Andrea Orlando e la "questione carceri" di Valter Vecellio L’Indro, 8 settembre 2016 Non è un saluto formale, rituale, quello del Ministro della Giustizia Andrea Orlando ai radicali riuniti a congresso nel carcere romano di Rebibbia. Ad ascoltarlo, un pubblico eterogeneo, fatto non solo di militanti orfani di Marco Pannella; ci sono detenuti cui l’Amministrazione ha dato il permesso di lasciare celle e "bracci" per assistere ai lavori di questo anomalo congresso del partito che dell’essere anomalo ha fatto la sua normalità. Ci sono agenti di Polizia penitenziaria, e non solo per dovere di servizio; c’è il Direttore del carcere, e non solo per dovere di ospitalità; c’è il cappellano del carcere, che quando interviene riesce a essere più radicale dei radicali stessi, e strappa applausi anche agli anticlericali più incalliti. Orlando entra nel merito di questioni importanti e complesse; e comincia con una ‘confessione’, quella di un suo personale percorso di maturazione politica ed umana: "Vengo da una tradizione politica, quella della sinistra di ispirazione marxista, che contrapponeva e talvolta anteponeva i diritti sociali ai diritti civili"; e poi riconosce che "diritti sociali e i diritti civili possono affermarsi solo congiuntamente e come una società sia più ricca non solo se cresce il Pil, ma se riesce ad allargare la cifra di libertà che caratterizza il suo funzionamento". Ancora: "ho il massimo rispetto per i temi di principio che voi volete porre…una battaglia da combattere con le armi (‘radicali’, se volete) del diritto, della legge e della informazione…da questo punto di vista ritengo fondamentale una delle ultime intuizioni di Marco Pannella: la battaglia per il diritto alla conoscenza che oggi incrocia il tema delle tecnologie, del loro uso e della misura del loro controllo". Enuclea poi impegni precisi: "Penso ad una legge destinata a definire il reato di tortura e penso che, al di là di quello che sarà l’approdo costituisca un fatto positivo che il Parlamento sia investito del tema della legalizzazione delle droghe leggere. Terrò per me le mie opinioni e l’esito di quella discussione non sarà scontato, ma il fatto che se ne torni a discutere sarà l’occasione per mettere in discussione alcuni tabù che fino ad oggi sono sembrati indiscutibili. E questo penso che di per sé sia un fatto positivo". Solo quando si tratta dell’ergastolo, Orlando si fa prudente. Forse non è convinto che la condanna al "fine pena mai" vada abolita; forse ritiene che il Governo abbia anche troppe gatte da pelare, e non vuole fornire un ulteriore argomento di polemica; come sia, si limita a un ‘discutiamone’, ma si esprime per il suo mantenimento. Subito dopo è la volta del responsabile del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, un magistrato, Santi Consolo; lui non ha problemi di Governo, può parlare in modo più disinvolto; e lo fa: "L’ergastolo, anche quello nella sua forma più dura, l’ostativo, riservato a chi si è reso responsabile di crimini particolarmente efferati? Anche per loro va abolito". Sembra di sentir parlare il Ministro della Giustizia norvegese. Bisogna abolirlo per le ragioni che già diceva secoli orsono Cesare Beccaria; per ragioni di umanità, ma anche di convenienza: perché è dimostrato come sia controproducente, addirittura dannoso, incostituzionale: se la detenzione, come fine, ha quello di fornire una chance di recupero e riabilitazione, come si può stabilire che non ci può essere la sua fine? Gli stessi concetti vengono espressi dal direttore del carcere; e poi dal comandante degli agenti della polizia penitenziaria; non parliamo, ovviamente delle detenute e dei detenuti, che però, a conforto che "uno su mille ce la fa", esibiscono il risultato dei loro impegni: ergastolani entrati semi-analfabeti ora pluri-laureati, e che si esprimono come docenti universitari, sanno di legge e di diritto al punto che possono dialogare senza timore con ex presidenti della Corte Costituzionale… Succede quello che ben riassume Orlando: "Paghiamo le cattive abitudini di un’informazione troppo timida…in omaggio a politiche securitarie condotte in passato con lo scopo di riscuotere consenso"; cosicché si continua a erigere "quel muro di silenzio che circonda alcuni temi, o quel frastuono che invece solletica gli istinti peggiori dell’opinione pubblica". Prima di chiudere, un salto a Venezia, al festival del cinema. Viene presentato un docu-film di Ambrogio Crespi, "Spes contra spem", sul carcere; meglio sull’ergastolo ostativo. Una pena immutabile che, a differenza di quanto accade con l’ergastolo ‘normale’ -in cui, dopo 26 anni di detenzione, il condannato può uscire dal carcere e avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale- prevede che il detenuto viva tutta la sua esistenza in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario. Prodotto in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, Indexway e Radio Radicale, racconta le storie di criminali, mafiosi e pluriomicidi, immergendo lo spettatore nel viaggio di colpa, reclusione e speranza di chi è condannato a questo tipo di pena. Crespi ha incontrato e intervistato detenuti e agenti di polizia della casa di reclusione Opera, a Milano, e ne ricava - senza pregiudizi e senza buonismi - "un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso". Alla prima, oggi, è previsto intervenga anche Orlando. Basterebbe ripetesse quello che ha detto a Rebibbia, ma forse ci riserverà qualche piccola sorpresa. I figli dei detenuti non devono scontare le pene dei genitori di Francesco Straface Il Dubbio, 8 settembre 2016 Giulia ha 8 anni, ama disegnare e giocare con le bambole. Ha bisogno di attenzioni e punti di riferimento ma i genitori sono detenuti. È una delle storie raccolte da Children of prisoners Europe, la rete europea che comprende 21 paesi e ha assunto come modello la "Carta dei figli di genitori detenuti", già tradotta in varie lingue e adottata in alcuni stati membri. Ieri al Ministero il rinnovo biennale del protocollo d’intesa entrato in vigore nel marzo 2014. A siglarlo il titolare del dicastero della Giustizia, Andrea Orlando, la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Lia Sacerdote. Un tavolo permanente si occuperà del monitoraggio. I protagonisti sono bambini come tutti gli altri, che si trovano ad affrontare una situazione straordinaria. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che soffrono l’abbandono, si vergognano di affrontare l’argomento con amici e conoscenti, hanno paura per il futuro. Ma soprattutto rischiano traumi, patologie depressive o mentali. L’esponente del Governo Renzi ha rimarcato i progressi certificati dai dati dell’amministrazione penitenziaria. Gli spazi appositamente dedicati ai bambini, come le sale d’attesa, presenti in 130 istituti nel 2015, sono adesso 171, le ludoteche sono passate da quota 58 alle attuali 70, mentre le aree verdi attrezzate per i colloqui all’aperto sono 99, 35 destinate ai soli minori. "Il rapporto tra carcere e famiglie è necessario per minimizzare i disagi per i bambini con genitori reclusi", ha rimarcato Orlando. Per il ministro, l’attuazione della Carta può contribuire anche all’umanizzazione della pena: "Questi minori hanno una propensione al crimine, spesso frutto di eventi traumatici subiti durante la crescita, avvenuta in un universo terrificante. Si tratta quindi di un investimento per il futuro". Un problema non risolto è quello delle detenute madri, 38, di cui 19 ancora in carcere mentre l’altra metà è ospitata da Icam (Istituti a Custodia Attenuata). Dal momento che a non volere lasciare il carcere sono spesso le dirette interessate, il Governo, dopo avere eliminato eventuali impedimenti strutturali, ipotizza modifiche di carattere normativo. Filomena Albano ha rimarcato che "questi minori sono soli, fragili e vulnerabili. Devono poter visitare i genitori in orari non scolastici e con maggiore frequenza. Per i loro genitori occorre una custodia alternativa al carcere". Per Lia Sacerdote il "benessere del bambino è prioritario e il carcere, un luogo a loro estraneo, deve essere in grado di accoglierli. Rispetto a 14 anni fa i progressi sono evidenti". Per Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, "bisogna formare sia il personale che la società esterna". Orlando ha commentato anche la rivolta di lunedì nel carcere di Airola: "Da tempo non accadeva qualcosa di simile. Stiamo cercando di comprendere cosa non ha funzionato. Non si possono trarre prematuramente conclusioni generali. La dotazione d’organico non è un problema, come nelle carceri per gli adulti. Le sigle sindacali già invocano modifiche normative, che non condivido". Rivolta nel carcere minorile di Airola, la soluzione non è buttarli nelle galere "dei grandi" di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2016 Il sistema della giustizia minorile va difeso. È un’anomalia positiva italiana. Siamo stati capaci di rendere residuale il carcere senza che aumentassero i delitti commessi da ragazzi. È questo un merito che va attribuito anche al lavoro straordinario dei tanti operatori sociali e della giustizia che lavorano negli istituti penali per minori, nei centri di prima accoglienza, nelle case famiglia. In Italia sono circa 450 i detenuti ristretti nelle carceri minorili. Fortunatamente il sistema ha resistito a tutti i tentativi di smantellamento. L’ultimo rapporto di Antigone sulle carceri minorili riporta che nell’istituto di Airola (Benevento) erano presenti 30 ragazzi detenuti e 44 agenti di polizia penitenziaria, ai quali naturalmente si affianca tutto il personale amministrativo. Circa un poliziotto e mezzo a ragazzo. Ogni ragazzo con il proprio poliziotto personale. Nelle scorse ore il carcere per minori di Airola è stato teatro di qualche tumulto. Pare che alcuni ragazzi abbiano lamentato problemi sul cibo e sul fatto che le sigarette ordinate allo spaccio interno - il cosiddetto sopravvitto - non arrivavano. Teste calde come spesso sono i ragazzi, hanno dato di matto. Sfasciato un po’ di roba nelle celle, preso a calci e pugni ogni adulto che si avvicinava a loro. Un comportamento grave, violento e pericoloso. A questi ragazzi, come a tanti adolescenti che vivono nel mondo libero, va spiegato che i problemi si risolvono con il dialogo. Va spiegato che mai e poi mai si deve usare la violenza, mai e poi mai si deve ricorrere a gesti d’ira, spaccare oggetti, peggio ancora rischiare di far male a qualcuno. I ragazzi vanno sempre educati. Come ciascuno di noi in famiglia educa i propri ragazzi, che forse a volte avranno dato di matto, avranno avuto comportamenti deprecabili, saranno stati sgridati e messi in punizione. Una punizione intelligente, da noi scelta al fine di far comprendere loro gli sbagli commessi. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe ha subito parlato di una gravissima rivolta. Lo ha sempre fatto, a ogni episodio che in questi anni si è verificato in un istituto penale per minori. Lo scopo è dimostrare che la giustizia minorile italiana - che tutta Europa ci invidia, che è capace di recuperare alla società la stragrande maggioranza dei ragazzi che finiscono nel circuito penale, che usa il carcere come strumenti davvero residuale - non funziona, è troppo lassista, non usa il pugno di ferro con i ragazzi quanto questi meriterebbero. Lo scopo è dimostrare che ai minori vanno applicate le regole dure previste per gli adulti. Da un paio d’anni la legge consente ai ragazzi che hanno commesso il reato da minorenni di fermarsi nel carcere minorile fino al compimento del 25esimo anno di età, quando dovranno essere trasferiti in un carcere per adulti. Prima il limite era posto a 21 anni. Le nuove regole sono pensate per offrire a più ragazzi ancora la possibilità - avendo compiuto il reato da giovani, quando non potevano essere criminali incalliti ma erano ancora personalità in evoluzione da cercare a tutti i costi di recuperare a una vita non deviante - di usufruire di un sistema detentivo più morbido, improntato sulla scuola, su un modello educativo piuttosto che punitivo. "Il problema è che l’ordinamento consente la presenza di ultra ventunenni - dice il Sappe - Sono piccoli boss che portano avanti una lotta per la supremazia". Dietro ai tumulti delle scorse ore il Sappe legge qualcosa di oscuro e strutturato: "È una manifestazione di forza da parte di clan della criminalità organizzata che si sono formati all’interno del carcere. La rivolta è scoppiata per questo, è una lotta tra bande e uno dei clan ha voluto così dimostrare che è più forte e che riesce a tenere in scacco anche lo Stato". Io non so se dietro quelle violenze ci siano i clan. Ricordiamoci però che parliamo di ragazzi che hanno commesso il reato da minorenni. La sfida di uno Stato forte è far loro capire come paghi sempre l’uso della ragione, del dialogo, della nonviolenza, dell’onestà. La sfida è farglielo capire con gli strumenti della legalità e dell’educazione. Senza buttarli nell’inferno delle carceri ‘dei grandi’. Il capo del Dipartimento della Giustizia Minorile, Francesco Cascini, dopo aver visitato il carcere minorile di Airola, ritiene che la rivolta scoppiata all’interno dell’istituto non sia scaturita da contrasti tra clan camorristici. I disordini sono nati, secondo Cascini, "da una protesta intentata da parte di 13 detenuti. La reazione violenta del gruppo è consistita sostanzialmente nel danneggiamento delle camere detentive e nel lancio di oggetti. Quattro agenti di polizia, intervenuti per ripristinare l’ordine, hanno riportato lesioni lievi. I tre detenuti promotori della protesta sono stati immediatamente trasferiti in altre strutture penitenziarie e la situazione, dopo poche ore, è tornata alla normalità". Se l’ascesa del penale ci isola tra i paesi avanzati di Massimo Krogh Il Mattino, 8 settembre 2016 In Italia si è stabilizzato un connubio anormale fra organizzazione amministrativa, politica e giustizia, che condiziona la vita del Paese al punto di alterare l’amministrazione e la gestione politica della più grande città italiana. Il deprecabile fenomeno è legato alla trasformazione del servizio giudiziario in un vero e proprio potere, anzi il potere più forte dello Stato, dal momento che un avviso di garanzia può bloccare chiunque e qualunque attività o amministrazione, nella ormai totale dimenticanza della presunzione d’innocenza, divenuta una frase di principio piuttosto che un valore reale. Il sovraordinato potere giudiziario, in un Paese dove non vi è separazione di carriera fra il pubblico ministero e l’organo giudicante, dove, dunque, la terzietà del giudice resta un principio teorico ed astratto, vizia visibilmente la ordinata convivenza civile. Ne vediamo gli effetti sotto gli occhi quotidianamente, al punto da esserne oramai abituati, indifferenti a questo unicum che ci distingue dai paesi avanzati. Bisogna chiedersi a cosa risale questa nociva singolarità, la risposta non può essere che una sola: agli italiani, la cui carenza culturale sul tema è purtroppo un dato di fatto. La spinta in direzione del giustizialismo, che sicuramente è un fenomeno dannoso, parte dal basso, dove la confusione sociale disperde il senso dei valori nella totale assenza della politica, che in questo campo è visibilmente assente. Il risultato è un vuoto sociale, dove l’etica diventa un concetto ambito ma astratto; la collettività aspira ad una società eticamente condivisibile e affida alla magistratura, la sola istituzione statuale sfuggita al crollo morale, il compito di salvare il salvabile. Una confusione di ruoli che riversa tutto nel penale, che peraltro punisce ma non risolve, e che appartiene a un sistema giudiziario le cui disfunzioni sono all’apice: basta guardare alla durata dei processi, alle sentenze che arrivano quando non servono più a nessuno. Queste carenze culturali sul tema conducono fra l’altro all’uso improprio della custodia cautelare, il cui abuso vede nel nostro Paese il gravissimo fatto di persone incarcerate prima della sentenza e scarcerate dopo una sentenza lungamente attesa perché il reato non risulta provato o è prescritto. L’invadenza della giustizia partì negli anni 90 con Mani Pulite, quando l’intreccio dell’impresa e dei finanziamenti illeciti ai partiti si stabilì come fatto codificato. L’interventismo dei giudici si consolidò al punto di divenire una vera e propria morsa, e quella che doveva essere una momentanea supplenza si è trasformata in un potere stabilizzato; tale da proporre l’ordine giudiziario non solo come il custode dei diritti ma come l’interprete della vita civile del Paese. Ciò nell’assoluta mancanza di una politica che sappia mettere le cose in ordine. In effetti, con Mani Pulite nacque una nuova Repubblica che vede il modello di legalità nella ascesa e sovraesposizione del sistema penale nella vita dello Stato. Ciò ci isola nel contesto dei paesi civili avanzati. Queste cose le ho scritte altre volte anche anni addietro, ciò è significativo che purtroppo le cose non cambiano. Sulle nuove direttrici per l’emergenza giustizia di Gianluca Denora Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2016 Con il decreto legge 31 agosto 2016, n. 168, recante Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di Cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa, il Governo segnala un’attenzione al pianeta giustizia. Gli effetti, tuttavia, sembrano del tutto ipotetici già dalle premesse. Accelerazioni e buone intenzioni. Lo scorso 1° settembre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il provvedimento emarginato, che un insieme di norme, con immediata entrata in vigore, dirette a tamponare le emergenze della giustizia. Le novità di dettaglio sono già state riportate dal quotidiano giuridico (cfr. Diritto e giustizia del 31 Agosto 2016, Semplificazione PAT, efficientamento giustizia e pensionamento magistrati: le valutazioni del CdM, e Diritto e giustizia del 1° settembre 2016, Approda in G.U. il decreto legge per l’efficienza giudiziaria); qualche glossa di commento può sempre giovare. In particolare, occorre una prognosi ragionevole su un punto decisivo: vi saranno delle reali accelerazioni o si tratta soltanto, al meglio, di una dichiarazione di intenti nel segno dei migliori auspici? Novità in Cassazione. Il senso dichiarato della novella normativa è anzitutto quello di un’accelerazione del lavoro in Cassazione. Nella rubrica dell’art. 1 si legge infatti di Applicazione dei magistrati dell’Ufficio del massimario e del ruolo per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità per la definizione del contenzioso. In linea di principio, nessuna difficoltà a salutare un impiego di questi magistrati a sostegno dell’alleggerimento del carico, anche se i mal pensanti potrebbero rilevare che chi lavora al massimario sviluppa un tipo di mentalità poco avvezza all’udienza. Il cattivo pensiero potrebbe risultare in qualche modo confermato dalla precisazione che questo impegno straordinario debba avvenire cum grano salis, almeno per quel che concerne la composizione dei collegi, con un solo "supplente": lo dice la lettera della legge. Sullo sfondo, decisivo appare un altro quesito: gli uffici ai quali costoro sono preposti resteranno sguarniti? Risulta forse meno importante la massimazione e documentazione del lavoro della Suprema Corte rispetto alla decisione su singole questioni, e dunque alla definizione del contenzioso pendente a Piazza Cavour? Facciamo un esempio. Un magistrato applicato normalmente al massimario, al mattino, sta per estrapolare le massime di provvedimenti utili a tracciare gli indirizzi del Collegio; viene impegnato in udienza per un caso nuovo che magari (ma non necessariamente) ha la stessa materia di quel caso o di quei casi che si accingeva ad esaminare e massimare. Con ogni probabilità non avrà la possibilità di conoscere questa congiuntura (peraltro non essenziale ai fini di quanto qui proposto), ma sta di fatto che la "sua" massima avrebbe potuto giovare all’udienza che lo vede presente, in diversa veste. La giurisdizione, perseguita come un bene primario, rischia qui di essere meno efficiente di quanto avrebbe potuto se al mattino quel magistrato avesse ottemperato ordinariamente al proprio ufficio. L’effetto boomerang appare con tutta evidenza: l’accelerazione del sistema, del diritto, voluto per il tramite di questo "passaggio temporaneo a differenti funzioni" rischia di mal celare, all’opposto, l’arrancare del sistema, perché la documentazione alla quale il magistrato era (ed è normalmente) preposto ha subito un’impasse in grado di frenare il buon lavoro della Cassazione. In breve, un intervento di questo tipo non sembra contraddistinto da sicuro valore aggiunto, segnalandosi piuttosto come tentativo, probabilmente maldestro, di colmare problemi strutturali con interventi emergenziali, a tutto detrimento di un funzionamento virtuoso e virtuale della Cassazione. Scelte incerte e tempi incerti. Come che sia, già in punto di metodo non è possibile salutare benevolmente queste previsioni normative. Sta di fatto che le indicazioni fornite dal decreto vanno lette, in parte qua, in termini di prognosi decisamente incerta. Leggiamo che il primo presidente della Cassazione può applicare temporaneamente magistrati (art.1), il che fa capire subito che le indicazioni del Governo sono provviste di sicura valenza simbolica, non foss’altro perché è chiaro che la responsabilità di conferire un potere non è certo responsabilità di esercitarlo. Il primo presidente della Suprema Corte dovrà considerare autonomamente l’indicazione normativa e fare uso del proprio potere per valutare l’applicazione dei magistrati del massimario e del ruolo a funzioni giurisdizionali. Ne assumerà oneri ed onori, se ve ne saranno. Le promesse mantenute. La censura avanzata non implica una critica cieca al provvedimento, anche se le voci di commento in questi primi giorni non sono particolarmente lusinghiere. Va detto che il senso di precarietà segnalato con riferimento alla riforma che concerne la Cassazione si può contrapporre ad una percezione di senso opposto per quel che concerne altre previsioni. Segnatamente (basti un cenno), altrove si legge che il Ministro della Giustizia richiede al CSM di assegnare ai magistrati risultati idonei in sede di concorso ulteriori posti disponibili e che il CSM provvede entro un mese dalla richiesta (art. 2), che il tirocinio dei magistrati ordinari dichiarati idonei è ridotto in via straordinaria a dodici mesi (ibidem). Il lessico non mente: l’attesa di un maggior organico è certa, così come l’impiego accelerato delle nuove leve. Quando vuole il Governo sa fare promesse concrete; è così per ogni governo. Di certo, emende in sede di conversione se ne possono fondatamente ipotizzare (anche perché la montagna ha partorito il topolino: il decreto è l’explicit di un dibattito ben ampio sulle emergenze della giustizia, ed alcuni temi sono stati stralciati). Di certo, ci sono le premesse per qualcosa di meglio, o quanto meno ci sono le speranze. "Dagli allo sciacallo!" I capri espiatori del terremoto e la paura agitata dai media di Paolo Persichetti Il Dubbio, 8 settembre 2016 Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l’io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L’allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l’atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l’abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l’uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l’immancabile "nomade", avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che "allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati". Sono stati eseguiti ? proseguiva il testo ? controlli su persone sospette o "semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi", ma tutte le verifiche "hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate". Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c’è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L’esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà ? come hanno raccontato al Dubbio ? abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all’interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l’inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l’infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe "sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un’autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto". Dopo un’accurata perquisizione "venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l’accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell’arma, in attesa della relativa convalida da parte dell’autorità giudiziaria". La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all’interno gettati a terra. L’uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L’autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l’avvocato Luca Conti, presidente dell’ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l’inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient’altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l’uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell’interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l’assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L’uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L’avvocato Conti ha sollecitato l’ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell’ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558). I penalisti contro la Procura "una barbarie le accuse dei pm al medico suicida" di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2016 I penalisti contro la Procura di Busto Arsizio per le rivelazioni postume su Flores d’Arcais. Alberto Flores d’Arcais, il pediatra accusato di abusi su minorenni suicidatosi sabato scorso: a poche ore dalla sua morte i pm di Busto Arsizio hanno diffuso nuove "prove" a suo carico. "Imbarbarimento della giustizia". L’Unione Camere penali non usa mezzi termini. Denuncia il caso delle accuse postume mosse dai pm all’indagato suicida, il pediatra Alberto Flores d’Arcais. "Mancava giusto una conferenza stampa post mortem di una Procura della Repubblica, a poche ore di distanza dal decesso, per suicidio, dell’indagato agli arresti domiciliari", attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Ucpi. Il capo dei pm di Busto Arsizio, Gianluigi Fontana, ha convocato i giornalisti sabato scorso, poche ore dopo che il 61enne primario dell’ospedale di Legnano si era lanciato dalla propria abitazione al sesto piano. "Ci sono oltre tremila foto pedopornografiche scaricate dal dottor Flores d’Arcais sul proprio computer personale, oltre ad altre trovate su pc d’ufficio", è la rivelazione fatta dal procuratore. Argomenti a corredo dell’accusa di aver abusato di 18 piccole pazienti durante le visite. Di fatto quella messa in opera sabato scorso dalla Procura lombarda è una requisitoria postuma. Brandelli di prove offerte alla stampa in un surreale processo che non avrebbe dovuto celebrarsi. "Sarà paradossale ma una delle cause di proscioglimento è la morte dell’indagato, che produce di per sé l’estinzione del reato: l’ufficio inquirente deve solo chiedere l’archiviazione al gip, che pronuncia la sentenza", fanno notare i penalisti dell’Osservatorio comunicazione diretto dall’avvocato Renato Borzone. Nella nota dell’Ucpi si ricorda ancora come di fronte al decesso del presunto colpevole "ogni ulteriore valutazione circa la fondatezza o meno dell’accusa è vietata e, se espressa, illegittima". La giustificazione delle indagini - Una vicenda triste, dolorosa. In cui pesa, per assurdo, proprio il prestigio del pediatra di Legnano. Lo stesso procuratore Fontana nell’incontro con i giornalisti lo ha ricordato come un medico "comunque affermato e valido". Flores d’Arcais era conosciuto anche per le sue missioni umanitarie in Asia. Non ha retto di fronte al peso delle terribili responsabilità, 18 casi di abusi su bambine con meno di 13 anni? O lo ha schiacciato "la profonda prostrazione in cui era precipitato pur consapevole della propria innocenza, e che aveva spinto tre psichiatri a sollecitare in altrettante perizie l’interruzione degli arresti domiciliari", come sostiene il medico di famiglia Alberto Aronica? "Proprio perché non è più possibile accertare la verità, la Procura non avrebbe dovuto dare notizia delle foto pedopornografiche", si fa notare ancora dall’Osservatorio delle Camere penali. Il pediatra aveva maldestramente cercato di rimuovere le immagini dal computer attraverso la formattazione del disco rigido, ha svelato ancora il procuratore Fontana. Altro dettaglio offerto come simulacro di prova in un processo fantasma. Tecnicamente si tratta di materiale d’indagine coperto da segreto. I difensori del medico non sapevano delle perizie informatiche: l’avvocato Massimo Borghi lo ha dichiarato sempre sabato scorso, in un assurdo contraddittorio a distanza con i pm, con l’indagato suicidatosi quella stessa mattina. "La Procura della Repubblica di Busto Arsizio, ex inquirente, è stata generosa di pronunciamenti sul fondamento della propria indagine", si segnala appunto nella nota delle Camere penali. In cui ci si chiede "per quale ragione" i pm abbiano voluto offrire così tanti elementi alla pubblica opinione su un procedimento tecnicamente archiviato. L’unica ragione plausibile sarebbe nella volontà di "giustificare il proprio operato a fronte della tragica risposta di chi era stato destinatario di quella iniziativa giudiziaria". E che si era visto negare pochi giorni prima, dal gip, la revoca dei domiciliari. Segreto violato a indagato morto - "Di fronte a una così tragica risposta, anche per l’autorità giudiziaria si imporrebbe la regola del rispetto umano, cioè la pietas", dicono i penalisti. "Che un’istituzione, contro le regole umane, ritenga che prevalgano le supposte ragioni di giustificazione del proprio operato, è cosa profondamente inquietante, anche perché attuata violando le prescrizioni di segretezza delle indagini". Da una parte la volontà degli inquirenti di dar forza alle accuse. Non si può far derivare il gesto estremo del medico dalle indagini avviate contro di lui, pare essere il messaggio. L’accusa di aver abusato delle piccole pazienti riguarda fatti che sarebbero avvenuti nell’arco di 8 anni, tra il 2008 e il 2016, ed è sostenuta sulla base di intercettazioni ambientali effettuate dai carabinieri, a cui si aggiungono le testimonianze delle madri. Dall’altra parte ci sono gli argomenti della difesa: secondo il consulente di parte la condotta del medico sarebbe stata "standardizzata" in tutti i 18 casi incriminati. C’è sempre stata la presenza di un genitore, il pediatra visitava le pazienti e toccava le parti intime anche nei casi di allergie, ma per effettuare una "valutazione dei genitali necessaria per stabilire lo stato di avanzamento" della reazione allergica "e per escludere la presenza di eventuali alterazioni infiammatorie o cicatriziali". Le foto pedopornografiche, secondo il medico di famiglia, sarebbero finite sui computer in uso al pediatra attraverso "manipolazioni indotte dai colleghi pediatri di base, che Flores d’Arcais aveva spesso criticato". Un complotto, sostiene Aronica. "Silenzio", avevano chiesto inutilmente i familiari. L’azione di responsabilità può essere proposta anche dal socio receduto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale sentenza 23 agosto 2016 n. 35384. Anche il socio che ha esercitato il diritto di recesso può presentare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 35384 della Quinta sezione penale. È stato così respinto il ricorso presentato contro l’ordinanza del tribunale di Trapani con la quale veniva confermato il provvedimento di sequestro a carico dell’amministratore di una snc per i reati di impedito controllo e infedeltà patrimoniale. La misura cautelare era stata disposta a tutela del credito vantato da un socio costituitosi come parte civile. L’amministratore, infatti, secondo il quadro accusatorio, socio anche di un’altra società, debitrice nei confronti della snc da lui amministrata, aveva compiuto un atto di disposizione di un bene sociale effettuando la rimessione del debito a favore della seconda società. In questo modo veniva provocato un danno patrimoniale cui la misura del sequestro intendeva fare fronte nell’immediato. Il ricorso era incentrato sulla assenza di legittimazione della parte civile alla presentazione della querela, necessaria per potere procedere per il reato di infedeltà patrimoniale (articolo 2634 del Codice civile). La parte civile, infatti, sosteneva la difesa, al momento della sua costituzione in giudizio era receduta dalla società. Sosteneva il ricorso che, se al socio deve essere riconosciuto il diritto di querela e la conseguente azione risarcitoria nell’ambito del giudizio penale, una legittimazione analoga non può essere riconosciuta a un soggetto estraneo come il socio che ha esercitato il diritto di recesso. La Cassazione non è stata però di questo avviso. Innanzitutto la sentenza ricorda il principio di diritto secondo cui la legittimazione alla proposizione della querela per il reato di infedeltà patrimoniale dell’amministratore spetta non solo alla società nel suo complesso, ma anche, disgiuntamente, al singolo socio. La condotta dell’amministratore infedele, infatti, è certo diretta a compromettere gli interessi della società, ma anche e soprattutto quelle dei singoli soci che per l’infedele attività dell’amministratore subiscono l’impoverimento del proprio patrimonio. Ma perché anche al socio receduto va riconosciuto il diritto all’azione di responsabilità? Perché, sottolinea la Cassazione, deve essere incasellato come persona offesa dal reato. È evidente che la condotta illecita dell’amministratore non ha provocato solo un danno al patrimonio della società, ma ha anche prodotto un abbattimento del valore della quota alla cui liquidazione il socio di una società di persone ha diritto al momento del recesso (articolo 2289 del Codice civile). Valore che va determinato al momento in cui si verifica lo scioglimento del rapporto. Il socio receduto allora non può certo essere considerato estraneo come messo in evidenza dall’impugnazione dell’ordinanza. "Proprio per il rilievo dell’appartenenza alla compagine sociale al momento in cui l’amministratore ha compiuto l’atto infedele, è evidente che il socio receduto non perde, al momento dello scioglimento (nei suoi confronti) del rapporto sociale, la qualità di parte offesa e, conseguentemente, la legittimazione a proporre querela, atteso che il fatto genetico illecito (costituente reato), produttivo di un pregiudizio nella sua sfera giuridica si è verificato ben prima della sua uscita dalla società e ciò a prescindere dal fatto che la quantificazione concreta del danno si appalesa solo all’atto della liquidazione della quota". Omessi versamenti: prima di aggredire i beni personali confisca al patrimonio societario di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2016 In caso di mancato versamento dell’Iva, la somma non versata va sequestrata direttamente presso la società a cui è imputabile l’irregolarità tributaria. Non è invece aggredibile attraverso il sequestro per equivalente il patrimonio personale all’amministratore della società. Questo il principio affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 37174/2016. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un appello della procura nei confronti dell’ordinanza del Tribunale di Napoli con la quale era stato accolto il ricorso del presidente della società Palermo calcio (Società U.S. Città di Palermo), Maurizio Zamparini, con la restituzione dei beni sequestrati direttamente alla persona fisica disponendo, invece, il sequestro dei beni facenti capo alla società. I Supremi giudici hanno rigettato la richiesta della procura evidenziando come la confisca per equivalente dei beni della società non può fondarsi sull’assunto che l’autore del reato abbia la disponibilità di tali beni in quanto amministratore, essendo tale disponibilità nell’interesse dell’ente e non della persona fisica. La nozione di profitto - Nella sentenza viene delineata, poi, la nozione di profitto che non sempre consiste in un facere ma, come nel caso, può essere delineata da una omissione (mancato versamento dell’Iva). E quindi il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. In funzione di questo ragionamento soltanto quando sia impossibile la confisca di denaro sorge l’eventualità di fare luogo a una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, proprio perché in tal caso si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore. Conclusioni - In conclusione l’ordinanza impugnata dalla procura ha correttamente disposto l’annullamento del decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca in quanto emesso nei confronti dell’indagato senza che fosse stata verificata, sia pure sommariamente, la possibilità di procedere al sequestro diretto nei confronti della società di cui Zamparini è legale rappresentante. Sequestro preventivo finalizzato alla confisca Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2016 Confisca - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca - Natura sanzionatoria della confisca per equivalente - Sequestro dell’intero prezzo o profitto del reato - Sequestro disposto nei confronti di un concorrente nel delitto di cui al D. Lgs. n. 274/2000, art. 2 - Transnazionalità (aggravante) - Somme incamerate in tutto o in parte da altri coindagati - Principio solidaristico - Imputazione dell’intera azione delittuosa in capo a ciascun concorrente - Legittimità. E’ legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca di cui all’articolo 322 ter c.p., eseguito per l’intero importo del prezzo o profitto del reato nei confronti di un concorrente del delitto di cui al Decreto Legislativo n. 274 del 2000, articolo 2, aggravato dalla transnazionalità, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati, salvo l’eventuale riparto tra i concorrenti medesimi, che costituisce fatto interno a questi ultimi, privo di alcun rilievo penale, considerato il principio solidaristico che uniforma la disciplina del concorso di persone e che, di conseguenza, implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa in capo a ciascun concorrente, nonché la natura della confisca per equivalente, a cui va riconosciuto carattere eminentemente sanzionatorio. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 26 agosto 2016 n. 35527 Confisca - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca - Sequestrabilità di un bene fittiziamente intestato - Prova concreta (necessità) - Applicabilità di presunzioni - Esclusione. È illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca su un bene intestato a soggetto diverso dall’indagato se non è provata l’intestazione fittizia: non è applicabile, infatti, alcuna presunzione, poiché sono necessarie prove concrete sulla disponibilità. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 15 giugno 2016 n. 24816. Reati tributari - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca - Somme depositate su conto corrente bancario - Cointestazione del conto corrente anche a persone diverse dall’indagato - Disponibilità delle somme da parte dell’indagato uti dominus - Legittimità. E’ pienamente legittimo il sequestro preventivo operato sull’intero compendio di somme di danaro confluite su di un conto corrente bancario cointestato anche a persone diverse dall’indagato così come è parimenti legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di beni sui quali, ad onta della formale intestazione, l’indagato avesse la libera disponibilità uti dominus. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 14 gennaio 2016 n. 1157. Confisca - Confisca per equivalente nei confronti di persona giuridica (condizioni) - Sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca - Reati di frode fiscale - Truffa aggravata ai danni dello Stato - Truffa finalizzata al conseguimento di erogazioni pubbliche. Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto del reato tributario compiuto dagli organi della stessa, salvo che la persona giuridica sia stata uno schermo fittizio. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 5 febbraio 2015 n. 5413. Emilia Romagna: la lettera del Sinappe sulle criticità delle carceri regionali ilnuovo.redaweb.it, 8 settembre 2016 La situazione carceraria continua a far discutere a Modena e in Emilia Romagna. Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Raffaele Luigi Pellegrino, segretario aggiunto Sinappe, uno dei sindacati delle Polizia penitenziaria, indirizzata al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria: "Egr. Provveditore, è stata una stagione calda quella che ha interessato gli Istituti Penali dell’Emilia Romagna, con particolare riferimento alle città di Parma e Modena dove il costante ripetersi di eventi critici ha generato nel personale un senso di abbandono, sfociato (come nel caso di Modena) all’assunzione di condivise iniziative di protesta. In questo clima di certo appare di primaria importanza cercare di riportare al centro quel rapporto dialettico fra l’Amministrazione e i propri uomini al fine di comprendere la natura dei disagi e, in una azione sinergica e corresponsabile, giungere al superamento delle spaccature e delle difficoltà operative. Proprio in questo solco si era inserita una apprezzabile azione intrapresa dal Comandante della Casa Circondariale di Modena che ha funto da "intermediario" e anello di congiunzione fra il reparto di Polizia Penitenziaria e l’autorità dirigente del Sant’Anna. Tale momento di confronto (che per altro pare essere stato sollecitato proprio dal personale) ha visto una nutrita partecipazione seppur svoltosi in vigenza del piano ferie e con personale libero dal servizio. In quell’occasione erano state rappresentate tutta una serie di problematiche e si era assistito al formale impegno del Comandante di un vaglio delle stesse e di una successiva analisi da farsi con l’Autorità Dirigente dell’Istituto. Proprio a seguito di tale impegno, circa una settimana fa il Comandante in conferenza ha rimandato al personale le proposte fatte alla Direzione relative alla riorganizzazione delle Unità Operative con una consegnate razionalizzazione delle modalità di impiego dei sottufficiali, ad una diversa modalità di programmazione dei servizi, ad una diversa rimodulazione dei periodi di congedo ordinario, oltre ad altri aspetti pratici della vita detentiva (ad esempio una diversa attenzione alla detenzione di lamette da parte dei detenuti, in ragione dei diversi eventi critici verificatisi nel tempo. Tale rimando è stato accolto con estrema soddisfazione dal personale che si è sentito finalmente parte della mission dell’istituto, considerato e coinvolto nelle scelte. Si è assistito dunque ad un sapiente esempio di compartecipazione e di compenetrazione a cui l’Amministrazione tutta dovrebbe tendere, facendo tesoro delle intelligenze di tutti gli addetti ai lavori e riconoscendo il giusto rilievo ai suggerimenti provenienti da esperienze dirette sul campo. Un tale modus agendi dovrebbe di certo diventare non l’eccezione ma la regola nella costruzione dei rapporti; tuttavia la strada intrapresa del dialogo e dell’ascolto ha trovato una brusca virata in indicazioni di senso contrario (si sconosce l’autorità dalla quale dette indicazioni promanano) che a fronte di un nuovo incontro calendarizzato per il primo pomeriggio odierno, hanno disposto il "rinvio" ad altra data su richiesta del Direttore in Missione (il direttore dell’Istituto risulta assente per congedo ordinario). Sconoscendosi le ragioni di tali disposizioni e fermo il valore che questa O.S. riconosce al momento di confronto, attesa la disponibilità del Comandante di Reparto e non ostando ragioni di servizio, si vuole comprendere il motivo di detto rinvio e conoscere il parere di codesto Vertice regionale in relazione a tale modalità relazionale. Di certo, a parere di questa O.S. si è persa una preziosa occasione per rafforzare quel rapporto di dialogo che aveva preso avvio con il primo incontro della stessa natura. In attesa dei chiarimenti richiesti, questa O.S. auspica di trovare in codesto Provveditore conforto per un processo costante di intensificazione di un rapporto dialettico fra le parti che porti al centro il confronto e la compartecipazione". Cagliari: morta detenuta più anziana d’Italia, Stefanina Malu aveva 83 anni cagliaripad.it, 8 settembre 2016 Il decesso è avvenuto nel nosocomio San Giovanni di Dio a Cagliari dove è stata portata con un’ambulanza in seguito a un malore verificatosi nella sua dimora. E’ morta Stefanina Malu la reclusa, di 83 anni, più anziana d’Italia. Aveva lasciato di recente il carcere di Cagliari-Uta a causa delle sue gravi condizioni. E una settimana fa era tornata a casa in stato di detenzione domiciliare dopo un ricovero ospedaliero. Il decesso è avvenuto nel nosocomio San Giovanni di Dio a Cagliari dove è stata portata con un’ambulanza in seguito a un malore verificatosi nella sua dimora. "Si chiude così la vicenda di ‘nonna galera’ che negli ultimi mesi aveva suscitato vivaci reazioni nell’opinione pubblica, ha sottolineato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha appreso dalla figlia Angela la notizia. "Stefanina Malu - ha spiegato Caligaris - era ricoverata nell’ospedale cagliaritano fino a otto giorni orsono. Il miglioramento delle condizioni avevano consentito alla reclusa di tornare a casa. Improvvisamente, però, la situazione è precipitata e nonostante l’impegno del personale sanitario l’anziana donna non ce l’ha fatta". Il caso Stefanina Malu aveva interessato non solo la stampa locale ma anche quella nazionale, perché la donna era la detenuta più vecchia ed aveva attenuto i domiciliari proprio per le sue condizioni di salute. Airola (Bn): dopo la rivolta il carcere minorile finisce sotto ispezione di Pierluigi Melillo La Repubblica, 8 settembre 2016 Non ci sarebbe una guerra tra clan dietro la rivolta scoppiata nel carcere minorile di Airóla. La conferma arriva dopo l’ispezione effettuata nell’istituto di pena della Valle Caudina dal capo del Dipartimento della giustizia minorile, Francesco Cascini, che ha annunciato la nomina di una commissione d’inchiesta sugli episodi di violenza di lunedì scorso. "È chiaro che non tutti i meccanismi di prevenzione e di ordinata reazione hanno correttamente funzionato", accusa Cascini, accompagnato nel blitz dal magistrato Vincenzo Starila, anche lui in servizio presso il Dipartimento. Secondo quanto ricostruito dagli ispettori a scatenare la protesta sarebbe stato un 19enne condannato per omicidio, affiliato al clan D’Amico, dietro le sbarre del carcere sannita dal luglio 2015, che avrebbe reagito a una punizione. Sotto accusa sono finiti i vertici amministrativi del circuito minorile campano "per come hanno fronteggiato la rivolta", ma gli accertamenti della commissione ispettiva puntano anche a "verificare la complessiva gestione dell’Istituto minorile di Airola". Cascini ha fornito una più precisa ricostruzione dei fatti, smentendo come denunciato invece dal sindacato di polizia penitenziaria, che a favorire gli incidenti sia stata "la gestione contemporanea di minori e di giovani adulti negli istituti minorili". "La protesta - ha spiegato l’inviato del Dipartimento - è risultata connessa, invece, a dinamiche purtroppo non infrequenti in qualunque ambiente detentivo". Tredici i detenuti protagonisti della rivolta, di cui dieci di età compresa tra i 18 e 21 anni, che hanno devastato le celle e lanciato oggetti contro gli agenti (alla fine si conteranno quattro feriti lievi). Confermato il trasferimento di tré detenuti promotori della protesta presso altri penitenziari della Campania. Ma il capo del Dipartimento della giustizia minorile assicura che d’ora in poi sarà effettuata "una attenta azione di monitoraggio sull’intero sistema penitenziario minorile al fine di ridurre al minimo le possibili criticità derivanti dalla convivenza nelle stesse strutture di minori e giovani adulti ultra-ventunenni, garantendo, per quanto possibile, la suddivisione in gruppi separati". Sulla rivolta di Airóla è intervenuto anche il nuovo vescovo della diocesi di Cerreto Sannita, monsignor Domenico Battaglia, che inizierà la sua missione pastorale con una visita nell’istituto di pena per minori: "Sono vicino agli agenti feriti ma anche ai ragazzi che vivono un malessere". Airola (Bn): il Dgm "disposti approfonditi accertamenti, ma non contrasti tra clan" giustizia.it, 8 settembre 2016 Nella giornata di oggi il Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile Francesco Cascini, accompagnato da Vincenzo Starita, magistrato in servizio presso il Dipartimento, ha visitato l’istituto penale per minori di Airola a seguito dei fatti accaduti lo scorso 5 settembre. Come noto, tali fatti sono scaturiti da una protesta intentata, all’interno di una sezione dell’Ipm, da parte di tredici detenuti, di cui dieci di età compresa tra i diciotto ed i ventuno anni. La reazione violenta del gruppo è consistita sostanzialmente nel danneggiamento delle camere detentive e nel lancio di oggetti. Quattro agenti di polizia, intervenuti per ripristinare l’ordine, hanno riportato lesioni lievi. I tre detenuti promotori della protesta sono stati immediatamente trasferiti in altre strutture penitenziarie e la situazione, dopo poche ore, è tornata alla normalità. Sono stati disposti approfonditi accertamenti, attraverso la nomina di una commissione ispettiva, volti ad individuare le modalità con le quali i vertici amministrativi del circuito minorile campano hanno fronteggiato gli eventi ed a verificare la complessiva gestione dell’Istituto Minorile di Airola. E’ tuttavia chiaro che non tutti i meccanismi di prevenzione e di ordinata reazione hanno correttamente funzionato. Appaiono, pertanto, destituite di fondamento le notizie di stampa che ricollegano l’accadimento a contrasti tra clan camorristici che avrebbero avuto ripercussioni all’interno dell’Istituto. La gestione contemporanea di minori e di giovani adulti negli Istituti minorili, infine, non ha inciso né nella genesi né nella fase esecutiva della protesta che è risultata connessa, invece, a dinamiche purtroppo non infrequenti in qualunque ambiente detentivo. In via generale il Dipartimento svolge una attenta azione di monitoraggio sull’intero sistema penitenziario minorile al fine di ridurre al minimo le possibili criticità derivanti dalla convivenza nelle stesse strutture di minori e giovani adulti ultra ventunenni, garantendo, per quanto possibile, la suddivisione in gruppi separati. Ferrara: ventata di entusiasmo biancoazzurra per i detenuti dell’Arginone di Andrea Mainardi estense.com, 8 settembre 2016 Si cementa sempre di più il legame della società spallina con la città, anche nelle sue parti più complesse o difficili come può essere quella della carcere cittadino. Un’ora circa di spensieratezza dedicata alla passione per lo sport che tanti detenuti hanno e che hanno fatto percepire con domande, omaggi e tantissimi applausi. La Spal si è presentata con un nutrito gruppo di giocatori guidati dal ds Vagnati e dal patron Francesco Colombarini, senza poi dimenticare le istituzioni rappresentate dall’assessore allo sport Simone Merli. Prima della visita alla struttura la vice comandante della Polizia Penitenziaria Annalisa Gadaleta ha presentato il nuovo campo da beach volley e beach tennis realizzato grazie al contributi di Vetroresina. "Ringrazio la Spal ed i Colombarini per la vicinanza dimostrata al carcere. Qui dentro lo sport è una delle leve più sentite considerato anche il grande valore rieducativo che ha. Quando abbiamo chiesto aiuto a Francesco Colombarini per la realizzazione di questi campi ci ha risposto positivamente senza esitazione, tutto questo dà gioia anche al personale di polizia penitenziaria che svolge un mestiere particolarmente duro. Questo campo può essere una fonte di benessere sia per loro che per i detenuti, per questo nutro una forte gratitudine verso chi ha dato una mano a realizzarlo". Il carcere come parte integrante della città e non come entità a se stante, è questo il pensiero dell’assessore Simone Merli: "qui più che mai è importante il rapporto con le istituzioni, chi pensa che il carcere non sia parte della città sbaglia. L’obiettivo di tutti è far si che coloro che sono in carcere, anche gli agenti, si ricordino della vita fuori da qui per non rendere troppo pesante la vita carceraria. Ai detenuti deve essere garantito un reinserimento nella società e tutto il personale deve poter lavorare al meglio". La delegazione si è poi spostata all’interno della struttura dove, nella sala teatro, sono stati presentati uno ad uno i calciatori presenti ed è stato proiettato un mini film riguardante la storica promozione in serie B. Qui Francesco Colombarini ha spiegato cosa rappresenti per lui la Spal: "questa società dà emozioni, l’avere Ferrara sulle spalle è un impegno ma ci fa sentire onorati. Abbiamo sempre ottenuto risultati partendo dalla Giacomense quando era in terza categoria. Spero che questo tempo passato assieme porti gioia a tutti voi, il nostro successo non è solo economico ma altre componenti come l’umiltà ed il saper fare, caratteristiche che rivedo in Walter Mattioli ovvero il vero artefice di tutti questi successi". I detenuti hanno poi rivolto domande a diverse persone tra cui Davide Vagnati, che ha così raccontato i recenti successi: "siamo qui non per obbligo ma perché volevamo incontrarvi col cuore per dimostrare vicinanza anche a voi. La nostra scalata è sicuramente una bella avventura, nessuno ci ha regalato nulla ma ci abbiamo sempre messo umiltà, sacrificio e lavoro". Dello stesso tono anche Mora e Castagnetti che si sono prestati alle curiosità dei presenti: "è tutto nuovo per noi, garantiamo passione ed impegno e le emozioni vissute lo scorso anno ci devono servire da sprone. Faremo di tutto per vincere questa nuova scommessa". Infine c’è stato uno scambio di omaggi con un prodotto di artigianato donato dalla popolazione carceraria alla società biancoazzurra, che ha ricambiato con magliette e palloni firmati. Verona: relazioni "incarcerate" al Mercato Vecchio, nella settimana dedicata alla famiglia lafraternita.it, 8 settembre 2016 In una settimana dedicata alla famiglia, viene dato uno spazio di rilievo anche alle famiglie in qualche modo coinvolte nelle vicende della pena. Genitori, coniugi, figli che vengono improvvisamente privati di un riferimento importante, che si interrogano su una loro possibile responsabilità educativa, affettiva; che devono organizzarsi per andare a trovare il congiunto, provvedere a sue necessità, tirare avanti in sua assenza, o anche decidere con fatica di interrompere il rapporto. E poi preparare il ritorno, un’accoglienza che sia anche aiuto alla ripresa di una vita regolare, senza poter dimenticare lo strascico di quello che è stato, gli sguardi dei vicini, le amicizie che si confermano o si disfano, i ruoli precedenti ritrovati o offuscati dai dubbi. Di tutto questo, e soprattutto delle esperienze di sostegno che il volontariato organizzato offre a queste famiglie, si parla nel corso della manifestazione "Aspettando te…", alle 17 di sabato 10 settembre, in Cortile Mercato Vecchio. Ci saranno, tra le altre, Emma Benedetti per il Centro d’ascolto Domenico nel carcere di Montorio e Silvana Iori per il progetto di incontri della Fraternità. "Spes contra spem", docu-film sull’ergastolo ostativo. La lotta alla mafia non è Gomorra di Francesco Straface Il Dubbio, 8 settembre 2016 Se non hai speranza, sii speranza. La massima latina rispolverata da Marco Pannella dà il titolo al docu-film Spes contra spem ? Liberi dentro, prodotto da "Nessuno tocchi Caino" e Indexway, presentato ufficialmente come evento speciale della rassegna veneziana nella Sala Pasinetti. Per 70 minuti a divenire attori protagonisti, detenuti condannati all’ergastolo e operatori penitenziari, a partire dal Capo del Dap Santi Consolo e dal direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano. Il motto tanto caro allo storico leader dei Radicali era contenuto nella Lettera di San Paolo ai Romani e rievocava l’incrollabile fede di Abramo, che sperava "contro ogni speranza". La pellicola vuole far conoscere chi vive quotidianamente la casa circondariale milanese, mostrando con chiarezza non solo un cambiamento interiore dei detenuti ma anche la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e una maggiore fiducia nelle Istituzioni. Sergio D’Elia, segretario di "Nessuno tocchi Caino", ha ricordato il grande legame di Marco Pannella con "detenuti e detenenti", dal momento che era molto legato anche agli agenti di polizia. "Noi speriamo in un cambiamento e auspichiamo che questo laboratorio sperimentale possa raggiungere le altre case circondariali. Anche il regista, dopo le riprese, è una persona diversa rispetto a prima". Per il dirigente dei Radicali, reduci dal congresso ospitato proprio dal carcere di Opera, Spes contra spem è anche un "manifesto della lotta alla mafia, alternativo a Gomorra. Sullo schermo il libro di Roberto Saviano è stato trasformato ed è diventato la mitizzazione del giovane camorrista violento". Significativo e apprezzato l’intervento del ministro Andrea Orlando: "Dentro il carcere c’è umanità ma purtroppo non se ne parla abbastanza. Una cappa di silenzio gravita attorno a questo mondo, che non va demonizzato né umanizzato. Qui dentro ci sono persone che hanno tolto molto agli altri, e quindi devono scontare una pena, ma hanno fatto del male anche a loro stessi". L’esponente del Governo Renzi ha insistito sull’errata percezione collettiva: "È un esorcismo. Qui dentro si confinano le persone in modo che non possano più fare male a nessuno e si invocano pene sempre più dure come per un riflesso condizionato". Inevitabile un riferimento alla rivolta di Airola: "Si accendono le luci soltanto quando qualcosa non funziona. Dopo anni ci sono stati momenti di tensione in un carcere minorile. Nonostante la dinamica non fosse ancora chiara, opinionisti e sigle sindacali hanno già chiesto in coro di rivedere le norme. Eppure in questo ambito siamo già un’eccellenza, come dimostra il bassissimo tasso di recidiva dei giovani detenuti". Il docu-film proiettato a Venezia deve quindi contribuire a modificare la percezione del fenomeno: "La privazione della dignità porta soltanto alla reiterazione del reato e non rende certo più sicuri. Un carcere più umano è realizzabile ed è una battaglia da vincere dentro la società, dal momento che la promozione di norme che vanno verso la riabilitazione originano sempre una levata di scudi". L’ultimo riferimento alla lotta contro la pena di morte, altra priorità dei Radicali: "La loro battaglia ci rende orgogliosi di essere italiani. I paesi che la applicano sono scesi da 54 a 40, si va finalmente verso una moratoria internazionale. Anche fenomeni gravissimi e dolorosi non vanno combattuti così". Il regista Ambrogio Crespi ha voluto dedicare la pellicola al figlio Luca: "All’esterno del carcere si dà per scontato che chi è all’ergastolo non possa cambiare. Con calma e determinazione i protagonisti mi hanno trasferito una convinzione alternativa. Abbiamo incontrato i vertici del carcere di Opera e costruito un tempio in una cella. Sergio ha coinvolto nove detenuti, il loro cambiamento l’ho percepito e mi ha influenzato. Hanno tirato fuori la loro parte nera, hanno vissuto il male, la criminalità e hanno dato un messaggio forte contro la mafia". A dare un volto concreto alla speranza due detenuti, Roberto Cannavò, che da tempo racconta la sua esperienza nelle scuole, divenendo un esempio per i giovani, e Ciro Damola, che per l’evento lagunare ha ottenuto il suo primo permesso: "Il "fine pena mai" è molto duro. Per anni una barriera mi ha diviso dagli agenti, con i quali oggi ho instaurato invece un rapporto inaspettato. Adesso ho paura di commettere un’infrazione, anche perché gli ergastolani non evadono ma sfruttano la seconda possibilità, se gli viene concessa". Migranti. Un muro per chiudere la "giungla" di Calais di Leonardo Clausi Il Manifesto, 8 settembre 2016 Annuncio del ministro dell’immigrazione inglese Goodwill. Costerà oltre 2 milioni di euro. Da Berlino a Calais, in quest’Europa culla del liberismo i muri non passano mai di moda. Parola di Robert Goodwill, (nomen omen) il ministro britannico conservatore per l’immigrazione, che ieri ha dichiarato con scoppiettante solerzia alla commissione parlamentare riunita a Londra per deliberare sulla situazione a Calais e Dunkerque: "Abbiamo già costruito la recinzione, ora stiamo costruendo il muro". Quattro metri d’altezza per un chilometro di lunghezza di cemento, eretto parallelamente ai lati dell’autostrada in modo da isolarla del tutto dall’esterno, questo muro è la soluzione della Gran Bretagna post-Brexit al problema della concentrazione di migranti presso il campo di Calais, infelicemente denominato "la giungla", e ormai universalmente noto per la scia di spesso tragici tentativi, da parte dei profughi in fuga da varie zone disastrate del mondo, di salire a bordo dei camion o dei treni diretti a Dover. Dovrà proteggere l’ultimo tratto di autostrada che porta gitanti, viaggiatori e trasportatori all’imbarco per il ferry o verso l’Eurotunnel, in una potente raffigurazione simbolica che da anni mette spietatamente a confronto i "disagi" del mondo cosiddetto sviluppato rispetto a quelli di chi, non facendone parte, cerca disperatamente di raggiungerlo a costo della propria stessa vita. Parte del campo era già stata sgomberata con la forza di recente; le ultime cifre rilasciate dalla Uk Border Force, che effettua controlli su suolo francese, parlano di 84.088 fermi effettuati presso la zona d’imbarco di persone che cercavano di nascondersi sui camion in transito o nel tunnel dell’Eurostar. I lavori cominceranno entro la fine del mese e si prevede terminino entro l’anno. Il muro costerà circa 1,9 milioni di sterline (oltre 2 milioni di Euro) e fa parte di un pacchetto anglo-francese di misure per un totale di 17 milioni di sterline. Va ad aggiungersi alla già esistente matassa concentrazionaria di barriere, recinzioni e similari che avvolgono ripetutamente la zona, adiacente alla distesa di tende e baracche in cui vivono circa diecimila homines sacri ivi accampati in condizioni disumane nonostante gli sforzi molteplici del volontariato e delle Ong. Ma il provvedimento ha scontentato anche i suoi presunti beneficiari, gli autotrasportatori stessi: la portavoce della Road Haulage Association britannica ha definito il muro "uno spreco scandaloso del denaro dei contribuenti", che non farà altro che rinviare nel futuro la risoluzione dei problemi. In risposta a quella che considera una misura governativa inadeguata, l’associazione raccomanda ai suoi membri di non fermarsi in un raggio di 200 km da Calais, in modo da non subire gli assalti, a volte notturni e silenziosi, altre apertamente in pieno giorno, dei migranti. L’annuncio della costruzione della barriera arriva il giorno dopo il blocco stradale nella zona di Calais da parte di autotrasportatori, cittadini, negozianti, agricoltori e sindacalisti della cittadina, che manifestavano per la demolizione del campo. Che scaturisce da quello, smantellato in seguito a una serie di scontri con la polizia, di Sangatte, sorto nel 1999 a pochi chilometri da Calais. Fu il cosiddetto "Trattato di Le Touquet", firmato nel 2003 dall’allora ministro dell’interno laburista David Blunkett e dalla sua controparte Nicolas Sarkozy, a sancire la nascita dell’accampamento di Calais e a stabilire l’attuale assetto incrociato di controlli francesi su suolo britannico e viceversa. Un trattato bilaterale, e dunque scisso dall’ormai defunta (ma ancora tutta da sciogliere) appartenenza della Gran Bretagna all’Ue. A svariati secoli dal Vallo di Adriano, questo muro rappresenta la via europea al segregazionismo di cui Donald Trump si è fatto infaticabile propugnatore negli Usa. Ed è così, ricorrendo alla calce e alla cazzuola, che l’atlantismo sembra voler risolvere gli effetti, a breve e lungo termine, della propria politica estera, di cui la situazione di Calais rappresenta la suppurazione. Con una decisione che schiaccia la reputazione aperta e liberale del paese che ha dato al mondo la Magna Carta, capace di ammutolire definitivamente tutte le sviolinate sulla società aperta e i suoi presunti nemici. Migranti. Austria e Germania minacciano respingimenti in Italia e Grecia di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 8 settembre 2016 "Decisione grave per l’Ue e frutto di propaganda, Atene e Roma da aiutare", afferma Christopher Hein (Cir). Posti esauriti, siamo pieni, tutto completo. A Vienna è questo il cartello che il neo premier socialdemocratico Christian Kern (nella foto) vorrebbe tanto poter esibire in vista delle tanto temute nuove elezioni del prossimo 2 ottobre. I segnali che vengono dalla vicina Germania non promettono niente di buono e in Austria si torna alle urne dopo che la Corte costituzionale ha annullato per irregolarità il responso uscito dalle urne lo scorso 22 maggio, allora - a sorpresa e per un pugno di schede - il candidato rampante della destra xenofoba Norbert Hofer era stato sorpassato non già dai socialdemocratici, risultati terzi, ma da un anziano professore ambientalista, Alexander Van der Bellen. E ora il partito Fpoe di Hofer si frega le mani in vista della vittoria che non è ancora riuscito ad assaporare. Nel frattempo il premier "pro tempore" non ha di meglio da fare che attuare una versione forse solo un tantino più moderata della politica che Hofer propone. E ieri ha approvato a tamburo battente un decreto "d’urgenza" per bloccare i migranti alle frontiere. Anzi, per rispedirli indietro, verso "paesi confinanti ritenuti sicuri": leggi l’Italia, al di là del Brennero, visto che l’Ungheria ha già minacciato ricorso davanti alla Corte di Giustizia europea per bocca del ministro dell’Interno Wolfgang Sobotka che ha parlato alla radio austriaca Orf. Il piano di Vienna, secondo i dettagli illustrati dal sito Der Standard.at, prevedrebbe dal primo gennaio 2017 il respingimento dei migranti una volta raggiunto il tetto fissato (arbitrariamente) a 37.500 "asylanten", cioè richiedenti asilo. La chiusura delle frontiere, eccetto che per casi particolari di persone a rischio torture o con parenti in Austria, durerebbe sei mesi ma prorogabili tre volte. La proposta - che sarebbe il risultato di una lunga trattativa tra socialdemocratici del Spo e popolari del FPÖ - ha già allarmato al massimo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. Christopher Pinter, a capo dell’ufficio di Vienna dell’Unhcr ha fatto presente che una misura simile a un numero chiuso decretata autonomamente da un governo dell’Unione "romperebbe un tabù in Europa e significherebbe una rinuncia al diritto d’asilo in Austria", con il rischio che "altri Paesi europei seguano l’esempio". "È un precedente molto grave - conferma al telefono Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano rifugiati - che si può ripercuotere sull’Italia, paese che insieme alla Grecia dovrebbe essere beneficiario del piano europeo dei ricollocamenti e invece si troverebbe a dover accoglierli anche dagli altri paesi a nord delle Alpi". Hein fa presente che questo paradossale respingimento già avviene in parte utilizzando il regolamento di Dublino. "Così l’Austria va persino oltre perché non parla di quote numeriche, il criterio è solo il primo paese d’arrivo e di presentazione della domanda d’asilo". È però applicando Dublino che la Germania ha finora rispedito in Italia 521 rifugiati nei primi sei mesi del 2016. Ed è proprio in virtù del fatto che in Grecia dal 2011 non è stato più applicato Dublino che il governo di Atene ha potuto affrontare l’emergenza profughi dopo il blocco della rotta balcanica. Mentre Angela Merkel continua a lodare il "modello dell’accordo Ue-Turchia", qualche giorno fa il suo ministro dell’Interno Thomas de Maizère ha però dichiarato che, "essendo migliorate le condizioni in Grecia", Berlino si riserva l’anno prossimo di rispedire in Grecia "in base ai principi di Dublino" i richiedenti asilo che da là provengono. Una prospettiva giudicata "inaccettabile" dal ministro greco per le Migrazioni Ioannis Moulazas. La proposta di riforma di Dublino della Commissione europea, che prevede ricollocamenti obbligatori con sanzioni per gli arrivi eccedenti il 150 per cento delle quote - "una riforma peggiorativa" per Hein - non è ancora passata dall’Europarlamento né dal Consiglio. "L’assurdo è che il numero degli arrivi quest’anno è diminuito ovunque eccetto che in Italia e (123 mila via mare, erano 121.734 nel 2015: dati Viminale di ieri), questi allarmi sono solo propaganda politica", conclude Hein. Migranti. "Erano minacciati di morte", il giudice di Palermo assolve due scafisti di Riccardo Arena La Stampa, 8 settembre 2016 Costretti a pilotare un gommone dalla Libia alla Sicilia. Nel naufragio erano affogati in 12. I pm volevano l’ergastolo. Scafisti per caso, scafisti per forza: un giudice di Palermo assolve due migranti, accusati di avere pilotato un gommone stracarico di altri disperati come loro, 12 dei quali annegarono perché l’imbarcazione di fortuna si sgonfiò nel Canale di Sicilia, durante la traversata tra la Libia e la Sicilia. I due imputati, che rispondevano di omicidio plurimo, sono stati assolti dal gup Gigi Omar Modica col rito abbreviato: applicata la discriminante dello "stato di necessità", perché i due fecero da scafisti ma non decisero "autonomamente e liberamente di avventurarsi per il Mediterraneo alla guida di un mezzo di fortuna, carico all’inverosimile di persone", con un centinaio di passeggeri in un natante di dieci metri. Tutto fu organizzato piuttosto da "soggetti libici armati", che minacciarono i due, ieri assolti perché il fatto non costituisce reato. Sentenza a sorpresa, quella emessa nei confronti di Jammeh Sulieman, di 21 anni, originario del Senegal, e Dampha Bakary, di 24, gambiano, che sono stati anche rimessi in libertà: e contro di loro, difesi dagli avvocati Cinzia Pecoraro e Chiara Bonafede e imputati di omicidio plurimo, la Procura, che aveva chiesto l’ergastolo, si prepara a presentare il ricorso in appello. La decisione provoca sconcerto tra i pm (il titolare del fascicolo è Claudio Camilleri, coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia), che tuttavia non fanno commenti. Oltre che sulla mancata dimostrazione del legame tra i due imputati e i libici trafficanti di uomini, la motivazione, racchiusa in 17 pagine, punta anche su un altro aspetto considerato fondamentale dalla Procura, la credibilità degli altri migranti. Il gup Modica manifesta infatti dubbi sulla genuinità di testimonianze che consentono di ottenere il permesso di soggiorno ("beneficio non secondario") e parla di "preciso interesse a rendere dichiarazioni accusatorie", che per questo motivo "devono essere sottoposte ad un attento vaglio di credibilità intrinseca ed estrinseca". La traversata oggetto dell’inchiesta risale al luglio 2015: i passeggeri superstiti del gommone furono salvati dalla nave Dattilo e trasportati al porto di Palermo. Sulieman e Bakary furono individuati grazie alle testimonianze raccolte - non senza difficoltà, dati i problemi di comprensione di lingue e dialetti - dalla polizia. A parlare furono soprattutto tre maghrebini, le cui deposizioni sono apparse però contraddittorie e per niente coerenti al gup. Sin dall’inizio gli avvocati Pecoraro e Bonafede avevano sostenuto che i libici, armati di kalashnikov e attrezzati per queste operazioni, per evitare l’arresto di loro uomini, ricorressero a minacce e pesanti intimidazioni nei confronti di alcuni passeggeri, scelti a caso, costringendoli a pilotare da sé le imbarcazioni di fortuna. Il giudice concorda con i difensori: i due scafisti per forza "non avevano altra scelta se non quella di commettere i reati" a loro attribuiti, "per salvare la loro vita da una situazione superiore alla loro volontà". Non parlavano la lingua dei libici, non si capivano nemmeno tra di loro, Sulieman e Bakary ("Nessuno dei testi riferisce di un ruolo organizzativo di tipo preparatorio") e, "quando giungono in spiaggia, trovano già il natante carico di migranti... sotto la minaccia di armi da guerra non possono che accondiscendere alla determinazione dei libici su chi dovesse guidare l’imbarcazione. Tornare indietro sarebbe stato un atto del tutto scellerato". Si sarebbero opposti infatti gli altri migranti, che avevano "pagato un prezzo esoso", ma il rischio di essere uccisi dai trafficanti di uomini sarebbe stato molto concreto. "Proseguire invece nella rotta - conclude la sentenza - poteva significare invece coltivare una qualche speranza di giungere sani e salvi in un Paese sicuro e libero come l’Italia". Diritti umani. Avvocati nel mirino, così si uccide la democrazia di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 8 settembre 2016 L’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad) è stato costituito dai Consigli Nazionali Forensi italiano e francese nonché dall’Ordine degli Avvocati di Parigi e dal Consiglio Generale dell’Avvocatura spagnola. L’obiettivo è quello di condurre una vigilanza permanente sulla situazione degli avvocati minacciati nel mondo a causa dell’esercizio legittimo della loro professione. L’Osservatorio ha diffuso di recente una relazione nella quale denuncia la drammatica situazione internazionale e fa riferimento, in particolare, agli omicidi, agli arresti e ai processi sommari a carico di avvocati in Turchia, Asia (Cina, Pakistan e Bangladesh), America latina (Honduras e Guatemala), Paesi mediterranei (Egitto) e centrafricani (Burundi). Per ogni Paese sono citati i casi più significativi e descritte le vessazioni, in taluni casi giunte fino all’omicidio, perpetrate nei confronti di avvocati. Il comune denominatore delle vicende descritte è costituito dalla circostanza che l’aggressione alla figura dell’avvocato segnala un deficit di democrazia. In realtà è lo stesso ruolo del diritto che finisce con l’essere messo in discussione, nel momento in cui è negato spazio alla libera avvocatura. L’essenza stessa del diritto richiede, difatti, che vi sia un contraddittorio, il quale consenta di far emergere le ragioni di tutte le parti coinvolte. Solo nella contrapposizione tra tali ragioni è possibile raggiungere un punto di equilibrio che costituisca affermazione della legalità democratica. Se il contraddittorio manca, dunque, l’applicazione del diritto finisce con l’essere espressione della prospettiva di una sola parte. Il processo diventa esso stesso una espressione di mero potere. Già il diritto, in quanto spesso espressione della volontà di chi ha il potere, esprime i rapporti di forza esistenti nella società. Se poi, addirittura, anche la sua attuazione è espressiva di una manifestazione di potere, tutto il sistema che viene comunemente racchiuso nel concetto di legalità finisce con l’essere un puro strumento di oppressione. L’intreccio tra mafie e stati totalitari - Ecco perché il ruolo dell’avvocatura libera è un elemento di disturbo per il potere. Essa, difatti, è l’unico mezzo attraverso il quale tentare di impedire che anche il momento applicativo del diritto sia puro strumento di oppressione. Nelle società democratiche questo ruolo dell’avvocato è accettato ed anzi ritenuto essenziale per un effettivo compimento dei valori democratici. Nei regimi totalitari è certamente inaccettabile. Contano poco le ipocrisie che vengono spesso utilizzate per colpire l’avvocato che esercita in modo libero ed indipendente la propria funzione. Anzi, proprio le ipocrisie che sono invocate per legittimare gli arresti e le condanne segnalano che i valori democratici sono calpestati irrimediabilmente. Tuttavia, la lettura del rapporto potrebbe indurre ad una distinzione tra Paesi buoni e Paesi cattivi, lontana dalla realtà. Essa, difatti, trascura la circostanza che se la democrazia è un valore sostanziale e non già meramente formale vi sono anche altre situazioni alle quali deve essere prestata particolare attenzione. Il riferimento è, soprattutto, a quelle aree in cui vi sono incrostazioni di potere mafioso capaci di controllare e condizionare l’ordinato svolgersi di una intera società. Basta fare un esempio per tutti: quello dell’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il quale era commissario liquidatore della Banca Italiana Privata già di Michele Sindona. Quell’avvocato si è mostrato libero ed indipendente rispetto alla struttura di potere mafioso cui faceva riferimento la Banca, e per questo è stato ucciso. Il caso di Ambrosoli è emblematico, ma purtroppo niente affatto isolato. La cronaca nera dà con frequenza notizia di intimidazioni, di attentati e talvolta anche di omicidi di avvocati nell’Italia democratica e repubblicana. Soprattutto nelle regioni in cui impera il potere mafioso ed in cui la politica è debole. Si tratta di un fenomeno che ha spesso momenti di esplosione che hanno rilievo mediatico, ma che sovente resta nell’ombra, come di regola accade per le minacce di tipo mafioso. Questa prospettiva, offrendo un valido criterio per considerare il livello di effettività del rispetto delle regole democratiche in una determinata società, porta alla conclusione che, anche nelle società cosiddette democratiche, laddove vi sono minacce per l’esercizio libero della professione di avvocato è in gioco la stessa tenuta del tessuto democratico. L’attacco alla libertà dell’avvocato, se non costituisce un episodio del tutto occasionale, ma è uno dei sistemi attraverso cui la criminalità organizzata esercita il proprio potere, diventa il segnale che la legalità democratica è assente. Quando la difesa è azzerata dai pm - Non si può neppure ignorare la condotta di quelle Procure le quali, senza alcuna prudenza, non esitano a mettere l’avvocato sul banco degli imputati. È, anche questa, una prassi che nel tempo si è diffusa e consolidata. Essa ha oggettivamente l’effetto di scoraggiare lo svolgimento di una difesa efficace di determinati soggetti e consente al potere dell’accusa di svolgere il suo ruolo nella applicazione del diritto senza ostacoli. E perciò contro le regole democratiche. In questi ultimi vent’anni si è tanto parlato, e sotto molti profili giustamente, della necessità di tutelare l’indipendenza del giudice come garanzia per la tutela dei diritti dei cittadini. E in effetti, un giudice che non sia indipendente non è un giudice affidabile e che possa garantire l’eguale rispetto del diritto di tutti. Ma cosi è anche per l’avvocato se l’esercizio dell’avvocatura non è libero, se l’avvocato è oggetto di intimidazioni, di vessazioni o se è addirittura ucciso. I cittadini, specie quelli che non fanno parte del sistema di potere, finiscono con l’essere privati della possibilità di far valere le loro ragioni e, in definitiva, di affermare la propria dignità di cittadini di uno Stato democratico. Questo avviene non solo nei Paesi autoritari, ma anche nei Paesi, cosiddetti democratici, in cui lo strapotere mafioso nega le libertà. Giulio Regeni, incisioni sul corpo. La madre: "L’hanno usato come se fosse una lavagna" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 settembre 2016 Nuove rivelazioni dall’autopsia italiana, quei segni sulla pelle sembrano lettere. Oggi a Roma i magistrati egiziani. Ancora bloccata la situazione diplomatica tra i due Paesi. Il corpo di Giulio Regeni parla. Le condizioni in cui i suoi carnefici l’hanno ridotto e restituito dicono diverse cose. Alcune chiare, altre da decifrare. Quasi che chi l’ha ucciso e abbandonato sul ciglio di una strada del Cairo, sette mesi fa, avesse voluto lanciare messaggi in codice. Segni, forse lettere dell’alfabeto incise sul cadavere "usato come una lavagna", secondo l’amara espressione usata dalla signora Paola, madre di Giulio, con il legale della famiglia, l’avvocato Alessandra Ballerini. Le ferite - È ciò che emerge dall’autopsia svolta in Italia, che la Procura di Roma ha messo a disposizione dei Regeni e ha consegnato nell’aprile scorso ai magistrati egiziani. Un documento che nella sua crudezza fornisce ulteriori elementi per smentire, una volta di più, la tesi della rapina degenerata in omicidio ad opera della banda criminale annientata nel marzo scorso, nel blitz da cui saltarono fuori il passaporto e altri effetti personali del giovane ricercatore friulano. Le tracce che i medici legali Vittorio Fineschi e Marcello Chiarotti hanno individuato sul corpo di Giulio sono ferite superficiali che sembrano comporre alcune lettere dell’alfabeto, apparentemente slegate tra loro, in punti diversi. Tagli, chiamati in gergo tecnico "soluzioni di continuo cutanee", che sembrano marchi, e potrebbero avere un significato. Probabilmente tracciate con un coltello, o un oggetto acuminato. A forma di X - La più chiara è quella tracciata sulla schiena, "regione dorsale, tratto toracico, a sinistra della linea spondiloidea". Un’altra intorno all’occhio destro. E altre due: sulla "regione frontale destra", tra l’orecchio e l’attaccatura dei capelli, e sulla mano sinistra, "superficie dorsale"; in entrambi i casi, due linee "tra loro intersecantesi a formare una X". Quelle incisioni sono materia di una potenziale indagine che dovrebbe orientarsi sempre più sugli apparati di sicurezza del Cairo, coloro che hanno messo in atto il depistaggio che avrebbe dovuto sancire le responsabilità dei banditi comuni, smascherato dalle verifiche dei magistrati e degli investigatori italiani. L’inchiesta - Oggi arriva a Roma la delegazione guidata dal procuratore generale egiziano Nabil Ahmed Sadek, che incontrerà il procuratore della capitale Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco. Un quotidiano del Cairo anticipa che Sadek "presenterà nuove informazioni trovate nell’inchiesta per giungere alla verità sulla morte di Giulio". Ciò che gli inquirenti italiani si aspettano è almeno la consegna di quel materiale investigativo negato in precedenza, a cominciare dai dati sul traffico telefonico nei luoghi della scomparsa di Giulio e del ritrovamento del cadavere; informazioni negate nel precedente summit di aprile, che provocò il richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto. Da allora il nuovo rappresentante diplomatico non s’è ancora recato al Cairo per presentare le credenziali, ed è verosimile che anche dall’esito del nuovo vertice romano previsto per oggi e domani dipenderà la decisione del governo su se e quando mandarlo. Quindici fratture - L’altro elemento confermato dall’autopsia sono "le imponenti lesioni cranico-cervico-dorsali" che hanno provocato la morte di Regeni. Di "differente epoca di produzione", cioè inflitte a più riprese e a distanza di tempo, che hanno provocato la rottura di 5 denti e oltre 15 fratture in testa, sul torace e alle gambe. "Lesioni procurate con strumenti di margine affilato e tagliente", scrivono i medici, oltre che da "ripetuti urti ad opera di un mezzo contundente": calci e pugni, oppure "strumenti personali di offesa", come bastoni e mazze. Depistaggi - Per la famiglia Regeni questo tremendo referto rivela il "totale disprezzo per Giulio e le violazioni estreme e ostentate di tutti i suoi diritti". La speranza è che ancora una volta il corpo della vittima "possa aiutare a fare luce sui suoi assassini, come in passato ci ha aiutato a evitare i depistaggi, per esempio documentando che non c’erano tracce di uso di droghe o alcol". Per Paola e Claudio Regeni, i segni delle reiterate torture dimostrano "la dignità con cui Giulio ha saputo resistere alle violenze che gli hanno inflitto, un messaggio da rilanciare attraverso l’impegno a chiedere e ottenere la verità sulla sua morte". Stati Uniti: la pena di morte ora si ferma di Elena Molinari Avvenire, 8 settembre 2016 I due candidati alla Casa Bianca evitano con cura l’argomento. Ma nel silenzio generale della politica, la pena di morte sta gradualmente perdendo terreno negli Stati Uniti. Spesso per motivi pratici (la carenza di farmaci per preparare i cocktail letali usati nelle esecuzioni) o economici (i procedimenti capitali sono molto lunghi e dispendiosi e questi sono tempi di ristrettezze), ma anche per una crescente repulsione morale di fronte a enormi, e spesso irreparabili, errori giudiziari emersi grazie agli esami del Dna. Non si può parlare di un movimento percepibile a livello federale, ma, Stato per Stato, è innegabile che la resistenza a infliggere condanne a morte o a portare a termine quelle già imposte sta crescendo, fra le giurie, le procure, le carceri e i governatori. Dal primo maggio ad oggi ci sono state due condanne a morte negli Stati Uniti, un numero eccezionalmente basso. L’anno scorso, negli Stati Uniti, sono state portate a termine 27 esecuzioni: è stato il settimo anno consecutivo di cali. E il totale dei condannati sottoposti all’iniezione letali alla fine di quest’anno probabilmente sarà il minimo raggiunto in un quarto di secolo. Solo tre Stati, Texas, Georgia e Missouri, insistono nell’applicare la pena di morte con una certa regolarità anche se il Texas non ha più ucciso da aprile. "Solo" quattro esecuzioni sono previste prima della fine del 2016. Anche alcuni giudici della Corte suprema, nell’affrontare limitati casi relativi alla pena di morte, hanno avuto modo di esprimere la loro convinzione che la pratica sia in via d’estinzione. La donna magistrato della massima Corte costituzionale americana Ruth Bader Ginsburg, ad esempio, ha detto di recente che la riduzione delle esecuzioni nel numero di Stati che applicano la pena di morte fa pensare che essa "stia svanendo". Lo scorso anno, insieme al collega Stephen Breyer, Ginsburg ha evidenziato l’impossibilità di applicare con equità la pena di morte ed è arrivata insieme al collega a concludere che probabilmente è incostituzionale. Ma non c’è ancora una chiara maggioranza all’interno della Corte che lasci presagire un’imminente abolizione della pena capitale. Secondo Ginsburg, però, un tale passo forse non è necessario. "La maggior parte degli Stati non porta più a termine le esecuzioni, che solitamente sono concentrate in poche giurisdizioni", ha detto il giudice. Mentre due Stati che hanno dovuto fermare le esecuzioni a causa della sospensione delle forniture di sostanze letali da parte delle società farmaceutiche, Ohio e Oklahoma, stanno studiando il modo di riprenderle, infatti, la California, che ospita il più grande braccio della morte del Paese, a novembre potrebbe diventare il sesto Stato in altrettanti anni ad abolire la pena di morte. Né Hillary Clinton né Donald Trump sostengono l’abolizione della pena capitale. Ma entrambi fanno molta attenzione a parlarne solo se costretti. Interpellata sull’argomento dall’ex rivale alle primarie Bernie Sanders (una dei pochissimi candidati alla presidenza ad essersi schierato chiaramente contro la morte di Stato), l’ex segretario di Stato ha ribadito di essere favorevole alla pena per crimini particolarmente efferati che ricadono sotto la giurisdizione del governo federale. Ma ha criticato il modo in cui molti Stati americani applicano la pena capitale. "Si tratta di una questione veramente difficile - ha detto la candidata democratica - e continuo a credere che gli Stati si sono dimostrati incapaci di condurre processi giusti in grado di dare agli imputati tutti i diritti che gli imputati devono avere. Mi sentirei sollevata se la Corte Suprema o gli Stati stessi cominciassero ad eliminarla". Trump in passato ha detto di essere "certamente " a favore. E ha proposto una legge che renderebbe automatica la pena capitale per chi uccide un poliziotto. Siria: le prigioni siriane, quando l’orrore è nascosto di Alfredo De Girolamo ed Enrico Catassi ilmedioriente.it, 8 settembre 2016 Abbiamo tutti visto gli occhi persi nella paura del piccolo Omran, immobile e scalzo su quel sedile arancione di un’ambulanza ad Aleppo, un pulcino fragile, incenerito e macchiato di sangue. Nella storia di quel bambino c’è il simbolo della guerra civile siriana. Poi c’è quello che non vediamo e che ci viene svelato solo in parte, è la fotografia della vita nelle prigioni: fame, senza cure mediche, confessioni estorte con la tortura. È sufficiente il sospetto di far parte dell’opposizione al regime di Damasco per aprirti le porte di un calvario. Amnesty International pochi giorni fa ha diffuso sulla Siria dati allarmanti: 17.723 i carcerati morti nelle prigioni governative dall’inizio della rivolta ad oggi. 10 persone ogni giorno hanno perso la vita tra le sbarre. Il nuovo rapporto del movimento per i diritti umani fondato negli anni 60 dall’attivista britannico Peter Benenson porta alla luce inquietanti dettagli sulle sevizie, sull’uso sistematico delle violenze corporali ai prigionieri da parte delle guardie carcerarie: frustate, bruciature con sigarette, acqua bollente versata sul corpo, scosse elettriche. Il governo siriano ha ripetutamente negato tutte le accuse. Chi è passato per le prigioni della dittatura racconta: "Le feste di benvenuto consistevano in percosse con barre di metallo e cavi elettrici". Celle sovraffollate, sporche. Poca aria. "Mi hanno bendato prima di consegnarmi ad un ufficiale che ha iniziato ad insultarmi, quando mi ha detto che non avrei mai più rivisto la luce del sole gli ho creduto". Decine rinchiusi nella stessa stanza. Obbligati a dormire a turno. Costretti a bere l’acqua del gabinetto. Racconti raccapriccianti di costrizioni ad abusi sessuali tra detenuti. Sotto le minacce delle pistole. Picchiati a sangue dalle aguzzine guardie per giorni. "Abbiamo visto il sangue colare fuori dalla cella. Dentro erano tutti morti". Il luogo peggiore si chiama Saydnaya, carcere militare a 25 km al Nord di Damasco. È un carcere di massima sicurezza invalicabile. Un buco nero dei diritti umani: "Riconosci le persone dal suono dei passi. Avverti che stanno distribuendo il cibo dal tintinnio delle ciotole. Le urla annunciano nuovi detenuti. Durante le punizioni cala il silenzio, qualsiasi lamento prolunga l’agonia". Nelle carceri di Assad si annienta l’essere umano nello stesso modo di quelle degli insorti: "Un Inferno senza diavoli e fiamme" la definizione del giornalista italiano Domenico Quirico rapito in Siria nel 2013. La denuncia delle organizzazioni umanitarie chiama in causa anche i rivoltosi. Le crudeltà commesse dai miliziani del Califfo sui civili sono una piaga: crocifissioni, amputazioni di arti, lapidazione e fustigazioni. Massacri di massa, individuate almeno 17 fosse comuni. Uccisioni sommarie e guerriglieri liberi di compiere efferatezze senza limiti. Un genocidio dove villaggi vengono sistematicamente ed interamente sterminati. La popolazione che vive nel terrore, persone trattenute per lunghi interrogatori solo a causa delle loro opinioni politiche o culto religioso. Nelle zone in mano ai gruppi armati di matrice fondamentalista sono state create delle istituzioni amministrative e semi-giudiziarie. Un sistema processuale parallelo, basato sull’applicazione, più o meno rigida, della legge islamica (sharia). Giovani portati in cella perché: trovati a fumare in pubblico, indossavano abiti troppo aderenti oppure avevano avuto la malaugurata idea di radersi la barba. "Russia e Stati Uniti dovrebbero pretendere la fine dell’uso della tortura nelle carceri. Fermiamo le sofferenze di massa, è una vergogna". Le parole di Philip Luther direttore di Amnesty per le aree del Medioriente e del Nord Africa rinnovano il dibattito e le polemiche. In Siria fa paura ciò che si vede, ma non è meno terribile di quanto non vedremo mai. Siria: rilasciati 169 detenuti in cambio di salme soldati russi Askanews, 8 settembre 2016 Il regime di Damasco ha cominciato a liberare 169 detenuti politici in cambio delle spoglie di cinque soldati russi il cui elicottero è stato abbattuto ad agosto. Lo ha riferito all’Afp l’avvocato di diversi prigionieri. "Ieri 50 detenuti, fra i quali sette donne, sono stati liberati dal carcere di Adra (nella provincia di Damasco) e altri 84 dalla prigione di Hama", ha affermato Michel Chammas, raggiunto via telefono in Germania. "Inoltre altre 31 persone detenute nel carcere di Homs sono state informate che usciranno di prigione ma non sono state ancora scarcerate. Altre quattro, detenute in altri penitenziari, dovranno essere rilasciate", ha aggiunto. Si tratta soprattutto di detenuti accusati di "terrorismo", termine utilizzato da Damasco per indicare tutti gli oppositori. Chammas ha precisato che queste scarcerazioni avvengono in cambio "della consegna delle spoglie di cinque soldati russi che si trovano nelle mani dei ribelli". Due ufficiali e tre membri d’equipaggio si trovavano a bordo dell’elicottero militare russo abbattuto il primo agosto nella provincia di Idlib (Nordovest), quasi interamente sotto il controllo di una coalizione di islamisti e di jihadisti denominata l’Esercito della Conquista, secondo il ministero della Difesa russo. L’attacco, il più grave che ha colpito le forze russe in Siria dall’inizio dell’intervento militare di Mosca a fine settembre 2015 per sostenere il suo alleato, il presidente Bashar al Assad, ha fatto salire a 18 il numero dei militari russi uccisi nel Paese mediorientale. Colombia: la pace in comincia con la resa dei bambini-soldato di Mimmo Cándito La Stampa, 8 settembre 2016 Un accordo fra il governo e la Farc stabilisce che li accolga la Croce Rossa. Sarà un viaggio fuori dal tempo e dalla paura, quello che s’inizia oggi per migliaia di bimbi e di ragazzi nell’intrico fitto della giungla colombiana. In una guerra, questa delle Farc, che dopo 52 anni ora finisce e consegna le armi alla pace, saranno infatti i bambini - i guerriglieri bambini - i primi ad andar via dai campi mimetizzati e inaccessibili dove hanno vissuto i loro anni d’una infanzia senza giochi. L’accordo firmato ieri all’Avana tra il governo di Bogotá e i rappresentanti della Farc fissa che entro sabato 10 "tutti i minorenni" dovranno essere trasferiti nei campi di raccolta gestiti dall’Unicef, consegnandosi ai delegati della Croce Rossa Internazionale. La pace era stata firmata il 24 agosto, sempre a Cuba. Ma era soltanto un impegno di buona volontà. Erano 297 pagine, con un’ampia articolazione dei tempi e dei modi di attuazione dell’impegno; restavano da fissare le forme minute, dettagliate, di questo calendario, e sono quelle che da oggi cominciano a diventare una realtà con questo viaggio dei bimbi-guerriglieri fuori dalla giungla. È un viaggio della speranza: cambiare la loro vita sarà un processo lungo, che comporta l’intervento di centinaia di psicologi ed educatori che dovranno aiutare questi ragazzi a imparare a vivere giorni e costumi profondamente diversi dagli anni passati nella geografia della guerra. Nei 52 anni della loro ribellione al governo, le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) avevano saputo creare una sorta di Stato nello Stato, controllando un territorio dove amministravano potere e giustizia al di fuori delle istituzioni legali. Questa "autonomia" è costata alla Colombia 260 mila morti (177.307 erano gente travolta dalla violenza della guerra senza volerne esser parte) e più di 60 mila desaparecidos, e ha costretto quasi 7 milioni di contadini e di abitanti di piccoli villaggi ad abbandonare le case e le terre e farsi profughi privi di risorse. Era una vera guerra, durante la quale le Farc hanno manovrato un esercito che è arrivato a schierare 28 mila uomini; ma negli ultimi anni, durante la passata presidenza di Alvaro Uribe, il governo di Bogotá - con l’aiuto determinante dei marines e delle forze speciali americane - era riuscito a contenere l’azione della guerriglia, e a disseccarne molte delle fonti di mantenimento, a cominciare dal traffico della droga. Tra le migliaia di bimbi-soldato che in questo ore vengono raccolti dai delegati della Cri, molti, e anzi la gran parte, sono vissuti sempre nel territorio di San Vicente del Caguán, dove la guerra era la legge quotidiana che segnava i giorni della loro difficile infanzia. Figli di guerriglieri, o di contadini arruolati nella guerriglia, saranno ora aiutati a inserirsi in un mondo che nemmeno conoscono, con la frequentazione di scuole, per i più piccoli, e con l’avvio a una pratica professionale, per gli adolescenti. "Non sarà affatto facile", diceva ieri all’Avana Humberto de la Calle, delegato del governo di Bogotá, e intendeva dire che non soltanto dovrà essere realizzato un programma che, per dimensioni e progettualità, ha ben pochi modelli di riferimento, ma anche che ci sono tuttora molti ostacoli, e ben seri, per la realizzazione dell’accordo di pace. In un Paese che da più di mezzo secolo ha dovuto convivere con la violenza della guerra, le forze contrarie a questo accordo hanno inevitabilmente un peso politico e sociale di gran rilievo, a cominciare dalla leadership che si è assunta lo stesso ex presidente Uribe. La sua opposizione sostiene che i guerriglieri ricavano da questo accordo vantaggi "troppo generosi", sottraendoli di fatto al verdetto della giustizia e guadagnandogli per 2 legislature 10 seggi nel parlamento di Bogotá. Il presidente in carica, Juan Manuel Santos, che firmerà ufficialmente l’accordo il 26 nella città di Cartagena, offre invece al voto del suo Paese (il 2 ottobre la Colombia sceglierà con un referendum se confermare quella firma) una speranza che cambierà "totalmente", come egli dice, il corso della storia nazionale. Dice Santos: "Per la prima volta da un tempo immemorabile, l’intera America, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, non avrà più cronache di guerra nelle sue terre". È un risultato storico, ma per farlo in realtà passeranno molti anni. Un sondaggio di questi giorni assegna il 32% di consenso all’accordo, contro un 30%; ma intanto, dal 13 al 19, nella giungla di San Vicente del Caguán si riunirà il comando generale delle Farc, con la presenza di 200 delegati, che dovranno accettare di consegnare le loro armi al governo entro 6 mesi. Anche tra i guerriglieri ci sono forti resistenze, un precedente accordo era finito con l’uccisione di 3 mila di loro ch’erano passati alla vita civile. Non è una memoria incoraggiante.