchia, per valutare la condizione degli edifici e prendere visione delle opere che possono essere messe in atto per migliorarne l’utilizzabilità nel quotidiano. La casa di reclusione ha due reparti ristrutturati in perfette condizioni, così come alcune aree comuni, che possono essere anche utilizzate per il trattamento e per coinvolgere la società civile, al fine di creare quel ponte necessario per realizzare la completa rieducazione dei detenuti, anche attraverso una maggiore consapevolezza del mondo esterno rispetto alla realtà carceraria e di quanto occorra affrontare questi temi con umanità e rispetto della dignità della persona. La struttura, particolare per il valore storico di fortezza, e per la difficolta d’intervento, ha parti importanti non utilizzate, che necessiterebbero di complessi interventi di ristrutturazione. In particolare, gli interventi dovrebbero concentrarsi su due reparti detentivi, su alcune zone in cui si può sviluppare socialità, anche sulla Chiesa. Dovranno essere fatte delle valutazioni tra costi e opportunità perché, se da una parte la struttura può avere grande opportunità e ampi spazi, dall’altra, si deve tenere in considerazione quelle che sarebbero le spese per sviluppare queste potenzialità". Il Sottosegretario Ferri ha anche sottolineato che l’area trattamentale è un aspetto positivo della realtà grazie al personale ed agli ampi spazi che la struttura offre nonché alla falegnameria che occupa alcuni dei detenuti in attività lavorative molto importanti nel percorso di reinserimento. All’interno delle aree verdi viene, tra l’altro, tenuta e curata anche una cavalla ipovedente, Nora, che è diventata un simbolo di affetto ma anche di valori per i detenuti e per il personale. Pescara: cinque diplomati in carcere, studenti-detenuti dell’Aterno-Manthonè metronews24.it, 10 agosto 2017 Ieri mattina, nella sala conferenze della Casa circondariale San Donato di Pescara, si è svolta la cerimonia di consegna dei certificati di diploma ai cinque studenti della sezione carceraria dell’I.t.st. Aterno-Manthonè, indirizzo Sistemi informativi aziendali, che a giugno hanno sostenuto l’esame di maturità. Il Dirigente scolastico Antonella Sanvitale ha consegnato i certificati agli studenti: Vincenzo Bevilacqua, Mario Butolo, Giuseppe Di Filippo, Guglielmo Faneli, Emanuele Imbriani. Alla cerimonia hanno partecipato Federica Chiavaroli, sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, Marinella Sclocco, assessore regionale all’Istruzione, Ernestina Carluccio, dell’Ufficio scolastico provinciale delegata dal dirigente dell’Ufficio IV ambito territoriale di Pescara Carlo Pisu, Franco Pettinelli, direttore della Casa circondariale, Anna Laura Tiberi, educatrice responsabile dell’area pedagogico-didattica, Gabriele Di Marco, presidente della commissione dell’Esame di stato, i docenti: Anna Doriana Ceccomancini, Donatella Ciaccia, Cristina De Marinis,, Donatina Di Giampaolo, Annalisa Libbi e Marina Di Crescenzo, referente del corso serale e della scuola carceraria. L’attività scolastica svolta all’interno della struttura carceraria è ricca e stimolante grazie alla visione aperta e lungimirante del direttore Pettinelli. "Chi ha portato avanti questa attività l’ha fatto veramente con impegno" dice Pettinelli, "Ho visto i voti e mi complimento con voi". "Siete un esempio", dice la Preside Sanvitale, "perché la cultura è l’introduzione alla realtà. Voi avete accettato la sfida, il sacrificio, per affermare come la cultura ci renda veramente liberi". L’onorevole Chiavaroli sottolinea "Se ci sono le opportunità all’interno del carcere, come quella della scuola o del progetto di recupero di Farindola, si può costruire una seconda possibilità per chi ha sbagliato. Perché nella vita tutti sbagliano". L’assessore Sclocco pone l’accento sulla funzione sociale del carcere "C’è un percorso che avete fatto e che nobilita tutti. Quando il carcere diventerà un’occasione di trasformazione per chi è costretto a esserci allora il carcere avrà assolto alla sua funzione. Altrimenti sarà solo un luogo di peggioramento e di rabbia ". Le possibilità offerte dalla presenza di una scuola secondaria sono ampie e variegate, dai corsi per la certificazione informatica Ecdl, Patente europea del computer, con il sostenimento degli esami in sede, all’uscita didattica, avvenuta nel mese di maggio, in cui gli studenti-detenuti hanno visitato due musei della città, il museo Casa natale di Gabriele D’Annunzio e il museo Cascella, a un modo diverso di studiare la lingua, prova ne è il messaggio di auguri per Natale inviato dagli studenti, guidati dalla docente di inglese Annalisa Libbi, a cui la regina Elisabetta II ha risposto con grande entusiasmo. La scuola che esce dalle aule e dai libri di testo è fatta anche di esperienze come queste. Nel corso dell’incontro di questa mattina sono state consegnate anche le pagelle agli studenti delle altri classi attive nella Casa circondariale e sono stati ringraziati con un encomio i detenuti che, con un progetto frutto di un protocollo d’intesa sottoscritto dal ministero della Giustizia, dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise e l’Ente parco e dal Comune di Farindola, fino a fine luglio stanno lavorando per riaprire i sentieri danneggiati dal maltempo, sistemare le staccionate e ricucire le ferite del terremoto nei boschi di Rigopiano, nel parco del Gran Sasso. L’Istituto Aterno-Manthonè, da più di vent’anni, si dedica alla formazione e all’educazione degli adulti, con il corso serale per studenti-lavoratori e con il corso di Ragioneria nella Casa Circondariale. Secondo quanto previsto dalla normativa penitenziaria, il trattamento delle persone condannate deve tendere, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al loro reinserimento sociale e deve essere attuato secondo un criterio di individualizzazione. L’istruzione è una delle più importanti attività trattamentali. Questi interventi esterni hanno la finalità di arricchire l’offerta formativa e di creare un ponte a livello culturale e umano fra il carcere e il mondo esterno. Ascoli: altalene e scivoli per bambini durante incontri con genitori reclusi picenotime.it, 10 agosto 2017 È un cielo senza sbarre quello che da oggi potranno vedere i bambini dei detenuti del carcere di Marino del Tronto (Ascoli Piceno) durante gli incontri con i genitori rinchiusi. E poi altalene, uno scivolo, 10 gazebo e poltroncine per vivere quelle poche ore di contatto lasciandosi alle spalle cancelli e perquisizioni. Il progetto era nell’aria da diverso tempo e ora, finalmente, è diventato realtà. È stata inaugurata ieri mattina all’interno della casa circondariale del capoluogo piceno l’area verde destinata ai colloqui con i familiari. I 10 gazebo, sistemati su due file da cinque, introducono i giochi che hanno preso posto sopra un prato di erba sintetica. L’area colloqui all’aperto è stata ricavata nel grande spazio che per anni ha ospitato un campo di calcio, restando poi, per molto tempo inutilizzato. Il progetto è stato finanziato da Cassa Ammende ma sono stati gli stessi detenuti del giudiziario a realizzarlo. Due mesi di lavoro, nelle ultime settimane anche sotto il sole battente di un’estate caldissima, con l’obiettivo comune di dare il proprio contributo per costruire qualcosa di bello e di utile per le famiglie che aspettano a casa il loro ritorno, per sé e per i bambini che verranno. "Hanno lavorato con slancio e impegno - commenta la direttrice dell’istituto, Lucia Di Feliciantonio, come riporta l’agenzia Dire - pensando che lo stavano facendo soprattutto per i loro cari e per i familiari dei loro compagni. Vedere oggi questo angolo di carcere trasformato in un parco giochi, con i bambini sugli scivoli e sulle altalene o impegnati a tirare calci a un pallone, nonostante il caldo intenso di questi giorni, ci emoziona. Ai lavori per la realizzazione del piccolo parco ha lavorato con grande coinvolgimento anche la polizia penitenziaria e l’armonia che si è creata con i detenuti rappresenta un valore aggiunto". All’inaugurazione hanno partecipato una decina di famiglie con bambini al seguito, presente anche Don Dante, storico responsabile del gruppo Caritas-carcere, che ha benedetto il campo. La realizzazione dell’area verde segue una serie di altri progetti realizzati nell’istituto ascolano per rafforzare i legami familiari e quei contatti fondamentali sia per la crescita dei bambini che per il futuro dei loro genitori, in vista del delicato momento del fine pena e del reinserimento nella società. È il caso della sala colloqui interna, dipinta e colorata con scene di cartoni animati a tutta parete nel 2012 e arredata con scaffali pieni di giochi e libri per bambini, o dei pomeriggi extra colloquio, organizzati dalla direzione in occasione delle maggiori ricorrenze come il Natale, la Pasqua e la festa del papà. Non ultimo, l’adesione alla "Partita dei Bambinisenzasbarre", progetto che l’omonima associazione ha lanciato tre anni fa a livello nazionale e che vede in campo squadre di detenuti con figli e di detenuti senza bambini sfidarsi sotto gli occhi dei propri cari in una giornata di festa che parte dalla passione calcistica per avvicinare le persone. Momenti preziosi, in cui il tempo e lo spazio in carcere assumono contorni diversi, in cui il desiderio di avere ancora una famiglia, in quelle ore si trasforma in una possibilità, che puoi anche toccare. "L’area verde - sottolinea Lucia Di Feliciantonio - testimonia una più ampia attenzione al rafforzamento della genitorialità, nella consapevolezza che per costruire una società migliore è necessario mettere sempre, e in ogni caso, al primo posto i bambini". Migranti. Appello ai giornalisti italiani: "Rompete il silenzio sull’Africa" di Alex Zanotelli Il Dubbio, 10 agosto 2017 Rompiamo il silenzio sull’Africa. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo. Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei massmedia italiani, come in quelli di tutto il modo del resto. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico- finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa. Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur. È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni. È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa. È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai. È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera. È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi. È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi. È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU. È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile. È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!). Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia "dell’invasione", furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti. Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della Rai e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa. Migranti. Avviso di Nobel e avviso di reato (se la legge diventa ossessione) di Piero Sansonetti Il Dubbio, 10 agosto 2017 Il tribunale di Trapani ha inviato un avviso di reato a un sacerdote che si chiama Mussie Zerai e si occupa di aiuto ai migranti. A metterlo nei guai con la legge è stato proprio il suo "lavoro quotidiano". Aiutare qualcuno è permesso, ma se quelli che aiuti sono considerati fuorilegge allora tu stai commettendo il reato di favoreggiamento. Quindi puoi aiutare un migrante regolare ma non un migrante clandestino, perché dal 2009, in Italia, essere clandestino è una condizione che costituisce reato. Padre Mussai giusto due anni fa aveva ricevuto un altro avviso, non da Trapani ma da Oslo: era la commissione per il Nobel della pace che lo aveva candidato al premio. Non si montò la testa. Né stavolta si è molto preoccupato - suppongo - per l’alzata di ingegno di un magistrato siciliano. Padre Zerai sarà assolto, naturalmente, o forse il procedimento sarà archiviato da qualche Gip con un po’ di sale in zucca. E potremmo anche considerare chiuso il caso. Quello che preoccupa è l’uso ossessivo della legge, e la moltiplicazione delle leggi, per affrontare i problemi che via via si pongono davanti a noi. In questi giorni stiamo affrontando uno dei grandi problemi del nostro tempo: l’ondata di migranti provocata dalla crisi economica e militare dell’Africa, e del Sud del mondo, e dai processi inarrestabili della globalizzazione. Questione complessa e sulla quale abbiamo scritto varie volte su questo giornale, anche esprimendo posizioni diverse. (Del resto sarebbe illogico se un problema di queste dimensioni d’epoca avesse una sola soluzione giusta e indiscutibile). Però vorremmo sottolineare un fatto. E cioè che anche in questa occasione, come in tante altre recenti crisi - vere o create dall’informazione - la scelta decisiva è sempre quella di inventare nuovi reati e nuove pene. Quante volte è successo? Vogliamo elencare le più recenti? Furti, tutti parlano di furti: sù le pene per furto. Incidenti stradali, vanno spesso in prima pagina: sù le pene, e anzi si inventa un nuovo reato, quello di omicidio stradale. Rapine, le Tv non parlano d’altro (anche se le statistiche dicono che sono in diminuzione): nuova legge sulla legittima difesa. Corruzione, i grillini premono, "Il Fatto" è in campagna permanente: nuove pene e addirittura equiparazione della corruzione all’attività mafiosa. E così arriviamo ai clandestini. L’opinione pubblica è preoccupata per l’arrivo dei profughi dall’estero (già da alcuni anni: parliamo del 2009) e allora il Parlamento vara una legge che stabilisce che chi è clandestino sta commettendo un reato. È la prima volta che in un codice occidentale un reato viene associato all" essere" e non al "fare". Nasce un reato, l’unico reato al mondo, che si compie senza compiere alcun atto. Reato, credo, mai applicato, per fortuna: anche perché gran parte della magistratura è un po’ meno peggio di come ce l’immaginiamo. Ma ora che l’emergenza sale (e l’emergenza, spesso, nelle società moderne sale non perché sia reale ma perché tale è decretata dall’informazione, stampa e Tv), senza bisogno di nuove leggi si trova un nuovo reato da applicare: "favoreggiamento del reato di clandestinità". E questa nuova figura di reato rende "rei", praticamente, tutti coloro che si occupano di soccorso ai migranti, specie ai migranti in mare, perché evidentemente tutti i migranti, almeno finché non ottengono il titolo di rifugiarti, sono clandestini. Molto probabilmente questa appassionata ricerca di nuovi reati, nuovi delinquenti, nuove pene, non porterà a grandi risultati. Né positivi né negativi. Semplicemente servirà ai partiti a dire all’opinione pubblica: "io son rigoroso, io son rigoroso!". E servirà ad alcuni magistrati a mettersi in mostra, magari con l’idea di un salto in politica nel prossimo futuro. Dunque potremmo anche non curarcene. Però è uno dei tanti aspetti di quel processo che sta trasformando la politica in attività di tipo giudiziario. Cioè sta uccidendo la politica, la sta radendo al suolo. Non c’è più la ricerca della soluzione, della mediazione, magari del compromesso. Che tenga conto degli interessi diversi, configgenti, e legittimi, di moltitudini di donne e di uomini. C’è solo la gara a fare o a usare la legge e la repressione. Migranti. Don Zerai: "Io indagato? Ho sempre agito d’accordo con la Guardia costiera" di Carlo Lania Il Manifesto, 10 agosto 2017 Intervista a don Mussie Zerai. Il sacerdote eritreo accusato dalla procura di Trapani di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. "Ho sempre lavorato alla luce del sole. Quando ricevo una richiesta di aiuto come prima cosa avviso la Guardia costiera italiana e quella libica, quindi non capisco proprio da cosa nasca l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina". Don Mussie Zerai è da poco tornato a Roma dall’Africa dove ha saputo di essere indagato nell’inchiesta che la procura di Trapani sta conducendo sull’attività delle Ong impegnate nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo. In Etiopia e Uganda il sacerdote lavora a un progetto che prevede l’assegnazione di borse di studio per giovani africani. "Un sostegno ai rifugiati - spiega - un modo per aiutarli a rimanere il più vicino possibile alle loro case sperando che la situazione nei loro Paesi migliori". La notizia dell’avviso di garanzia nei suoi confronti gli è stata comunicata martedì "per un’indagine - dice - che va avanti da mesi visto che è cominciata il 24 novembre del 2016". Sacerdote dal 2010, fondatore dell’Agenzia Habeshia per i diritti dei migranti, nel 2015 è stato candidato al Nobel per la Pace proprio per la sua attività a favore dei profughi. Una condizione, quella del profugo, che padre Zerai conosce bene per averla vissuta in prima persona. Eritreo di Asmara, fuggì dal suo Paese quando aveva solo 17 anni per arrivare a Roma all’inizio degli anni 90. Considera una missione "andare verso le periferie e schierarsi dalla parte degli ultimi della terra". Don Zerai ha capito su cosa si basano le accuse nei suoi confronti? Dalle carte che mi sono state consegnate non risulta nessuna accusa specifica. Aspetto che gli avvocati capiscano meglio di cosa si tratta. In questi anni lei ha avuto contatti con tutte le Ong che oggi sono impegnate nel Mediterraneo. Se non proprio con tutte, con molte di loro. Sicuramente con Msf, Moas, Sea Watch e Watch the Med che non è un’Ong con navi come le altre, ma fa un servizio di raccolta dati e informazioni via telefono. Solitamente quando ricevevo una richiesta di soccorso come prima cosa avviso sempre la Guardia costiera italiana e quella maltese prima ancora delle Ong. Siccome poi la Guardia costiera mi ha sempre chiesto di dare conferma scritta alla telefonata, invio anche una mail. Questo è il modo in cui ho sempre comunicato. Nessuna chat segreta, come è stato scritto o chissà cosa. Non c’è nulla di segreto. E con i volontari delle Jugend Rettet, sui quali sta indagando la procura di Trapani, ha mai avuto contatti? No, che io ricordi non ho mai comunicato direttamente con loro. Il suo numero di telefono però ce l’ha praticamente ogni migrante che parte dall’Africa. Ho sempre lavorato alla luce del sole. Soprattutto dal 2011 in poi, da quando è scoppiata la rivolta in Libia e ho cercato di coordinare l’evacuazione dei profughi rimasti intrappolati nelle varie città libiche verso la Tunisia. In quell’occasione molte persone hanno avuto i miei contatti perché usavo le radio che trasmettono nelle nostre lingue, Voice of America o Radio Erena che trasmette dalla Francia, per spiegare come raggiungere i campi per i rifugiati che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati aveva aperto a Sciuscia, in Tunisia. I giornalisti che conducevano le trasmissioni hanno dato il numero del mio cellulare. In questo modo tutti quelli che ascoltavano il programma, che fossero in Libia, in Eritrea o in Etiopia o in qualsiasi parte del mondo, hanno avuto il mio numero. Che idea si è fatta delle polemiche sul ruolo delle Ong? Non riesco a comprendere fino in fondo, ma immagino che dietro le polemiche ci sia il tentativo di limitare il più possibile l’intervento di queste Ong in modo da ridurre le partenze dei barconi. Lo scopo finale è quello di impedire l’arrivo di altre persone che cercano in Europa asilo, protezione oppure un futuro diverso. Mi appello al premier Paolo Gentiloni ma anche all’Unione europea perché pongano come priorità il salvataggio delle vite umane e non preoccuparsi solo di come chiudere i confini. I respingimenti rendono anche l’Unione europea complice di tutti quegli orrori che in questi giorni ascoltiamo su quanto accade nei centri di detenzione in Libia: le torture, le violenze, la privazione di cibo e acqua. Tutto questo rende anche l’Europa complice, perché ha delegato alla Libia il compito di non far partire i migranti. Trova giusto far firmare alle Ong un codice di comportamento? Avrei preferito ci fosse stato un accordo di coordinamento piuttosto che un regolamento. Soprattutto se le nuove norme limitano o impediscono una fase importante dei soccorsi come il trasbordo dei migranti da una nave all’altra. Questo vuol dire che davanti a un barcone che trasporta 500-600 migranti, non potendo trasbordare una nave soccorritrice piccola prenderà solo quelli che riuscirà a far salire a bordo. Gli altri aspetteranno e saranno fortunati se arriverà un’altra nave prima che muoiano. È come dire: salviamone un po’ ma non tutti. Migranti. Reato di critica, torna a galla il vilipendio di Livio Pepino Il Manifesto, 10 agosto 2017 Ritorno all’antico. Un avvocato dice in piazza che i decreti Minniti-Orlando sono "allucinanti" e scatta la denuncia: "Vilipendio delle istituzioni e delle forze armate". A un’interrogazione del senatore Manconi risponde il viceministro dell’interno confermando la tesi della denuncia, con l’accusa di "aver ingiuriato la polizia". Ci fu un tempo, nel nostro Paese, in cui le contestazioni di vilipendio erano all’ordine del giorno quando erano ritenuti reati il canto dell’Inno dei lavoratori o il grido "Abbasso la borghesia, viva il socialismo!". Erano gli anni dello stato liberale e, poi, del fascismo quando si riteneva che la libertà non fosse quella di esprimere le proprie idee ma "quella di lavorare, quella di possedere, quella di onorare pubblicamente Dio e le istituzioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte". Poi è venuta la Costituzione con l’articolo 21: "Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". A tutela dell’anticonformismo e delle sue manifestazioni, poco o punto accette alle forze dominanti perché, come è stato scritto, "la libertà delle maggioranze al potere non ha mai avuto bisogno di protezioni contro il potere" e, ancora, "la protezione del pensiero contro il potere, ieri come oggi, serve a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio o osannare il Re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più". Nella prospettiva costituzionale le idee si confrontano e, se del caso, si combattono con altre idee, non costringendo al silenzio chi non è allineato al potere contingente o al pensiero dominante. Come noto, peraltro, la Costituzione ha tardato a entrare nei commissariati di polizia e nelle stazioni dei carabinieri (nonché, in verità, nelle aule di giustizia). Un saggio di questo ritardo si trova in un’arringa di Lelio Basso del 10 marzo 1952 davanti alla Corte d’assise di Lucca in cui segnalò il caso di un capitano dei carabinieri che, alla domanda postagli nel corso di un dibattimento, "se per avventura avesse mai sentito parlare della Costituzione repubblicana", aveva "candidamente risposto che per l’adempimento delle sue funzioni conosceva la legge di pubblica sicurezza, il codice penale e quello di procedura penale, ma che nessuno dei suoi superiori gli aveva mai detto che egli dovesse conoscere anche la Costituzione". Poi il clima cambiò e negli ultimi decenni del secolo scorso il delitto di vilipendio sembrava diventato una fattispecie desueta. Ma in epoca di pensiero unico si torna all’antico e la criminalizzazione della "parola contraria" è di nuovo in auge. Sta accadendo per molti temi caldi (è successo con la vicenda di Erri De Luca relativa all’opposizione al Tav in Val Susa) tra cui non poteva mancare la questione dei migranti. Mentre c’è chi invita impunemente ad affondare i barconi della speranza con il loro carico di uomini, donne e bambini (e magari anche le navi delle Organizzazioni non governative che praticano il soccorso in mare) e chi, altrettanto impunemente, sostiene la necessità - convalidata da atti di governo - di ricacciare i profughi da dove vengono (cioè di consegnarli ai loro torturatori e potenziali assassini) ad essere criminalizzate sono - nientemeno le critiche contro i tristemente famosi decreti Minniti-Orlando in tema di trattamento dei rifugiati e di sicurezza urbana. È accaduto a Roma, in piazza del Pantheon il 20 giugno scorso. All’esito di un flash mob organizzato da Amnesty International per la giornata del rifugiato un giovane avvocato, in un breve intervento, ha vivacemente criticato quei decreti, denunciando l’abbattimento dei diritti dei migranti da essi realizzato, definendoli "allucinanti" e stigmatizzando le applicazioni subito intervenute (tra l’altro dall’amministrazione comunale romana). Sembra incredibile ma alcuni zelanti agenti di polizia, incuranti del coro "vergogna, vergogna" di un’intera piazza, hanno preteso dal giovane avvocato l’esibizione dei documenti ai fini della identificazione e di una ventilata denuncia per "vilipendio delle istituzioni costituzionali e delle forze armate", poi puntualmente intervenuta (con l’immancabile appendice della violenza e minaccia a pubblico ufficiale). Come sempre più spesso accade, la sequenza dei fatti è stata documentata in video pubblicati sul web (in particolare Youmedia.fanpage.it) dai quali non emergono né parole o espressioni men che corrette né reazioni violente o minacciose alle richieste degli agenti. Espressioni o comportamenti siffatti non sono indicati neppure nella risposta, intervenuta nei giorni scorsi a un’interrogazione del sen. Manconi, nella quale l’ineffabile viceministro dell’interno si limita a dare atto, in modo del tutto generico, che l’avvocato ha "incitato la folla pronunciando parole offensive e ingiuriose nei confronti delle istituzioni e, in particolare, della polizia di Stato". C’è da non crederci, eppure è avvenuto. Non conosciamo, ovviamente il seguito, ma qualunque esso sia non è, come si potrebbe pensare, un episodio minore. Certo si sono, sul versante repressivo, fatti ben più gravi. Ma quando si criminalizzano anche le parole si fa una ulteriore tappa nella realizzazione del diritto penale del nemico. E non è dato sapere quando ci si fermerà. Il traffico dei migranti? Metà della ricchezza della Libia di Emanuela Scridel L’Espresso, 10 agosto 2017 Il 40 per cento della ricchezza libica deriva dal passaggio sul suo territorio di esseri umani in fuga dall’Africa. E Roma continua a versare milioni. Era l’Agosto del 2008 e l’allora premier Berlusconi e il colonnello Gheddafi firmavano il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia". "Grazie a questo Trattato l’Italia potrà vedere ridotto il numero dei clandestini che giungono sulle nostre coste e disporre anche di maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità": questo il commento di Berlusconi, che sotto la tenda di Gheddafi aveva contemporaneamente siglato l’intesa che prevedeva che il nostro Paese risarcisse l’ex colonia con circa 5 miliardi di dollari diluiti in 20 anni. Gli accordi prevedevano, tra gli altri, investimenti per un’autostrada costiera che avrebbe dovuto attraversare tutta la Libia, dall’Egitto alla Tunisia, la costruzione di alloggi e borse di studio. L’Italia si diceva certa della piena collaborazione da parte della Libia nel contrasto all’immigrazione clandestina. Il "padrone" Usa non c’è più. Così, in mancanza di un protettore di lunga data, il nostro Paese deve trovare nuove strategie per gestire le crisi: dagli sbarchi dei migranti alla Libia Sono passati quasi 10 anni da allora, Gheddafi è morto, Berlusconi non è più al potere, le primavere arabe hanno percorso il Mediterraneo, vi è stata un escalation nei flussi migratori e, tuttavia, in Italia nulla pare essere cambiato, inclusi gli incessanti tentativi di compiacere la Libia e anzi, l’intenzione è di ripartire da dove eravamo rimasti. E così l’8 luglio scorso si è svolto ad Agrigento il "primo" Forum Economico Italia-Libia organizzato dal ministro degli Affari Esteri Angelino Alfano, e dal vice primo ministro libico Ahmed Maiteeg. Ha commentato Alfano: "vogliamo consolidare ulteriormente il partenariato bilaterale, fondato sulla cooperazione economica, infrastrutturale ed energetica e promuovere in entrambi gli Stati ulteriori attività di cooperazione economica e commerciale" inclusa, pare, la ripresa delle attività da parte di Anas International Enterprise (Aie) per la realizzazione dell’autostrada Ras Ejdyer-Emsaad (quella prevista dal Trattato di amicizia del 2008) per un valore di 125,5 milioni di euro. E così, sempre a seguito degli accordi siglati nel 2008, in questi anni sono state cedute gratuitamente sei motovedette a Tripoli per il pattugliamento delle acque e per contrastare le partenze di migranti. Peccato però che a distanza di pochi anni, due delle sei unità navali cedute siano state affondate, mentre le altre 4 abbiano dovuto essere riportate in Italia per essere riparate: 3,6 milioni di euro dal governo italiano per garantire la manutenzione dei mezzi. Nel corso degli anni in Libia hanno operato inoltre molte missioni militari, supportate dall’Unione Europea e strenuamente volute dall’Italia. Si pensi a "Eufor Libya" (Csdp) un’operazione militare (poi fallita) costata 7milioni e 900 mila euro a sostegno dell’assistenza umanitaria nella regione, con comando operativo a Roma; dopo il semi-fallimento di "Eubam Libya" "Missione UE per il controllo dei confini in Libia", costata 56,5 milioni di Euro, che avrebbe dovuto durare due anni a partire dal maggio 2013 e che nonostante le difficoltà a realizzarla e l’evidente inefficacia (dal 2013 al 2014 gli sbarchi dalle coste libiche verso l’Italia sono aumentati del 6.000%) è stata protratta fino a febbraio 2016. Missione fortemente sostenuta dall’Italia che la considerava come un’azione all’interno di un potenzialmente rinnovato dialogo Ue-Libia; il Consiglio Affari Esteri dell’Ue ci hai poi riprovato, avviando Euformed e, nel giugno 2015, "Eunavfor Med operazione Sophia", il cui costo è pari a quasi 43 milioni di euro, comando operativo a Roma e durata fino a Dicembre 2018. E, tuttavia, a oggi quasi il 40% dell’attuale Pil della Libia deriva - di fatto - dal traffico di migranti, secondo quanto affermato da Eunavfor Med. Il 2017 ha in particolare visto un’escalation da parte dell’Italia in termini di aiuti, accordi e finanziamenti a favore della Libia. Un vigoroso aumento delle spese per le missioni militari italiane in Libia nel 2017, di fatto quasi triplicato rispetto all’anno scorso: da 17 a 48 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti quelli per il pattugliamento del Mar Libico (l’operazione denominata Mare Sicuro ha un costo di 84 milioni di euro). A ciò si aggiungano i fondi richiesti dall’Italia e oramai praticamente concessi dalla missione Triton per la cooperazione fra Italia e Libia: 46 milioni di euro per il coordinamento navale alla Libia e altri 35 milioni destinati all’Italia per lo stesso motivo. Ed è di questi giorni la decisione del Consiglio dei ministri di dare il via alla missione della Marina militare italiana in acque libiche allo scopo di contrastare il traffico illegale di migranti e comunque di contenerne il flusso e di addestrare la guardia costiera libica. Per fermare l’arrivo di migranti in Europa, l’Italia sta investendo anche sul controllo della frontiera meridionale libica, un’area di confine in mezzo al deserto, da secoli attraversata dalle rotte migratorie e controllata dai trafficanti. Il 31 marzo a Roma il governo italiano si è fatto garante di un accordo di pace firmato da una sessantina di gruppi tribali che vivono nel sud del paese e che dall’inizio della guerra civile se ne contendono il controllo. Dopo la firma dell’accordo di pace, il ministro Minniti ha precisato che "una guardia di frontiera libica pattuglierà i cinquemila chilometri della frontiera meridionale del paese". Dall’Italia 50 milioni al Niger per rinforzare le sue frontiere in chiave anti migranti. Si tratta di una zona isolata, dove non ci sono infrastrutture, reti di comunicazione, strutture sanitarie. In quella regione, inoltre, sono in gioco importanti interessi economici internazionali: passano i principali traffici illeciti diretti in Europa e in Nordafrica (commercio di droga e di armi) e ci sono pozzi petroliferi. A questo punto il dubbio sorge spontaneo: non è che tutto questo affanno dell’Italia nel tentare di ristabilire i rapporti con la Libia abbia una chiave di lettura diversa e collegata al business del gas e del petrolio? Questo potrebbe forse spiegare perché dopo Gentiloni e Minniti, il terzo uomo ad incontrare al-Serraj il 31 luglio scorso a Tripoli, è stato l’Ad dell’Eni, Descalzi. L’incontro è stato l’occasione "per fare il punto sullo sviluppo economico e politico della Libia, alla luce delle recenti evoluzioni che hanno interessato il paese". Nello stesso giorno, Descalzi ha incontrato il presidente della Noc, la società nazionale libica alla quale le multinazionali versano una parte dei proventi. Rispetto al passato, la Noc versa oggi le quote della rendita petrolifera sia al governo di Tobruk sia a quello di Tripoli. Al centro dei colloqui i possibili futuri sviluppi di affari Italia- Libia. Eni è il principale fornitore di gas del Paese, nonché il maggiore produttore di idrocarburi straniero in tutte le regioni della Libia che rappresenta per l’Italia uno dei principali fornitori di petrolio e gas. Fra le attività, il completamento di 10 pozzi offshore, di cui 9 già perforati nel 2016 e per cui Eni si è aggiudicata il contratto di fornitura e installazione delle strutture. Il primo gas è previsto per il 2018. Tutte scadenza molto importanti per Eni, ma anche per i libici, che godono di un esenzione dalle quote di produzione Opec. Non dimentichiamo che Eni è presente in Libia dal 1959, dove attualmente produce oltre 350.000 barili al giorno di olio equivalente. Non vanno inoltre dimenticati i pagamenti dell’Eni verso la Libia che nel 2016 sono stati pari a 1,42 miliardi, di cui quasi 1,3 di imposte e poco più di 155 milioni in forma di royalty. Forse la parola chiave per comprendere i rapporti Italia-Libia è "petrolio dintorni)". Genocidio degli zingari, il dovere della memoria di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 10 agosto 2017 Mezzo milione di rom e sinti furono vittime dello sterminio nazista. Una classe del liceo scientifico Agnone, dove esisteva un campo di concentramento italiano, ha svolto un’inchiesta per non cancellare la memoria di quell’orrore. Ad Auschwitz c’era lo Zigeunerlager, la sezione per famiglie zingare composta da 32 baracche circondate da filo elettrico. Dobbiamo soprattutto ad alcuni testimoni ebrei, come Piero Terracina, il racconto della sua liquidazione totale, avvenuta la notte del 2 agosto 1944, quando i violini non suonarono più e, dopo grida disperate, le camere a gas zittirono quella zona del campo. Quante furono le vittime? Le stime variano, di solito si afferma siano almeno mezzo milione. Probabilmente è una sottostima, ma risulta impossibile conteggiare individui non segnalati all’anagrafe e spesso uccisi per strada o nelle esecuzioni sommarie all’Est. Ma la difficoltà a stabilire il numero delle vittime testimonia anche il disinteresse e l’oblio: subito dopo la guerra, su questo genocidio, chiamato Porrajmos o Samudaripen, calò il silenzio. Quella pagina - la deportazione razziale - è una storia profondamente italiana. Dimenticata. Chi oggi sente come parte della nostra memoria collettiva i nomi di Agnone, Boiano e Prignano? Questi e altri sono campi di concentramento dove sono stati detenuti rom e sinti, rastrellati in Italia e poi in parte deportati ad Auschwitz e nei campi di sterminio. "Mio nonno Giovanni - racconta il nipote Sergio Haldaras - teneva sempre in tasca del pane temendo di rimanere senza cibo. Spiegava che era un’abitudine nata dopo la liberazione dal campo di Agnone proprio a causa della tanta fame patita all’interno dell’ex convento". Quando è morto, i parenti, sinti di Prato, l’hanno seppellito lasciando, su sua richiesta, del pane nelle tasche dei pantaloni. Ma è Milka Emilia Goman, morta lo scorso marzo a 96 anni, il volto a cui è associata la memoria del campo di Agnone, la cittadina in provincia d’Isernia nota per la produzione di campane. Nel 2005 l’ex deportata tornò nel convento di San Bernardino, il luogo in cui, a seguito dell’ordine dell’11 settembre 1940 del capo della Polizia Arturo Bocchini, aveva subito l’internamento, ma quel luogo era cambiato e solo lei poteva riprendere un racconto che per la comunità locale si era chiuso nel 1943, quando il Sud Italia fu liberato dalla dittatura fascista. Milka entrò in una struttura diventata istituto per anziani, ma mentre attraversava i corridoi riconobbe le stanze, le finestre sbarrate e riaffiorarono i ricordi del marito, della famiglia, dei compagni di prigionia. Milka non fu l’unica a voltarsi con lo sguardo verso quegli anni (1940-43), anche tra i cittadini di Agnone riemersero immagini rimosse: "Li avevo visti in fila quegli zingari che scendevano dalla ferrovia e venivano incolonnati verso l’ex convento"; qualcun altro ricordò: "Ci ho venduto della frutta nei pressi del campo di concentramento, le donne a volte potevano uscire accompagnate da un carabiniere". Nell’estate 1940 furono installati in Molise ben cinque campi di concentramento (Boiano, Isernia, Vinchiaturo, Casacalenda e Agnone) per ospitare ebrei, rom, sinti e cittadini di nazioni in guerra con l’Italia. Ad Agnone l’ex convento di San Bernardino, di proprietà della Diocesi che lo usava come villeggiatura estiva del vescovo di Trivento, entrò in funzione il 14 luglio 1940 e, un anno dopo, divenne - questa la dicitura del Ministero dell’Interno - "campo di concentramento per zingari" con una capienza da 150 persone. Dopo la guerra fu adibito a convitto vescovile e, dal 1970, a casa di riposo per anziani. Il velo dell’oblio inizia a rompersi grazie alla classe VB del liceo scientifico di Agnone. Nell’anno scolastico 2000-01, il professor Francesco Paolo Tanzj porta i suoi alunni a intervistare gli anziani del paese e a confrontarsi con i documenti d’archivio. "Emerge - raccontano nel libro frutto della ricerca - una realtà che ci tocca da vicino, che è stata vista, a volte condivisa, da padri, nonni, bisnonni, e di cui però si sono perse le tracce". Tra gli elenchi dei deportati trovano il nome di Milka: inizia un percorso di svelamento di quella memoria cancellata che porterà la donna a tornare ad Agnone nel 2005. Sull’edificio oggi sono ricordati i nomi delle famiglie che vi furono internate, ma il percorso non si è concluso con la posa della targa. Il professor Tanzj continua a far lavorare gli studenti sulla storia locale: quest’anno la classe VA ha intervistato alcuni parenti e nipoti degli internati ad Agnone che ora vivono nel campo sinti di Prato, oltre a svolgere un’indagine sulle condizioni attuali dei rom in Italia. Quella molisana è una delle scuole di diverse regioni coinvolte nel progetto "Insieme. Dal Porrajmos alla strategia nazionale con Rom e Sinti", che ha portato alla pubblicazione, a cura della VA, del libro "Una storia mai finita. Il Porrajmos dei Rom e Sinti dal campo di concentramento di San Bernardino ai giorni nostri". Eppure, nonostante tutto, l’internamento in campi di concentramento continua in Italia a essere colpito da amnesia. Sicuramente è mancata una rielaborazione culturale. Spiega Luca Bravi, il principale storico italiano del Porrajmos: "Quanto è successo ad Agnone è il sintomo più evidente di una condizione duratura: coloro che individuiamo come "gli zingari" non sono percepiti come parte di una storia comune, tantomeno se quella parte di storia di cui sono protagonisti li mette, non dalla parte dei colpevoli, ma dalla parte delle vittime". Non è stato diverso per lo sterminio razziale dei rom e sinti ad Auschwitz: "Nonostante la mole di documenti a disposizione - continua lo storico - ha attraversato anni di rimozione e di silenzio, fino al negare alle vittime della persecuzione gli indennizzi dovuti e fino all’offesa più forte dell’assenza di uno spazio di ascolto per i testimoni della deportazione". Germania. Fabio e Maria, italiani ancora in carcere dopo gli scontri al G20 di Danilo Taino Corriere della Sera, 10 agosto 2017 Il 18enne di Belluno e la fidanzata di 23 anni sono ancora in cella. I genitori del giovane: "Se non è coinvolto in azioni violente, allora siamo orgogliosi di lui". Il G20 di Amburgo del 7 e 8 luglio scorsi non è mai iniziato per Fabio V. Ma non è nemmeno mai finito. Diciotto anni, giacca nera, pantaloni cargo beige, kefiah attorno al collo, il giovane di Belluno fu arrestato ad Amburgo la notte prima dell’inizio del vertice da un poliziotto in tenuta antisommossa. In un luogo del quartiere di Altona - dice la procura - tra cumuli di sassi, bottiglie e petardi, anticipazione delle violenze che ci sarebbero state nei due giorni successivi. Da allora è in carcere, rinviato a giudizio e in custodia cautelare. Ronen Steinke, un giornalista della Süddeutsche Zeitung, gli ha parlato e ha in parte ricostruito il viaggio assurdo di Fabio e della sua fidanzata, Maria R., 23 anni, anche lei di Belluno, anche lei arrestata e ora in una prigione a 35 chilometri di distanza. Era la prima volta che il ragazzo volava all’estero senza i genitori. Mosso da ragioni anticapitaliste, voleva protestare contro Trump, Putin, Erdogan e in fondo anche contro Merkel, che, dice, "è parte del sistema per il quale i poveri diventano più poveri". Non si sa cosa sia successo quella notte. Fabio non può dirlo in pubblico prima del processo. Il dato di fatto è che ora è uno dei 32 ragazzi ancora in carcere, quasi tutti stranieri, ritenuti pericolosi (i tedeschi sono stati per lo più rilasciati): è parte di un gruppo di russi, olandesi, austriaci, francesi, spagnoli, ungheresi, polacchi, senegalesi e altri cinque italiani (la nazionalità più numerosa rimasta); quasi un G20 antisistema. Passa il tempo a sfidare un russo a scacchi e a leggere i Fratelli Karamazov, perché i libri politici non sono consentiti a chi è accusato delle devastazioni che ci furono al summit di Amburgo. La madre lo visita e ha detto che "se non è coinvolto nelle violenze, siamo orgogliosi di lui": i genitori stessi - nota il giornalista tedesco - hanno partecipato in passato a manifestazioni antinucleari e antifasciste, il padre fu processato per renitenza alla leva. La fidanzata di Fabio, Maria, è rimasta l’unica ancora in prigione delle quattro ragazze portate nel suo carcere. Il console a Hannover, Flavio Rodilosso, sta seguendo il caso di tutti e sei gli arrestati italiani per favorire traduzioni, rapporti con gli avvocati, liberazioni su cauzione. Resta il fatto che Fabio, se ritenuto colpevole, rischia dai sei mesi ai dieci anni di carcere, a seconda del reato che gli dovesse essere riconosciuto. Un salto dalla provincia italiana verso il mondo, verso la politica. Forse violento, forse no. Ma che, a 18 e a 23 anni, ha preso una traiettoria assurda. Turchia. L’Europa il coltello di Erdogan di Franco Venturini Corriere della Sera, 10 agosto 2017 Erdogan ricatta, e l’America incassa. Erdogan tiene la Germania in ostaggio, e l’Europa fa finta di niente. La Nato, la Russia, il patto anti-migranti, tutto sembra alimentare la megalomania del Sultano e l’arrendevolezza dell’Occidente. Ma c’è un aspetto, in questa strana resa collettiva, che di questi tempi l’Italia non dovrebbe dimenticare. L’ultima provocazione di Recep Tayyip Erdogan è della fine di luglio: il presidente, divenuto onnipotente vincendo per un pelo il referendum del giorno di Pasqua, ha confermato che la Turchia acquisterà dalla Russia missili antiaerei S-400. Ottimi, i migliori, dicono gli esperti. Ma da quando in qua un importante membro dell’Alleanza Atlantica compra i suoi sistemi d’arma in Russia? La Nato aspetta e tace, forse rimpiangendo quel novembre del 2015 quando i turchi abbatterono un cacciabombardiere russo diretto in Siria. Rimaniamo in campo militare. Il 18 luglio scorso l’agenzia di stampa Andalu, considerata portavoce ufficiale del governo di Ankara, rivela l’ubicazione esatta di dieci basi statunitensi nel nord della Siria. Si tratta di una svista, affermano le autorità turche mentre tutti pensano a una ripicca per l’appoggio Usa ai curdi siriani. E il Pentagono si infuria, ma non va oltre. Ancora. Il governo turco proibisce a una delegazione parlamentare tedesca di visitare la base Nato di Incirlik, dalla quale decollano i Tornado che fanno ricognizione sulla Siria. Berlino prova a insistere, poi cede e trasferisce le sue forze in Giordania. Il problema si ripropone per la vicina base di Konya, e soltanto ieri, dopo una lunga mediazione del Segretario generale dell’Alleanza, i turchi concedono il permesso di visita a una seconda delegazione. La Turchia è una pedina importante nel dispositivo Nato, copre il sudest dell’Alleanza. Soprattutto, l’Occidente teme una deriva turca verso la Russia. Ma siamo sicuri che l’arrendevolezza sia il metodo migliore per calmare i bollori di Erdogan? L’interrogativo si pone con forza ancora maggiore se guardiamo ai flussi migratori provenienti dalla Siria e all’accordo concluso tra Ankara e l’Europa il 18 marzo del 2016. Quella intesa, assai controversa e figlia di una Realpolitik ispirata soprattutto dalla Germania, contribuì in maniera decisiva alla chiusura della rotta dei Balcani, garantendo in cambio a Erdogan una serie di compensazioni politiche e finanziarie (entro la fine dell’anno l’Europa sbloccherà tre miliardi di euro, su un totale di sei garantiti alla parte turca). Il risultato è che Erdogan tiene il coltello dalla parte del manico, e mostra di saperlo usare. Dovete accelerare i negoziati per l’adesione turca come avevate promesso, ripete il Sultano. Ma poi ribadisce che, se il Parlamento la approverà, in Turchia tornerà la pena di morte, ostacolo insormontabile per l’ingresso nella Ue. E accanto a queste punture di spillo che sembrano voler disorientare gli europei ci sono i processi contro giornali e giornalisti accusati di aver appoggiato il tentativo di golpe dello scorso anno, c’è la continuazione degli arresti di massa di presunti congiurati che in realtà sono soltanto oppositori, e c’è soprattutto una volontà di scontro con la Germania (dove vivono tre milioni di turchi) che somiglia sin troppo a una presa di ostaggi. O per meglio dire, alla presa di un ostaggio: Angela Merkel, che in settembre è attesa dalla prova elettorale. La cancelliera parte favorita, ma cosa accadrebbe se Erdogan desse libertà di passaggio ai migranti siriani e afgani disattendendo l’accordo del marzo 2016? Uno tsunami migratorio potrebbe investire la Germania malgrado gli ostacoli disseminati lungo la rotta balcanica, e allora le urne impazzirebbero. Verosimilmente Erdogan non aprirà i cancelli perché non ha interesse a farlo, ma il piacere che egli sembra provare nel gestire il tacito ricatto verso il governo di Berlino risulta poco rassicurante. Sono ormai nove i tedeschi arrestati in Turchia per "reati" connessi alla difesa dei diritti umani. E Frau Merkel, con tutte le cautele del caso, ha cominciato a reagire per non essere accusata di eccessiva arrendevolezza. Ma la minaccia di sospendere investimenti o accordi militari non spaventerà di certo il Sultano. Piuttosto, prende quota con il passare delle settimane un quesito che riguarda noi italiani: se tanto viene fatto, tanto viene subito e tanto viene speso da tutti gli europei per tenere chiusa ai migranti la via balcanica, e dunque per proteggere i confini della Germania e più in generale quelli dell’Europa centro-settentrionale, non è forse ingiusto, anzi scandaloso, che l’Europa guardi con scarso interesse e tiepido impegno alle difficoltà dell’Italia alle prese con la rotta mediterranea? E non è forse vero che anche l’Italia si avvicina a una prova elettorale, meno imminente ma più incerta di quella tedesca? L’inaccettabilità delle mosse di Erdogan ci svela anche gli angoli oscuri dell’Europa. Entrambi dovranno scegliere, quando la Merkel avrà vinto le sue elezioni: la cancelliera dovrà capire, assieme a Macron, che non ci sarà l’annunciato rilancio europeo senza una politica unitaria sulle migrazioni. E il Sultano dovrà decidere da che parte stare. Perché la passività ha un limite. Stati Uniti. Nei nuovi muri la nostalgia della nazione che fu di Tommaso Cerno L’Espresso, 10 agosto 2017 La barriera di Trump, e le altre che sorgono in Europa, sono il sintomo di una regressione democratica: mettiamo frontiere per sentirci al centro del mondo. La scossa che immobilizza Trump, insolente e minaccioso presidente americano, è la metafora dei tempi. Nella società dell’istante, siamo chiamati ad esprimere, pur senza i necessari strumenti, un giudizio sul giusto esercizio dell’autorità del potere con cui qualcuno, eletto o nominato, regge uno Stato. Il giudizio popolare, o almeno di quella parte del popolo che ancora si esprime, spinge il potente "spogliato" del suo ufficio, guardato come fosse uno di noi, a ricercare nella semplificazione, nella regressione a infanzia democratica, risposte che si trovano invece nell’età adulta di una società. Si chiama "psicopolitica", la puerile presunzione di essere il centro del mondo perché l’ampiezza di questo mondo la decidi tu con i confini. Incurante del fuori. Il problema è che questa visione della politica non ha in sé la forza di sopravvivere ai bisogni dei cittadini ormai armati contro la rappresentanza. La colpa è di un muro. Non tanto delle reti metalliche fra Usa e Messico. La colpa è del simbolo che quel muro incarna. Il muro è per la politica di oggi la regressione all’infanzia felice dello stato nazione. Qualcosa di molto più antico ed esaurito di quanto si pensi. Nel 1961, quando a Berlino veniva eretto il Muro che avrebbe diviso per quasi trent’anni la capitale tedesca in due, e con lei il pianeta, vera e propria fortificazione postbellica, materiale e ideale, quel piano fallimentare fu pensato dai più deboli: i comunisti della Germania dell’Est - legati al dominio sovietico - nell’illusione prima di impedire all’Occidente di entrare nel proprio sistema di pensiero, poi di nascondere il proprio fallimento. Finì come tutti sappiamo. La copertina sul confine tra Stati Uniti e Messico, diventato il simbolo del presidente Donald Trump e delle sue debolezze politiche sempre più evidenti: un racconto da entrambe le parti del confine con le firme di Alberto Flores D’Arcais e Daniele Mastrogiacomo; l’analisi di Marco Damilano sulla "guerra" di Paolo Gentiloni e il difficile rapporto tra Italia e Francia su Libia, Fincantieri e non solo; lo scontro finale su Banca d’Italia che si prepara a cambiare governatore spiegata da Luca Piana. Il direttore Tommaso Cerno mostra cosa trovate sul nuovo numero del settimanale in edicola da domenica In questo numero dell’Espresso ci occupiamo dei nuovi muri. Lo facciamo partendo da quello di Trump, simbolo della sua vittoria contro i Clinton. Quel muro è già l’emblema del fallimento di un presidente antistorico e di un modello desueto. Eppure l’Europa lo imita. Anche qui la guerra del Mare nostrum, fatta di proclami e odio verso l’invasore, è un muro, il braccio di ferro nella balera politica di nazioni allo stremo. Senza idee e senza modelli di sviluppo. È il nostro modo truce di dirci esausti. Il nostro incanto infantile per ciò che fu. E che rivede nella nazione la culla. E pensare che, di fronte allo scenario italiano così desolante, avevamo creduto (o sperato) che almeno la Francia avesse imboccato la strada giusta. Ma non pare sia così. Macron si accasa nella stessa baracca diroccata di un’Europa di altri tempi. E compie nei fatti ciò che a parole negava, parla di interesse di patria e di nazione armata, baluardo di una strategia muscolare che non porterà alla definizione di una "natura politica" del nuovo continente, perché fra sconosciuti e stranieri non si usa. A questo punto, perfino a Paolo Gentiloni, mite e occasionale premier di un paese in stato di commissariamento democratico, è toccato ergere un muro. E inventarsi una guerra. Una guerra al nostro futuro, il Nord Africa. Una guerra dove un paese in fasce come è tornata ad essere l’Italia, attaccata all’Europa e ai suoi prestiti come un bambino al seno della madre, frigna e si dimena. Sperando che stavolta ci vada dritta. E che al tavolo dei presunti vincitori lascino un posto anche per noi. Di lato. Per presentarci al voto con il nostro muro da esibire. Cambogia. Confermata in appello condanna per un’attivista per il diritto alla casa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 agosto 2017 Ieri una corte d’appello della Cambogia ha confermato la condanna a 30 mesi di carcere nei confronti di Tep Vanny, una delle attiviste per il diritto alla casa più coraggiose e impegnate del paese. Arrestata proprio 12 mesi fa, nel febbraio di quest’anno Vanny era stata condannata a due anni e mezzo di reclusione e a risarcimenti per circa 3000 euro per aver preso parte, nel marzo 2013, a una protesta pacifica nei pressi della residenza del primo ministro Hun Sen: all’epoca migliaia di famiglie erano state sgomberate con la forza da un quartiere della capitale Phnom Penh per far spazio ad abitazioni di lusso. Nonostante il carattere pacifico della manifestazione, Vanny era stata giudicata colpevole di aver aggredito il personale di sicurezza a guardia della residenza di Hun Sen. Il contrario di quanto accaduto: era stata lei ad essere aggredita mentre cercava di consegnare una petizione ai collaboratori del primo ministro. Vanny era stata condannata già in altre due occasioni, sempre per aver preso parte o coordinato proteste pacifiche contro gli sgomberi forzati. In altre occasioni, era stata minacciata, picchiata e sottoposta a periodi di fermo di polizia. A Tep Vanny e alle iniziative pacifiche delle attiviste cambogiane per il diritto alla casa è dedicato il bellissimo documentario "Mommy’s Land", di Garret Atlakson, premiato quest’anno da Amnesty International al Festival Siciliambiente di San Vito lo Capo. La campagna di Amnesty International per ottenere il rilascio di Tep Vanny, dunque, deve andare avanti: qui l’appello da firmare.