Ergastolo ostativo, il luogo comune del "fine pena" di Luigi Manconi Il Manifesto, 7 settembre 2016 Uno degli effetti del tumultuoso congresso del Partito radicale, tenutosi lo scorso fine settimana nel carcere romano di Rebibbia, è stato quello di illuminare - per quanto parzialmente e provvisoriamente - una questione cruciale. E sconosciuta ai più: quella del cosiddetto "ergastolo ostativo". L’importanza di tale problematica non consiste nelle relazioni possibili tra un obiettivo circoscritto (l’abolizione di tale orrore giuridico) e la strategia generale di un partito: non si tratta, dunque, di una questione politologica come il ruolo che hanno le mobilitazioni su single issue nel definire una strategia complessiva nelle società capitalistiche avanzate (cosa di cui pure il congresso ha trattato). Tutto ciò ha una sua rilevanza, certo, ma quel che più conta è la possibilità di leggere, attraverso il dispositivo giuridico dell’ergastolo ostativo, le acute incongruenze del sistema della giustizia e, ancor più oltre, il significato profondo di un senso comune e una mentalità condivisa a proposito della categoria di pena. L’ergastolo ostativo è un particolare tipo di esecuzione della pena a vita formatosi attraverso una modifica della legge penitenziaria e l’interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale. Il decreto-legge 152 del 1991, stabilendo "provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata", introduce nell’ordinamento penitenziario l’articolo 4bis che prevede il divieto di concessione dei benefici per alcuni tipi di reato. Le misure alternative alla detenzione possono essere concesse ai detenuti condannati per quei delitti solo nei casi in cui gli interessati abbiano collaborato con la giustizia, oppure dimostrino di non poterlo fare. Questa previsione ha immediatamente sollevato un problema enorme riguardo all’ergastolo. La Corte costituzionale, infatti, nel 1974 aveva riconosciuto la legittimità del "fine pena mai" sulla base della sua elusività garantita dalla liberazione condizionale, alla quale può essere ammesso l’ergastolano che abbia scontato ventisei anni di carcere e che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento "tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento". Che succede, dunque, all’ergastolano cui sia vietato l’accesso alla liberazione condizionale? Dovrà passare l’intera vita in galera, inverando la minaccia dei fogli matricolari del ministero, secondo cui il suo fine pena è, appunto, "mai"? E non c’è, in questo caso, una violazione dell’articolo 27, comma 3 della Costituzione, secondo cui "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato"? In poche parole, non viene in questo modo contraddetta la sentenza della Corte costituzionale del 1974? La questione è stata ovviamente riproposta alla Consulta, la quale però nel 2003, con la sentenza 135, stabilisce che non c’è conflitto tra il divieto di concessione della liberazione condizionale e la finalità rieducativa della pena stabilità dalla Costituzione. Il divieto, infatti, secondo la Corte, "non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo". Tutto bene, dunque, per la Corte costituzionale. Intanto, però, gli ergastolani continuano ad aumentare in termini assoluti e in percentuale tra i detenuti, per effetto del divieto di concessione della liberazione condizionale. Al 12 ottobre 2015, gli ergastolani erano 1.619 (poco dopo l’approvazione dell’articolo 4bis erano 408). Di questi, 1.174 erano condannati (se non solo, anche) per l’associazione a delinquere di stampo mafioso, il più diffuso dei reati ostativi alla concessione dei benefici e delle alternative al carcere. Su un campione di 246 ergastolani, più del 20% aveva superato la soglia di accesso alla liberazione condizionale subendo gli effetti del divieto di legge, configurandosi effettivamente come condannati a vita. La più inequivocabile smentita di quel luogo comune così diffuso e così insidioso che fa dire a tanti (magistrati compresi): ma in Italia, praticamente, l’ergastolo non esiste. Già, praticamente. Per lo stato di diritto, omaggio a Margara di Grazia Zuffa Il Manifesto, 7 settembre 2016 A un mese dalla morte di Sandro Margara, voglio ricordarlo attraverso uno dei suoi saggi più lucidi e originali, sulla storia del proibizionismo in Italia (contenuto nel volume che raccoglie i suoi scritti, "La giustizia e il senso di umanità", 2015). Che ha anche il merito di offrire una bussola politica nella battaglia attuale per la riforma della legge antidroga. Il "proibizionismo penale", come Margara lo definisce, è inaugurato dalla legge del 1954, che configura come reato l’uso e la detenzione delle sostanze stupefacenti. Punire il consumo in sé è uno strappo alla nostra civiltà giuridica e allo stato di diritto, nota Margara; ed è doppio strappo perché sono collocate nello stesso articolo le condotte di "chi acquisti, venda, ceda.. o comunque detenga" sostanze stupefacenti, equiparando così trafficanti e consumatori. Si noti: tale impianto (art. 73) è rimasto intatto nelle successive revisioni della legge antidroga ed è peraltro identico nella Convenzione Unica delle Nazioni Unite. Da qui il discrimine che Margara individua, fra norme che cercano di "non colpire nel mucchio", nella zona di confine fra piccolo spaccio e consumo, (come nella legge del 1975 e nelle modifiche del referendum del 1993); e quelle che invece prendono di mira proprio i consumatori, in specie i più "poveracci". La legge Jervolino Vassalli del 1990 intraprende con decisione la seconda strada su cui la Fini Giovanardi vigorosamente accelera, così che "quella fascia di condotte di confine fra spaccio e uso personale, posta in essere in gran parte da meri consumatori o da consumatori che si autofinanziano" è governata dal giudice penale che discrimina fra incriminazione/non incriminazione. È il giudice penale a stabilire se siamo nella "regola" dell’incriminazione a norma dell’art.73, o nella "eccezione", "fuori dalle ipotesi di cui all’art.73 comma bis", del consumo punito dalle sanzioni amministrative. È un sostanziale giro di vite proibizionista: nella legge del ‘75, la norma base era al contrario rappresentata dai casi di non punibilità (la modica quantità); ma perfino nella Jervolino Vassalli la base era la norma a minore punibilità, con le sanzioni amministrative (art.75). Si noti il forte richiamo allo stato di diritto, nella sua funzione di tutela della libertà e autonomia personale: un baluardo, specie per i più deboli. Tanto basti per ricordare che la battaglia contro il proibizionismo penale non è appannaggio dei radical chic, come vorrebbero alcuni manipolatori delle coscienze. La lettura del proibizionismo penale qui ricordata permette di uscire dalle strettoie difensive nella battaglia per la depenalizzazione del consumo personale. Il nodo sta proprio nella formulazione dell’articolo chiave, che enumera come punibili tutte le condotte, dal traffico alla detenzione. Buona parte del movimento riformatore - specie a livello internazionale- combatte perché dalla condotta di detenzione sia escluso il possesso per uso personale. Ma così si rischia di accettare la logica proibizionista, ossia la regola del "fucile che spara nel mucchio": rispetto alla quale si chiede come eccezione di non colpire il consumo personale; o di punirlo meno severamente (con sanzioni amministrative). Dimenticando che la logica stessa del "mucchio" spinge il fucile a sparare in basso, contro i tanti che stazionano nella zona di confine fra consumo e (piccolo) spaccio. Proprio questa va rovesciata: nel predisporre la riforma penale, occorre rimanere aderenti alla nostra tradizione di diritto, secondo principi di civiltà e umanità. Per dirla con le parole limpide di Sandro Margara: "molte scelte compromettono il mantenimento di una vita regolare e sana, nonché le relazioni con gli altri… ma la libertà della persona al riguardo non può essere inibita". Carceri minorili riempite di adulti. Uno su sei ha più di 18 anni di Francesco Lo Dico Il Mattino, 7 settembre 2016 Un detenuto su sei nelle carceri minorili è maggiorenne. E in alcuni casi, come quello di Torino, dove sono 20 su 37, Treviso (8 su 14), e Bari (10 su 20), i maggiorenni sono addirittura la maggioranza. Sono questi i dati che si celano dietro all’allarme del Sappe, che ha definito gli Ipm come vere e proprie "università del crimine". All’indomani della rivolta esplosa all’interno del carcere minorile di Airola, ad opera di "piccoli boss che portano avanti una lotta per la supremazia", le parole del segretario del sindacato della polizia penitenziaria, Donato Capece hanno acceso i riflettori su un autentico paradosso. "Il problema è che l’ordinamento consente la presenza di ultra 21enni - spiega Capece - è inconcepibile che giovani criminali siano reclusi insieme ai quattordicenni. L’avevamo detto che era un errore l’innalzamento dell’età. Ma non siamo stati ascoltati. É stata una decisione politica che già a suo tempo definimmo incomprensibile". A consentire la nascita degli "atenei del crimine" ai quali fa riferimento il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria è stata una legge di recente conio, il decreto 92 del giugno 2014, che all’articolo 5 ha previsto che possa restare negli Ipm anche chi, avendo commesso un reato da minorenne, non abbia compiuto il venticinquesimo anno di età. Sino ad allora la soglia di permanenza era fissata a quota ventuno anni: dopo di che il detenuto veniva trasferito in un carcere per adulti. "Ma non si tratta di una cattiva legge - obietta Susanna Marietti, curatrice del Terzo Rapporto di Antigone sugli Istituti Penali per Minori. "Si è voluto tutelare - spiega - una personalità in evoluzione come quella del minore, che non possiamo permetterci di perdere e che dobbiamo integrare nella nostra società. È un modo per offrire maggiore protezione a chi ha commesso un errore da piccolo, e più chance di reinserimento dopo il periodo di reclusione in una realtà più "morbida" come quella del carcere minorile". Se il fine è certamente nobile, il mezzo suscita la perplessità di molti perché ha generato un piccolo cortocircuito: oggi nei sedici istituti penitenziari minorili italiani, i maggiorenni sono in alcuni casi la maggioranza. Se letto nella sua dimensione globale, il fenomeno non è affatto irrilevante: sono 80 su 502 i maggiorenni reclusi allo stato attuale nelle carceri per minori: in pratica un detenuto su sei. E se si guarda ai dati sugli ingressi negli Ipm del 2015, non si ricavano segnali meno allarmanti: su un totale di 1068 accessi, quelli dei giovani adulti compresi tra i 18 e i 25 anni hanno superato l’asticella dei 400 accessi: pressappoco la metà. Sebbene il carcere per i minori sia ormai un fenomeno residuale, da considerarsi come extrema ratio, di fronte a misure alternative come la messa alla prova che hanno successo nell’80 per cento dei casi, il Sud non appare particolarmente fortunato. Come rivela il rapporto "Ragazzi fuori" di Antigone, nella maggior parte dei casi e salvo rare eccezioni, la popolazione carceraria degli Ipm è composta da stranieri, rom e giovani meridionali provenienti dalle periferie degradate delle grandi città del Sud. Si tratta quasi sempre di ragazzi che provengono dalla stessa regione in cui si trova l’istituto. Ed è dunque per questa ragione, che carceri come quelli di Nisida presentano specifiche vulnerabilità. Nell’isolotto napoletano, su una media di 50 detenuti, vi sono 30 maggiorenni. Rinnovato il Protocollo d’intesa a tutela figli-genitore detenuto giustizia.it, 7 settembre 2016 Il guardasigilli Andrea Orlando, la Garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus Lia Sacerdote hanno siglato oggi il rinnovo per altri due anni del Protocollo d’Intesa Carta dei figli di genitori detenuti, avviato il 21 marzo 2014. Durante il biennio di applicazione, il protocollo è diventato un modello per la rete europea Children of prisoners Europe con la quale la onlus firmataria sta conducendo una campagna di sensibilizzazione perché venga adottata nei 21 Paesi membri della rete. L’intesa sottoscritta oggi intende individuare nuovi strumenti di azione e rafforzare e ampliare i risultati fin qui ottenuti: la tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo, riconoscendo a quest’ultimo il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; la promozione di interventi e provvedimenti normativi che regolino questa relazione, contribuendo alla rimozione di discriminazioni e pregiudizi attraverso la creazione di un processo di integrazione socio-culturale, nella prospettiva di una società solidale e inclusiva; l’agevolazione ed il sostegno dei minori nei rapporti con il genitore detenuto, sia durante sia oltre la detenzione, cercando di evitare che eventuali ricadute negative possano incidere sul rendimento scolastico o sulla salute. Il nuovo Protocollo, tenendo conto dell’esperienza acquisita durante il biennio di applicazione, individua come necessaria l’offerta di percorsi di sostegno alla genitorialità sia alle madri sia ai padri sottoposti a restrizione della libertà personale. L’articolo 1 detta le linee di comportamento che l’autorità giudiziaria dovrà tenere nei confronti di arrestati o fermati che siano genitori di minori: se possibile, in caso di applicazione di misura cautelare, dare priorità alla misura alternativa alla custodia in carcere; in caso di detenzione del genitore, non violare il diritto del minore a rimanere in contatto con lui; disciplinare i permessi di uscita, con particolare riguardo per le "giornate particolari" come compleanni, primi giorni di scuola, recite e diplomi, e per situazioni di emergenza, quali i ricoveri ospedalieri. L’articolo 2 individua in 12 punti una serie di azioni necessarie a proteggere il legame tra minore e genitore che garantisca da un lato lo sviluppo psico-affettivo del bambino, e dall’altro preservi il vincolo familiare, ritenuto importante anche in relazione alla prevenzione della recidiva e nel successivo reintegro sociale del detenuto. Si è ritenuto quindi fondamentale regolamentare: i tempi di visita, privilegiando i pomeriggi per non creare ostacoli alla frequentazione scolastica, che in situazioni del genere è una delle realtà del minore destinate ad essere compromesse; i luoghi, creando spazi attrezzati per il gioco, la conversazione, l’intrattenimento, i momenti di privacy. La Carta chiede comunque di accompagnare i minori con informazioni adeguate all’età e che, ove possibile, siano organizzati gruppi di esperti a sostegno, in una esperienza che potrebbe rivelarsi traumatica. L’articolo 3 è un’ulteriore passo verso la semplificazione del rapporto figlio-genitore detenuto e impegna le parti a sviluppare linee specifiche che coadiuvino gli incontri, laddove più difficoltosi, anche utilizzando i mezzi che la nuova tecnologia mette a disposizione come conversazioni in chat o webcam. L’articolo 4 impegna il sistema penitenziario ad affrontare il tema dell’accoglienza non solo in termini strutturali, ma soprattutto culturali, attraverso una formazione adeguata del personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità, che prepari all’accoglienza di minori e famiglie. L’articolo 5 intende assicurare ai detenuti, ai loro parenti e ai loro figli tutte le informazioni appropriate (all’età), aggiornate e pertinenti (alla fase del processo o della detenzione); offrire programmi di assistenza alla genitorialità, per aiutare allo sviluppo e al consolidamento del rapporto genitori-figli e una guida all’utilizzo dei servizi socio-educativi e sanitari messi a disposizione dagli enti locali. L’articolo 6 regolamenta la raccolta sistematica di informazioni relative al numero di colloqui e all’età dei soggetti coinvolti. L’articolo 7, pur ribadendo l’obiettivo di evitare la permanenza in carcere dei bambini, ne regolamenta la presenza, cercando di garantire loro una quotidianità il più possibile vicina a quella dei coetanei all’esterno, anche attraverso la frequentazione di aree all’aperto, asili nido e scuole al di fuori dell’Istituto, in modo che la loro crescita non abbia a subire eccessive ripercussioni psico-fisiche. L’articolo 8 conferma il Tavolo permanente, già istituito con il protocollo precedente, composto da rappresentanti del Ministero della Giustizia, dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e dell’Associazione Bambinisenzasbarre che, convocato ogni tre mesi, svolgerà azione di monitoraggio sull’applicazione del protocollo appena prorogato. "Bambinisenzasbarre": il protocollo siglato oggi "rende i figli visibili" agensir.it, 7 settembre 2016 Il rinnovo del protocollo d’intesa "Carta dei figli di genitori detenuti", siglato oggi dal guardasigilli Andrea Orlando, dalla garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e dalla presidente di "Bambinisenzasbarre" onlus Lia Sacerdote, "rende i bambini che entrano in carcere visibili, cercando di superare le barriere legate al pregiudizio e alla discriminazione all’interno della società", sottolinea "Bambinisenzasbarre". Tra gli aspetti disciplinati dal protocollo "ci sono le visite all’interno degli istituti, la formazione del personale e l’istituzione di un Tavolo permanente che effettuerà un monitoraggio sull’applicazione del Protocollo avvalendosi anche della rete delle ong sul territorio. Durante il biennio di applicazione, il protocollo, firmato per la prima volta il 21 marzo 2014, è diventato un modello per la rete europea Children of prisoners Europe con la quale la onlus firmataria sta conducendo una campagna di sensibilizzazione perché venga adottata nei 21 Paesi membri della rete. L’intesa sottoscritta oggi intende individuare nuovi strumenti di azione e rafforzare e ampliare i risultati fin qui ottenuti: la tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo, riconoscendo a quest’ultimo il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; la promozione di interventi e provvedimenti normativi che regolino questa relazione, contribuendo alla rimozione di discriminazioni e pregiudizi attraverso la creazione di un processo di integrazione socio-culturale, nella prospettiva di una società solidale e inclusiva; l’agevolazione e il sostegno dei minori nei rapporti con il genitore detenuto, sia durante sia oltre la detenzione, cercando di evitare che eventuali ricadute negative possano incidere sul rendimento scolastico o sulla salute. Il nuovo protocollo, tenendo conto dell’esperienza acquisita durante il biennio di applicazione, individua come necessaria l’offerta di percorsi di sostegno alla genitorialità sia alle madri sia ai padri sottoposti a restrizione della libertà personale. L’Anm sul dl pensioni: tornare a 72 anni per tutti di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Reintrodurre l’età pensionabile dei magistrati a 72 anni, mantenere il periodo di legittimazione per i trasferimenti a 3 anni e il tirocinio presso gli uffici giudiziari secondo lo schema vigente. È la posizione espressa dal segretario dell’Anm, Francesco Minisci, in un’audizione informale davanti al Csm, che sta lavorando al parere (richiesto ieri ufficialmente dal ministro della Giustizia) sul decreto legge di proroga di un anno del pensionamento delle toghe "apicali". Contro il decreto (appena assegnato alla commissione Giustizia della Camera per la conversione in legge) sono schierate tutte le componenti dell’Anm ma le soluzioni per correggerlo sono diverse. Quella dell’Anm è radicale e strutturale poiché fa venir meno la proroga "ad personas" ma ripristina l’età pensionabile a 72 anni (rispetto ai 75 previsti prima che nel 2014 il governo Renzi l’abbassasse a 70, salvo due proroghe successive). "Il nostro obiettivo - spiega Minisci - è evitare la disparità di trattamento tra i magistrati, ma è anche l’obiettivo della funziona- lità degli uffici". Soluzione condivisa da molti, che però lascerebbe fuori proprio alcune toghe che il Dl punta invece a tenere in servizio, come il primo presidente della Cassazione Gianni Canzio, 72 anni a gennaio 2017: col Dl (che proroga i vertici della magistratura di legittimità, contabile, amministrativa nonché dell’Avvocatura dello Stato e della Procura generale presso la suprema Corte) resterebbe in servizio fino a dicembre 2017 mentre con il ripristino a 72 anni dell’età pensionabile, andrebbe via a gennaio. Ecco perché qualcuno propone di affiancare le due misure, emergenziale e a regime. Ma il Csm non sembra orientato in questa direzione né in quella di riportare a 72 anni l’età pensionabile; piuttosto, si fa strada un’estensione della proroga ai consiglieri della Cassazione. In ogni caso "il parere sarà reso in tempi rapidissimi - assicura il togato di Unicost Luca Palamara, presidente della commissione competente - e potrebbe essere approvato già nel plenum della settimana prossima". Il rischio ‘ndrangheta per i rifiuti romani di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 L’audizione resa in Commissione parlamentare sul ciclo illecito dei rifiuti il 2 agosto dall’ex presidente del cda di Ama Daniele Fortini rivela che, a Roma, il rischio di infiltrazioni criminali nella gestione del ciclo di igiene urbana è molto alto. Fortini, di fronte al presidente della Commissione Alessandro Bratti, dirà che "quando affermiamo che l’azienda può essere ancora infiltrata da fenomeni criminali, non facciamo propaganda". Cita la società Pmr service srl del Gruppo Politi, preventivamente sequestrata - insieme a molte altre aziende che lavorano nel settore del ciclo dei rifiuti - nell’operazione Alchemia della Dda di Reggio Calabria, che il 19 luglio ha portato all’arresto, in Liguria, Calabria, Lazio e Piemonte di 40 persone - 34 in carcere, 6 ai domiciliari - accusate di essere affiliate o contigue alle cosche reggine "RasoGullace-Albanese" e "Parrello- Gagliostro", indagati a vario titolo per associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione, intestazione fittizia di beni e società. Pmr service gestiva la movimentazione dei rifiuti nelle vasche di trattamento meccanico biologico di Rocca Cencia e Salario. "È arrivata in Ama nel 2010 - dirà Fortini - ed è rimasta fino al 2015, con affidamenti diretti, senza gara, per la movimentazione dei rifiuti, il noleggio a freddo dei mezzi d’opera, una volta anche il noleggio a caldo, per un importo annuo di circa 900mila euro". Si tratta di una mansione delicata: la macchina operatrice che sta nella vasca dei rifiuti (una pala meccanica o una ruspa) è quella che raccoglie i rifiuti e li accompagna al trituratore. Ci può mettere un minuto ma anche sette volte tanto ma se va molto lentamente, l’impianto si intasa, si creano code e i rifiuti in strada non si raccolgono. Inoltre, se c’è un rifiuto particolarmente ingombrante, magari in metallo, e la pala meccanica non lo vede e lo mette nel trituratore, questo si spacca, per cui, dovendo essere riparato, le lavorazioni si bloccano. "Per questo, in questo tipo di impianti gli operatori in vasca devono essere dipendenti dell’azienda - afferma Fortini in audizione - che devono essere premiati perché fanno un lavoro disgraziatissimo ed essere riconosciuti nelle responsabilità e nelle attribuzioni: insomma, non possono essere dipendenti di qualcun altro". Il tribunale del Riesame di Reggio Calabria con l’ordinanza dell’11 agosto, ha annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip il 14 luglio e ha disposto l’immediata restituzione di quanto sequestrato a Maurizio e Giuseppe Politi, con un provvedimento iscritto nel registro delle imprese il 26 agosto. Pmr service srl appartiene per il 67% ai due fratelli e per il 33% all’altro fratello Rosario, che è l’unico per il quale il Gip Barbara Bennato ha accolto la richiesta di arresto formulata dai pm Giulia Pantano e dal procuratore aggiunto Calogero Paci. Gli altri due fratelli sono solo indagati. Quando nei primi mesi del 2015 l’allora direttore generale dell’Ama Alessandro Filippi visitò gli impianti e annotò la presenza di Pmr service, bandì una gara che permise di interrompere il rapporto. "Se avessero eseguito gli arresti nel gennaio 2016 o se la gara avesse avuto tre mesi di ritardo - ricorda Fortini - oggi Ama si troverebbe nella condizione di essere esposta, come è capitato ad altri, all’interno di un ciclone di un’inchiesta nazionale di ‘ndrangheta, come un’azienda, minimo, disattentaen nta". I terremoti e l’Italia. Dal Friuli all’Emilia: 14 condanne a fronte di 4.091 vittime di Giuseppe Guastella e Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 7 settembre 2016 Chi ha pagato per i crolli: dai processi al via per il sisma nella Bassa del 2012 alla raffica di assoluzioni in Irpinia. Nessuna inchiesta per il Friuli: nel 1976 non c’erano leggi antisismiche. Il procuratore di Rieti, Giuseppe Saieva, annuncia che indagherà su ogni edificio crollato nel terremoto del Centro Italia. L’esperienza degli altri inquirenti italiani che hanno dovuto confrontarsi con i sismi della Penisola degli ultimi 40 anni insegna però che non sarà facile arrivare a un risultato tangibile. Le indagini sono complesse, lunghe, rallentate da montagne di perizie e controperizie. Dal terremoto del Friuli del 1976 a quello dell’Emilia del 2012, passando per L’Aquila, Molise e Irpinia (4.091 vittime complessive), si è arrivati ad appena 14 condanne definitive che sono il risultato di 22 processi. Progettisti, collaudatori, sindaci, ma c’è anche un preside e l’ex vice capo dipartimento della Protezione civile. Sono stati condannati per aver costruito male, per le mancate ristrutturazioni, per non aver messo a norma gli edifici. Il quadro è variegato. Tutte le procure indagano per omicidio colposo e disastro colposo, ma gli sviluppi sono diversi. Ernesto Aghina, all’epoca giovanissimo magistrato a Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) che lavorò a lungo sul devastante sisma dell’Irpinia, ricorda come "i periti accertarono che gli edifici erano stati costruiti male ma secondo i giudici la forza del sisma fu tale che anche se fossero stati edificati bene sarebbero comunque crollati". Contro la natura talvolta anche la giustizia deve abbassare la testa. Come a Modena, dove l’indagine sul crollo della Hermotronich, sotto le cui macerie persero la vita 4 operai, si è chiusa con un’archiviazione. Il procuratore Lucia Musti l’ha spiegata così: "Abbiamo fatto un’indagine a 360 gradi, sentito decine di testimoni, disposte molte perizie. Non è emersa alcuna responsabilità". Emilia, in 17 alla sbarra In Emilia sono crollati soprattutto i capannoni industriali. Ed è lì che si sono concentrate le inchieste giudiziarie delle procure di Modena e Ferrara, le province più colpite dal terremoto che il 20 e 29 maggio del 2012 fece 27 vittime, in maggioranza dipendenti di aziende distrutte. Inizialmente erano stati aperti circa 15 fascicoli per altrettanti crolli e gli indagati erano 53 (23 a Modena e 30 a Ferrara). Di questi, 4 anni dopo la tragedia, 12 si sono trasformati in imputati contro i quali nel 2017 verranno celebrati tre distinti processi per i crolli dei capannoni industriali (due a Ferrara e uno a Modena). Al momento, dunque, nessuna condanna. Il 16 gennaio a Ferrara riprenderà il via al processo alla Tecopress dove il 20 maggio 2012 perse la vita un operaio che faceva il turno di notte. Cinque gli imputati: i progettisti, il collaudatore, il titolare dell’azienda e la responsabile della sicurezza. Il pm Ciro Savino contesta all’imprenditore, per la prima volta nell’ambito di un sisma, la violazione delle norme di sicurezza sui luoghi di lavoro nonostante non esistessero nel Ferrarese obblighi di legge. Il 13 dicembre sarà la volta dell’Ursa di Bondeno (una vittima) con due imputati per omicidio colposo e due nuovi indagati sui quali il pm sta valutando. Sempre a Ferrara potrebbe esserci un terzo processo, quello alla Ceramica Sant’Agostino dove morirono due operai e per il quale la procura ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di tre tecnici e del titolare dell’azienda. Il 19 gennaio partirà invece l’unico processo di Modena, quello per il crollo della Meta di San Felice sul Panaro, dove il 29 maggio persero la vita un ingegnere e due operai. Tre gli imputati: il sindaco di San Felice Alberto Silvestri, il capo dell’ufficio tecnico dello stesso Comune e il tecnico di parte che rilasciò il certificato di agibilità del capannone dopo la prima scossa sismica. Oltre all’omicidio colposo plurimo, la procura contesta il falso: il documento sull’agibilità sarebbe stato sostituito dopo il crollo con un testo modificato. L’Aquila, nove condanne (e solo tre in cella) Quarantasei indagati, 15 processi, 9 condanne, 3 arresti. È il bilancio "giudiziario" dei crolli provocati dal terremoto dell’Aquila, 6 aprile 2009, 309 morti, oltre mille feriti, 65 mila sfollati. Tutti fascicoli aperti da una procura, quella del capoluogo abruzzese, che ha dovuto fare i conti anche con una decina di vicende legate alla ricostruzione, fra camorra, ‘ndrangheta, corruzioni varie, frodi e difetti di edificazione. Delle inchieste giunte al capolinea della Cassazione, la più nota vedeva sul banco degli imputati i membri della Commissione Grandi Rischi, l’organo scientifico consultivo della Presidenza del Consiglio dei ministri che a cinque giorni dalla tragedia aveva rassicurato gli aquilani escludendo il rischio di un forte terremoto. Nel novembre 2015 la Suprema Corte ha assolto i sei esperti e condannato a 2 anni l’ex vice capo dipartimento della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis. Il primo arresto legato ai crolli è stato quello del preside del Convitto nazionale "Domenico Modugno", il friulano Livio Bearzi, in esecuzione nell’ottobre scorso della sentenza definitiva a 4 anni di pena per la mancata ristrutturazione del vecchio edificio, dove persero la vita 3 studenti minorenni. Con lui fu condannato a 2 anni e 6 mesi anche il dirigente della Provincia dell’Aquila Vincenzo Mazzotta. Altro processo chiuso, quello per il crollo della Casa dello studente, dove morirono otto giovani. Quattro le condanne: ai tre tecnici del restauro Pietro Centofanti (ex sindaco di Sulmona) Tancredi Rossicone e Bernardino Pace (4 anni di reclusione per tutti e tre) e al presidente della commissione di collaudo Pietro Sebastiani (2 anni e 6 mesi). In maggio per Pace e Centofanti si sono aperte le porte del carcere. E definitive sono state anche le condanne per il crollo della facoltà di Ingegneria di Roio dove non ci sono state vittime ma potevano essercene a migliaia: un anno e 10 mesi al direttore dei lavori Ernesto Papale e a quello di cantiere Carmine Benedetto. Il reato per loro è il disastro colposo. Molise, cinque colpevoli dopo 10 anni Ci vollero dieci anni di processi prima di arrivare alla condanna dei cinque responsabili del crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia (Campobasso) provocato dal terremoto che alle 11.32 del 31 ottobre 2002 colpì il Molise: per la morte di 27 bambini e di una maestra i giudici condannarono in via definitiva a 5 anni (3 indultati) il progettista Giuseppe La Serra, gli imprenditori Carmine Abiuso e Giovanni Martino e il dipendente comunale Mario Marinaro (ottennero l’affidamento ai servizi sociali) mentre 2 anni e 11 mesi furono inflitti all’allora sindaco Antonio Borrelli che nel crollo aveva perso una figlia. Un sesto imputato fu assolto. Quella tragedia incarna forse più di ogni altra nella memoria collettiva il simbolo degli errori costruttivi che fanno stragi nei terremoti. Se si escludono altre due persone morte in altre circostanze, 61 feriti e circa tremila sfollati, i bambini e la maestra furono praticamente le uniche vittime del sisma di magnitudo 5.7 che gli strumenti dell’Istituto nazionale di Geofisica registrarono a una profondità di circa 20 chilometri con epicentro tra Santa Croce di Magliano, San Giuliano di Puglia e Larino, una zona in provincia di Campobasso al confine tra Molise e Puglia. Durante le indagini, i periti della procura di Larino accertarono che a far crollare l’edificio scolastico era stata una sopraelevazione realizzata un anno prima senza fare i calcoli necessari, a partire da quelli sul peso che sarebbe andato a gravare sulla struttura preesistente che risaliva al 1954. Il processo si chiuse il 23 maggio 2012, quando la terza sezione penale della Corte di Cassazione confermò a vario titolo le condanne per falso, omicidio, disastro e lesioni colpose respingendo i ricorsi presentati dalle difese. In precedenza, a settembre 2011, era stato condannato per omicidio colposo a due anni e 11 mesi l’ex sindaco Borrelli. La scuola fu ricostruita in una settimana grazie ai fondi raccolti da una sottoscrizione del Corriere e Tg5. Irpinia, 107 imputati: tutti assolti A poco più di due mesi da uno dei più forti terremoti della storia italiana, la Procura della Repubblica di Sant’Angelo dei Lombardi emise una raffica di comunicazioni giudiziarie (ora si chiamano informazioni di garanzia) ipotizzando i reati di omicidio colposo, crollo di edificio a carico di 107 presone tra le quali costruttori, progettisti e committenti ritenuti responsabili di non aver rispettato le norme antisismiche nella costruzione di edifici venuti giù come castelli di carte seppellendo centinaia di persone. La terra aveva tremato per ottanta interminabili secondi alle 19.34 del 23 novembre 1980 con una terrificante magnitudo di 6.8 che devastò un’area enorme a cavallo della Campania e della Basilicata, con epicentro in Irpinia, tra i comuni di Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni e Conza. Ma l’azione della magistratura non portò a nulla perché coloro che finirono sotto inchiesta uscirono poi indenni dai processi per i crolli, assolti o grazie alla prescrizione. Furono 2.735 i morti, 8.850 i feriti, 280 mila i senza tetto e 600 mila gli edifici danneggiati. Il processo per il crollo dell’ospedale Sant’Angelo dei Lombardi, le cui macerie seppellirono un centinaio di persone, tra le quali molti bambini, così come quello relativo a un edificio di 4 piani, che schiacciò e uccise 21 persone, finirono senza condanne. Anche il processo per il crollo a Balvano (Potenza) della chiesa di Santa Maria dell’Assunta, che uccise 40 adulti e 26 bambini schiacciati dal pesante solaio in cemento armato con il quale era stato sostituito il precedente in legno, si concluse nel 1987 con l’assoluzione del parroco e del costruttore. Erano stati condannati in primo grado a tre anni e otto mesi di reclusione, ma poi furono assolti in appello con una sentenza confermata in Cassazione. In moltissimi casi, infatti, a seguito di perizie tecniche i giudici conclusero che anche se i lavori di costrizione fossero stati fatti a regola d’arte, come non era accaduto, la violenza del terremoto era stata tale che essi sarebbero caduti ugualmente. Friuli, zero inchieste: non c’erano leggi antisismiche Lavorava in una tenda con scritto "Procura della Repubblica" e aveva la grinta del giovane pm davanti al disastro più grande della sua terra: 989 morti, 45 mila senzatetto, un terremoto devastante. Gianpaolo Tosel, oggi 76 anni, una vita da magistrato e pm di riferimento del sisma del 1976, ha tutto scolpito nella memoria: "Le indagini, i processi a cielo aperto in un’aula d’udienza con il tetto mezzo crollato, gli imputati, quei due sciacalli che arrivarono in barella perché la gente li aveva menati. Era una direttissima con dieci indagati: tutti condannati a 7 anni, uno per il furto di un candelabro che valeva mille lire". E le indagini sugli edifici crollati? "Nessuna". Non ci furono inchieste per omicidio colposo o disastro colposo legate alla costruzione di case, palazzi, capannoni e chiese venuti giù. Il motivo? "Beh, perché non abbiamo trovato edifici costruiti con la sabbia; ma anche perché erano altri tempi: 40 anni fa non esisteva la normativa antisismica di oggi. Ma al di là di queste considerazioni bisogna dire che la ragione dei crolli è tutta nell’intensità del terremoto, violentissimo, senza precedenti. Non sono stati coinvolti palazzi moderni che potevano fare centinaia di vittime. La scossa del 6 maggio 1976 ha distrutto soprattutto le vecchie costruzioni". Vecchi edifici che poi furono oggetto di una ricostruzione esemplare. "I friulani si misero a lavorare subito come formiche perché questa era terra di muratori, artigiani, contadini. Poi arrivò Zamberletti con la sua visione aperta che verteva sul decentramento a favore degli enti locali. Quella scelta funzionò solo perché le amministrazioni erano sane". Risultato: in cinque anni la metà dei senzatetto (80 mila) ebbe una sistemazione definitiva. Inchieste sulla ricostruzione? Vennero indagate dalla Finanza le ditte (37) che consegnarono i prefabbricati, sui quali c’era il sospetto di guadagni illeciti. Scattarono anche un paio di arresti, un sindaco e il braccio destro del commissario per l’emergenza Zamberletti. "Scandalo che si risolse in una sciocchezza". Paolo Scaroni fu pestato dai poliziotti: lo Stato lo risarcisce con 1,4 milioni di euro di Marco Zavagli Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2016 L’ultras del Brescia fu ridotto in fin di vita nel 2004 durante gli scontri che accompagnarono la gara delle Rondinelle contro il Verona. Dopo due mesi di coma, il tifoso - oggi 40enne - è rimasto invalido al 100 per cento. Nessun agente è stato condannato, ma oggi il Viminale ammette le proprie responsabilità. Scaroni: "Vittoria di Pirro, lo Stato italiano si è arrogato il diritto di strapparmi la vita di dosso, me l’ha presa e l’ha buttata nel cesso". Per Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi parlarono le foto. Per lui "è la mia voce la testimonianza vivente di un grande abuso subìto da un cittadino italiano da parte dello Stato". Paolo Scaroni ha ricevuto l’indennizzo dal ministero dell’Interno per quanto subito il 24 settembre del 2004. Un milione e 400mila euro per compensare il fatto che dei poliziotti lo hanno reso invalido al 100 per cento. Quel giorno Scaroni, oggi 40enne, si trovava alla stazione di Verona, al seguito del Brescia, la sua squadra del cuore. Lui, ultrà, si trovò nel mezzo dei tafferugli che fecero contorno alla gara contro l’Hellas Verona. Come raccontò a ilfattoquotidiano.it, venne circondato dai manganelli degli agenti (impugnati in senso contrario, per colpire con il manico, si scoprirà in dibattimento). Venne massacrato di colpi e ridotto in fin di vita. Rimase in coma per due mesi. Poi la lunga trafila dei reparti riabilitativi. Altri otto mesi di calvario non furono sufficienti a ridargli quel minimo di capacità motoria utile per continuare il lavoro di allevatore, o per trovarsene un altro. I medici gli diagnosticheranno menomazioni permanenti e croniche sia di natura fisica che intellettiva. Quell’agonia è ancora presente nella sua voce. "Per anni ho dovuto imparare di nuovo a parlare, camminare, muovermi". E oggi, dalla sua casa di Castenedolo in provincia di Brescia, quel risarcimento lo vede come "una vittoria di Pirro", perché "questa macchia è indelebile; se pensano che dimenticherò tutto il male che mi hanno fatto si sbagliano di grosso. Lo Stato italiano si è arrogato il diritto di strapparmi la vita di dosso, me l’ha presa e l’ha buttata nel cesso". Ciononostante chi l’ha ridotto così non verrà punito dalla giustizia italiana. Il processo di primo grado nel tribunale di Verona si è concluso nell’ottobre del 2013 con l’assoluzione degli otto poliziotti del settimo reparto mobile di Bologna dal reato di lesioni gravissime. Sette di loro per insufficienza di prove, un ottavo agente, alla guida della camionetta, per non aver commesso il fatto. Eppure nelle motivazioni il giudice ammette che"Scaroni subì un pestaggio gratuito, immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza". Ma l’impossibilità di identificare materialmente gli autori del pestaggio ha fatto il resto. "I filmati dei colleghi degli imputati - scriveva in una interrogazione al Viminale il deputato di Sinistra ecologia e libertà, Luigi Lacquaniti -, che in teoria avrebbero dovuto contenere le immagini di tutti gli scontri, s’interrompono proprio nei minuti in cui Paolo sarebbe stato massacrato". Lo spazio è rimasto aperto per il risarcimento in sede civile, anche se il diretto interessato si chiede a questo punto: "Se io, ultrà, sono il male della società, come sento dire spesso, chi mi ha ridotto così cosa è? Il giudice ha detto che le forze dell’ordine sono state forze del disordine. Questo ha aperto la strada alla vittoria in sede civile, ma io trovo indegno di una democrazia che il ministero non abbia nemmeno comunicato ufficialmente nulla ai propri cittadini in merito a questo risarcimento. Evidentemente non vuole che si sappia". Intanto si attende, a quasi tre anni di distanza, l’appello in sede penale. Il pubblico ministero ha impugnato la sentenza di primo grado. Scaroni, avendo scelto la strada del risarcimento in sede civile, non potrà essere parte nel processo. Chi l’aveva assistito in prima istanza, l’avvocato Alessandro Mainardi, non lascia trasparire grandi aspettative. "Ormai, dopo dodici anni - dice, ci avviciniamo verso il binario morto della prescrizione" Storia di un suicidio non ordinario di un pediatra accusato di pedofilia di Maurizio Crippa Il Foglio, 7 settembre 2016 Verso le sette di mattina di sabato 3 settembre il professor Alberto Flores D’Arcais, sessantuno anni, sposato e con due figlie, primario di Pediatria all’ospedale di Legnano, medico e docente universalmente stimato, ha aperto la finestra della sua casa al sesto piano di via Belgirate a Milano, dove era agli arresti domiciliari, e si è buttato nel vuoto lasciando sul tavolo alcune lettere a famigliari e amici. Ha deciso di chiudere così, senza attendere nemmeno un rinvio a giudizio, il caso che lo vedeva coinvolto e per il quale, comunque fosse andata, era già stato condannato da quel dispositivo infernale che chiamiamo circo mediatico-giudiziario. Il "processo" era già stato fatto in fretta, sui giornali distratti dell’estate, e il pubblico su queste storie ci si butta a pesce, con l’istinto assassino del piranha. Dove c’è pediatria c’è pedofilia, sembra annusarlo. Del resto, in questa stessa estate, non avevano arrestato anche un pediatra del San Matteo di Pavia, Antonio Maria Ricci, cinquant’anni, con l’accusa di violenza ai danni di una paziente di tredici anni, che avrebbe "adescato" tramite Facebook e poi "baciata" durante una visita al day hospital? Il condizionamento mediatico e culturale in tema di abusi sui bambini è tale che chiunque si occupi di bamini è considerato potenzialmente un mostro. Nei giorni scorsi il comune di Milano ha stabilito che dovranno essere installate telecamere obbligatorie in tutti gli asili nido che intendano essere accreditati. Non si sa mai. Secondo le accuse formulate dal pm di Busto Arsizio Francesca Gentilini, il primario della Pediatria di Legnano era sospettato di "atti sessuali con minorenni" in 18 episodi di presunti abusi avvenuti nel corso di visite in ospedale. Alberto Flores D’Arcais era un medico stimato, per vent’anni pediatra e docente universitario al San Raffaele, dal 2006 era primario di Pediatria a Legnano. Aveva partecipato a missioni umanitarie in Iraq. La prima cosa inusuale di questa storia è che gli esposti sui presuntissimi abusi da cui partono nel 2015 le indagini non sono fatti da genitori, né in base a "racconti" dei bambini (do you remember Rignano?), ma da uno dei pediatri di base (o meglio di "libera professione") di Legnano con cui Flores D’Arcais aveva avuto battibecchi pubblici, criticando apertamente i metodi e la qualità del lavoro. Una vendetta privata? Sono gli stessi giornali locali a parlare di "uno scenario fatto di livore, risentimenti e ostilità, raccontato dagli stessi dottori e infermieri" da cui sarebbero nate quelle denunce. Sta di fatto che la giustizia fa il suo corso e le accuse bastano a far scattare le indagini, che contemplano anche registrazioni video delle visite in ospedale, durate sei mesi. Il 9 luglio il medico viene arrestato, ai domiciliari. Ma la notizia ci mette fino a giovedì 14 a trapelare. Secondo i magistrati, sarebbe il segno di una meritoria volontà di riservatezza su un caso tanto grave. Tutto lineare. C’è un ma. Che cosa faceva, nelle sue visite, il dottore dei bambini? Su quei filmati, c’è una memoria tecnica difensiva redatta da un perito di parte, il prof. Gianni Bona, ordinario di Pediatria dell’Università del Piemonte orientale: "Sulla base degli atti e delle videoregistrazioni, mi sento di concludere che l’operato del prof. Flores D’Arcais sia deontologicamente in linea con quelle che sono le normali regole in essere in campo pediatrico per una adeguata valutazione di giovani pazienti (…) e non riscontro alcun atteggiamento che travalichi le normali procedure". Spiega il luminare che è "bene che la visita non si limiti ai soli sintomi od organi interessati dalla patologia" (la denuncia - che sarebbe poi anche la "prova" - riguarda il fatto che le visite erano "lunghe") e che "la prima fase della visita, come ci hanno insegnato grandi Maestri della pediatria, è rappresentata proprio dal far spogliare il paziente e in particolare quei pazienti che hanno un’età compresa fra gli 8 e i 14 anni". Appare "pertanto doveroso", scrive Bono, effettuare anche un controllo "in particolare dello sviluppo dei caratteri sessuali secondari rappresentati dalla crescita della ghiandola mammaria, che va osservata ma anche palpata, dallo sviluppo del pelo pubico e dalla normale conformazione dei genitali esterni, escludendo la presenza di alterazioni". In sostanza, secondo il professore, sarebbero visite da mostrare agli studenti all’università: "Le immagini che si possono osservare consentono di affermare senza alcun dubbio che nella totalità dei casi si tratta di normali visite condotte in maniera standardizzata ed effettuate tutte in presenza di almeno un genitore". Ce n’era abbastanza per archiviare accuse tanto generiche su abusi mai sospettati nemmeno dai diretti interessati? O almeno per revocare i domiciliari, come avevano chiesto i suoi legali e il medico curante di Flores D’Arcais - nonché amico oggi addoloratissimo e incredulo - "per quelle accuse assurde e infamanti"? Il dottor Alberto Aronica in agosto aveva segnalato una grave sindrome suicidaria nel detenuto. Il gip di Busto Arsizio non aveva revocato. A nessuno è venuto in mente che lasciare un uomo con sindrome suicidaria ai domiciliari al sesto piano potesse essere un azzardo. Fatalità. Anche a fronte della perizia di un cattedratico, pesava di più il sospetto dell’accusa. Così Flores D’Arcais si è buttato. "Alberto aveva perso tutto, aveva perso ogni speranza. Sapeva di essere finito come medico, sia in caso di condanna sia di assoluzione", ha detto il suo medico amico. Una sentenza mediatica già formulata. Ma c’è anche un altro ma. La mattina stessa del suicidio, "a cadavere ancora caldo" ha scritto qualche giornale, il procuratore capo di Busto, Gianluigi Fontana, convoca non una conferenza stampa, ma un irrituale briefing informale con alcuni giornalisti in via Moscova a Milano, alle ore 11. E annuncia il ritrovamento su due computer del medico, che erano stati sequestrati e analizzati da esperti, di materiale pedopornografico, migliaia di foto. Come dire: vedete? Lui si è suicidato, ma noi avevamo ragione. "Abbiamo trovato nel suo computer cinquemila foto pedopornografiche… cose pesanti con bambine", dice ai giornalisti. L’equazione è fatta: se l’indagato guardava queste cose a casa sua, ovviamente lo faceva pure in ospedale. Si è suicidato perché era colpevole. La spiegazione è più o meno questa: i periti hanno finito il lavoro (solo il procuratore ha però visto i contenuti dei computer), tramite il suo legale D’Arcais ne è stato informato. E si è suicidato. Prima che, il lunedì successivo, Busto Arsizio potesse trasmettere il fascicolo alla procura di Milano, perché per questo genere di reati la competenza è della procura distrettuale. Visto? Tutto in regola. Peccato che l’avvocato dell’indagato-vittima abbia dichiarato di non essere stato informato (almeno non prima della stampa) e che per quello che ne sapeva, al momento del suicidio, non erano emersi "elementi aggravanti". Si fa peccato a pensare che più del segreto istruttorio, in quello strano briefing mattutino, ha pesato la volontà di mettersi al riparo da eventuali polemiche di fronte al suicidio di un inquisito? La famiglia ha affidato il suo sdegno a una lettera al Corriere della Sera, "per togliere il fango versato sulla sua figura": "Siamo sconcertati per il comportamento della procura di Busto Arsizio che quando ancora nessuno della famiglia era stato informato, ha sentito il bisogno di indire una conferenza stampa divulgando notizie che avrebbero dovuto essere segrete, impedendo di fatto qualsiasi forma di difesa, e gettando altro fango sulla reputazione di Alberto, quando ancora era disteso sull’asfalto privo di vita". Ma a Flores D’Arcais nessuno ha dato il tempo di difendersi. La questione dei fascicoli della procura non è secondaria, a rifletterci. Né dal punto di vista di come è stata condotta l’inchiesta, né da un punto di vista, diciamo così, culturale. Un’accusa tanto pesante ma circostanziata ("visite pediatriche svolte adottando un comportamento contrario a quello della professione medica e finalizzate, invece, ad atti di natura sessuale") può trovare una quasi-conferma, ex post, attraverso una sorta di "induzione morale" da un comportamento privato (che casomai configurerebbe un altro tipo di reato) a uno professionale- deontologico? In altre parole, avere materiale di un certo tipo a casa significa essere colpevoli nell’esercizio delle proprie funzioni? Per il procuratore Fontana le immagini sul pc, che nessuno tranne lui ha mai visto né vedrà mai (secondo alcuni medici, però, potrebbero persino essere materiale scientifico e per uso scientifico: i pediatri si debbono spesso occupare anche di queste cose) sono la prova provata: sono state trovate "dov’era ovvio che fossero, cioè nei pc privati che il medico teneva a casa. Nei computer dell’ospedale non c’era nulla". Un sillogismo simile non può essere accettato a cuor leggero: sembra, è, piuttosto il frutto di un corto circuito di tipo morale, collegato a un pregiudizio che rende colpevoli a prescindere e non dà la possibilità di salvarsi. "Flores D’Arcais è stato la vittima innocente di un’accusa assolutamente falsa, una cattiveria nata dalla segnalazione di pediatri di base", ha detto il suo medico-amico. Non ha potuto difendersi da una denuncia di sospetto morale che richiama sinistramente alla memoria un passato cupo (ma molto attuale), quello delle lettere di denuncia anonima studiate da Michel Foucault, che nell’Ancien régime servivano per denunciare al Re "le variazioni individuali della condotta, le vergogne e i segreti" dei propri nemici, affinché la giustizia facesse il suo corso. E una presunta (o reale) perversione sessuale servisse a far interdire in prigione un rivale in affari. Nel circo mediatico-giudiziario Flores D’Arcais è stato condannato senza processo, come per un’autoevidenza, in base a un comportamento (presunto). Ora, probabilmente, il tutto sarà archiviato. Per decesso dell’accusato. Probabilmente anche il fascicolo mai aperto e mai pervenuto alla procura competente, ma ai media sì sulle fotografie. Nessuno saprà mai la verità su un caso di giustizia già applicata. Resta che Alberto Flores D’Arcais a questa giustizia sommaria si è ribellato, o arreso, nel modo più estremo. Archiviato. Cooperazione penale Ue, l’Italia sta colmando il gap di Eugenio Selvaggi Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Nella Gazzetta del 4 agosto (n. 181) è stata pubblicata la legge 149 del 21 luglio 2016 di ratifica della Convenzione di mutua assistenza in materia penale tra gli Stati dell’Unione, del 29 maggio 2000: in questo modo l’Italia ha colmato un vuoto per cui sarebbe altrimenti incorsa nelle procedure di infrazione europee. Va aggiunta l’emanazione, nella prima metà di quest’anno, di una decina di decreti legislativi in attuazione di rilevanti decisioni quadro dell’Unione in materia di giustizia penale. Il premier Renzi e il ministro Orlando hanno così lanciato un forte messaggio politico in Europa. Quella convenzione infatti nasce da una proposta italiana presentata nel 1996 sulla base della consapevolezza, nata dai processi di Mani pulite, che si dovesse rendere più efficace la cooperazione e l’Italia era rimasta l’unico Paese fondatore a non averla ratificata, così imperdonabilmente perdendo, a partire dal 2001, un credito presso i partners, che ora sta recuperando. Ma notevoli sono anche le ricadute sull’ordinamento previste dalla legge appena approvata, che prevede la revisione della parte del Codice di procedura in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere (estradizioni, rogatorie ecc.). In particolare, per porre il nostro Paese in una posizione di avanguardia nella lotta contro quei fenomeni criminosi che, per via della globalizzazione, richiedono forme di cooperazioni efficaci (basti pensare al terrorismo), il legislatore chiede al governo di introdurne di simili a quelle previste nello spazio giudiziario europeo, anche nei confronti di Stati terzi. Questo vuol dire che, ogni volta che si stipuleranno nuovi trattati internazionali e se questi dovessero prevedere queste nuove forme di cooperazione, il nostro ordinamento interno non avrà bisogno dei necessari adeguamenti. E non è tutto: si dovrà introdurre nel codice il principio del mutuo riconoscimento tra i Paesi Ue, che entra quindi a pieno titolo nel nostro ordinamento, insieme con la giurisprudenza della Corte di giustizia che ne precisa i contenuti. Consapevole dell’importanza di "cambiare verso", il ministro della giustizia Orlando aveva con lungimiranza istituito, in vista dell’approvazione del disegno di legge n. 1949 (allora pendente al Senato e proveniente dalla Camera con il n. 1460) una commissione con l’incarico di studiare le opportune modifiche al quadro normativo esistente. Occorre ora auspicare che il governo eserciti quella delega in tempi rapidi. Con il Dm istitutivo della commissione il ministro Orlando l’ha poi incaricata (sulla base della legge di delegazione comunitaria 2014: legge 9 luglio 2015, n. 114) di redigere le norme di attuazione per implementare la direttiva dell’Unione europea sull’ordine europeo di indagine (direttiva Ue n. 14/2014), destinato a sostituire il vecchio sistema delle rogatorie tra gli Stati membri dell’Unione. L’ordine europeo (Oei) traduce il principio della libera circolazione delle persone e dei capitali nello spazio comune declinandolo in termini giudiziari: a qualsiasi decisione emessa da un’autorità giudiziaria di uno degli Stati membri (detto di emissione) e avente a oggetto l’acquisizione di una prova, dovrà essere data esecuzione dallo Stato dove la prova si trova; sempreché l’acquisizione non contrasti con i principi fondamentali dell’ordinamento dello Stato (detto di esecuzione). Per la prima volta, inoltre, spazi sono concessi a garanzia dei diritti di difesa; quindi riempiendo un vuoto in un settore che la tradizione voleva essere riservato alle autorità giudiziarie interessate e dal quale le difese erano del tutto emarginate. Però la convenzione dovrà attendere ancora prima di entrare in vigore. Occorrerà che il Presidente Mattarella la ratifichi (lo farà quando il governo avrà adottato il decreto legislativo che introduce le norme di attuazione) e poi occorrerà attendere che la ratifica sia notificata al Segretariato dell’Unione europea. Neppure questo, però, sarà sufficiente: l’articolo 27 della convenzione stabilisce che la notifica da parte di uno Stato membro successiva all’ottava notifica della ratifica della convenzione (è il caso dell’Italia: pur avendola proposta, il nostro Paese ha ritardato oltre 16 anni per firma e ratifica) fa sì che essa entri in vigore per tutti gli Stati membri 90 giorni dopo. Prima dell’estradizione spazio al mandato d’arresto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Corte di giustizia europea, sentenza 6 settembre 2016 nella causa C-182/15. Uno Stato membro non è tenuto a concedere a ogni cittadino dell’Unione che ha circolato nel suo territorio la stessa protezione contro l’estradizione concessa ai propri cittadini. Tuttavia, prima di estradarlo, lo Stato membro interessato deve privilegiare lo scambio d’informazioni con lo Stato membro di origine e consentirgli di chiedere la consegna del cittadino ai fini dell’esercizio dell’azione penale. Lo ha deciso la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza sulla causa C-182/15. Il caso riguarda cittadino estone, oggetto di un avviso di ricerca pubblicato sul sito Internet dell’Interpol, poi arrestato in Lettonia e successivamente posto in custodia cautelare. La Corte osserva peraltro che, secondo la Carta, nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Ne consegue che, quando l’autorità competente dello Stato membro richiesto dispone di elementi che attestano un rischio concreto di trattamento inumano o degradante delle persone nello Stato terzo interessato, è tenuta a valutare l’esistenza di tale rischio in sede di esame della domanda di estradizione. La sentenza sottolinea che l’estradizione è una procedura che punta a lottare contro l’impunità di una persona che si trova in un territorio diverso da quello nel quale ha, secondo l’accusa, commesso il reato. Infatti, come rilevato da vari governi nazionali nelle loro osservazioni dinanzi alla Corte, mentre la mancata estradizione dei cittadini nazionali è generalmente compensata dalla possibilità per lo Stato membro richiesto di perseguire i propri cittadini per reati gravi commessi fuori dal suo territorio, tale Stato membro è di norma incompetente a giudicare questi fatti quando né l’autore né la vittima del presunto reato sono cittadini di detto Stato membro. L’estradizione consente quindi di evitare che reati commessi nel territorio di uno Stato membro da persone che sono fuggite da questo territorio rimangano impuniti. In tale contesto, norme nazionali che consentono di dare un seguito favorevole a una domanda di estradizione ai fini dell’esercizio dell’azione penale e della sentenza nello Stato terzo in cui si suppone sia stato commesso il reato, risultano adeguate per conseguire l’obiettivo perseguito. Occorre tuttavia verificare se non esiste una misura alternativa meno invadente che consenta di raggiungere in modo efficace l’obiettivo di evitare il rischio di impunità di una persona che avrebbe commesso un reato. E allora, avverte la Corte, occorre privilegiare lo scambio di informazioni con lo Stato membro di cui l’interessato ha la cittadinanza per fornire alle autorità di questo Stato membro, purché siano competenti in base al loro diritto nazionale a perseguire tale persona per fatti commessi fuori dal territorio nazionale, l’opportunità di emettere un mandato d’arresto europeo ai fini dell’esercizio dell’azione penale. "L’articolo 1, paragrafi 1 e 2, della decisione quadro 2002/584 non esclude infatti - puntualizza la sentenza -, in tal caso, la possibilità per lo Stato membro di cui il presunto autore del reato ha la cittadinanza di emettere un mandato d’arresto europeo in vista della consegna di tale persona ai fini dell’esercizio dell’azione penale". Atti osceni in pubblico: niente reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 6 settembre 2016 n. 36867. Per effetto della depenalizzazione masturbarsi in pubblico non è più reato. Il Dlgs 8/2015 ha passato un colpo di spugna anche sull’autoerotismo e la Cassazione ne prende atto con la sentenza 36867 depositata ieri. Nel mirino dei giudici era finito un uomo di 69 anni che si appostava nei pressi di un cittadella universitaria per esibirsi davanti alle studentesse. La difesa aveva chiesto per lui l’applicazione della norma sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del codice penale,) che fa scattare la non punibilità, quando l’offesa è esigua. Il legale aveva valorizzato l’occasionalità del comportamento e l’accortezza usata dall’uomo che aveva scelto per la sua esibizione un orario, le 18 e 30, in cui la visibilità era ridotta vista la piena stagione invernale. Però le giustificazioni non servono grazie alla depenalizzazione della condotta. La Suprema corte non può che annullare, senza rinvio, la condanna inflitta dai giudici di merito a tre mesi di reclusione anche questa però a suo tempo convertita in una multa di 3.420 euro. Ora l’uomo dovrò pagare però una "multa" decisamente più salata: dai 5 mila a 30 mila euro. In seguito al Dlgs 8/2015 il reato di atti osceni in luogo pubblico, previsto dall’articolo 527 del codice penale è stato "degradato" ad illecito amministrativo. Un intervento destinato a rendere non più penalmente rilevanti una vasta gamma di comportamenti, per i quali prima era prevista anche la reclusione: dalla pipì en plain air al sesso in macchina. Perizia grafologica, il giudice deve motivare il disaccordo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 6 settembre 2016 n. 36993. "Sebbene la perizia grafologica debba ritenersi basata su un percorso valutativo più che su leggi scientifiche, occorre tuttavia che il giudice di merito dia conto delle specifiche motivazioni per le quali ritenga di disattendere il percorso metodologico seguito dal perito". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 6 settembre 2016 n. 36993, censurando la decisione con cui la Corte di appello di Milano aveva disatteso la perizia d’ufficio basandosi "sulla sola prospettazione di un dubbio", senza dunque "esplicitare quale sarebbe stata la non condivisibile metodologia seguita dal perito". La Corte territoriale, infatti, richiamando l’esito opposto di altri procedimenti riguardanti vicende simili e tra le stesse parti, aveva ribaltato la decisione del tribunale ed assolto, per non aver commesso il fatto, una donna condannata in primo grado per l’invio di lettere contenenti minacce di "danni fisici e la morte". La parte civile ha però proposto ricorso sostenendo che la sentenza non avrebbe tenuto conto degli esiti della perizia d’ufficio e della consulenza di parte. Per i giudici di legittimità che hanno accolto il ricorso "non si comprende quali sarebbero le discordanti valutazioni di esperti, non potendo certamente porsi a confronto tra loro valutazioni effettuate in ambiti processuali differenti, posto che, evidentemente, esse hanno avuto ad oggetto documenti differenti tra loro". Per cui non si può "attribuire rilievo determinante al provvedimento di archiviazione emesso nell’ambito di altro procedimento penale". Del resto, prosegue la sentenza, "non si comprende per quale ragione la Corte territoriale - preso atto dei dubbi di competenza tecnica del perito alla luce delle indagini difensive svolte - non abbia ritenuto di disporre un ulteriore accertamento tecnico, affidando l’incarico ad altro esperto". Infatti, prosegue la Cassazione, "quando sia necessario svolgere indagini od acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze, il giudice può ritenere superflua la perizia quando pensi di poter giungere alle medesime conclusioni di certezza sulla base di altre e diverse prove; non gli è, viceversa, consentito di rinunciare all’apporto del perito per avvalersi direttamente di proprie, personali, specifiche competenze scientifiche, tecniche ed artistiche". Perché così facendo si impedirebbe di fatto alla parte, da un lato, di "intervenire con i propri consulenti tecnici per incidere sull’iter di acquisizione della prova", dall’altro, di "esaminare e contrastare, prima della decisione, la prova eventualmente a lui sfavorevole". Nel caso affrontato, invece, la Corte territoriale, operando "una valutazione di dubbia competenza del perito, senza valutare e senza nemmeno dare atto delle conclusioni raggiunte, nell’ambito dello stesso procedimento, dai consulenti di parte, e senza procedere ad una ulteriore perizia ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p., ha disatteso le conclusioni del perito di ufficio". Senza però chiarire le motivazioni che l’hanno portata a discostarsi dalle conclusioni del consulente. Elementi di prova raccolti in conversazioni intercettate cui sia estraneo l’imputato Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016 Prova penale - Valutazione - Elementi di prova raccolti in conversazioni intercettate cui sia estraneo l’imputato - Fonte diretta della prova - Condizioni. Il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno dell’imputato che non vi ha preso parte, indicato come autore di un reato, non è equiparabile alla chiamata in correità e, pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’articolo 192, comma terzo, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 3 febbraio 2016 n. 4572. Prova penale - Valutazione - Intercettazioni di conversazioni - Elementi di prova raccolti in conversazioni intercettate cui sia estraneo l’imputato - Fonti dirette di prova - Configurabilità. Gli elementi di prova raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni alle quali non abbia partecipato l’imputato, costituiscono fonte di prova diretta soggetta al generale criterio valutativo del libero convincimento razionalmente motivato, previsto dall’articolo 192 comma primo, cod. proc. pen., senza che sia necessario reperire dati di riscontro esterno; qualora, tuttavia, tali elementi abbiano natura indiziaria, essi dovranno possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza in conformità del disposto dell’articolo 192, comma secondo cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 12 settembre 2014 n. 37588. Prova penale - Valutazione - Intercettazioni telefoniche - Esiti - Fonte diretta della prova - Condizioni. Gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 31 gennaio 2012 n. 3882. Prova penale - Valutazione - Esito delle intercettazioni telefoniche - Fonte diretta di prova - Condizioni. In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, gli indizi raccolti nel corso di conversazioni telefoniche intercettate, a cui non abbia partecipato l’imputato, possono costituire fonte diretta di prova, senza necessità di reperire riscontri esterni, a condizione che siano gravi, precisi e concordanti. • Corte cassazione, sez. I, sentenza 26 settembre 2013 n. 40006. Lazio: riparte con il nuovo Garante dei detenuti l’assistenza universitaria Ristretti Orizzonti, 7 settembre 2016 Riparte con il nuovo Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, l’assistenza universitaria presso le carceri. Questa mattina si sono svolte infatti, le prove di valutazione per i corsi di laurea per il Dipartimento di Ingegneria dell’Università degli Studi Roma Tre, alla presenza di alcuni collaboratori del Garante che seguono da vicino le prove. Quattro i test di ammissione, di cui due presso il Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e due presso la Casa Circondariale di Rieti. Gli studenti-detenuti iscritti presso l’Università di Roma Tre per l’anno 2015-2016 sono stati 47, e il Garante spera di superare per la prossima stagione il numero dell’anno scorso. In carcere lo studio può diventare infatti uno strumento di riscatto sociale di grande importanza, in grado di dimostrare che nella vita si possono ottenere successi anche in situazioni difficili. Airola (Bn): la rivolta baby boss nel carcere per "fare carriera" nel proprio clan di Giancristiano Desiderio Corriere del Mezzogiorno, 7 settembre 2016 I tre ragazzi di Napoli che hanno guidato gli scontri sono stati trasferiti: uno di loro deve scontare 16 anni per aver ucciso un uomo e poi nascosto il cadavere. Il giorno dopo la rivolta dei detenuti nel carcere per minorenni. Tutto come prima ad Airola e all’Istituto penale per minorenni, in apparenza. Ma tutto è cambiato. A iniziare dalla notte quando i tre ideatori e fomentatori della ribellione sono stati divisi e trasferiti: il primo a Nisida, un altro a Bari, il terzo a Catanzaro. Tutti sono maggiorenni. E già qui vi è la prima "questione" da considerare: nel carcere di Airola al momento della rivolta c’erano trentanove detenuti dei quali dodici erano maggiorenni. Secondo Alessandro De Pasquale, segretario nazionale dell’Ugl per la polizia penitenziaria, "la rivolta ha una causa fondamentale ed è la riforma della giustizia minorile che oggi consente a detenuti di età fino ai 25 anni di essere ristretti nelle carceri minorili". I danni - L’unione di soggetti adulti e pericolosi con detenuti minorenni è stata da subito indicata come una delle cause del dramma del carcere caudino: "La presenza di detenuti maggiorenni è impropria e deleteria - è il ragionamento di De Pasquale - perché i più giovani vengono trascinati dai più grandi, spesso veri boss della criminalità organizzata, spingendoli non solo a compiere gesti avventati, ma anche complicando la loro riabilitazione. La riforma va assolutamente ripensata e corretta, imponendo un limite di età che non superi i 19 anni e prevedendo un trattamento individuale, commisurato ai problemi e alle potenzialità di ogni singolo soggetto ristretto". Al di là dei danni materiali, che pur non sono stati pochi - una prima conta parla di una cifra di oltre 30 mila euro - il vero "guasto" che c’è oggi nel carcere di corso Montella è soprattutto rieducativo e morale. Non sarà facile rimarginare la ferita di un tessuto penale che, andando indietro nella memoria, non ha mai fatto registrare fatti così violenti e premeditati. Per il direttore della struttura Antonio Di Lauro e per il comandante della polizia penitenziaria Pasquale Spampanato, che proprio ieri con un battesimo di fuoco ha preso servizio ad Airola, non sarà un lavoro facile. Le condanne - I tre detenuti maggiorenni, che sono stati trasferiti nottetempo, sono affiliati a clan camorristici di Napoli dell’area Secondigliano e Ponticelli. In particolare, uno dei tre è affiliato al clan D’Amico: ha commesso un omicidio con occultamento di cadavere ed è stato condannato a 16 anni di reclusione con il 416 bis. Altri due sono detenuti comuni che poi attraverso il carcere si sono affiliati al clan. Proprio l’appartenenza dei detenuti agli organizzati clan malavitosi è all’origine della rivolta: "Alcuni di questi ragazzi della camorra hanno come obiettivo preciso la carriera criminale - ha ripetuto più volte Giuseppe Centomani, direttore del Centro giustizia minorile della Campania intervenuto anche lui ad Airola - e la rivolta è la loro dimostrazione di forza con la quale vogliono creare problemi e passare al carcere duro degli adulti". La spiegazione sarà utile a dare un senso alla rivolta e a razionalizzarla ma di certo con il concetto di "carriera criminale" fornisce un quadro ancora più fosco e inquietante dentro e fuori dal carcere. Le gang - Si aggiunga un elemento non secondario ossia che i "baby boss" e le "baby gang" non sono fenomeni sporadici e isolati; sono piuttosto quasi una tendenza nei quartieri di Napoli che ora si afferma anche negli istituti di pena come dimostra la rivolta nel carcere della Valle Caudina. C’è da chiedersi perché soggetti così pericolosi e "in carriera" si trovassero in un carcere per minori. Oggi sono stati trasferiti e divisi nell’intenzione di neutralizzarli, ma ieri perché sono stati accomunati e affiancati ai minori? "La rivolta ad Airola è un fatto preoccupante - ha detto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - e cercheremo di capire che cosa è avvenuto". In realtà, cosa è avvenuto è abbastanza chiaro: in un istituto di pena per minori vi erano ben dodici detenuti maggiorenni e tra questi almeno quattro erano affiliati a clan della camorra. La legge consente la convivenza nello stesso carcere di detenuti minorenni e maggiorenni ma tale convivenza non può confidare su strutture adeguate per prevenire ed evitare confusione, influenze, aggressioni e, come ieri, violenze e rivolte. Se gli agenti, incappucciati e in assetto anti-sommossa, non fossero intervenuti, oggi racconteremmo una storia criminale ancor più cruda e cruenta. Airola (Bn): in corso verifiche su rivolta, perplessità su atteggiamento sigle sindacali Agenparl, 7 settembre 2016 "L’enfasi che questa vicenda ha assunto dipenda anche dal fatto che da moltissimo tempo non c’era una rivolta all’interno di un carcere. Stiamo verificando le dinamiche della vicenda. Effettivamente qualcosa non ha funzionato. Certamente, se una rivolta accade nel carcere per adulti è dovuta a una situazione di carattere generale, ma escludo che questo possa avvenire in un carcere minorile. L’Italia è un’eccellenza per i minori e qui non riscontra carenza di personale". Così il ministro della Giustizia, Andrea Orlando a margine del rinnovo del Protocollo d’Intesa ‘Carta dei figli di genitori detenutì in via Arenula, rispondendo a una domanda in merito alla rivolta di ieri nel carcere minorile di Airola, nel Beneventano. "Mi meraviglio - conclude - che ci siano già sigle sindacali che invocano modifiche legislative senza conoscere la dinamica dei fatti e che pretendono che da singole vicende si traggano conseguenze di carattere generale. Mi lasciano perplesso". Valente (Pd): Airola ci insegna che repressione e punizione da sole non bastano "Quello che è accaduto ieri nel carcere minorile di Airola ci mette davanti ad una realtà dura, con la quale dobbiamo fare i conti. Ci sono volute cinque ore per sedare una rivolta, nata apparentemente da futili motivi, ma dietro cui pare si celi la mano della camorra. Il bilancio è stato pesante: due agenti feriti, 30mila euro di danni. E poteva finire molto peggio. Il carcere, in primo luogo quello per i minori, deve essere rieducazione, nel senso più letterale e completo che questa parola assume, per dare nuove opportunità a chi ha alle spalle vite e storie difficili. Purtroppo i minori del carcere di Airola sono diventati strumento attraverso il quale i clan sfidano apertamente lo Stato. La nostra reazione deve essere decisa e forte. Questa vicenda è la prova più netta ed evidente che repressione e punizione da sole non bastano. Bisogna puntare, come sta già facendo il Andrea Orlando ed il governo, sul reinserimento e non sull’esclusione, sul carcere come luogo di rinascita e di opportunità e non di chiusura e di isolamento". Così la parlamentare del Pd, Valeria Valente. Taranto: rissa in cella e urla pro-Isis, caos in carcere, feriti due agenti di Nazareno Dinoi Quotidiano di Puglia, 7 settembre 2016 L’ombra dell’Isis si allunga pericolosamente sul carcere di Taranto dove l’altro ieri i poliziotti in servizio di custodia sono stati coinvolti in un tafferuglio scoppiato tra reclusi extracomunitari. Due agenti sono stati aggrediti e feriti da un detenuto di nazionalità senegalese che li avrebbe affrontati, così sostiene il sindacato di polizia, al grido di "Allah akbar", Allah è grande. Lo straniero che sta scontando una pena per spaccio e traffico di sostanze stupefacenti, è tra i dodici ospiti del penitenziario jonico riconosciuti e segnalati come fondamentalisti di fede islamica. L’episodio di cui ha dato notizia il segretario generale aggiunto dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria), Pasquale Montesano, è avvenuto l’altro ieri durante l’ora d’aria nel reparto 3 sezione A definita di "media sicurezza", dove sono raggruppati quasi tutti i soggetti stranieri di religione islamica sottoposti al controllo antiterrorismo. Secondo quanto ha raccontato il sindacalista in una nota stampa, il giovane senegalese sarebbe stato aggredito, per ragioni non note, da altri cinque extracomunitari. Per sedare la rissa è intervenuta la polizia penitenziaria che dopo diversi minuti e non senza difficoltà è riuscita a ristabilire l’ordine. Per tutta risposta, il giovane del Senegal avrebbe aggredito due poliziotti pronunciando frasi inneggianti all’Isis e ad Allah. Solo quando in tutta la sezione e nell’intero penitenziario è cessato l’allarme e gli ospiti erano stati tutti assicurati nelle proprie celle, gli agenti feriti sono stati accompagnati al pronto soccorso dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto dove sono stati medicati e curati. Fortunatamente i due in divisa non hanno riportato gravi ferite ma solo lievi contusioni e graffi. Dopo gli esami del caso, tutti negativi, i due agenti sono stati dimessi con una prognosi di cinque giorni di guarigione salvo complicazioni. Immediata e scontata è stata la protesta dei rappresentanti sindacali. "Si tratta - commenta il segretario aggiunto dell’Osapp, Montesano - dell’ennesimo episodio di violenza in danno di poliziotti penitenziari. Nonostante la gravità della situazione e i pericoli che ogni giorno subiscono gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria - ha aggiunto il sindacalista affidando lo sfogo ai mezzi d’informazione -, certi episodi sono considerati alla stregua di un mero rischio professionale". La giornata di ieri in carcere è trascorsa normalmente senza altre tensioni tra reclusi e agenti di custodia. A lavorare ora sull’episodio sono gli specialisti della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo a cui è stata trasmessa la comunicazione con un rapporto dettagliato su quanto accaduto l’altro ieri e con particolare attenzione circa l’inquietante richiamo al califfato. L’episodio su cui i rappresentanti sindacali dei poliziotti rivendicano la giusta attenzione da parte delle autorità, mette in luce uno stato di allerta continuo, anche qui a Taranto, che si colloca all’interno di programmi nazionali di prevenzione e lotta al terrorismo islamico. La dozzina di detenuti ritenuti potenzialmente vicini al califfato, ad esempio, rientrano nel protocollo di monitoraggio della sezione speciale "anti Isis" della procura nazionale antiterrorismo diretta da Franco Roberti. In tale contesto le autorità locali hanno il compito di segnalare eventuali tentativi di proselitismo all’Islam da parte di detenuti "segnalati" come potenziali cellule dell’Isis. Novara: detenuti al lavoro per la manutenzione della scuola dell’infanzia novaratoday.it, 7 settembre 2016 L’intervento è cominciato il 5 settembre e si concluderà l’11. I detenuti sono impegnati, coordinati da Assa, in opere di imbiancatura aule, corridoi, spazi comuni, servizi igienici, uffici e locali di servizio. In questi giorni i detenuti della Casa circondariale di Novara sono al lavoro per rimettere a nuovo la scuola dell’infanzia del Torrion Quartara. "Nel mese di luglio - ha spiegato il sindaco Alessandro Canelli - ci era stata segnalata la necessità di un intervento manutentivo alla scuola dell’infanzia comunale del Torrion Quartara, in via Maestra: questa settimana, grazie alla sottoscrizione del Protocollo d’intesa delle ‘Giornate di recupero del patrimonio ambientalè rinnovato nel dicembre 2015, stiamo dando una risposta positiva alle esigenze che ci erano state manifestate". L’intervento è cominciato il 5 settembre e si concluderà l’11, prima della riapertura della scuola. I detenuti in permesso premio, accompagnati dagli agenti della polizia penitenziaria e coordinati da Assa, sono impegnati nelle opere di imbiancatura aule, corridoi, spazi comuni (ingresso, area giochi, refettorio), servizi igienici, uffici e locali di servizio, interventi ai quali si aggiunge anche il ripristino di zoccolini, spigoli e paracolpi, e la verniciatura di infissi e caloriferi. Tutti i materiali impiegati sono forniti dal Comune di Novara, mentre Assa fornisce il supporto tecnico, logistico e operativo con il proprio personale e con i detenuti "cantieristi" in azienda (sulla base della legge regionale n. 34/2008) oltre che con mezzi e strumentazioni adeguate. Durante la settimana precedente, mediante l’impiego della squadra manutentori dei disoccupati in carico ai Servizi sociali impiegati nell’ambito dei cantieri di lavoro (ai sensi della Legge regionale n. 34), Assa si è occupata dei lavori preparatori all’intervento di imbiancatura, come il ripristino di intonaci e stuccature e piccole opere murarie. Lo scorso 10 agosto, inoltre, sempre come Giornata di recupero del patrimonio ambientale, i detenuti avevano già ripulito e reso agibili le parti esterne dell’edificio; fino all’11 settembre, poi, la squadra manutentori dei "cantieristi" proseguirà l’opera dedicata alla pulizia delle aree esterne, con la sistemazione della recinzione e degli arredi malmessi, e la pulizia di tutti gli spazi esterni. I detenuti che in questa settimana escono dalla Casa circondariale di via Sforzesca per partecipare all’iniziativa sono otto (cinque di nazionalità italiana, due marocchini, un albanese), con una età media di 43 anni. Per questo intervento a loro si aggiungono i due detenuti impiegati da Assa nell’ambito dei cantieri di lavoro del Comune e i tre disoccupati che costituiscono la squadra manutentiva tra i disoccupati in carico ai servizi sociali impiegati da Assa sempre nell’ambito dei cantieri di lavoro del Comune. "L’impegno di Assa per rendere la città più bella e vivibile - ha commentato il presidente di Assa Giuseppe Pollicaro - è davvero significativo, in particolare in questo caso per tutti i bambini e le loro famiglie che all’avvio dell’anno scolastico saranno accolti in una scuola rimessa a nuovo grazie all’intervento realizzato in questi giorni. I nostri sforzi sono enormi, e su tutti i fronti, per il decoro urbano che una volta ripristinato con i nostri interventi richiede il contributo di tutti i cittadini per essere mantenuto e per non vanificare il grande lavoro svolto". "Robinù", di Michele Santoro. Quelle baby gang sedotte dal kalashnikov di Antonello Catacchio Il Manifesto, 7 settembre 2016 Un’indagine sulla criminalità minorile a Napoli. In attesa di tornare in tv Michele Santoro fa un’incursione al cinema, seguendo peraltro i dettami del documentario. Eccolo quindi presentare alla Mostra, per il cinema nel Giardino, Robinù con l’obiettivo puntato su alcune figure a diverso titolo collegate alla paranza dei bambini, la guerra per bande con protagonisti giovanissimi che ha insanguinato il centro di Napoli lasciando sessanta morti nelle strade, decine di condannati in prima istanza e vite appena cominciate già finite. Ecco i ragazzini che saltano la scuola per cercare la pistola e farsi un nome nelle gerarchie, ecco Mariano (nel carcere minorile) letteralmente sedotto dal Kalashnikov che spiega come siano cambiati i tempi, ecco Michele (babyboss, termine che lui non ama, non affiliato a clan, malavitoso in proprio, 22 anni, reparto di massima sicurezza a Poggioreale, condannato a 16 anni di carcere). E poi madri che piangono, che si prostituiscono, che spacciano e ci sono anche le scorribande sui motorini con le armi spianate e i morti ammazzati per strada come Emanuele Sibillo, babyboss seccato a 19 anni dai rivali e compianto da alcuni dei ragazzini più piccoli. Il quadro che emerge (accompagnato anche da un paio di canzoni di Anthony) non è quello di Napoli, bensì di un mondo a parte, un mondo altro che non sembra avere alcun contatto con il mondo "normale". In una sequenza la madre di Michele e di Salvatore (ergastolo) fa la posteggiatrice abusiva a porta Capuana, che fatica a farsi capire da chi parcheggia e punta alla macchinetta per pagare, ma quando arrivano i vigili e piazzano le loro multe lei vede messa in discussione non solo la sua singolare professionalità bensì la sua stessa concezione del mondo e si rivolge al vigile chiedendogli se non abbia, anche lui, figli da mantenere. Non c’è risposta. Né dal vigile né da una realtà che sembra quasi compiaciuta nel vedere che quei cascami di società si autoemarginino da soli, sparandosi e facendosi rinchiudere in carcere. C’è solo un fratello di Michele e Salvatore che l’ha sfangata, minacciato dai rivali della famiglia respinge le provocazioni perché lui è pizzaiolo. Verissimo ma non sufficiente per poter campare laggiù, gli tocca emigrare a Parigi, come un reietto, cancellato dallo stesso Michele che non vuole più sentire parlare di lui, che per questo si dispera. Colpisce la naturalezza con cui concezioni non solo apparentemente spaventose trovano invece logica e albergo in ragazzini imberbi, cresciuti in ambienti in cui quello malavitoso è forse l’approdo più immediato e facile, perché anche se non frequenti la scuola dell’obbligo non succede nulla, perché una pistola sporca, che ha già compiuto reati, la trovi facilmente, e non è poi così difficile trovarne una nuova, di quelle che sarai tu stesso a sverginare con un reato, per non parlare del kalashnikov, meglio anche di Belèn. Migranti. Piano Ue da 50 miliardi per curare alla radice il dramma dei migranti di Marco Bresolin La Stampa, 7 settembre 2016 E si profila il fallimento della rilocalizzazione. Il problema degli sbarchi dei migranti continua a tenere banco nelle discussioni europee. Non sarà il Migration Compact auspicato da Renzi nella scorsa primavera, ma la Commissione Europea sta definendo gli ultimi dettagli per un importante Piano di investimenti esterni. Tra gli obiettivi dichiarati c’è quello di favorire lo sviluppo nei Paesi di origine dei migranti economici che scelgono di viaggiare verso l’Europa, scoraggiando così le partenze. L’investimento dell’Ue sarà di almeno 3,1 miliardi di euro, ma i tecnici della Commissione Juncker stanno lavorando sulle cifre e il totale dei fondi messi dall’Ue potrebbe essere addirittura superiore rispetto alle stime iniziali. La cifra è poi destinata a gonfiarsi, grazie a un meccanismo che azionerà un effetto-moltiplicatore: il valore totale degli investimenti potrebbe aggirarsi attorno a una cinquantina di miliardi. Un progetto ambizioso che richiederà anni di lavoro prima di dare i suoi risultati, ma il Team Juncker ci punta molto. Non a caso il via libera al progetto verrà dato mercoledì 13 settembre durante la riunione dei commissari che si terrà a Strasburgo, alla vigilia di due appuntamenti-chiave. Il giorno dopo il presidente lo presenterà in Parlamento durante il suo discorso sullo stato dell’Unione e venerdì 16 ci sarà la riunione del Consiglio europeo a Bratislava (nel formato a 27 senza la Gran Bretagna). In vista di queste date-clou, la Commissione ci tiene a far sapere di avere sul tavolo una proposta concreta per dimostrare di non essere rimasta immobile. Il piano per gli investimenti esterni punterà a favorire lo sviluppo economico di diversi Paesi, in particolare dell’Africa, del Nord Africa e del Medio Oriente. Ieri c’è stata una riunione del gruppo dei commissari che si occupa delle Relazioni Esterne e sono stati affrontati i punti principali. I dettagli sono tenuti top secret per favorire l’effetto-annuncio, ma il funzionamento sarà simile a quello del piano per gli Investimenti varato da Juncker: è previsto un fondo di garanzia che servirà per attrarre gli investimenti privati, offrendo un rischio limitato attraverso meccanismi di "blending". Anche la Banca Europea per gli Investimenti avrà un ruolo e la Commissione si aspetta una partecipazione da parte degli Stati membri per aumentare l’effetto-moltiplicatore. Sul fronte interno, intanto, la situazione continua ad essere difficile. La gestione della "solidarietà" tra i Paesi è un problema serio per la Commissione, che rischia di veder naufragare il suo piano di redistribuzione dei richiedenti asilo da Grecia e Italia verso gli altri Stati. Un anno fa è stato lanciato il piano di "relocation": 160 mila trasferimenti entro settembre 2017. Dopo un anno, dunque a metà percorso, i trasferimenti effettivi sono fermi a poco più di 4500 (1026 dall’Italia e 3495 dalla Grecia, dato aggiornato al 5 settembre). Sono circa 50 mila i richiedenti asilo bloccati in Grecia e ora per il governo di Atene potrebbe arrivare anche la beffa. La Germania, che ha recentemente promesso all’Italia di darle una mano accogliendo i profughi attualmente sul nostro territorio, è pronta ad attivare sì i flussi, ma in senso contrario. Il ministro dell’Interno Thomas de Maiziere ha infatti spiegato che Berlino rispedirà ad Atene profughi che avevano fatto domanda d’asilo in Grecia. Così prevedono le regole di Dublino (la "gestione" del migrante spetta al Paese in cui è stata effettuata la prima richiesta di protezione internazionale) e infatti la Commissione europea fa sapere di non aver nulla da obiettare. I rimpatri verso la Grecia, dagli altri Paesi europei, erano stati interrotti nel 2011, dopo che una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva definito "inumane" le condizioni di ospitalità. Per la Germania (e per Bruxelles) ora però la situazione di emergenza è finita e dunque entro la fine dell’anno sono previste le partenze. Il governo Tsipras è assolutamente contrario, anche perché, dopo un anno, il numero di profughi accolti dalla Germania è irrisorio: 42 dalla Grecia e solo 20 dall’Italia. Migranti. Sgarbo di 23 sindaci leghisti al capo dello stato: "No ai rifugiati" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 7 settembre 2016 Profughi. Il presidente dell’Anci Fassino al Viminale con un piano in 5 punti: assunzioni e fondi ai comuni che li accolgono. Sulla banchina del porto di Palermo ieri alle otto di sera erano attesi altri mille migranti, in attesa dello sbarco dal pattugliatore "Diciotti" della Guardia costiera. Mille e tre, per la precisione. Stamani a Brindisi ne arriveranno 581 tratti in salvo dalla nave spagnola "Rio Segura" e altri 700 a Crotone, salvati dalla Marina italiana sempre nel Canale di Sicilia. Ma questi numeri non devono trarre in inganno: così come l’Europa, anche l’Italia è assolutamente in grado di accogliere una quantità di profughi - si parla di circa 150 mila l’anno - purché ognuno faccia la sua parte, ogni comune. Non come i 23 sindaci leghisti della provincia di Brescia che ieri mattina si sono addirittura rifiutati di incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in aperta polemica con le sue parole sull’accoglienza ai migranti. In Italia, secondo quanto calcola l’Istat, gli stranieri sono appena l’8,3 per cento della popolazione - oltre il 52 per cento sono donne - mentre in Germania sono il 9,3 e in Austria il 13,2 per cento (dati Eurostat al 1 gennaio 2016). Il problema sono, qui e là, i ricollocamenti, cioè distribuire i profughi e i migranti sul territorio con un sistema di quote e adeguati finanziamenti, quote che debbono essere in proporzione alla popolazione, senza concentrazioni-ghetto. È questa una delle cinque misure chieste dall’Anci - l’associazione del comuni italiani - nell’incontro avuto ieri con il ministro dell’Interno Angiolino Alfano. "Molti sindaci finora non sono stati disponibili all’accoglienza non perché non siano sensibili ma perché hanno paura di non avere dallo Stato strumenti per gestirla", sostiene Piero Fassino, ormai ex sindaco di Torino ma ancora presidente, in scadenza, dell’Anci. Non si riferisce, chiaramente, ai sindaci del Carroccio che cavalcano i timori di "invasione". Ma a come allargare la platea dei 1.200 comuni italiani che già ospitano migranti. Ancora la maggior parte degli ospiti (111 mila su 150 mila) hanno trovato posto in strutture temporanee. Ma secondo il piano immaginato dall’Anci- "che è un miglioramento del nuovo bando Sprar", precisa Fassino - si possono ulteriormente distribuire apportando alcune correzioni al piano ministeriale: 1) la garanzia che sia il sindaco e non la prefettura a gestire l’accoglienza e i flussi 2) la quantità di migranti ospiti deve essere "sostenibile", non mega centri, il parametro base deve essere di 2,5 migranti (quindi 2/3) ogni mille abitanti con un tetto di non più di 5 ospiti stranieri per un borgo piccolo di 2mila residenti 3) incentivi economici ai Comuni che aderiscono, in particolare la possibilità di fare assunzioni ad hoc sbloccando il turn over che attualmente attanaglia le amministrazioni comunali con stanziamenti nella prossima legge di stabilità anche in deroga ai parametri di pareggio del bilancio 4)possibilità di utilizzare i migranti disponibili in progetti di pubblica utilità che vadano oltre il massimo attuale delle 16 ore settimanali 5) esclusione dei comuni che già hanno attivato l’adesione al bando Sprar dall’invio di altri migranti da parte della prefettura. Molte di queste misure sono già contenute nei bandi Sprar 2016-2017 e Fassino rivendica all’Anci di aver contribuito alla nuova regolamentazione. Il suo piano in cinque punti presentato ieri al Viminale rafforza però il ruolo gestionale dei sindaci e chiede un allargamento dell’impiego dei migranti in lavori socialmente utili, anche se - precisa Fassino - "su questa questione bisogna precisare meglio le norme che regolano il rapporto di lavoro". Non è stato invece affrontato in pieno il problema della lentezza nei pagamenti che recentemente ha messo a rischio il progetto Sprar del Comune di Palermo, che attendeva 250 mila euro di finanziamenti, il 40% del dovuto dal ministero, sbloccati soltanto due giorni fa e attesi da aprile. Altro nodo più generale riguarda lo status del migrante che può entrare in questo circuito: il sistema di protezione è riservato ai richiedenti asilo e rifugiati, che finora ha accolto 30 mila persone. Il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, sponsorizza anche a livello europeo la possibilità di centri per minori non accompagnati sul modello Sprar. E annuncia che in Italia sarà presto sulla Gazzetta Ufficiale: per consentire ai minori soli di essere accolti e smistati dalle regioni di sbarco alle altre regioni italiane. Migranti. Cagliari, raid razzista al centro per rifugiati di Costantino Cossu Il Manifesto, 7 settembre 2016 Devastata e insozzata la palazzina dove dovevano essere ospitati 300 migranti. I teppisti, un centinaio, convocati su Whatsapp, hanno distrutto i locali e scritto insulti contro il proprietario dello stabile. A colpi di mazza hanno fatto a pezzi tutto: sanitari, cucine, letti, armadi, tavoli e sedie. È successo sabato scorso a Burcei, un paese di 2.800 abitanti a trentacinque chilometri da Cagliari. A essere devastato è stato il palazzo che avrebbe dovuto ospitare una ventina di rifugiati sbarcati poche giorni fa al porto di Cagliari insieme con altri trecento migranti, raccolti dalla Marina italiana di fronte alle coste della Tunisia. Lo stabile era stato messo a disposizione della rete di accoglienza organizzata dalla Regione Sardegna da un privato, Vittorio Zuncheddu, un imprenditore edile. La reazione è stata violenta, e ha assunto i toni del peggiore razzismo. Attraverso WhatsApp un gruppo di cittadini di Burcei ha chiamato alla mobilitazione. Sul social è stato lanciato l’appello di adesione a una manifestazione davanti alla casa che avrebbe dovuto ospitare i rifugiati, per protestare contro "l’arrivo nel nostro tranquillo paese - si legge nel post - di persone di colore, con il rischio che possano essere dei delinquenti e diano fastidio a donne, bambini e anziani. Se il signor Zuncheddu vuole essere così benevolo con queste persone, che se le porti a dormire nel suo letto e a mangiare alla sua tavola". È così che sabato mattina davanti alla palazzina di due piani (circa 130 metri quadrati) in via Roma, all’intero della quale stavano per essere avviati i lavori di ristrutturazione, si sono radunati uomini e donne, circa un centinaio. Hanno scandito slogan contro la decisione della Regione Sardegna di inserire il loro comune nella lista delle località ospitanti e ne hanno chiesto il ritiro. A un certo punto, una decina di persone si sono staccate dalla folla, hanno buttato giù con le mazze il portone d’ingresso dello stabile e, una volta all’interno, hanno distrutto sistematicamente tutto ciò che poteva essere distrutto. Prima di andare via, hanno scritto con vernice nera sulla saracinesca del garage "Pezzo di merda": messaggio inequivocabilmente rivolto al proprietario della casa. Non è il primo episodio di intolleranza e di esplicita violenza razzista che accade in Sardegna. A giugno, ad Aglientu, un paese della Gallura non distante da Olbia, è stato dato alle fiamme un albergo che avrebbe dovuto diventare un centro di accoglienza per migranti. A metà della scorsa settimana, il consiglio comunale di Suni, un piccolo centro in provincia di Nuoro, ha votato una delibera contro la decisione di aggiungere il paese alla lista dei luoghi in cui predisporre strutture di accoglienza. Sindaco, assessori e consiglieri comunali hanno dichiarato solennemente che se a Suni dovesse arrivare anche uno solo delle migliaia di disperati che fuggono dalla guerra e dalla fame loro si dimettebbero in massa. Nell’isola la situazione sta diventando complicata. Una settimana fa il presidente della giunta regionale, Francesco Pigliaru, ha scritto una lettera al governo per sollecitare un intervento di razionalizzazione e di programmazione a livello nazionale. E lo stesso chiede l’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) con il suo presidente regionale, Piersandro Scano. Che il problema non sia solo sardo è poi dimostrato dal fatto che proprio ieri Piero Fassino, leader nazionale dell’Anci, ha incontrato al Viminale il ministro degli interni Alfano in un vertice di verifica del piano di accoglienza nazionale alla luce di quanto sta accadendo in tutte le regioni italiane. Scano avverte che il primo dei problemi è il mancato rispetto degli accordi in sede Ue: "Si era detto che Italia e Grecia non avrebbero dovuto sostenere a lungo quasi tutto il peso della gestione. Invece al momento solo poche migliaia di migranti sono stati collocati in altri paesi europei". "E poi - aggiunge Scano - di fatto l’accoglienza oggi è gestita da privati e il sistema comporta che gli amministratori siano informati dell’arrivo dei migranti solo a cose fatte. Questo genera tensioni; fermo restando, ovviamente, che ogni episodio di violenza va condannato senza esitazioni e perseguito con fermezza. Fassino ha chiesto al governo Renzi di farsi carico di questi problemi. Poi, oltre l’emergenza, bisognerà lavorare alla vera sfida: l’integrazione". Droghe. Marijuana libera, Sindacati di polizia divisi. Il Sap: "Legalizzarla è rischioso" di Franco Giubilei La Stampa, 7 settembre 2016 Gianni Tonelli, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia: "È vero che si darebbe un colpo al crimine organizzato, ma non bisogna promuovere stili di vita decadenti". Mentre il Siulp, il principale sindacato di polizia italiano, si è espresso a favore della legalizzazione della cannabis, il Sap, Sindacato autonomo di polizia, circa 19mila iscritti, è su posizioni antitetiche. Gianni Tonelli, segretario generale, lei cosa ne pensa? "Che le proposte di legalizzazione o liberalizzazione siano frutto del malvezzo di vedere i problemi con lenti polarizzate ideologicamente. È vero che così si potrebbe contribuire a togliere risorse al mercato nero degli stupefacenti, ma i consumi aumenterebbero di sicuro. E poi c’è il rischio che i consumatori passino a sostanze più forti: tutti quelli che si fanno di droghe pesanti hanno cominciato dallo spinello". La legislazione proibizionistica però ha fallito: il consumo è aumentato e l’età dei consumatori si è abbassata. "La legge Giovanardi-Fini secondo me ha contenuto il fenomeno degenerativo, ma ammesso che, con un approccio anti-proibizionistico, si darebbe una botta al crimine organizzato, un problema del genere non si può affrontare solo sotto il profilo repressivo. Bisogna fare una battaglia culturale, se no abbiamo fallito prima di cominciare. Oggi c’è una censura morale oltre che legale su certi comportamenti, anche se nelle scuole si fa troppo poco, ma se passa il messaggio che si accede liberamente alle droghe leggere, è una cosa negativa anche per l’educazione dei ragazzi. Non bisogna promuovere stili di vita decadenti". Prima accennava a una componente ideologica, a cosa si riferiva? "In queste proposte c’è un fine ideologico che viene da lontanissimo, risale al ‘68, del genere "piuttosto che fare la guerra facciamo l’amore e fumiamo lo spinello", nasce da questo modo di pensare. E però lo ripeto: legalizzando o liberalizzando, i consumi cresceranno, e noi invece dobbiamo tutelare i giovani". L’alcol può provocare dipendenze gravi, però circola liberamente anche fra i giovanissimi. "È un paragone che non tiene: chi sceglie la droga lo fa per lo sballo, invece chi beve vino, grappa o rum dopo cena lo fa per gustare un buon prodotto, sempre che il consumo sia ragionevole. Poi è vero che gli alcolici sono troppo diffusi fra i giovani, ma è un’altra cosa". Cantone si è espresso a favore della legalizzazione, perché il mercato nero favorisce i contatti fra i più giovani e gli ambienti criminali. "E mi ha stupito molto, vorrei chiedergli perché ha cambiato idea. L’effetto positivo, riguardo all’avvicinamento dei ragazzi ad ambienti pericolosi, con la nuova legge non ci sarà, Cantone qui si sbaglia. Forse non ha fatto valutazioni pratiche: sul campo si capiscono bene certe dinamiche, da dietro una scrivania è un po’ più difficile". Fra i poliziotti qual è l’opinione prevalente? "La gran parte dell’ambiente è contraria alla proposta di legge, anche fra gli iscritti al Siulp. Chi simpatizza lo fa solo riguardo all’aspetto della lotta al fenomeno criminale, ma questo è un problema che non si risolve solo con l’intervento repressivo. Certo, diminuirebbe lo spaccio, ma poi cosa succede?". Turchia. La Efj alle autorità locali: "Liberate i giornalisti del quotidiano Evrensel" fnsi.it, 7 settembre 2016 La Federazione europea dei giornalisti (Efj) si unisce all’appello lanciato dai suoi affiliati in Turchia, Tgs e Tgc, per chiedere l’immediato rilascio dei giornalisti del quotidiano turco Evrensel, Cemil Ugur e Halil Ibrahim Polat, arrestati a fine agosto a Mersin e detenuti in condizioni preoccupanti. A lanciare l’allarme gli stessi colleghi dei due giornalisti. La Federazione europea dei giornalisti (Efj) si unisce all’appello lanciato dai suoi affiliati in Turchia, Tgs e Tgc, per chiedere l’immediato rilascio dei giornalisti del quotidiano turco Evrensel, Cemil Ugur e Halil Ibrahim Polat, arrestati a fine agosto nella provincia di Mersin e detenuti in condizioni preoccupanti. A lanciare l’allarme sono stati gli stessi colleghi dei due giornalisti. Secondo i loro avvocati, i due, detenuti secondo la procedura prevista dallo stato di emergenza, e dunque senza l’autorizzazione della magistratura, "sono esposti a insulti e minacce di ogni tipo". Mentre la polizia locale rifiuterebbe di fornire qualsiasi informazione circa le loro condizioni. "La Efj e i suoi affiliati - si legge nel comunicato della Federazione europea - esprimono forte preoccupazione per le sorti dei due giornalisti, arrestati mentre svolgevano il proprio lavoro, per via della eccessiva durata della loro detenzione e delle presunte minacce e insulti di cui sono fatti oggetto in carcere". Ricordando che "il giornalismo non è un crimine" e rilevando che i due colleghi si trovavano a Mersin "per adempiere al proprio dovere di fornire informazioni attendibili ai lettori", i rappresentanti dei giornalisti europei chiedono quindi alle autorità turche di "rilasciare immediatamente i colleghi Cemil Ugur e Halil Ibrahim Polat e di indagare sulle presunte minacce subite durante la loro detenzione". Negli scorsi giorni, un delegazione composta dai rappresentanti di alcune organizzazioni internazionali della società civile, tra cui anche alcuni esponenti della Efj e di Reporter senza frontiere, si è recata a Istanbul per manifestare solidarietà agli scrittori, giornalisti e operatori dei media finiti in manette all’indomani del tentato colpo di stato dello scorso 15 luglio. "Quello che abbiamo visto - raccontano sul sito internet della Efj - è allarmante. Lo stato di emergenza non può legittimare abusi né fungere da alibi per la soppressione della libertà di espressione. Chiediamo alle autorità turche di dimostrare il loro impegno verso i principi democratici e di rilasciare immediatamente e incondizionatamente quanti sono detenuti senza prove, smettendola di vessare i media indipendenti". Germania. Patria, famiglia e antislamismo: così avanzano i populisti tedeschi di Alessandro Alviani La Stampa, 7 settembre 2016 La vittoria dell’AfD nel land di Merkel conferma il trend delle precedenti regionali. Ecco come il partito xenofobo è riuscito a conquistare anche il voto degli operai. Il giorno dopo lo choc delle regionali in Meclemburgo-Pomerania Anteriore, che hanno segnato per la prima volta il sorpasso dei populisti di destra della AfD sulla sua Cdu, Angela Merkel si è assunta la corresponsabilità del tracollo. Il risultato, ha ammesso a margine del G20 in Cina, ha a che fare con le politiche migratorie, "io sono la leader del partito e la cancelliera, per i cittadini le due cose sono inseparabili, per cui sono ovviamente anche responsabile". Merkel si è detta "molto insoddisfatta" del voto, ma non intende cambiar linea sui migranti: le decisioni dei mesi scorsi sono state giuste, adesso ognuno, "e io anzitutto", deve riflettere su come riconquistare la fiducia delle persone. Un messaggio lanciato a quanti, specie nella bavarese Csu, scalpitano per una correzione di rotta. C’è bisogno di un tetto al numero dei rifugiati e di rimpatri più rapidi, ha tuonato il segretario generale della Csu, Andreas Scheuer. Un ennesimo scontro tra Cdu e Csu su migranti, sicurezza e integrazione non farebbe che portare nuova acqua al mulino della AfD. La sua leader, Frauke Petry, è tornata all’attacco, tacciando la Cdu di "ignoranza" e "arroganza del potere". Più pesante il commento del suo vice, Alexander Gauland: "La Cdu è un guscio vuoto sul quale troneggia Frau Merkel". E Jörg Meuthen, che guida il partito insieme a Petry, si è spinto oltre: "Sul lungo termine vogliamo governare in questo Paese". E pensare che un anno fa la AfD viaggiava nei sondaggi nazionali intorno al 4%. Poi è arrivata l’emergenza rifugiati, che ha finito per salvarla. Oggi riunisce diverse anime. Se l’ala neoliberale è passata in secondo piano dopo l’uscita di scena dell’ex numero uno Bernd Lucke, messo alla porta da Petry, è cresciuto invece il peso di due correnti: da una parte quella conservatrice, che si riconosce "nella famiglia tradizionale come modello guida", chiede "più bambini invece dell’immigrazione di massa", non vuole finanziamenti pubblici ai gender studies e si oppone alle quote rosa in quanto "ingiuste" (come si legge nel programma nazionale, approvato a maggio) e la cui esponente più nota è l’europarlamentare Beatrix von Storch, che a Bruxelles siede nel gruppo Efdd insieme al M5S e a Nigel Farage e ha definito il voto di domenica "l’inizio della fine dell’era Merkel"; dall’altra parte la "Nuova Destra", più radicale nelle richieste e negli slogan, che è accusata di avere contatti con l’estrema destra e ha il suo punto di riferimento in Bernd Höcke, leader in Turingia (a Est). Petry prova a fare da trait d’union, non sempre con successo: la AfD è molto litigiosa al suo interno, sia a livello nazionale che regionale, anche se ciò non la danneggia agli occhi degli elettori. Il partito, che riesce in modo camaleontico a presentarsi in maniera più nazionalista nelle regioni orientali e più moderata in quelle occidentali, si schiera a difesa della "cultura guida tedesca contro il multiculturalismo", il quale, secondo il suo programma, rappresenta una "seria minaccia alla pace sociale e alla continuità della Nazione come unità culturale", si posiziona contro l’Islam ("non fa parte della Germania") e vorrebbe vietare il velo integrale in pubblico senza se e senza ma, sollecita la fine dell’"esperimento dell’euro" e, in caso contrario, un referendum sulla permanenza di Berlino nell’Eurozona, vuole rafforzare la polizia e riattivare la leva obbligatoria e auspica uno stop dell’uscita della Germania dal nucleare. Il Meclemburgo-Pomerania Anteriore ha confermato trend già visti alle precedenti regionali. La AfD sfonda tra lavoratori e disoccupati (tradizionale clientela della Spd), tra i quali domenica si è rivelata primo partito e raccoglie molti consensi anche tra i liberi professionisti. Attira soprattutto il voto maschile: domenica l’hanno scelta il 17% delle donne, ma il 25% degli uomini, rivela l’istituto Forschungsgruppe Wahlen. E poi non sottrae solo preferenze a tutti i partiti, ma pesca con successo anche nel bacino dell’astensionismo. Segno che la strategia di Petry e Meuthen, che puntano a intercettare il malumore di quanti si sentono dimenticati dalle formazioni tradizionali e pensano che con Merkel la Germania faccia di più per i rifugiati che per i tedeschi, sta facendo presa. Afghanistan. Processo di pace morto e sepolto di Emanuele Giordana Il Manifesto, 7 settembre 2016 Due attacchi dei talebani a Kabul, oltre trenta morti. "Giallo" sull’obiettivo. Come se i morti non bastassero - almeno una trentina lunedì più almeno uno nella notte tra lunedì e martedì oltre ai guerriglieri suicidi o uccisi e a un centinaio di feriti - c’è anche un giallo nell’ennesimo attacco suicida che costella ormai la quotidianità della capitale afgana. Un giallo sull’obiettivo e, ancora una volta, un problema che riguarda l’azione militare e lo spazio umanitario. Il primo attacco dei talebani a Kabul è di lunedì quando per l’ennesima volta la guerriglia cerca di colpire il ministero della difesa. In quella che per il sito degli islamisti è una vittoria che avrebbe un bilancio di 58 agenti delle forze di sicurezza uccisi (poi la notizia è scomparsa ieri misteriosamente dal website dell’emirato), la carneficina soprattutto di civili si conclude con almeno una trentina di vittime. Ma non era l’unica azione prevista, benché per la seconda non vi sia ancora una rivendicazione scritta. Alcuni militanti armati, con l’aiuto di un’ autobomba, prendono d’assalto Sharenaw, la zona della città dove hanno sede le ambasciate e molte Ong che lavorano nel Paese (in quella zona c’è anche l’ospedale di Emergency). L’esplosione sventra un edificio. Poi comincia un vero e proprio assedio che si conclude solo il giorno seguente. Il giorno seguente perché l’attacco avviene di notte (il che segna una novità poiché gli attentato notturni sono rari) e quando la città pensa che forse per questa giornata di lunedì la guerra nella capitale sia finita. Il ministero degli Interni non ha dubbi: il colpo da assestare, che fortunatamente produce una sola vittima, è la Ong Care, che nella zona colpita ha una sede della sua rete internazionale in Afghanistan. Ma dopo un po’ l’organizzazione smentisce, sostenendo che il probabile target poteva invece essere un ufficio governativo situato a ridosso della sede umanitaria. La cosa fa una bella differenza e per ora la rivendicazione che viene citata da alcuni siti Internet non chiarisce quale fosse l’obiettivo. Se fossero gli attivisti di un’organizzazione umanitaria la cosa avrebbe un peso diverso che non se si fosse trattato di un obiettivo governativo. Non sarebbe la prima volta che gli umanitari entrano nel mirino, ma solitamente i talebani colpiscono solo gli afgani "collaborazionisti" (e di solito nelle aree periferiche) oppure attaccano obiettivi militari contigui facendo danno ad altre strutture (e potrebbe essere questo il caso) o ancora colpiscono umanitari per errore (famoso il caso di alcune cooperanti uccise mentre viaggiavano a bordo di auto bianche di solito in uso agli umanitari che però la Nato continua a usare benché proprio un comandante italiano di Isaf, anni fa, ne avesse vietato l’utilizzo proprio per evitare spiacevoli errori). Care, in un comunicato successivo, punta l’indice sulla guerra e sulla difficoltà di operare in uno spazio umanitario sempre più ristretto e rischioso. "Secondo le Nazioni unite - scrive l’organizzazione umanitaria nel suo cominciato - più di 5.100 civili sono stati uccisi o mutilati a causa del conflitto in atto nella sola prima metà del 2016…Oltre otto milioni di persone in Afghanistan hanno bisogno di assistenza umanitaria: soffrono di malnutrizione, hanno un sistema sanitario a pezzi mentre la maggior parte degli sfollati sono donne e bambini… Lo spazio umanitario è diventato molto più rischioso in questi ultimi anni, soprattutto nelle zone in cui vi è un conflitto intenso. Nonostante questo - continua Care che opera nel Paese da cinquant’anni - siamo desiderosi di riprendere il lavoro importante che stiamo facendo in Afghanistan il più presto possibile. Detto questo, siamo fortunati perché nessuno fra noi è stato ferito in modo grave o peggio, e come organizzazione continuiamo a sottolineare che una linea rigorosa deve essere osservata tra le operazioni umanitarie e quelle militari". Un vecchio problema, uno fra i tanti della guerra che non finisce mai e mentre a Kabul i vertici del governo continuano a litigare. Se ne sono accorti anche gli americani, gli artefici del papocchio istituzionale benedetto dal ministro Kerry che "governa" a Kabul (due presidenti invece di uno): qualche giorno fa il Washington Post ha scritto questo titolo: "L’Afghanistan ha molti problemi. Il suo presidente potrebbe essere uno di questi"… I talebani sembrano approfittarsene e anche Daesh è riuscita a fare la sua apparizione nella capitale (con l’attentato che ha ucciso un’ottantina di hazara sciiti che manifestavano in centro). E per i talebani è ancora l’Operazione "Omari", dedicata a mullah Omar e al capo talebano che lo ha sostituito - mullah Mansur - ucciso da un drone americano in Pakistan la primavera scorsa. Un gesto che ha dato nuovo vigore alla guerra e assestato un ennesimo deciso colpo al processo di pace. Per ora morto e sepolto.