Fatta la riforma, gabbato il ministro. Restiamo il paese della carcerazione preventiva di Maurizio Tortorella Tempi, 9 settembre 2016 Fin dall’inizio, uno si domanda se la vera vergogna siano i dati in sé, oppure il fatto che appena un tribunale su tre abbia deciso di rispondere al ministero della Giustizia. Perché la richiesta del ministro Andrea Orlando era sacrosanta: Orlando aveva chiesto agli uffici giudiziari di tutta Italia di raccontare come abbia funzionato la custodia cautelare nell’ultimo anno. Non era una curiosità peregrina. Il ministro voleva sapere quali effetti avesse avuto la legge 47 del 16 aprile 2015, entrata in vigore lo scorso 8 maggio, che ha introdotto significative modifiche al codice di procedura penale rendendo più stringenti le regole che stabiliscono la custodia in carcere. Ed è la stessa legge 47 che prevede l’analisi di funzionamento, perché il governo deve presentare una relazione al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno. Ebbene, a Orlando hanno (vergognosamente) risposto appena 48 uffici giudiziari su 136: prevalentemente si tratta di tribunali piccoli, l’unica eccezione la fa Napoli. E soltanto sette uffici corrispondono a direzioni distrettuali antimafia. Passando poi ai dati, la vergogna aumenta. Sulle 12.959 misure cautelari personali disposte da questi 48 tribunali, la custodia cautelare in carcere è stata decisa in 6.016 casi: il 46 per cento del totale. Gli arresti domiciliari sono stati 3.704 (il 29 per cento dei casi), l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria ha riguardato altri 1.430 casi, l’11 per cento. Gli avvocati penalisti, associati nell’Unione delle camere penali, sono più che delusi: "Il risultato dell’indagine - protesta Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente - è così parziale da non consentire, anche per via della natura del tutto casuale della selezione del campione, di conferire a quel dato un significato in qualche modo rappresentativo della realtà". Ma i penalisti correttamente lamentano che resta altissimo (nonostante il commento favorevole del ministero), il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Del resto, che anche dopo le restrizioni della legge 47 poco meno della metà del totale delle misure porti un cittadino in cella è statistica letteralmente impensabile per gli altri paesi europei: e questo avviene nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione del carcere da parte del giudice come extrema ratio. E il braccialetto elettronico? A leggere le tabelle del ministero, inoltre, si comprende che tra le oltre 6 mila custodie cautelari disposte in carcere quelle determinate da una condanna definitiva sono state soltanto 845, una su cinque. Quindi i detenuti che in questi ultimi mesi sono andati a occupare una cella sono in stragrande maggioranza imputati in attesa di giudizio: presunti innocenti. E sempre interpretando le tabelle si capisce che in un solo anno (con durate che non è dato conoscere) sono maturate le condizioni per quasi 200 ingiuste detenzioni presso il solo tribunale di Napoli. In tutto questo, viene da domandarsi che fine abbia fatto il mitico "braccialetto elettronico" di cui si favoleggia da decenni. In base alle ultime statistiche, in Italia dovrebbero esisterne 2 mila, ma non si sa se vengano tutti utilizzati, né come. Aveva fatto scalpore, a metà del 2015, il caso di un detenuto: il giudice aveva ordinato di farlo uscire di prigione e dargli gli arresti domiciliari, ma la carenza di braccialetti lo aveva inesorabilmente respinto in cella. In compenso, i braccialetti costano 11 milioni di curo l’anno (5.500 euro l’uno), che vanno a sommarsi ai 110 milioni circa che dal 2001 al 2011 lo Stato aveva versato a Telecom, titolare del servizio, per la "sperimentazione" su 114 braccialetti. Carceri minorili, le due Italie: l’80% dei ragazzi è del Sud di Francesco Lo Dico Il Mattino, 9 settembre 2016 Sono i 240 meridionali reclusi oggi nei sedici istituti penitenziari minorili italiani. E sono più irredimibili degli altri. L’amara realtà emerge dai numeri: su 503 detenuti oggi ospitati dalle carceri minorili nazionali, al netto di 224 stranieri, sono attualmente reclusi 279 italiani. Ma di questi, soltanto 40 provengono dal Centro e dal Nord, mentre gli altri 239 sono tutti giovani del Sud. Otto su dieci. Viene dal Meridione l’ottanta per cento dei giovani italiani che oggi guarda il mondo di fuori dal carcere. E per buona parte di loro, le speranze di uscirne presto per accedere a misure alternative di reinserimento, resta una chimera. In fondo è normale, ci hanno detto in molti. Dietro le sbarre ci sono più meridionali perché al Sud c’è la ‘ndrangheta, c’è la mafia, c’è la camorra. Al Sud si abusa senza scrupoli della manovalanza minorile, ergo i meridionali se la sono cercata. Non fosse che spesso, le risposte più semplici sono quelle più sbagliate. "In realtà - spiega al Mattino Alessio Scandurra, curatore insieme a Susanna Marietti del Terzo Rapporto di Antigone sugli Ipm - la selezione dei minori destinati al carcere non avviene purtroppo in base alla pericolosità dei ragazzi o alla gravità delle loro condotte". "A prevalere - chiosa - non sono i reati più gravi ma i casi più estremi. E cioè quelli per i quali si suppone un recupero più difficile". La nostra Costituzione prescrive all’articolo 27 che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Il carcere minorile dovrebbe pertanto essere, più di quello per gli adulti, un luogo di transito verso nuove opportunità di redenzione. Opportunità come la messa alla prova, pensata nel 1988 per i minori e dal 2014 applicata anche agli adulti con ottimi esiti. L’istituto non è soltanto un’alternativa al carcere, ma anche allo stesso processo: si tratta in pratica di inserire il ragazzo in una comunità e vedere come si comporta. Se tutto procede nel verso giusto, si può arrivare all’estinzione del reato. I risultati sono stati finora entusiasmanti: nel 2014 la messa alla prova ha salvato l’80 per cento dei minori coinvolti. Ma se recuperare i giovani del Nord è più facile per via di una maggiore disponibilità di risorse, di chance lavorative più consistenti e di contesti operativi più favorevoli, al Sud l’impresa è decisamente più ardua. "Nelle periferie delle grandi città del Sud - osserva Isaia Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli - il giovane si muove in un contesto aggregato in cui la violenza è più facilmente replicabile. Non così al Nord, dove i reati dei giovani minorenni sono più spesso frutto di singoli "scoppi" più facili da risanare". L’abitudine a delinquere è più difficile da sradicare. "I disperati delle periferie delle grandi città del Sud hanno a disposizione meno alternative, meno risorse e meno supporto delle famiglie", sintetizza Scandurra. Si chiama carcere la risposta più frequente che i giovani meridionali si sentono dare. Si chiama così per via di ragioni quantitative, qualitative e logistiche. A fronte di un elevato tasso di criminalità minorile, le strutture di accoglienza del Sud sono nel complesso insufficienti ad assorbire la domanda, e assai meno variegate di quanto non richiederebbero le esigenze riabilitative dei singoli minori. "Anche se presso gli enti locali c’è attenzione - chiarisce l’operatore di Antigone - si fa estrema fatica a trovare collocazioni che rappresentino per i giovani meridionali delle vere opportunità". E ci sono poi difficoltà logistiche sovente insuperabili. Ricollocare un minore del Sud nel suo territorio di appartenenza è molto rischioso, in quanto la pressione dell’ambiente circostante nel quale ha sempre navigato può minare il percorso di recupero. E trasferirlo in una comunità del Centro Nord è altrettanto impervio. "Sia perché trapiantare un ragazzino a 500 chilometri da casa è complesso - racconta Alessio Scandurra - sia perché le comunità centro-settentrionali temono a volte che l’arrivo di un minore dai precedenti criminali "importanti" possa turbare gli equilibri degli altri ospiti e innescare meccanismi di leaderismo, sopraffazione ed emulazione". E non va poi sottovalutato che a differenza degli adulti che accedono a misure alternative, i minori non possono lavorare stabilmente, e non possono permettersi una casa in affitto. Ecco perché per loro diventa più difficile accedere a percorsi professionali e formativi fuori dalla Regione di origine. Nelle more di una vera opportunità di riscatto, l’esito è spesso scontato. Da luogo di transito dai trascorsi criminosi a orizzonti di rinascita, l’istituto penitenziario minorile diventa per i giovani meridionali una specie di limbo. "L’Ipm non è il problema in sé - annota Scandurra l’Ipm diventa un problema quando diventa la risposta". Se si osservano le serie storielle, e le si rapportano a quelle di Paesi come gli Stati Uniti, sembra emergere una verità indubitabile: la giustizia minorile funziona, e la carcerazione è divenuta nel corso degli anni un fenomeno residuale. Ma non c’è da cullarsi troppo sugli allori. "Le molte retate nei quartieri napoletani a rischio - spiega l’ispettore Ciro Auricchio, segretario regionale della Uspp Campania (unione sindacale polizia penitenziaria) hanno stravolto gerarchie e strategie della criminalità organizzata. Dopo l’arresto di numerosi capi clan di spicco, i giovani detenuti nelle carceri campane sono aumentati a dismisura. I minori sono diventati schegge impazzite che guardano alla detenzione come a un segno di potenza da esibire". Gli effetti, come dimostra la recente rivolta nel carcere di Airola, sono facilmente intuibili. "A causa della legge del2014 che ha esteso ai venticinquenni la possibilità di restare nel carcere minorile - spiega Auricchio - gli equilibri degli Ipm sono cambiati. Succede sempre più spesso che piccoli boss dalla personalità ormai strutturata intrattengano pericolosi rapporti con gli altri ospiti adolescenti". "Se non si provvede a destinare gli ultra ventenni a circuiti ad hoc - avverte Auricchio - c’è il serio pericolo di innescare sempre più frequenti meccanismi di emulazione, e di spezzare quindi il percorso riabilitativo di chi è più piccolo ed ha ancorala possibilità di ricominciare da capo". Eppure, proprio dalla Campania delle paranze, dei minori con il kalashnikov, delle periferie dove è sempre buio, un raggio di speranza arriva e dovrebbe far riflettere chi dice che m fondo, al Sud, non c’è niente da far Ormai da sei anni, all’interno del carcere minorile di Nisida, il progetto "Finché c’è pizza c’è speranza" dell’Associazione Scugnizzi riscuote grande successo tra i giovani detenuti. "A molti di loro abbiamo insegnato un mestiere - dice il presidente Antonio Franco - a oggi abbiamo reinserito nella società venti giovani". Grazie al sostegno dei fratelli La Bufala, alcuni ex detenuti oggi fanno i pizzaioli in ristoranti del celebre marchio o hanno intrapreso attività di successo. "È il caso di ragazzi come Daniele e Vincenzo - racconta Franco-molti dicevano che erano irrecuperabili ma noi abbiamo creduto in loro. Ciò che questi ragazzi cercano, è qualcosa di molto più concreto di astrusi progetti formativi. Vogliono un lavoro, dei soldi puliti da spendere per i loro bambini, e qualcuno che creda in loro". Daniele è oggi un nome della pizza, un vero fuoriclasse che ha partecipato anche ai campionati mondiali del settore. Vincenzo, orfano ed ex criminale, è stato chiamato a Città del Messico come maestro pizzaiolo per la Festa nazionale del Paese. "Bisogna tagliare il cordone ombelicale e stargli vicini, è tutto qua", dice Franco. "Non insegnate ai bambini - cantava Giorgio Gaber - date fiducia all’amore. Il resto è niente". Intervista a Francesco Cascini (Dgm): "detenuti adulti con i minori, il sistema funziona" di Francesco Lo Dico Il Mattino, 9 settembre 2016 Il caso di Airola ha acceso i riflettori sui carceri minorili. Ma il capo del Dipartimento della giustizia minorile, Francesco Cascini, invita a non drammatizzare. "Si tratta di episodi rari, che non possono consentirci di sottrarre un’importante opportunità di recupero di giovani che provengono da realtà svantaggiate". Non è il caso tuttavia di pensare a qualche modifica, vista la compresenza di 14enni e 25enni? "No. Le fasce d’età compresenti nelle carceri minorili pongono in linea generale qualche problema di gestione che i direttori degli istituti devono sapere gestire. Ma su questi aspetti c’è da parte del ministero grande attenzione e piena consapevolezza che il sistema è in grado di ammortizzare i rischi. E laddove si dovessero registrare dei problemi siamo in grado di intervenire. Lo spirito della norma risponde all’esigenza di dare continuità al trattamento che si comincia sul minore che ha compiuto un reato. Trasferire il ragazzo in un carcere per adulti dopo avere investito su di lui può talvolta rivelarsi un errore: si rischia di vanificare gli effetti di un percorso di recupero che talora dura armi". Airola dimostra però che qualche insidia esiste. "A ben guardare, l’evento di Airola non è legato alla questione della convivenza tra fasce d’età diverse. Al momento dell’incidente, erano presenti nella struttura 37 detenuti, ma soltanto cinque di loro avevano più di 21 anni. Di questi cinque, soltanto due hanno preso parte alla protesta, peraltro rivestendo un ruolo marginale. Le maggiori responsabilità della rivolta sono attribuibili a diciottenni che sono già stati trasferiti". Ma soggetti ad alto rischio possono indurre nei più piccoli una certa fascinazione. Non è una convivenza esente da rischi. "Non c’è convivenza tra quattordicenni e presunti boss, in quanto vivono in gruppi separati. Se la norma non ci fosse stata, gli episodi ai quali abbiamo assistito ad Airola, che pure sono gravi e non vanno minimizzati, si sarebbero verificati comunque". Non è meno allarmante. È comunque difficile gestire una media di 50 ospiti di cui 30 maggiorenni con otto educatori, come accade ad esempio a Nisida. Non ci sono risorse troppo limitate? "Il sistema penitenziario minorile italiano è caratterizzato da una grande apertura e offre ai ragazzi detenuti molte risorse. Avremmo sempre bisogno di qualcosa in più, è chiaro, ma le opportunità offerte non sono certo ridotte o inadeguate. E vale la pena offrirle anche e soprattutto in ambienti difficili fortemente penetrati dalla criminalità organizzata. E evidente che un approccio aperto, caratterizzato da una gestione comunitaria che si avvale di attività fatte all’esterno delle camere detentive, talvolta può creare disordini. Ma fortunatamente sono rari. E non devono certo indurre a una rinuncia. Ghettizzazione e isolamento non sarebbero la risposta giusta". Il terzo rapporto di Antigone mette in luce profonde differenze sui metodi di gestione. In alcuni carceri si applica l’isolamento, e in altri no. Non è ora di dar vita all’ordinamento penitenziario minorile che attende di essere realizzato da quarant’anni? "Sarebbe auspicabile, ma il fatto che non c’è ancora determina la necessità di applicare le norme che ci sono in modo intelligente e adeguato alle singole situazioni che si accertano. Qualche differenza nelle modalità di azione dei singoli istituti esiste. Ma stiamo lavorando per dare linee guida il più possibile omogenee. Resta il fatto che le regole ci sono, e chi se ne discosta ne paga le conseguenze". I minori, dicono molti operatori, avrebbero bisogno di un sistema a parte. Non ha intenzione di fare nulla il ministero della Giustizia? "Il ministro della Giustizia ha introdotto per la prima volta nella legge delega sul processo penale otto punti dedicati al processo penale minorile. Il ministro Orlando ha dedicato al tema la massima attenzione". A Nisida e in altri penitenziari del Sud si lamenta la presenza di pochi educatori. È tutto sotto controllo? "A Nisida non sembrano emergere in questo momento particolari problemi. Ma ciò detto, nessun istituto penitenziario è immune da rischi. Gli ospiti delle carceri minorili sono spesso adolescenti afflitti da problemi psichiatrici e di tossicodipendenza, spesso reduci da esperienze drammatiche". E sono presenti quasi esclusivamente meridionali e stranieri. Si potrebbe pensare a qualche forma di discriminazione. "È vero che molti dei ragazzi detenuti nelle carceri minorili provengono dal Sud. Ma è in qualche maniera inevitabile, visto che si tratta di giovani legati a realtà spesso svantaggiate come ce ne sono nel Meridione. E tuttavia anche a Napoli la messa alla prova conta su numeri importanti. Dire che "vanno in galera" solo i ragazzi del Sud, e che quelli del Nord ottengono invece misure alternative, sarebbe un’equazione sbagliata". Le opzioni a disposizione del minore da recuperare sono al Sud più ridotte. "È ovvio che le misure esterne al carcere presuppongono un territorio attrezzato ad accogliere. Le difficoltà sono dovute spesso alla debolezza del territorio e degli enti locali, dove le opportunità lavorative latitano per molti. Un pò di difficoltà ci sono e sarebbe ipocrita negarlo. Ma gli sforzi messi in campo hanno prodotto risultati apprezzabili e occorre continuare a lavorare". Lotta alla radicalizzazione nelle carceri, o caccia alle streghe? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2016 I criteri per individuare i soggetti pericolosi rischiano di essere poco efficaci. La lotta contro la radicalizzazione in carcere potrebbe trasformarsi in una caccia alle streghe. A denunciarlo è stato il garante dei detenuti del Comune di Parma, Roberto Cavalieri. Ha espresso le sue perplessità rispetto alla notizia che il Dap ha ordinato di monitorare quattro o cinque detenuti stranieri ristretti nel carcere di Parma. Il garante ha sottolineato che il sistema di monitoraggio "rischia di essere una caccia alle streghe e che diventi una corsia preferenziale per le espulsioni". Poi ha continuato spiegando che "il solo dire Allah Akbar e il solo alzare il tono potrebbe comportare l’attenzione nei confronti del detenuto che l’ha detto". Sull’ultimo numero di Limes appare un’intervista al dirigente penitenziario di Rebibbia dalla quale emergono i criteri utilizzati per "combattere il reclutamento di terroristi nelle nostre carceri". La prima fase consiste nell’osservazione della pratica religiosa. Ovvero verificare la modalità della preghiera, l’eventuale intensificazione o diminuzione rispetto all’inizio e la preferenza all’isolamento durante la recitazione. L’altro criterio consiste nell’osservazione dell’aspetto esteriore come la crescita della barba o l’uso di abiti tradizionali. Nell’intervista il dirigente penitenziario spiega che valutano anche il rifiuto della tv nella cella. È possibile valutare la differenza tra la pratica religiosa di un buon musulmano e il terrorismo? Sempre nell’articolo di Limes viene riportato un episodio accaduto recentemente a Rebibbia. Nel corso di una perquisizione ordinaria, sono stati rinvenuti dei fogli manoscritti in lingua araba, affissi alle pareti della cella occupata da un detenuto egiziano. Immediatamente rimossi, sono stati trasmessi all’ufficio per l’attività ispettiva e del controllo presso il Dipartimento amministrazione penitenziaria che ha provveduto a classificare il soggetto quale "segnalato", in attesa di decifrare il contenuto delle scritte. La traduzione a cura dell’interprete del Nucleo Investigativo Centrale, un consulente tecnico accreditato presso la procura, ha chiarito che si tratta di meri versi coranici. Il detenuto è dunque stato estromesso dal terzo livello di osservazione. L’analisi del fenomeno distingue i soggetti a rischio di radicalizzazione violenta e di proselitismo in tre livelli di pericolosità: monitorati, attenzionati e segnalati. A monitorare costantemente il fenomeno della radicalizzazione è il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria che acquisisce quotidianamente le informazioni da tutte le sedi penitenziarie. Il Nic viene considerato un corpo d’eccellenza dell’apparato penitenziario. Nasce con decreto del ministro della Giustizia del 14 giugno 2007 ed è posto nell’ambito dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Svolge le proprie funzioni, sotto la direzione dell’Autorità Giudiziaria, su fatti di reato commessi in ambito penitenziario o, comunque, direttamente collegati ad esso, rappresentando così il maggior organo di controllo e di investigazione della Polizia Penitenziaria, secondo quanto previsto dall’art. 55 del codice di procedura penale. Il responsabile del Nic è nominato dal Capo del Dipartimento che lo individua tra il personale appartenente ai ruoli direttivi della Polizia Penitenziaria, il quale relaziona direttamente al Direttore dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo. Nel corso degli anni il Dap ha adottato queste misure di controllo a carattere preventivo attraverso il monitoraggio e l’analisi del fenomeno della radicalizzazione e del proselitismo nelle carceri. Ma forse è un fenomeno da studiare e prevenire nel migliori dei modi possibili, senza sfociare in astratta discriminazione. Proprio per questo si è insediata a Palazzo Chigi la commissione di studio con il compito di esaminare lo stato attuale del fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista in Italia. La prima riunione è stata introdotta dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e dal sottosegretario Marco Minniti, Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica. La commissione è indipendente e avrà durata di 120 giorni, al termine dei quali redigerà una relazione finale. La prescrizione torna in aula: ma un emendamento di Casson preoccupa il governo La Repubblica, 9 settembre 2016 Possibile la fiducia sul testo modificato in commissione in base all’accordo di maggioranza. Il senatore della minoranza Pd e M5s vogliono lo stop dopo il primo grado. In Senato riparte l’esame della riforma della prescrizione, un provvedimento che rischia di movimentare la vita del governo viste che in maggioranza le posizioni sono molto lontane, con Ap da una parte e una parte del Pd dall’altra. Politicamente la cifra del provvedimento riguarda l’accordo di mediazione faticosamente raggiunto nella maggioranza prima della pausa estiva sulla prescrizione, accordo che ha consentito di incardinare il testo in aula, appunto. L’intesa conferma un aumento dei termini della prescrizione di 3 anni per tutti, ma rispetto al testo della Camera cambia la modulazione, che ora è di 18 mesi tra il primo grado e l’appello e altrettanti tra l’appello e la Cassazione. Per i reati di corruzione l’intesa conferma inoltre l’aumento dei termini, ma il tetto viene fissato a 18 anni (dai 21 della Camera). E gli emendamenti al testo in aula sono quasi 400, di un centinaio solo dal Movimento 5 Stelle. Ma quello su cui si concentra l’attenzione dei senatori, del governo e degli osservatori è quello presentato dal relatore Felice Casson (Pd) e firmato "da altri 6/7 Dem": la proposta di modifica prevede che ci sia lo stop definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado, misura da sempre contestata da Ap che invece trova l’accordo del M5s, che ha presentato un emendamento analogo. Come spiega il senatore 5 Stelle Maurizio Buccarella: "Continuiamo a pensare che in tema di prescrizione dei reati, la misura più efficace sarebbe quella di fermarla con la sentenza di condanna di primo grado". Se quindi arrivasse al voto questa norma, probabilmente con voto segreto, potrebbe scattare un asse Pd-M5s che fa tremare il governo, perché manderebbe in soffitta il sofferto accordo con Ap. Ed è forse proprio per evitare "possibili agguati" che il governo starebbe pensando di chiedere la fiducia sul ddl. Barellieri-cancellieri, è rivolta nei tribunali. Il Ministero "saranno formati" Agi, 9 settembre 2016 I dipendenti della Giustizia insorgono contro il fenomeno dei "barellieri diventati cancellieri" e dal ministero di via Arenula viene l’assicurazione che saranno garantite "formazione adeguata, revisione dei profili professionali e dell’intera pianta organica del personale amministrativo" per smontare quella che viene definita "una polemica sterile e fine a se stessa". In un’intervista all’Agi, la presidentessa della Associazione dipendenti della giustizia italiani (Adgi), Cinzia Pietrucci, ha denunciato le anomalie del trasferimento negli uffici giudiziari di quasi 350 persone provenienti da amministrazioni in via di smantellamento, come le Province e la Croce Rossa. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha inviato ai vertici dell’Organizzazione giudiziaria le linee di intervento con le quali favorire l’inserimento delle nuove risorse, reclutate "attraverso bandi di mobilità volontaria, mobilità obbligatoria e riqualificazione e che significano una importante immissione di nuove risorse dopo anni di sostanziale stagnazione". La cronica carenza di personale degli uffici giudiziari è fenomeno nazionale, che però assume proporzioni allarmanti a Roma. Se la scopertura media è del 20%, tra Piazzale Clodio e Viale Giulio Cesare si registrano picchi del 34%. Con conseguenze immaginabili per la durata dei procedimenti. L’idea di colmare i vuoti trasferendo personale da enti in via di smantellamento "rientra in una pessima strategia ministeriale", denuncia un direttore amministrativo del Tribunale penale di Roma con trent’anni di carriera alle spalle. E proprio la carriera è una delle note dolenti della vicenda che, da Milano a Palermo, scuote gli uffici giudiziari. In molto casi i 350 dipendenti di cui è stato disposto il trasferimento in procure e tribunali non ha il livello di istruzione richiesto dal concorso con cui sono stati assunti i ‘veteranì. Il rischio, insomma, è che la pressione di un lavoro svolto da personale numericamente insufficiente, venga alimentato dall’affiancamento con persone prive di qualunque formazione. Una certezza, più che un rischio, come testimonia il direttore amministrativo sentito dall’Agi. "Abbiamo pensato di mandare uno di loro in udienza, ma quando gliel’abbiamo chiesto ha risposto "a signò, io c’ho la quinta elementare presa quarant’anni fa". O un’altra, proveniente dalla Provincia, che ha chiesto stupita: "ma voi non vi fermate mai?". No: non possiamo fermarci in uffici in cui quando non è in ballo la libertà personale si gestiscono comunque pratiche che possono determinare la rovina di una persona". L’iniziativa dei sindacati segna il passo e per questo è nata l’Adgi, "uno studio commissionato dal Comitato unico di garanzia all’università La Sapienza ha sancito che il livello di stress determinato dalla carenza di organico è insostenibile. Se a questo si aggiunge che la nostra amministrazione è l’unica a non aver avuto la riqualificazione con i corsi/concorsi previsti dal contratto del 1998-2001, si capisce con quanta frustrazione si lavori in questi uffici". Il rischio è che all’esterno appaia come una guerra tra poveri e per questo Pietrucci assicura: "non abbiamo nulla contro queste persone, ma hanno una professionalità che non c’entra nulla con la giustizia. Se fossero stati formati dall’amministrazione centrale e messi in condizione di essere operativi, sarebbe stato un conto. Ma c’è anche da domandarsi quanta voglia di imparare possano avere persone con un’età media di 50 anni". Quello che ha fatto traboccare il vaso è il fatto che siano stati equiparati - grazie alle le tabelle della funzione pubblica - a personale che negli uffici giudiziari ha la laurea o quanto meno un diploma di scuola superiore. L’ormai celebre caso dei ‘barellieri diventati cancellierì. "Siamo fortemente discriminati anche sul fronte pensionistico" spiega Pietrucci, "e i nuovi entrati con competenze bassissime e professioni che prima erano equiparate a operai, arrivano con un livello superiore a quello di gente che qui lavora da anni". Una mossa che scontenta tutti, insomma, e che non risolve il problema. A fronte dei 9.000 posti vacanti nella giustizia a livello nazionale, dice Pietrucci, tra mobilità volontaria e non, ne dovremmo incamerare 3.000, ma siamo ancora a meno di mille. Se nessuno vuole venire in questi uffici, un motivo ci sarà". Dal 1 settembre hanno preso servizio 344 persone, di cui 73 provenienti dagli "enti di area vasta" e 286 dalla Croce Rossa Italiana. "L’equiparazione delle loro mansioni e profili è avvenuta ai sensi della normativa vigente" si legge in una nota del Ministero che sostiene di aver "già programmato percorsi di formazione specifica." "Con la direttiva firmata in questi giorni dal Ministro Orlando - continua il comunicato - al nuovo personale sarà assicurata la più idonea e adeguata formazione e ciò sarà fatto valorizzando le competenze dello stesso personale diffuse nei vari uffici sul territorio e facendo ricorso a più innovativi ed agili strumenti di formazione. In più saranno rivisti e rimodulati i profili professionali, riconsiderata la definizione di alcune mansioni e inserite nuove figure professionali attualmente non presenti nell’amministrazione della giustizia. Il tutto secondo un piano di linee di intervento - conclude la nota - dettato ai capi degli uffici giudiziari che completa efficacemente il complessivo quadro di disposizioni legislative in materia di personale già avviato. Proprio per evitare che in udienza arrivi personale non all’altezza di starvi". Mafie, Don Ciotti ai vescovi: "Basta inchini ai boss" di Andrea Gualtieri La Repubblica, 9 settembre 2016 Il manifesto sottoscritto da sacerdoti di Libera propone ai responsabili delle diocesi e a tutti i parroci di firmare una "carta di responsabilità e impegno". Un manifesto sottoscritto da don Luigi Ciotti e da un gruppo di sacerdoti di Libera chiama in causa la Chiesa italiana sui temi della lotta al fenomeno mafioso e alle sue infiltrazioni. A più di un anno dallo shock del funerale dei Casamonica e dopo la sequenza di "inchini" che hanno turbato le processioni in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, viene proposto ai vescovi e a tutti i parroci di sottoscrivere una "carta di responsabilità e impegno" nella quale sono elencati 23 punti di mobilitazione attiva. Si chiede di "non tacere dinanzi alle ingiustizie e ad ogni tipo di illegalità", di vigilare perché i riti sacri "non si trasformino in esaltazione di personaggi potenti e boss mafiosi e in mortificazione di poveri ed ultimi", di sostenere le vittime innocenti nella loro "richiesta di giustizia e di verità" e di "accompagnare il cammino di coloro che intendono pentirsi". E poi di "contrastare ogni forma di corruzione" e denunciare connivenze "anche istituzionali" che agevolano gli affari delle ecomafie. Il testo è stato redatto al termine di un incontro organizzato da don Ciotti nel monastero di San Magno a Fondi (Latina) e segna le coordinate dell’impegno di Libera attorno al quale i preti in prima linea chiedono il coinvolgimento di tutti i cattolici. "Ci sentiamo sollecitati dall’azione e dal magistero di papa Francesco", si legge nella premessa. Bergoglio il 21 marzo 2014, partecipando alla giornata per le vittime innocenti di mafia organizzata proprio da Libera, aveva rivolto un appello agli uomini dei clan: "Convertitevi o per voi sarà l’inferno". Lavoro, sanatoria per il reato istantaneo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2016 Per le infrazioni in materia di lavoro ammenda evitabile pagando una sanzione amministrativa Per "chiudere" l’illecito occorre eseguire la prescrizione degli ispettori. Paghi la sanzione amministrativa? Esegui una prescrizione imposta dagli ispettori del lavoro? Estingui in questi modi la contravvenzione delle norme in materia di lavoro, anche quando il reato è istantaneo e non si possono più effettuare regolarizzazioni. Se la cava così, almeno per ora, il rappresentante legale di una società di pulizie che assumeva formalmente lavoratori per far loro svolgere in realtà la prestazione presso un’altra azienda. Violazione delle norme in materia di somministrazione dunque, ma la relativa sanzione penale sarebbe stata evitata anche con il pagamento di una misura amministrativa. E sulla base di questa chance, non offerta al "colpevole", che la Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza n. 37228, depositata ieri, ha cancellato un’ammenda di quasi 23mila euro. La difesa aveva sostenuto, nel ricorso, il mancato rispetto delle norme, articoli 13 e 15, del de- creto legislativo n. 124 del 2004. Norme che, in sostanza, danno margine per chi venga "beccato" dagli ispettori del lavoro a compiere una violazione di natura penale punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda oppure con la sola ammenda, di sanare l’infrazione rispettando le indicazioni impartite dall’organo di vigilanza prima e pagando poi una sanzione amministrativa. Nel caso esaminato, invece, si era invece percorsa con decisione la sola strada penale arrivando alla relativa pena. La Corte di cassazione accoglie la linea difensiva, con una serie di considerazioni in punta di diritto e di fatto. Le prime vanno nella direzione dell’estensione della via amministrativa: la Corte osserva infatti che nel decreto del 2004 è stata previsto che la procedura prevista per evitare la sanzione penale si applica anche quando la fattispecie è a condotta esaurita e nei casi in cui il trasgressore ha volontariamente e autonomamente adempiuto agli obblighi di legge. È "evidente - chiosa la Corte, quindi, l’intento del legislatore del 2004 di introdurre una generale procedura di estinzione delle meno gravi contravvenzioni in materia di lavoro e di legislazione sociale (quelle punite con pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda o con la sola ammenda) mediante il pagamento nei termini indicati di una sanzione amministrativa previa regolarizzazione (quando sia possibile e necessaria) delle situazioni che avevano dato luogo all’infrazione". Quanto poi alle condotte esaurite, la Cassazione mette ancora in evidenza come l’obiettivo dell’istituto, oltre che l’interruzione dell’illegalità e il ripristino delle condizioni di sicurezza previste dalla normativa a tutela dei lavoratori, consiste soprattutto nel permettere l’estinzione amministrativa del reato anche quando non ci sono regolarizzazioni da effettuare perché il reato è istantaneo o perché la messa in regola è gia stata effettuata spontaneamente. Per un riesame dei fatti, la Cassazione non può che rifarsi a quanto emerge dalla sentenza impugnata, emessa dal tribunale di Bolzano. Dalla lettura della pronuncia, allora, nulla si può capire per quanto riguarda l’invio da parte dell’organo di vigilanza della preventiva diffida e delle prescrizioni da adempiere, passaggi necessari per l’estinzione del reato. La motivazione della condanna fa invece esclusivo riferimento all’esistenza della violazione sia sul piano oggettivo, sia su quello soggettivo. Inevitabile allora l’annullamento della sentenza e il suo rinvio al tribunale di Bolzano. Corte costituzionale. Omissioni Iva, da (ri)valutare il ne bis in idem di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2016 La norma è cambiata. E allora va valutato con attenzione se esistono ancora i presupposti per sollevare la questione di legittimità costituzionale della disciplina sanzionatoria degli omessi versamenti dell’Iva. Lo chiarisce la Corte costituzionale, in sintonia con la linea dell’Avvocatura dello Stato, con l’ordinanza n. 209 depositata ieri e scritta da Giorgio Lattanzi. A sollevare la questione era stato il tribunale di Treviso sostenendo la violazione del principio del ne bis in idem per effetto della contemporanea applicazione di una misura penale e di una amministrativa per il medesimo fatto storico. Quest’ultimo, costituito dal mancato versamento all’Erario di quanto dovuto a titolo di Iva nell’arco di una serie di mesi. Infatti, per i giudici trevigiani, una volta raggiunta la cosiddetta soglia di punibilità per l’integrazione della fattispecie penale, l’autore della condotta illecita non si porrebbe "in un diverso rapporto di consapevolezza con l’illecito commesso", in quanto non avrebbe "fatto altro che porre in essere le medesime condotte che hanno già integrato una serie di illeciti amministrativi e a quel punto integrano anche l’illecito penale". La Corte costituzionale, però, fa osservare che dopo l’ordinanza di rimessione, è entrato in vigore intervenuto il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 di riforma del sistema sanzionatorio tributario, sia penale sia amministrativo. L’articolo 8 del decreto legislativo ha modificato anche la norma censurata(articolo10terdeldecreto legislativo n. 74 del 2000), eliminando il rinvio, presente nel testo originario, all’articolo 10-bis (per la determinazione della pena e della soglia di punibilità), e ha descritto compiutamente la fattispecie, innalzando la soglia della punibilità dell’illecito dai precedenti 50.000 euro a 250.000 per ciascun periodo di imposta. La Corte avverte che, secondo quanto affermato più volte, dalla Cassazione, l’aumento delle soglie di punibilità, misura più favorevole all’autore della condotta, è destinato a operare anche per i fatti anteriori alla riforma. La Consulta, nel ricordare l’intervento, inoltre, quanto all’intreccio della sanzione penale con quella amministrativa, sottolinea che, per effetto della riforma, ora è disposto che "i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti". Tutti elementi che hanno fatto decidere la Corte costituzionale per la restituzione degli atti al tribunale di Treviso, che adesso dovrà verificare se riproporre, alla luce del nuovo quadro normativo, la questione di legittimità già sollevata. Siete la nostra àncora di salvataggio: non mollate Il Dubbio, 9 settembre 2016 La lettera dei detenuti di Opera ai partecipanti al Congresso Radicale. Siamo Gaetano, Orazio, Vito e Alfredo. Siamo quei "giovani adulti" ergastolani ostativi che dovevano partecipare a questo Congresso. Siamo quei 4 dei 44 assassini, stragisti, stiddari, violenti, pericolosi e loschi personaggi della lista scarlatta finita sui giornali per ragioni di ansia di prestazione antimafia e di puro opportunismo lobbistico. La nostra mancata traduzione nel carcere di Rebibbia (e non nel lido di Ostia) non è avvenuta per sane e fondate ragioni di sicurezza, ma per una precisa e scientifica volontà lombrosiana che ci vuole criminogeni a priori, sempre e comunque. Sempre e comunque nonostante sia trascorso un quarto di secolo dai fatti che ci videro coinvolti nella stagione di sangue siciliano, nonostante oggi siamo altro rispetto a quella stagione... e considerato che oggi siamo altro, l’unico pericolo che poteva esserci, semmai saremmo stati tradotti a Rebibbia, era per il nostro stato psicofisico, visto che non siamo più abituati a viaggiare e per giunta in manette, non siamo più abituati a stare sui mezzi in movimento perché la nostra vita per decenni si è svolta all’interno di una piccola cella. Ormai siamo una sorta di Mimì metallurgico all’opposto non ci "eccitiamo" sui mezzi in movimento, come da giovani sulle moto. La nostra volontà di partecipare al Congresso era connaturata da precise e valide motivazioni. La nostra presenza voleva significare qualcosa che sfugge a molti: noi esistiamo, nonostante tutto esistiamo. Esistiamo perché siamo vivi, esistiamo perché siamo mossi da idee, emozioni, spirito di appartenenza alla società, a voi. Esistiamo in voi e con voi, perché abbiamo voglia di vivere, di esprimerci, di risanare ciò che è stato strappato. Ormai non conta più cercare di capire come e perché sia potuto accadere questo, anche se un’idea sicuramente ce la siamo fatta e non ha nulla a che vedere né con il costo dei trasferimenti, né tantomeno con la pericolosità dei detenuti tirati in ballo. Ogni qualvolta qualcuno vuole ottenere qualcosa, ecco che veniamo presentati non come siamo oggi, ma come eravamo 20/30 anni fa e a quanto pare questa strategia continua a funzionare. Tuttavia, nonostante non possiamo essere presenti fisicamente, è nostro diritto dire la nostra. Non vogliamo entrare nel merito di ciò che sta succedendo all’interno del partito, ma dirvi ciò che il partito ha rappresentato per noi e che vorremmo continuasse a rappresentare. Non dimenticheremo facilmente Marco nel suo ultimo congresso svoltosi qui a Opera. Già allora era evidente che non stava bene, ma era qui, tra di noi. Ci siamo sentiti per la prima volta parte di qualcosa di importante. Abbiamo percepito e toccato con mano che non siamo soli, che qualcuno ha sempre combattuto per noi, far si che il carcere non inghiottisse completamente l’uomo dopo averlo masticato per bene. E adesso? Che cosa succederà se il Partito Radicale diventasse un partito politico? Voi non dovete essere dei "politici", voi siete il Giano posto davanti al tempio che prevede il futuro guardando il passato, siete gli unici in questo Paese che hanno davvero a cuore i diritti degli uomini, e non parliamo solo dei detenuti, non siamo certo al centro del mondo. Avete sempre lottato a dispetto delle razze o delle religioni, affinché l’uomo non calpestasse l’uomo. Vi siete sempre opposti con forza e determinazione a ogni forma di ingiustizia e adesso che Marco non c’è più cosa fate? Cercate di diventare proprio quello che Marco fuggiva. Non potete farlonon è nella vostra indole, non potete abbandonare, tanto meno "ripudiare" chi siete veramente. Un partito trans-politico? Sicuramente, ma per noi siete i nostri Guardiani, siete la nostra ancora di salvataggio ogni qualvolta stiamo per affogare, siete coloro che possono mescolarsi con il popolo e insieme a esso gridare "Vergogna" per i diritti calpestati. Ma volete diventare dei politici, volete fare politica, quella vera, cioè quella che stringe le mani e fa promesse pur di accaparrarsi una poltrona e poi dimentica le promesse e le strette di mano. Volete diventare quei politici che visitano le carceri solamente quando ci sono in corso delle votazioni? Che va a visitare gli ammalati e i poveri promettendo loro salute, casa e lavoro? Non lo farete perché voi non siete così. Se avete abbracciato l’ideologia del partito significa che avete fatto vostro il pensiero di Marco e questo fa di voi persone "non in vendita per una poltrona". Questo fa di voi i sorveglianti del nostro Paese. Se togliete questo al nostro Paese, sarà un Paese sempre più povero dove i Governanti e i poteri in generale, possono scatenarsi senza avere il timore che qualcuno possa fermarli riportandoli alla retta via. Non fatelo, distruggete ciò che è stato costruito con tanti sacrifici, perché grazie a voi abbiamo imparato nuovamente a credere, a credere in ciò che non credevamo più: la speranza, o meglio ancora "Spes contra Spem". Non abbandonateci anche voi. Un saluto a tutti voi e buon proseguimento. Lombardia: detenuti al lavoro (e opere d’arte) per la rinascita dell’Idroscalo di Paolo Foschini Corriere della Sera, 9 settembre 2016 L’idea del provveditore Pagano di usare i carcerati per la manutenzione del verde. Ah, non ci sono i soldi? E allora l’Idroscalo, intanto che si aspetta, lo salveranno i volontari e l’arte. E magari presto, se dio vuole, i detenuti. L’idea è del provveditore delle carceri lombarde, Luigi Pagano, che dopo averla condivisa col direttore del bacino Alberto Di Cataldo ne ha già parlato anche col presidente della Città metropolitana nonché sindaco Beppe Sala ottenendone fin da ora l’appoggio: "L’esperienza positiva dei cento detenuti che hanno lavorato all’Expo - dice Pagano - è stata un pilastro che sarebbe miope lasciar cadere. Quando ho letto dell’Idroscalo con le erbacce e del suo bisogno di manutenzione ho subito pensato che i detenuti potrebbero far bene anche lì. Con vantaggio per tutti". Lo strumento operativo sarebbe lo stesso già utilizzato all’Expo il cui allora commissario Sala, oltretutto, aveva messo proprio quei detenuti in cima alla lista dei ringraziamenti finali. Sarebbe sempre quell’articolo 21 che ne disciplina il lavoro esterno, e che dal 2013 prevede anche la possibilità del volontariato. "Questa opportunità - ricorda il provveditore - è stata utilizzata per la prima volta dopo il terremoto dell’Emilia e poi molte altre. Ha sempre funzionato. Per farvi ricorso esiste già un protocollo tra ministero della Giustizia, Tribunali di sorveglianza e Associazione dei Comuni. Basta applicarlo e se, come mi pare di aver capito parlandone, la direzione dell’Idroscalo e il presidente Sala sono d’accordo, penso che si potrebbe partire anche presto". Peraltro diversi detenuti di Opera saranno già all’Idroscalo tra il 27 settembre e il 10 ottobre con la quinta edizione del festival "Teatro e carcere". Naturalmente sul verde serve un progetto, ai detenuti andrà spiegato cosa fare e come. Ma su questo è Di Cataldo a ricordare che non solo non si parte da zero ("L’esperienza delle Giornate della Restituzione dedicate dai detenuti alla pulizia dell’Idroscalo è andata avanti fino allo scorso anno, sempre con successo") ma che "i volontari delle Giacche verdi si sono già resi disponibili per organizzare corsi di formazione" che ai detenuti lascerebbero un patrimonio di competenze spendibili anche una volta liberi. E sarebbe, quello del volontariato, solo un primo passo: "Se si sbloccassero i soldi della Cassa Ammende di cui il ministero dispone proprio per il finanziamento di attività trattamentali - dice Pagano - trasformare il volontariato in lavoro sarebbe relativamente semplice". Nel frattempo, mentre sull’acqua partono oggi i campionati italiani di canoa, sulla riva est sono state completate ieri le ultime installazioni del Parco dell’Arte, che ora unisce opere di maestri come Giacomo Manzù o come i famosi Nuotatori di Luciano Minguzzi ad altre realizzate dai Giovani artisti di Brera: un progetto, spiega il coordinatore del comitato scientifico Ugo Macola, destinato a restare museo permanente lungo un chilometro e passa di riva. Il suo verde, in questo punto sì, continuerà a essere curato come avviene da tempo e anche qui a titolo totalmente volontario dalla competenza di Francesco Ingegnoli, erede della storica famiglia di agronomi e vivaisti milanesi: che già si occupa allo stesso modo, sulla medesima riva, del giardino Aulì Ulè dedicato ai giochi dimenticati con cui nessuno gioca più. Tranne, appena glieli fanno vedere, i bambini. Firenze: "hai provato a suicidarti… allora resti in carcere". Gli avvocati si ribellano di Massimo Mugnaini La Repubblica, 9 settembre 2016 Una giovane detenuta non ha ottenuto la scarcerazione anticipata perché ha tentato di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella e quindi, secondo il tribunale di sorveglianza, "non si è rieducata". Gli avvocati della Camera Penale di Firenze non ci stanno e attaccano il magistrato che ha rigettato con un’ordinanza la richiesta di liberazione della donna. "Si tratta di una decisione disumana - sostengono - a fronte di una situazione scandalosa: la distanza tra magistrati del tribunale di sorveglianza e detenuti è ormai divenuta abissale, non c’è un magistrato addetto a regolare le esecuzioni carcerarie che almeno ogni tanto vada a parlare con i detenuti. Questa mancanza di comunicazione a livello umano, divenuto abito mentale del tribunale, è avvilente". La dura presa di posizione nei confronti del magistrato di sorveglianza da parte degli avvocati fiorentini non concerne soltanto la decisione in sé ma anche il modo in cui è stata comunicata e motivata. Il tentato suicidio della donna, secondo quanto scrive il togato, "è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa". E con questo solo rilievo "in due righe il magistrato esaurisce testualmente la motivazione del provvedimento" rilevano i legali. Secondo il referente dell’osservatorio sul carcere della Camera Penale, l’avvocato Luca Maggiora, "in questo modo il magistrato ha sostenuto che se un detenuto prova a impiccarsi, significa che non si è rieducato. Ovvero: io non ti libero perché tu hai provato a toglierti la vita. Ma non sarà, piuttosto, che la presunta mancata riabilitazione sia dovuta proprio alla mancanza di ascolto dei detenuti in carcere, alla mancanza cronica degli educatori e delle strutture all’interno del carcere in cui attuare la riabilitazione?". Inoltre, prosegue l’avvocato, "di fronte a una persona che arriva a compiere un gesto così forte ed eclatante, espressione di un’evidente, disperata richiesta di aiuto, non sarebbe stato il caso di andarle a chiedere perché l’ha fatto, a prescindere dalla decisione? E invece no, anzi: si è eretto un muro. E non si venga a dire che manca il tempo per queste cose: in realtà a quella povera donna è stato negato un diritto e in questo modo la si è ammazzata in tutti i sensi". La donna in questione ha 35 anni e un passato di tossicodipendenza. Alla sua prima esperienza carceraria, è detenuta da circa un anno per una pena di poco superiore ai 3 anni per concorso in rapina e detenzione di droga. Il suo tentato suicidio nel carcere di Sollicciano risalente ad alcuni mesi fa, spiega la Camera Penale, "rappresentava la reazione, in un momento di profondo sconforto, alla notizia che anche il suo ex marito era finito in carcere e che i suoi due figli minori erano rimasti soli". Il magistrato che le ha negato la scarcerazione anticipata, inoltre, avrebbe commesso anche un errore procedurale. Spiega Maggiora: "L’episodio del tentato suicidio risale a un semestre di detenzione antecedente a quello in valutazione da parte del magistrato, semestre per il quale alla donna era già stato riconosciuto il beneficio della liberazione anticipata, dandole atto che oltre a non incorrere in rilievi disciplinari, aveva lavorato nelle cucine del suo reparto e partecipato ad attività sportive". Firenze: detenuta punita per aver tentato il suicidio dall’Osservatorio Carcere dell’Ucpi camerepenali.it, 9 settembre 2016 Il Magistrato di Sorveglianza di Firenze nega la liberazione anticipata ad una detenuta che voleva togliersi la vita. Apprendiamo da una segnalazione dei Colleghi della locale Camera Penale che l’Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Firenze, in una recente ordinanza, ha negato il beneficio della liberazione anticipata ad una giovane donna reclusa presso la Casa Circondariale di Sollicciano per avere tentato (fortunatamente senza successo) di "togliersi la vita mediante impiccagione", un gesto che, secondo il Magistrato, "è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa" (con questo solo rilievo si esaurisce testualmente la motivazione del provvedimento). La signora, trentacinquenne tossicodipendente, alla sua prima esperienza carceraria, è detenuta da circa un anno per una pena di poco superiore ai tre anni di reclusione per concorso in rapina e detenzione di sostanze stupefacenti ed aveva così reagito, in un momento di profondo sconforto, alla notizia che anche il suo ex marito era finito in carcere e che i suoi due figli minori erano rimasti soli. La relazione del gruppo di osservazione e trattamento, pur menzionando l’episodio (peraltro risalente ad un semestre di detenzione antecedente a quello in valutazione, per il quale le era già stato riconosciuto il beneficio della liberazione anticipata), dava atto che ella, oltre a non incorrere in alcun rilievo disciplinare, aveva prestato attività lavorativa all’interno della cucina del suo reparto detentivo ed aveva partecipato ad attività sportive organizzate all’interno dell’Istituto, circostanze che, di norma, sono considerate largamente sufficienti per giustificare un valutazione positiva della condotta detentiva, tanto più in un Istituto, come quello fiorentino, in cui notoriamente si opera in condizioni difficili e l’offerta trattamentale non è particolarmente estesa. É di pochi giorni fa la notizia che, proprio nel reparto femminile, a seguito di una recrudescenza del fenomeno del sovraffollamento, in alcune celle è ricomparso il terzo letto. Qualche anno fa, con la campagna "Fate presto", l’Unione delle Camere Penali aveva tappezzato i palazzi di Giustizia di tutta Italia con striscioni che riportavano la tragica conta dei decessi per suicidio in carcere, un’emergenza mai risolta nonostante si vada entusiasticamente proclamando di avere risolto le criticità per le quali la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci aveva condannato per la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Quando un essere umano recluso si toglie la vita, o tenta di farlo, è anzitutto il Sistema che ha fallito, che non ha saputo offrirgli quel minimo di speranza e quel "senso di umanità" che sempre deve accompagnare, secondo l’art. 27 della Costituzione, la pur doverosa sanzione per i suoi errori. E proprio l’umanità ci sembra tragicamente far difetto nella decisione del Magistrato di Sorveglianza di Firenze, che avrebbe il compito istituzionale di garantirla, vigilando sull’operato dell’Amministrazione Penitenziaria, in attuazione dell’art. 69 dell’Ordinamento Penitenziario. Un provvedimento che ignora la partecipazione della detenuta ad attività trattamentali ed evidenzia, in sole due righe, esclusivamente il gesto disperato, trascurando la partecipazione all’opera di rieducazione e punendo la debolezza di un momento di tragica follia. Evidenziamo, ancora una volta, come nei confronti della detenzione occorra un approccio culturale diverso, già indicato, almeno in parte, dai lavori degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Napoli: la Giustizia finita in barella di Eduardo Savarese Corriere del Mezzogiorno, 9 settembre 2016 In una realtà complessa, come quella del Sud e di Napoli, tra proiettili conficcati in soffitti d’appartamenti, evocazioni di Olimpiadi da ospitare, barelle mancanti negli ospedali ma barellieri mandati a lavorare nei tribunali, c’è il rischio forte di una tremenda babele di idee e linguaggi. È forse bene ribadire alcune cose semplici: 1) lo Stato deve assicurare il funzionamento dei fondamentali; conio la sigla "Sigs" - Sicurezza, Istruzione, Giustizia, Sanità; 2) in un’area qual è il Napoletano Casertano, la responsabilità della Stato è ancora maggiore, perché viviamo, a fasi alterne, veri e propri stati emergenziali; 3) quando ci sono delle priorità, colorate d’emergenza, e scarsità di risorse, non è ammissibile disperdere le energie in mille rivoli. Soffermiamoci su Sicurezza e Giustizia. Cresce l’insicurezza sul territorio, dentro la città e nelle periferie. Qualche sera fa a cena un’amica di Mondragone mi raccontava di aver subito quattro furti in casa nell’ultimo anno e della presenza di una comunità bulgara, dedita ad affari criminali, che abita in una vera e propria zona franca dall’intervento delle forze dell’ordine. Fatti narrati, e non ho riscontri diretti. Ma se è così, è grave. Lo è la tacita capitolazione dello Stato. Che deve badare ai fondamentali, ed è per questo che riscuote le imposte. Lo è la nostra abitudine a questa capitolazione. In questo quadro, arriva la notizia che, dopo una procedura di L’editoriale La Giustizia finita in barella mobilità effettuata in tutta Italia, anche nei nostri tribunali approda personale della Croce rossa, per coprire le croniche carenze di organico amministrativo. In sé, mi pare una prova di efficienza: personale non utile presso un ente viene ricollocato presso enti con scoperture forti. Ma è evidente che quel personale ha tutt’altre competenze, ne risulta che vi sia stata una solida preparazione in vista del cambiamento di ruolo e funzioni. E anche qui ci sono cose semplici da sottolineare: a) i magistrati addetti ai tribunali campani, soprattutto nella provincia di Napoli, sono troppo pochi: non c’è proporzione con distretti di gran lunga meno oberati di processi (è in corso la revisione delle piante organiche dei tribunali: ma è troppo lenta); b) quand’anche siano presenti i magistrati a pieno organico, spesso manca il personale amministrativo. Né basta sostituirlo a caso: a voi rassicurerebbe se l’assistente del chirurgo fosse un signore che fino al giorno prima ha vistato documenti di ragioneria al Comune? A me no. I magistrati sono quasi sempre privi di validi assistenti in numero sufficiente: una giustizia che funziona esige almeno un assistente amministrativo personale per magistrato. E poi c’è la questione dell’organizzazione degli uffici per le maternità dei magistrati, sempre più spesso donne (tendenza sociale interessante e di cui molto poco si parla). A ciò si aggiunga che trasferimenti e conferimento degli incarichi decisi dal Consiglio Superiore della Magistratura sono retti da procedure troppo lente. Insomma, molte sono le cose da fare. Molte sono oggetto di studio e riforme in corso. Ma non dobbiamo dimenticare le cose semplici: è inutile straparlare di cose secondarie senza Sicurezza e Giustizia; è ridicolo pensare di far funzionare i fondamentali dello Stato senza le risorse numeriche giuste, e con la necessaria preparazione, e senza meritocrazia (tra i magistrati come nel personale amministrativo); è necessario ricordarci che se paghiamo le tasse è per assicurarci i fondamentali. Ed è amaro sentirsi, ancora una volta, da troppo tempo, e sempre più, abbandonati dallo Stato. Più che abbandonati, e peggio: costretti a sentirsi rassicurati e contenti per un residuo di briciole. Novara: detenuti e operatori Assa al lavoro alla scuola dell’infanzia del Torrion Quartara Corriere di Novara, 9 settembre 2016 Il sindaco di Novara Alessandro Canelli illustra il lavoro attualmente in corso (cominciato il 5 settembre e che si concluderà l’11 settembre) da parte di un gruppo di detenuti in permesso premio, accompagnati dagli agenti della Polizia Penitenziaria che svolgono un fondamentale servizio di controllo e vigilanza. I detenuti prestano la loro attività volontaria su coordinamento di Assa nelle opere di imbiancatura aule, corridoi, spazi comuni (ingresso, area giochi, refettorio), servizi igienici, uffici e locali di servizio, interventi ai quali si aggiunge anche il ripristino degli zoccolini, spigoli e paracolpi, verniciatura infissi e caloriferi. Tutti i materiali impiegati sono forniti dal Comune di Novara, mentre Assa fornisce il supporto tecnico, logistico e operativo con il proprio personale e con i detenuti "cantieristi" in azienda (sulla base della legge regionale n. 34/2008) oltre che con mezzi e strumentazioni adeguate. Durante la settimana precedente, mediante l’impiego della squadra manutentori dei disoccupati in carico ai Servizi sociali impiegati dalla spa nell’ambito dei cantieri di lavoro (ai sensi della Legge regionale n. 34), Assa ha fatto i lavori preparatori all’intervento di imbiancatura, come il ripristino di intonaci e stuccature e piccole opere murarie. Il 10 agosto, sempre come "Giornata di recupero del patrimonio ambientale", sotto il coordinamento e con il supporto di Assa i detenuti avevano già ripulito e reso agibili le parti esterne dell’edificio che erano incolte e necessitavano quindi di manutenzione e fino all’11 settembre la squadra manutentori dei "cantieristi" proseguirà la sua opera dedicata alla pulizia delle aree esterne, con la sistemazione della recinzione e degli arredi malmessi, la pulizia da rifiuti, deiezioni dei piccioni e canine, piccioni morti in tutti gli spazi esterni adiacenti compresi tra la scuola e la chiesa e il sagrato. I detenuti che in questa settimana escono dalla Casa circondariale di via Sforzesca per partecipare all’iniziativa sono otto (cinque di nazionalità italiana, due del Marocco, uno dell’Albania), con una età media di 43 anni ( il più giovane 27 anni, il più anziano 64 anni, tre trentenni, uno di 45 anni uno di 52, uno di 60). Per questo intervento a loro si aggiungono i due detenuti impiegati da Assa nell’ambito dei cantieri di lavoro del Comune e i tre disoccupati che costituiscono la squadra manutentiva tra i disoccupati in carico ai servizi sociali impiegati da Assa sempre nell’ambito dei cantieri di lavoro del Comune (Legge regionale 34). "L’impegno di Assa per rendere la città più bella e vivibile - commenta Giuseppe Pollicaro, presidente di Assa - è davvero significativo, in particolare in questo caso per tutti i bambini e le loro famiglie che all’avvio dell’anno scolastico saranno accolti in una scuola rimessa a nuovo grazie all’intervento realizzato in questi giorni. I nostri sforzi sono enormi, e su tutti i fronti, per il decoro urbano che una volta ripristinato con i nostri interventi richiede il contributo di tutti i cittadini per essere mantenuto e per non vanificare il grande lavoro svolto". Foggia: Cosp: pochi poliziotti, troppi detenuti, davanti al carcere scatta la protesta di Massimiliano Nardella foggiatoday.it, 9 settembre 2016 Mimmo Mastrulli e il Coordinamento Sindacale Penitenziario protestano contro il Governo e il Ministro della Giustizia. Nel capoluogo dauno cento agenti in meno e 230 detenuti in più. Pochi poliziotti ma carceri sovraffollate. Ancora una volta Mimmo Mastrulli e il Coordinamento Sindacale Penitenziario alzano la voce sulle condizioni in cui sono costretti a lavorare centinaia di agenti di polizia penitenziaria, spesso vittime di aggressioni fisiche e verbali: "55mila detenuti in Italia a fronte di una capienza di 49mila detenuti, mancano 10mila agenti e 3mila del comparto ministero". La protesta - contro il Governo e il ministro della Giustizia - è scattata questa mattina davanti al carcere di via delle Casermette nel capoluogo dauno, al cui interno lavorano 290 uomini in divisa rispetto ad un organico che in condizioni normali dovrebbe essere formato da 390 unità. Ci sono invece 550 detenuti, 230 in più. "Nei turni serali ci sono solo dieci agenti che controllano tutto, da qui le aggressioni" sottolinea Domenico Mastrulli. Il Co.S.P. chiede inoltre che gli 850 militari della Croce Rossa, specialisti tra ufficiali e sottoufficiali, che starebbero passando nelle cancellerie dei Tribunali, vengano nel corpo della Polizia Penitenziaria". Cagliari: detenuto con problemi psichiatrici aggredisce due agenti penitenziari corrierequotidiano.it, 9 settembre 2016 Due agenti di polizia penitenziaria sono stati aggrediti nel carcere di Uta (Cagliari) da un detenuto con problemi psichiatrici. Uno dei due feriti è stato trasportato in ospedale. Lo denuncia la segreteria regionale Sardegna della Uilpa, che lunedì scorso aveva segnalato il caso di una poliziotta rimasta ferita nella Casa circondariale di Bancali a Sassari, da una reclusa affetta da Hiv ed epatite C. A Uta il detenuto violento, secondo quanto riferito dal segretario regionale del sindacato, Michele Cireddu, ha prima devastato i mobili della cella, poi si è avventato su un agente che ha riportato tumefazioni e lividi al volto. Il poliziotto responsabile del turno, intervenuto per riportarlo alla calma, è stato, invece, morso a una mano e picchiato con un colpo di bastone. "Il detenuto si è già reso responsabile di aggressioni a danno degli agenti in altri istituti", protesta Cireddu, "ed è stato inviato nell’istituto di uta dove ha reiterato la propria azione violenta con ferocia inaudita". Il sindacato, che nei giorni scorsi ha proclamato lo stato di agitazione, annuncia azioni di protesta. "Crediamo che ogni aggressione a danno degli agenti sia un’aggressione a danno dello Stato", afferma il segretario. "Non tollereremo oltre l’inerzia e l’immobilismo dell’amministrazione a tutti i livelli. Se si verifica un numero così elevato di aggressioni bisogna accertare le responsabilità gestionali, sia a livello locale che regionale o centrale. Soprattutto negli istituti di Sassari e Uta la sicurezza dei lavoratori è a serio rischio. Chiediamo un intervento dei vertici dell’amministrazione per accertare eventuali responsabilità ed eventuali avvicendamenti dei vertici dell’istituto". Cuneo: lunedì 12 settembre in Provincia conferenza sulla situazione delle carceri agoramagazine.it, 9 settembre 2016 Lunedì 12 settembre, alle 11 nel palazzo della Provincia di Cuneo in corso Nizza 21 (Sala Giolitti), conferenza stampa di presentazione dei garanti dei detenuti e quadro dell’esecuzione penale in provincia di Cuneo. Oltre al garante della Regione Piemonte on. Bruno Mellano e ai quattro garanti provinciali, sarà presente il presidente della Provincia Federico Borgna. Sono stati invitati sindaci e amministratori locali, rappresentanti di Istituti penitenziari, Tribunale di Cuneo, Magistratura di Sorveglianza, Ufficio esecuzione penale esterna e delle associazioni di volontariato. Il Piemonte è una delle regioni italiane con il maggior numero di garanti dei detenuti. La provincia di Cuneo, che conta ben quattro carceri, è anche quella in assoluto più rappresentata con la presenza di Garanti ad Alba (Alessandro Prandi), Cuneo (Mario Tretola), Fossano (Rosanna Degiovanni) e Saluzzo (Bruna Chiotti). La stretta cooperazione fra di loro si concretizza, oltre che nel lavoro quotidiano, anche nell’attività di un coordinamento regionale, che si riunisce con regolarità presso gli uffici del garante regionale a Torino, nella sede del Consiglio regionale del Piemonte, e il cui scopo è quello di creare sinergie e omogeneità negli interventi. La conferenza stampa intende, quindi, presentare la figura istituzionale del garante, a molti ancora sconosciuta, spiegando il ruolo che è chiamato a svolgere, e valorizzare le figure ed esperienze dei singoli garanti cuneesi, facendo un quadro della situazione dell’esecuzione penale nella Granda. Ferrara: teatro, detenuti attori in carcere per Internazionale estense.com, 9 settembre 2016 Per il terzo anno il festival di Internazionale ha deciso di inserire nella propria programmazione un evento speciale realizzato all’interno della Casa Circondariale della città. Un gruppo di detenuti/attori, coordinati dal Teatro Nucleo, presenterà sabato 1 ottobre alle ore 11.00 lo spettacolo "Me che libero nacqui al carcer danno", regia H.Czertok, presso la casa circondariale di Ferrara (l’ingresso in carcere è previsto alle ore 10.30). L’iniziativa, realizzata in collaborazione con il Comune di Ferrara e la Regione Emilia-Romagna, è il primo passo di un percorso di integrazione al festival delle realtà sociali che caratterizzano la città e rappresenta un’interessante vetrina della situazione, spesso drammatica e ricca di contraddizioni, delle carceri italiane. Il Teatro Nucleo, attivo dal 1975 e da molti anni attivo nell’ambito del teatro sociale, è uno dei più interessanti centri di produzione e ricerca teatrale italiano. Gli spettacoli, che si realizzeranno all’interno del carcere, prevedono un numero limitato di posti per gli esterni. Per questa ragione avremmo bisogno di una tua conferma, nel caso tu fossi interessato a partecipare, entro il 19 settembre. Per entrare nel carcere è necessario che tu ci invii una copia di un tuo documento di identità che sarà nostra cura fare avere alla Casa circondariale in anticipo. Ti segnaliamo che, secondo il regolamento della Casa Circondariale, non sono ammesse presso il carcere persone che abbiano avuto una condanna o che abbiano processi e indagini giudiziarie in corso. Terremoto. Sulle emergenze facciamoci un esame di coscienza di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 9 settembre 2016 Mettere in sicurezza gli edifici, fare la carta d’identità delle case, punire i furbi... Ogni volta le stesse cose. Ma se siamo noi, i primi a opporci, quando la tragedia è lontana? Lo si dice tutti nei tempi straordinari dell’emergenza dopo ogni terremoto o frana o alluvione. Ma lo si tradisce tutti nei tempi ordinari di normalità. "Bisogna mettere in sicurezza non soltanto gli edifici pubblici ma anche quelli privati incentivando i cittadini con appositi sconti fiscali", ottima cosa. Ma che succede quando, alla preventiva radiografia del territorio su cui intervenire, risulta che tanti di quegli edifici sono abusivi in tutto o in parte? Succede che bisognerebbe demolirli per legge: ma è difficile immaginare che ci sia qualche amministratore locale che abbia il coraggio di perdere consenso per promuovere questa "bonifica" di base, senza la quale non avrebbe senso e sarebbe anzi paradossale ogni intervento di riqualificazione urbana. "Bisogna far sì che ogni casa abbia la sua carta di identità, il fascicolo di fabbricato": giustissimo, e auspicato tanto dagli esperti già negli anni scorsi. Ma se non si fa non è soltanto per le vischiosità burocratiche di un così imponente programma, ma anche per la resistenza psicologica di un popolo di proprietari di case indisponibili a vedere deprezzare drasticamente il valore dei propri immobili, fino a ritrovarseli di fatto invendibili sul mercato, come accadrebbe in tantissimi casi se fossero esplicitate le tare costruttive e i difetti strutturali che li affliggono. "Basta con le ditte che nel costruire edifici barano sui materiali scadenti per lucrare maggior profitto": e come no, ci mancherebbe. Poi, però, quando capita che qualche pm inizi a mettere il naso sulle embrionali tappe di appalti che non sembrano proprio impeccabili, ecco subito gridare all’invasione di campo della giustizia penale nell’attività amministrativa. E se magari si sanziona un’azienda perché la si è trovata a utilizzare lavoratori in nero, o a non pagare i contributi, o a smaltire fuori legge i propri detriti e rifiuti, o a evadere le tasse in uno scambio di reciproco risparmio fiscale con i fornitori, ecco partire (e a volte essere alimentata ad arte) la "guerra" tra poveri, l’insofferenza verso i controllori proprio da parte delle famiglie che traggono il proprio sostentamento dagli stipendi di quei lavoratori sfruttati in condizioni illegali di impiego e di sicurezza. "Bisogna che funzionino i controlli e che chi fa il furbo sia punito severamente", sacrosanto. Poi, però, si scopre che alla base della catena di inefficienze che di fronte a una frana o a un terremoto o a un’alluvione trasforma in macerie i mattoni che in teoria era o appena stati ristrutturati in piena sicurezza, spesso c’era la piccola mazzetta al piccolo funzionario comunale, l’accidia di un tecnico assunto solo per clientelismo, l’incompetenza di un presunto ingegnere o teorico geometra o supposto geologo che in realtà hanno passato i rispettivi esami o concorsi solo grazie allo "stellone" di qualche spintarella local-familistica: tutti micro comportamenti vissuti però con accondiscendenza nella quotidianità lontana dai loro tellurici effetti, persino quasi con una strizzatina d’occhio all’insegna di un malinteso "volemose bene" che però non ricambia la cortesia e anzi si rivela ingrato becchino al primo ondulare della terra o scorrere di torrente in piena. E poi c’è sempre il grande classico, specialità di giornali e tv, nessuno escluso: "Occorre un’inchiesta esemplare, perché già nel..." (e qui cambia solo l’anno di riferimento o la Cassandra autorità redattrice del rapporto di turno) "...era stato lanciato l’allarme sui rischi" di questo o quel disastro in questo o quel territorio. E per essere vero, per carità, è purtroppo sempre vero. Ma lo è anche che era vero già nel momento nel quale quello specifico allarme era stato lanciato da quella determinata autorità. Che solitamente l’aveva subito dopo riposto nell’auto-confortante cartellina d’ufficio delle "carte messe a posto" a futura memoria, proprio mentre i giornali (gli stesso che poi a distanza di tempo e di morti ci faranno giustamente intere paginate) lo ignoravano totalmente o al massimo lo relegavano nelle "brevi" di cronaca locale. Migranti. Unicef: "più della metà dei profughi sono bambini, 50 milioni nel 2015" di Luigi Grassia La Stampa, 9 settembre 2016 Cinquanta milioni: è questo il numero dei piccoli profughi nel mondo. Si avvia a soluzione il problema dei bambini-soldato in Colombia, ma purtroppo il pianeta è pieno di guerre e di guerriglie che travolgono i più piccoli. E la violenza più frequente è quella che porta i bambini e i ragazzi a essere sradicati dalle loro case, assieme alle loro famiglie oppure - in molti casi - anche da soli. Secondo un rapporto dell’Unicef sono 28 i milioni di minori costretti a lasciare i luoghi in cui sono nati per scappare dai conflitti armati. L’istituto delle Nazioni Unite che si occupa di infanzia calcola che le guerre in giro per il mondo hanno prodotto 10 milioni di minori rifugiati all’estero e altri 17 sfollati all’interno del loro Paese. Eppure questa è solo una parte del problema: il totale cresce a 50 milioni se si contano anche i piccoli migranti in fuga dalla povertà o dalla violenza di bande criminali. I minori, segnala ancora l’Unicef, "rappresentano circa la metà dei rifugiati che hanno chiesto asilo nel 2015". E i Paesi che hanno ricevuto domande di asilo da bambini o ragazzi sono stati 78: anche questo dà un’idea della vastità del fenomeno. Il rapporto è stato pubblicato in vista di un incontro dell’Onu sulle migrazioni il 19 settembre. Il problema dei bambini travolti dalla guerra tende a essere sottovalutato, e l’Unicef si sente costretta a esortare i diversi Paesi a "considerare prioritaria l’accoglienza dei minori, in quanto particolarmente vulnerabili alla violenza e allo sfruttamento". Per quanto l’Africa sia una fucina costante di guerre, caos e migrazioni, a generare il maggior numero di piccoli profughi sono due Paesi del Medio Oriente allargato, cioè la Siria e l’Afghanistan: viene da lì il 45% dei minorenni rifugiati. E anziché risolversi, il problema si sta incancrenendo: l’Unicef segnala che fra i rifugiati il numero dei piccoli non accompagnati è triplicato fra il 2014 e il 2015. Non basta: i bambini e i ragazzi sradicati dalle loro case hanno una forte probabilità di non studiare e quindi non si preparano alla vita adulta; l’esito più probabile è che le loro esistenze siano rovinate per sempre e che i problemi si trasmettano di generazione in generazione. Migranti. La denuncia di Oxfam "ogni giorno spariscono 28 bambini non accompagnati" di Leo Lancari Il Manifesto, 9 settembre 2016 Viaggiano da soli per settimane, a volte per mesi. Attraversano il deserto prima e il mare poi fino ad arrivare in Italia. Dove spariscono. Inghiottiti in un buco nero fatto di burocrazia, mala gestione dell’accoglienza, disattenzione. A volte fuggono, nella speranza di riuscire a raggiungere parenti che si trovano da qualche parte in Europa. Ma altre volte sono invece vittime della criminalità organizzata. Un esercito di disperati, e neanche tanto piccolo. Sono 28 i bambini richiedenti asilo o rifugiati non accompagnati che scompaiono ogni giorno in Italia, 5.222 nei primi sei mesi che si sono resi invisibili per la legge. E per questo più vulnerabili. In maggioranza sono egiziani (23,2%), somali (23,1%) ed eritrei (21,1%). A rivelarlo è l’ultimo rapporto Oxfam non a caso intitolato "Grandi speranze alla deriva" in cui l’organizzazione spiega come tra le cause della fuga dei piccoli profughi ci sia anche il fatto che "molti si ritrovano confinati per un tempo indeterminato in centri in cui non possono uscire, costretti a vivere in alloggi inadeguati e insicuri, senza informazioni sui loro diritti". Strutture come gli hotspot voluti dall’Unione europea per contenere la massa di migranti in arrivo in Europa, e che spesso si sono trasformati in prigioni. Un fenomeno, quello delle sparizioni, reso ancora più grande dal crescente numero di minori non accompagnati sbarcati nel 2016. Stando ai dati forniti dall’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nei primi sei mesi si è toccato il record, con 13.705 minori non accompagnati (il 15% di tutti gli arrivi), oltre mille in più rispetto al 2015, quando invece se ne registrarono 12.360. "Dopo la chiusura della rotta dei Balcani occidentali e l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia - prosegue Oxfam - l’Italia si è ritrovata ancora una volta ad essere il principale punto di accesso per i migranti diretti in Europa". Nonostante però gli sforzi messi in campo, il sistema di accoglienza predisposto dal governo e in particolare dal ministero degli Interni appare, denuncia l’organizzazione, "ancora inadeguato a tutelare i bambini non accompagnati e i loro diritti". Un esempio di questa inefficienza è rappresentato proprio dagli hotspot dove tutti i migranti vengono registrati dopo il loro arrivo e smistati tra quanti hanno diritto a richiedere asilo e coloro che invece vengono respinti. Per legge la permanenza all’interno di queste strutture non dovrebbe superare mai le 48-72 ore, ma per molti minori può durare anche diverse settimane "spesso - denuncia sempre Oxfam - senza potersi cambiare i vestiti (neanche la biancheria intima) e senza poter chiamare la loro famiglia a casa o i parenti". Subendo invece violenze da parte di migranti di etnia diversa. Significativa da questo punto di vista è la testimonianza resa da D., un ragazzo eritreo di 17 anni. "All’interno del centro di Pozzallo c’è anche un gruppo di somali maggiorenni che si comportano male con noi eritrei, picchiandoci e insultandoci - racconta D. -. Nonostante le nostre ripetute segnalazioni alla polizia e agli operatori del centro, i somali continuano e nessuno fa niente". Non è la prima volta che viene lanciato l’allarme sulla scomparsa di minori non accompagnati. Prima di Oxfam, ad aprile è stata l’Europol a richiamare l’attenzione sulla sorte dei piccoli rifugiati e richiedenti asilo dei quali si è persa traccia una volta giunti in Europa. In quell’occasione l’ufficio europeo di polizia parlò di diecimila minori spariti nel nulla. "Stanno fuggendo dalle guerre solo per scomparire nel ventre delle società europee", disse il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thornbjorn Jagland, in una lettera ai capi di stato e di governo dei 47 paesi membri dell’organismo chiedendo misure più adeguate a proteggere i piccoli profughi (nel 2015 sono stati il 36% dei migranti entrati in Greci dalla Turchia). Un problema che recentemente ha dovuto affrontare anche la Germania dove, secondo i dati forniti ad aprile dal ministero degli Interni, sarebbero 5.835 i profughi minorenni scomparsi nel 2015. Ovunque, da Berlino a Roma a Bruxelles si chiedono maggior attenzione a quella che è sempre più un’emergenza, senza però che le cose cambino realmente. E intanto le situazioni di disagio, se non di pericolo, persistono. Come quella di chi compie 18 anni all’interno della struttura che li accoglie. "Molti - denuncia Oxfam - vengono semplicemente cacciati dal centro in cui soggiornano, finendo così anche loro in mezzo a una strada". Migranti. Sui camion per Calais in attesa del muro inglese di Anais Ginori La Repubblica, 9 settembre 2016 In viaggio con un autista "di frontiera". "Vivo nel terrore, i profughi saltano in tutti i modi sui nostri mezzi per raggiungere il Regno Unito". "Fin qui tutto bene". Julien guarda il contachilometri, ne mancano meno di due al traguardo. Rallenta, controlla lo specchietto retrovisore. "Spesso i migranti passano da dietro". Sul rettilineo, il traffico scorre. Potrebbe sembrare un’autostrada come le altre, se non fosse per le recinzioni con filo spinato intorno. All’improvviso, Julien vede davanti a sé una colonna immobile di tir. Un gruppo di profughi ha bruciato due bidoni piazzati in mezzo alla carreggiata. Sono le 11 di mattina. "Prima invadevano l’autostrada solo di notte, ora non temono più nulla" commenta l’autista, 29 anni, dipendente dell’impresa di trasporto internazionale Deroo. Julien Wysoscki fa il camionista dal 2006, ma sta pensando di smettere. "Ogni volta che mi siedo al volante, ho paura" confessa mentre si sentono i botti dei lacrimogeni. La polizia disperde i migranti dalla strada, si vedono correre nei campi, verso la Giungla, la gigantesca baraccopoli a poche centinaia di metri. Da qualche settimana tra i profughi si è sparsa la voce dell’imminente evacuazione ordinata dal governo, e molti fanno gesti sempre più disperati. L’A16 che collega Calais alla zona portuale è diventata una sorta di canyon in cui si svolge quotidianamente un assalto alla diligenza. Piccoli gruppi di profughi bloccano la circolazione mettendo tronchi d’alberi sradicati sulla carreggiata, lanciando sassi, accendendo falò. Tentano così di introdursi dentro al vano merci degli autocarri in direzione del Regno Unito. Julien rimane fermo nell’abitacolo. Prega che nessuno si avvicini al suo camion: un telonato, il più facile da attaccare. "A loro basta tagliare la tela, e nascondersi tra la merce". Di solito sono accompagnati da qualche trafficante. "Lo riconosci dal fatto che ha il volto coperto, ed è l’unico che non sale a bordo. Spesso portano anche di che ricucire la tela". Quando sono tir furgonati, più difficili da aprire, si infilano tra cabina e vano merci, o addirittura si aggrappano da sotto alle assi del telaio. Dall’inizio dell’anno sono morti 11 migranti a Calais, otto investiti sulla strada o caduti dai camion. Molti autisti assistono impotenti a queste scene. "Per la nostra sicurezza, è vietato uscire dall’abitacolo". La settimana scorsa Julien ha tentato di fare retromarcia. Uno dei suoi "passeggeri" l’ha minacciato con un bastone, rompendo un finestrino del suo Volvo. "Voleva che proseguissi verso il porto". Una volta arrivato alla polizia di frontiera l’autista ha segnalato la presenza di migranti a bordo. Erano saliti in sei nel suo autocarro. La ditta per la quale lavora trasporta imballaggi per alimenti. "La mercanzia era da buttare - racconta - avevano distrutto tutto". I controlli nella zona portuale fanno spavento. Julien deve passare sotto a giganteschi scanner che frugano nella pancia del suo tir. Spesso c’è anche la bonifica con rivelatori di battito cardiaco e Co2. "Neanche così puoi stare tranquillo" spiega l’autista. Un collega di Julien aveva chiesto l’intervento degli agenti per far scendere i migranti saliti sul tratto dell’A16. Il camion era stato ispezionato nel porto, otto persone tirate fuori dagli agenti. Ma a Dover le autorità britanniche hanno scoperto altri tre intrusi. Erano riusciti a eludere i controlli supertecnologici di Calais. "Il mio collega ha avuto una multa di 2.800 euro, anche se non aveva nessuna colpa". Forse però qualche camionista si fa pagare dai trafficanti per caricare illegalmente migranti? "Non è escluso, ma sono piuttosto quelli che vengono dall’Est" risponde Julien. "Per i francesi i rischi sono troppo alti, si può finire in prigione". Cinque giorni fa, Julien era a manifestare insieme alla federazione regionale degli autotrasportatori che ha bloccato l’A16 per denunciare l’insicurezza. Sul cruscotto l’autista ha una bandiera della Francia. "Ma qui sembra che non esistano più lo Stato, la legge" osserva. Il governo di Londra ha annunciato che finanzierà una nuova recinzione lunga due chilometri e alta quattro metri lungo la A16. "La costruzione di nuovi muri non farà altro che spostare il problema" commenta Julien. Molte ditte di autotrasporto vietano ai propri autisti di fermarsi a dormire in piazzole nella regione e in tutto il tratto autostradale che va da Parigi a Calais. Il rischio di intrusioni nei tir si è ormai esteso a un perimetro sempre più largo. "Conosco persino colleghi che hanno avuto problemi venendo dalla Spagna o dall’Italia". Julien è nato a Saint-Omer, a una quarantina di chilometri da Calais. La sua terra è diventata tristemente famosa per la Giungla, ma cerca di rimanere lucido. "Li capisco" dice riferendosi ai migranti. "Spesso hanno fatto viaggi lunghissimi, non vogliono arrendersi a qualche passo dalla meta" osserva l’autista. Suo padre, 59 anni, continua a fare l’autotrasportatore ma è molto meno paziente. "Se gli toccano il camion reagisce, diventa pazzo - racconta - Temo che possa trovarsi in qualche brutta situazione". Ogni settimana Julien fa tre viaggi per l’Inghilterra. Stipendio: 1700 euro al mese. "Stai fuori tutta la settimana, guidi anche per quindici ore al giorno. Ma io ho la passione". Poi si corregge: "L’avevo. Ora vorrei cambiare, ma non saprei che altro lavoro fare". Ieri sera ha dormito a Manchester, davanti a una zona industriale, in attesa di caricare all’alba la nuova merce. Nella cabina ha un letto reclinabile, un frigorifero, un fornello con cui cucinarsi qualcosa. Le condizioni di lavoro sono migliorate rispetto a qualche decennio fa. Si viaggia con il Gps, il telefono in vivavoce, la televisione accesa. "È sempre un mestiere duro, ma hai più comodità" riassume Julien. Sua moglie vuole essere chiamata appena ha superato la zona del porto. "Anche lei è in ansia per me". Julien è cresciuto dentro a un camion. Suo padre lavorava sul trasporto verso l’Italia e da piccolo lo portava con sé. "Mi ricordo di Milano perché c’era un ristorantino dove andavamo sempre". Julien sa che non potrà fare la stessa cosa con suo figlio, almeno fino a quando avrà l’impressione di lavorare in un brutto Western. Diritti umani. Le radici dell’incendio populista di Gianni Riotta La Stampa, 9 settembre 2016 A 40 anni dalla morte di Mao Ze Dong, rivoluzionario che eliminò 42 milioni di connazionali tra carestia seguita al piano economico "Grande Balzo in Avanti" e Rivoluzione Culturale, i social media cinesi (con 710 milioni di cittadini online la Cina è la più grande Nazione Web) lo ricordano non da dittatore spietato, ma da "statista magnanimo", fieri che il Pil cinese abbia battuto sempre il Pil europeo prima del 1800. Secondo il centro di ricerche indipendente Levada, appena messo fuorilegge da Putin, il 45% dei russi "giustifica il terrore di Stalin con i successi che ha ottenuto", il 35% è fiero del despota, solo il 20% ostile. Cina e Russia rimpiangono, con simbolica nostalgia, leader feroci, perché il XXI secolo ci collega via Google, ma ci priva di identità politica, rozza, diretta, magari tragica, ma che almeno indicava nitida "chi siamo". Leggete le memorie che la premio Nobel Svetlana Aleksievic raccoglie in "Tempo di seconda mano" (Bompiani): "Eravamo felici nell’Urss. Poveri, ingenui ma non lo sapevamo e quindi non invidiavamo nessuno. Domani andrà meglio, dicevamo, avevamo un futuro e un passato". La nostalgia di stagioni atroci prova come la perdita di identità nel presente, di speranze nel futuro e riferimenti nel passato sia il male più insidioso del nostro tempo. L’incendio populista, Trump e Sanders in Usa, Brexit e i laburisti di Corbyn a Londra, Le Pen a Parigi, Afd in Germania fino a Beppe Grillo si nutre di questa alienazione e non si esaurirà presto in fuoco fatuo. Per cattive prove che diano i suoi dirigenti, Trump in tv o Grillo a Nettuno, i cittadini delusi rilutteranno comunque davanti alla normale dialettica politica, alla Clinton-Merkel-Renzi, restando ai margini, risentiti, finché nuovi sogni non sappiano mobilitarli. Che il sindaco Virginia Raggi a Roma, senza progetto e classe dirigente raziocinante, avesse davanti a sé le forche caudine era ovvio. Intellettuali e media hanno coccolato i Cinque Stelle, tra caccia agli ingaggi e disprezzo, spesso meritato, per la politica tradizionale, perché, come scrive lo studioso Diego Gambetta, viviamo nell’Era della "Cacocrazia", il governo dei mediocri. La sindaco prova adesso a sfidare il guru Grillo, che muore dalla voglia di scomunicarla dopo l’autodafé imposto a Luigi Di Maio, già delfino in pectore, mentre il sindaco di Parma Pizzarotti, primo purgato dal Movimento, prova a ragionare. Invano: Saturno-Beppe crea figli e li divora. Risparmiamo al lettore il censimento delle beghine e dei Leporello #M5S che si spiano le mail, diffondono pettegolezzi, spifferano sottobanco ai cronisti, tranne poi invocare il Gombloddo dei Poteri Forti, Bildeberg, le Scie Chimiche, Diabolik e Macchia Nera. La Storia non li ricorderà. Non ci fossero in gioco la capitale d’Italia, investimenti economici ed umani colossali (trasporti, infrastrutture, Olimpiadi) e la fiducia nella democrazia verrebbe da ridere. Purtroppo la rotta del Movimento 5 Stelle è segnata, dalle origini. Privo di una democrazia interna al di là di blog controllati da occhiuti editor, con Grillo e i Casaleggio, padre e figlio, a cooptare e poi silurare i parlamentari del Direttorio Suq, non potrà creare alternative di governo. Il dilemma è secco, da Pizzarotti a Raggi, chi governa da indipendente viene cacciato da Grillo, chi gli ubbidisce non riesce a governare. Lo rammenti la sindaco di Torino, Chiara Appendino, cui l’ordine antico della città ha, fin qui, risparmiato guai: si prepari, in libertà, per tempo, con interlocutori seri e progetti concreti perché prima o poi qualcuno parlerà male di lei a Grillo, come nelle trame di Kafka. Pd e centrodestra irridono il tamponamento a catena dei grillini sul Raccordo Anulare di Roma, ma dovrebbero piuttosto chiedersi se i milioni di italiani che 5 Stelle ha sedotto, siano pentiti. No, i militanti M5S che a Nettuno hanno, come Guardie Rosse maoiste, imposto l’umiliazione pubblica all’orgoglioso Di Maio, accusato di "indipendenza" non di "bugie", non ascoltano le critiche, e, delusi da Grillo, si asterranno, lesti ad arruolarsi dietro il prossimo Pifferaio. Il premier Renzi, il tecnocrate Stefano Parisi che sogna un centrodestra riformista, gli altri leader e perfino le teste migliori dei 5 Stelle, avanzino risoluti proposte serie per l’Italia, negozino tra loro compromessi pragmatici, senza timori. Altrimenti scopriranno in fretta che anche da noi, come a Mosca e Pechino, un mediocre presente riabilita il peggiore passato. Così l’Egitto ha nascosto gli ultimi sms di Regeni di Grazia Longo La Stampa, 9 settembre 2016 Manomessa la lista dei messaggi spediti da Giulio agli amici. I pm del Cairo a Roma, senza risultati si rischia una nuova crisi. Il ventottenne è stato barbaramente torturato per nove giorni. La perizia di 224 pagine è un film dell’orrore: ossa e denti spezzati, tumefazioni, sfregi sul corpo. La lista dei messaggi spediti da Giulio Regeni agli amici del Cairo e quelli scambiati tra questi ultimi, consegnata dall’Egitto alla procura di Roma, non è completa. Ne mancano alcuni, che risultano invece dai tabulati controllati dagli inquirenti italiani. Un dato allarmante perché alimenta il sospetto che quella lista possa essere stata manomessa, corretta. E lo stesso potrebbe essere accaduto per altri elementi utili fare luce sulla morte del ricercatore friulano che, per conto dell’Università di Cambridge svolgeva al Cairo un’analisi del sindacato autonomo degli ambulanti oppositori al regime di Al Sisi. Il traffico telefonico insomma è ancora un mistero. Questo almeno per quanto concerne il materiale affidato cinque mesi fa dagli egiziani durante il primo vertice romano. Bisogna capire, invece, che cosa si scoprirà dalla mole di materiale portato ieri pomeriggio. Ci sono moltissimi documenti ma tutti cartacei e scritti in arabo. La speranza è che emergano elementi utili dal nuovo vertice, che si chiuderà oggi tra il Procuratore Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Francesco Caporale e il pm Sergio Colaiocco da una parte e il Procuratore Generale della Repubblica Araba d’Egitto Ahmed Nabil Sadek e il suo team investigativo. Il clima, nell’incontro di ieri pomeriggio, è stato disteso, interlocutorio e collaborativo. Si tratta però di vedere se oggi si trasformerà in qualcosa di concretamente produttivo. Perché è evidente che altrimenti si aprirebbe una nuova crisi politica come quella che, dopo il fallimento del precedente summit, portò al rientro del nostro ambasciatore al Cairo. A parte il traffico telefonico si aspettano rivelazioni sulle telecamere della metropolitana sotto l’abitazione del giovane al Cairo. L’Egitto lo scorso aprile fa aveva garantito che avrebbe inviato l’hard disk da esaminare alla dieta tedesca che lo ha costruito, ma questa non lo ancora ricevuto. A nulla è valsa la disponibilità del nostro Paese di occuparsi della spedizione e dei costi che comporta l’operazione. Stavolta si riuscirà a spezzare la catena di omissioni, esistenze, reticenze, sulla morte di Giulio Regeni? Il ventottenne è stato barbaramente torturato per nove giorni prima di essere ucciso e abbandonato alla periferia del Cairo il 3 febbraio scorso. I nostri inquirenti hanno chiesto i dati grezzi sul traffico telefonico, utili per verificare chi era presente al momento del sequestro e del ritrovamento del cadavere in modo da confrontare le utenze con quelle dei poliziotti che hanno ritrovato i documenti del giovane nella casa di alcuni banditi del tutto estranei all’omicidio. Sono stati quei poliziotti a portare il passaporto di Giulio e il suo tesserino universitario in quella casa? In assenza del materiale completo, di un cd, è difficile capire la verità. Perché le sintesi su file Excel non solo è inefficiente ma può, appunto, essere manovrata. E restano l’amarezza, il dolore, e l’orrore per quel giovane corpo martoriato. Le 224 pagine della perizia dei medici legali Vittorio Fineschi e Marcello Chiarotti sono il quadro dell’orrore. L’autopsia, grazie ai test sul livello di potassio, conferma che il decesso è avvenuto nelle ultime 24 ore prima del ritrovamento. Il resto è tristemente noto: ossa e denti spezzati, tumefazioni, sfregi sul corpo (sul dorso c’è una E rovesciata). Un team formato da polizia e carabinieri, di Sco e Ros, per oltre due mesi ha seguito le indagini sul posto senza però essere autorizzato a ricerche autonome. Oggi potremo avere finalmente risposte decisive o assisteremo al solito copione di apparente cooperazione? La disponibilità dell’Egitto, ieri sera, si è anche manifestata con un invito a cena dei nostri inquirenti, insieme ai colleghi del Cairo, all’ambasciata egiziana. E intanto i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini insistono nel chiedere giustizia e verità. Egitto. Caso Regeni. "Per al-Sisi ultima chance: o si va avanti o si chiude" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 settembre 2016 Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty: "Egitto dimostri collaborazione". Le crude descrizioni delle torture arrivano nel giorno dell’incontro tra Procura di Roma e investigatori egiziani. Nel giorno in cui si apre il terzo incontro tra Procura di Roma e investigatori egiziani, la cruda descrizione delle atroci torture subite da Giulio Regeni scuote ognuno di noi. Già sette mesi fa le parole della madre, Paola Deffendi, avevano disegnato un quadro di inimmaginabile sofferenza: "L’ho riconosciuto solo dalla punta del suo naso". Le 225 pagine contenenti i risultati dell’autopsia condotta dai medici Fineschi e Chiarotti già ad aprile erano state messe a disposizione delle autorità egiziane. Con una lama sono state tracciate quattro o cinque lettere (in due casi una X) sul dorso, vicino all’occhio destro, sulla mano e sulla fronte. I pestaggi, ripetuti per giorni, hanno provocato più di 15 fratture, scapole, polso, dita di mani e piedi, omero destro e peroni, oltre ad avergli rotto cinque denti. Ovunque segni di bruciature, elettrochoc, tagli. Secondo il rapporto, "si può ipotizzare che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze". Oggi quel corpo martoriato, ogni singola pena subita, cade come un macigno sulla scuola di polizia in via Guido Reni: qui si sta tenendo la sessione di lavori del team del pm Pignatone con il procuratore generale egiziano Sadek. Scarse le anticipazioni: secondo fonti giudiziarie egiziane, non ci sono svolte significative nelle indagini. Dichiarazioni che purtroppo non stupiscono vista la povertà della collaborazione e la lunga serie di depistaggi che l’hanno accompagnata. Altre fonti anticipano "nuove informazioni", ma ciò che il team romano si aspetta sono i dati completi sul traffico telefonico catturato dalle celle nella zona di scomparsa e ritrovamento del giovane. La famiglia, che ha permesso la pubblicazione dell’autopsia, forse nell’estremo tentativo di smuovere le istituzioni italiane alla vigilia del terzo incontro tra procure, chiede verità: "Le torture che gli sono state inflitte, i tempi e le modalità dei supplizi che nostro figlio ha dovuto sopportare non possono che essere l’opera perversa di qualche professionista delle tortura". Un corpo che racconta la riduzione di un essere umano a qualcosa che umano non è, segni inconfondibili che gli egiziani conoscono a menadito. Su questo punta da mesi la campagna lanciata da Amnesty International Italia, "Verità per Giulio Regeni": mettere a nudo il regime del Cairo e i suoi alleati occidentali. Perché, come ripete da tempo il portavoce Riccardo Noury, quello che ha subito Giulio lo subiscono da anni migliaia di egiziani. "Giulio vittima di professionisti della tortura": come inciderà l’autopsia sull’incontro con il team investigativo egiziano? Spero che abbia degli effetti. Ma soprattutto queste terribili informazioni dovrebbero ulteriormente sensibilizzare il governo italiano perché compia un’azione più incisiva. Sulla base delle informazioni che avevamo dall’inizio, abbiamo sostenuto che sul corpo di Giulio c’era una firma. Questi nuovi dettagli lo confermano, un ulteriore elemento che deve condurre alla verità nell’ambito del contesto di repressione dei servizi egiziani. Quella frase della madre - "Hanno usato il suo corpo come una lavagna" - ce la ricorderemo ancora tra 50 anni. Quei segni raccontano molto: una persona trattata come un oggetto da professionisti della tortura addestrati per togliere umanità ad una persona. Descrizioni così dettagliate, le offese al suo corpo, colpiscono come un pugno. Si aspetta reazioni da società e governo? L’opinione pubblica non ne aveva bisogno, sono mesi che c’è una mobilitazione incredibile online e offline, il manifesto giallo di Giulio riempie palazzi, case di privati, istituzioni. Mi aspetto, alla luce delle informazioni date dall’autopsia, che ci siano parole di preoccupazione da parte delle istituzioni italiane e di conferma dell’impegno a pretendere la verità, nient’altro che la verità. Si aspetta reazioni dal Cairo? Da parte del Cairo le reazioni le vorrei vedere domani pomeriggio (oggi per chi legge, ndr) alla fine dell’incontro tra le procure. C’è un livello alto di polemica da parte dei media egiziani legati ad al Sisi che è a dir poco offensiva. Mi aspetto che la procura egiziana soddisfi le richieste della procura di Roma. È l’ultima chiamata: dopo sette mesi il tempo è maturo per una qualche forma di conclusione. Al di là del formale rapporto di cortesia tra procure, o si fa un passo in avanti vero o si chiude riconoscendo che non c’è l’intenzione di collaborare. A proposito della liberatoria fatta firmare a Giulio dall’Università di Cambridge, è un atto normale da parte di un ateneo o sottintende superficialità? Occupandomi di violazioni di diritti umani da parte di governi, non ho le competenze per dire se si tratti di una prassi abituale o no. Chiedendo a persone più informate, mi è stato detto che quella dell’attestazione del rischio è una procedura formale che si fa in tutti i casi di ricerche all’estero. Detto questo, se insisto nel dire che la verità giudiziaria si trova al Cairo e da nessun’altra parte, ogni elemento che arriva da Cambridge può chiarire tutto ciò che ha legato Giulio all’università e alla sua ricerca. Spero soltanto che non ci siano deviazioni di attenzione sul responsabile vero. In questi giorni l’attenzione va focalizzata sull’incontro tra le due procure. L’interlocutore che deve rispondere sta in un palazzo al Cairo e si chiama Abdel Fattah al-Sisi. Una volta mi è stato detto, in riferimento al ruolo di Cambridge: hanno gettato un pesciolino nella vasca dei piranha. Ecco, io mi occupo della vasca dei piranha, di chi la sta alimentando, di chi ci fa affari e gli manda le armi. Siria, salto all’indietro di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 settembre 2016 Medio Oriente. La mancata intesa tra Mosca e Washington sembra aver riportato il quadro della crisi siriana indietro di 3-4 anni. L’opposizione "moderata" presenta un piano lontano dalla realtà. Il nulla di fatto sulla Siria al G20 di Hangzhou e la mancata intesa tra Russia e Usa sul cessate il fuoco hanno avuto l’effetto di riportare indietro di 3-4 anni il quadro della crisi siriana. Si torna a parlare di attacchi chimici da parte delle forze governative, si invocano "reazioni internazionali", si intima a Bashar Assad di uscire subito di scena e i curdi sono di nuovo abbandonati per compiacere il sultano turco Erdogan. Ed è riapparsa anche l’opposizione "moderata" siriana, l’Alto Comitato per i Negoziati (ACN), di cui non si avevano notizie da un pò di tempo, che ha presentato una proposta agli "Amici della Siria" riuniti a Londra. Il tono è quello di un ultimatum ad Assad. Come se questa opposizione rappresentasse qualcuno nelle strade della Siria e non fossero le milizie qaediste e salafite, oltre all’Isis, a dettare legge. Il piano, "Vision of Syria", è stato illustrato da Riyad Hijab, il coordinatore dell’ACN. Prevede sei mesi di tregua e di negoziato durante i quali Bashar Assad potrà restare alla presidenza della Siria; poi avverrà il passaggio dei poteri a un governo di unità nazionale per 18 mesi e infine nuove elezioni. Puntuale è subito giunto un intervento del capo della diplomazia saudita, Adel al Jubeir. Il piano, ha detto, è destinato a "mettere alla prova" la buona volontà dei più importanti alleati di Damasco, vale a dire Russia e Iran. Jubeir si è detto scettico sulla disponibilità di Mosca e di Teheran a esercitare "la necessaria pressione" su Assad affinché aderisca a quella che ha definito "la volontà della comunità internazionale", che, in realtà, è la volontà di Riyadh e dei suoi alleati. Al Jubeir ha parlato con tono deciso come se un esercito dell’opposizione fosse alle porte di Damasco pronto a prenderne il controllo e il presidente siriano fosse debole e non più forte rispetto a qualche tempo fa. Per questo è un salto all’indietro. L’opposizione, sponsorizzata da Riyadh e Ankara e appoggiata dai governi occidentali, torna a porre condizioni irrealistiche. La soluzione alla crisi siriana potrà essere trovata solo se non saranno poste condizioni, a cominciare dall’uscita di scena più o meno immediata di Bashar Assad. A maggior ragione ora che il presidente siriano, forte del sostegno di Mosca, ritiene di poter riprendere il controllo di altre porzioni di territorio siriano e forse la stessa Aleppo dove le forze governative e le milizie alleate stanno per richiudere l’accerchiamento della zona est della città che i qaedisti di al Nusra e i salafiti di Ahrar al Sham erano riusciti a spezzare tra la fine di luglio e l’inizio di agosto. Non si può non rimanare perplessi di fronte all’atteggiamento dell’Amministrazione Obama che dopo aver fatto qualche scelta dettata da realismo politico, è tornata ad appoggiare la strategia dell’Arabia saudita e a dare credito all’ACN che conta sempre meno tra i siriani. Oggi e domani a Ginevra si terranno nuovi incontri tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli esteri russo Serghiei Lavrov. Sul tavolo c’è sempre la possibile intesa per un cessate il fuoco duraturo in Siria. Le posizioni delle due parti restano lontane, come sei mesi fa, un anno fa, due anni fa. Washington vuole che la Russia imponga ad ogni costo ad Assad di accettare il piano dell’opposizione e questo è irrealistico. Da parte sua Mosca chiede agli Stati Uniti di considerare terroristi molti dei gruppi jihadisti schierati contro Damasco. Anche questo è impensabile perché l’Amministrazione Usa punta proprio su di loro senza ammetterlo apertamente. Washington sa che senza quelle formazioni cesserebbe la lotta armata contro Bashar Assad alla luce dell’inconsistenza della milizia dell’opposizione "moderata". È di almeno 14 civili uccisi il bilancio di raid aerei compiuti ieri a Tadef nel nord della Siria, un’area sotto controllo dell’Isis. In quello spicchio di territorio operano quattro aviazioni militari: quella turca, quella russa, quella siriana e quella della Coalizione guidata dagli Usa. Altre 15 persone sarebbero state uccise in bombardamenti avvenuti ad Aleppo, pare sullo stesso quartiere dove due giorni fa attivisti anti Assad avevano denunciato un attacco con il cloro che avrebbe provocato almeno un morto e decine di intossicati. Svizzera: detenuto trovato morto nel carcere Pöschwies di Regensdorf Corriere del Ticino, 9 settembre 2016 Un detenuto è stato trovato senza vita questa mattina in una cella del penitenziario Pöschwies di Regensdorf (ZH). L’uomo, incarcerato in regime di espiazione anticipata della pena nell’ambito di un procedimento ancora in corso, si sarebbe strangolato. Un secondino ha trovato il detenuto privo di sensi poco dopo le 7.00, indica in una nota il Dipartimento cantonale di giustizia e dell’interno. Nonostante i tentativi di rianimazione, il medico chiamato sul posto non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. Per non compromettere l’inchiesta tuttora in corso, né il Ministero pubblico né l’Ufficio per l’esecuzione delle pene rilasceranno ulteriore informazioni, precisa la nota.