Due ombre nella riforma del processo penale di Giorgio Spangher Il Dubbio, 6 settembre 2016 Fra qualche giorno la riforma Orlando della giustizia penale approderà nell’Aula del Senato. Sono molte le osservazioni - anche critiche - che si potrebbero sviluppare sulle scelte che si vorrebbero introdurre. Due però si impongono, in considerazione del fatto che sembrano manifestare profili di incostituzionalità. La prima riguarda la reintroduzione del concordato in appello con rinuncia ai motivi. A parte il dettaglio dell’incomprensibile "anche", che figura nella rubrica (forse desunto dal vecchio testo abrogato, dove peraltro era riferito al rito camerale), le riserve riguardano le ipotesi per le quali l’istituto non dovrebbe operare. Invero, l’esclusione appare priva di fondamento giuridico, come è evidenziato dal fatto che il meccanismo oggi opera e domani potrebbe operare anche in mancanza di una previsione espressa. Se l’esclusione per gravi reati può trovare fondamento in tema di colloqui del soggetto con il difensore, della prova in casi particolari, di intercettazioni telefoniche - ed è peraltro dubbio che le previsioni riferite siano costituzionalmente fondate - nel caso del concordato manca ogni base giuridica all’esclusione. La previsione, invero, non è premiale; nasce da un accordo tra difesa, accusa e giudice, libero e non vincolato, se non in riferimento alle emergenze processuali. Nel caso della reintroduzione, a ulteriore garanzia, sono previste linee guida della Procura generale concordate con i procuratori della Repubblica del distretto. Si consideri, altresì, che non esistono limiti per il giudizio abbreviato dove la premialità consente l’abbattimento di un terzo della pena. Il riferimento al patteggiamento sarebbe errato in considerazione dei forti effetti premiali di quel rito del tutto assenti nel concordato in appello. Il secondo profilo di ipotizzata incostituzionalità riguarda la disciplina della sospensione della prescrizione. Invero, lascia perplessi il mancato riferimento, accanto all’assoluzione, del proscioglimento. Se, invero, l’interruzione della prescrizione è legata alla intervenuta condanna e non consegue al proscioglimento ed all’assoluzione, non si capisce la ragione dell’omissione del proscioglimento a fianco all’assoluzione per far riprendere il decorso della prescrizione. Diversamente opinando, ci si troverebbe in presenza d’una palese irragionevolezza. È auspicabile pensare che un Parlamento attento voglia intervenire sui due profili segnalati. Riforma dei codici penale e di procedura penale, un pasticcio sulle intercettazioni di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 6 settembre 2016 Riparte (con un vero rebus) la riforma dei codici penale e di procedura penale. Quel pasticciaccio brutto della norma sul divieto di diffusione offensiva delle registrazioni audio-video tra presenti. Impossibile punire; inutili le cause di non punibilità; contraddittorietà con il divieto di pubblicazione delle intercettazioni occasionali di terzi, il quale rischia a sua volta di essere esagerato e sproporzionato. Il guazzabuglio è contenuto nelle delega contenuta nel ddl di riforma dei codici penale e procedura penale, licenziato dalla commissione giustizia del senato e calendarizzato in aula a palazzo Madama in questo mese. Vediamo tutti gli elementi di questo vero e proprio rebus, contenuto nell’articolo che dovrebbe stabilire principi e criteri direttivi indirizzati al governo, che dovrà scrivere i conseguenti decreti legislativi. Impossibile punire - Leggendo il testo del ddl il governo dovrà prevedere che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. I requisiti del reato sono parecchi, alcuni oggettivi (la condotta), altri soggettivi (il dolo). Quanto agli elementi oggettivi ci vogliono registrazione in presenza del registrato e la registrazione deve essere fraudolenta; inoltre ci vuole la diffusione delle registrazioni. Quanto agli elementi soggettivi ci vuole il "solo" fine di recare danno alla reputazione o all’immagine. Su questi elementi può cominciare il balletto delle interpretazioni. Il principio di delega sembra riferirsi ad ipotesi come quella di chi attiva un dispositivo di registrazione ingannando il suo interlocutore e poi diffonde su internet il file video o audio della registrazione. Ma non è detto che le ipotesi possano riferirsi solo a questa circostanza. La registrazione in presenza dell’interessato si realizza solo quando c’è la contestuale presenza fisica in un luogo fisico sia del registrato che dell’autore della registrazione? Per presenza si intende solo quella fisica o anche quella mediata da un dispositivo di comunicazione elettronica (per esempio mentre si dialoga in una chat)? Per conversazioni "anche telefoniche" si intendono solo quelle realizzate con sistemi vocali oppure anche per esempio le conversazioni di posta elettronica? Quando è che si effettua la registrazione di conversazioni di posta elettronica "in presenza" dell’interessato? Ma ci sono altri chiaroscuri di questo principio e criterio, che tanto direttivo non è. Le registrazioni devono essere fraudolente e devono essere oggetto di diffusione. Sotto il profilo della fraudolenza, è sufficiente il silenzio di chi registra, senza farlo sapere, o ci vuole qualcosa di più? Per esempio la risposta negativa alla domanda esplicita se si stia registrando la conversazione? Questo significa che è onere dell’interessato chiedere se la persona che si ha di fronte stia registrando? Se basta il silenzio di chi registra, perché non scrivere diversamente il criterio, facendo riferimento alla mancanza di consenso preventivo, ovviamente non tanto alla registrazione quanto alla diffusione della registrazione? E arriviamo alla diffusione. Diffusione vuol dire mettere a disposizione la registrazione audio o video a una platea indiscriminata di soggetti. Certamente postare sul social network il file carpito con l’inganno rappresenta una diffusione. Ma se ci si limita alla comunicazione ad un numero definito di destinatari, in questo caso è una diffusione? Passando all’elemento soggettivo, siamo in presenza di un dolo specifico: il solo scopo, cui è subordinata la possibilità di ritenere integrato il reato, è quello di recare danno alla reputazione o all’immagine. Come fa il pm a provare che l’unico scopo perseguito dall’imputato sia stato quello di recare un danno reputazionale o di immagine? La norma sembra evocare la linea difensiva della sussistenza di altro fine della condotta, la quale esclude di per sé l’accertamento della esclusività del dolo di danno. Inutili le cause di non punibilità - Nel criterio direttivo si legge che la punibilità deve essere esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Concentriamoci sulla scriminante del diritto difesa. Si tratta di causa scriminante del tutto inutile, perché quando si esercita il diritto di difesa non si fa mai una diffusione e, quindi, manca del tutto la condotta del reato. In sostanza se si registra all’insaputa del registrato oppure anche con fraudolenza, ma poi l’uso che si fa delle registrazioni è limitato agli schemi tipici delle attività difensive non si commette nessun reato. Ma non ci vuole nessuna scriminante, visto che non si fa nessuna diffusione. Contraddittorietà - Il principio della delega è squilibrato rispetto al divieto di pubblicazione delle intercettazioni occasionali di terzi. Non si comprende, infatti, perché il diritto di cronaca possa scriminare le registrazioni fraudolente tra persone presenti mentre, invece, non possono essere in alcun modo conoscibili, divulgabili e pubblicabili i risultati di intercettazioni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede (altro criterio della delega). A quest’ultimo proposito ci si chiede se, quando c’è coinvolgimento occasionale di terzi estranei al procedimento, il divieto di pubblicazione riguardi l’intera intercettazione o solo la frazione di intercettazione che coinvolge il terzo. Toghe in politica, il ddl c’è ma non alzerà un muro di Errico Novi Il Dubbio, 6 settembre 2016 La Camera voterà a ottobre il testo sull’eleggibilità dei pm. Prima la giudice Carla Raineri, che ha ballato per una sola estate, anzi meno, da capo di gabinetto del sindaco di Roma. Ora il pm contabile Raffaele De Dominicis, che Virginia Raggi ha appena indicato come assessore al Bilancio. Due indizi non faranno una prova ma indicano una predilezione: i Cinque Stelle tendono ad affidare innanzitutto a magistrati gli incarichi esterni nelle amministrazioni. Cosa avverrebbe il giorno in cui un grillino fosse chiamato a guidare il governo nazionale? E soprattutto, quali limiti normativi esistono all’attività politica delle toghe? Al momento non è alle viste, in materia, un provvedimento draconiano. C’è una legge approvata in Senato e ora all’esame della commissione Giustizia della Camera (potrebbe essere votata a ottobre), che amplia un limite temporale già previsto: giudici e pm che volessero candidarsi in Parlamento dovrebbero farlo in un collegio diverso da quello in cui, negli ultimi due anni, hanno esercitato le funzioni giurisdizionali. Si tratta dell’inasprimento della norma contenuta nel Testo unico delle leggi elettorali del 1957: tale prescrizione, tuttora vigente, prevede sì quel limite ma solo relativamente agli ultimi 6 mesi. Nella legge ora in discussione a Montecitorio è fissato anche un impedimento analogo in tema di rientro in ruolo: nei due anni successivi al mandato parlamentare il magistrato non potrà esercitare la funzione nello stesso distretto in cui era stato eletto. Spingersi oltre? Lo chiede proprio una parte della magistratura. Lo ha fatto, dalle colonne del Dubbio, un ex presidente dell’Anm, Giuseppe Cascini, oggi sostituto procuratore a Roma e titolare delle indagini su Mafia Capitale: il pm sostiene che un magistrato, una volta entrato in politica, deve scordarsi la toga. "Bisogna avere il coraggio di dire che si tratta di una scelta senza ritorno", secondo Cascini. Coraggio che almeno in parte il Csm ha mostrato di avere. In una delibera approvata a Palazzo dei Marescialli il 21 ottobre 2015, si chiedeva non solo di inasprire i periodi "cuscinetto" per giudici e pm che passano dalla toga alla politica e viceversa, ma addirittura di dirottare verso altri ranghi della pubblica amministrazione quei magistrati rimasti in Parlamento, alla Regione o in altro ente per un periodo particolarmente lungo. Non proprio la preclusione assoluta invocata da Cascini, ma qualcosa di assai simile. In comune tra le due ipotesi c’è la conservazione dello stipendio: quello sarebbe in ogni caso in salvo. A soluzioni così spinte il Parlamento non sembra voler arrivare. "Oggi i magistrati tra Camera e Senato sono cinque in tutto", osserva il relatore della legge all’esame di Montecitorio, Walter Verini, "ovvero Palma, Casson, Finocchiaro, Ferranti e Dambruoso". Pochi in effetti. "Soprattutto rispetto agli avvocati, che sono circa un centinaio", dice Verini. "Il contributo professionale dei magistrati è un arricchimento, pensiamo a quanto è importante il dottor Dambruoso per i provvedimenti in materia di terrorismo". Osservazioni difficilmente confutabili. Tutto sta a capire se in un eventuale futuro governo a Cinque Stelle il ricorso alle toghe non diventerà assai più massiccio. Amnistia. Il 6 novembre marcia radicale intitolata a Papa Francesco (e a Pannella) Il Dubbio, 6 settembre 2016 Sarà intitolata a Marco Pannella ma anche a Papa Francesco, la marcia per l’amnistia che il Partito radicale organizzerà per il prossimo 6 novembre. Una manifestazione che muoverà da Regina Coeli e si concluderà in piazza San Pietro, per ricordare la straordinaria presenza del Pontefice sul tema dei provvedimenti di clemenza per i detenuti. A rilanciare l’iniziativa è stato ieri Maurizio Turco, il dirigente radicale primo firmatario della mozione uscita vincitrice al congresso di Rebibbia. Proprio nel documento approvato sabato scorso era stata indetta la "mobilitazione straordinaria", come l’ha definita ieri Turco dalle frequenze di Radio Radicale: "L’iniziativa è stata condivisa dai circa 200 congressisti che hanno invitato a partecipare i cittadini, la comunità penitenziaria, i parenti dei detenuti, le associazioni e le personalità impegnate nella promozione dei diritti umani e civili". L’occasione rappresenta la "prosecuzione della battaglia storica di Marco Pannella per l’amnistia e l’indulto quale riforma obbligata per l’immediato rientro dello Stato nella legalità costituzionale". Battaglia che proprio Papa Francesco aveva rilanciato un anno fa anche in seguito agli appelli del leader radicale. Il caso Roma. Quando i coccodrilli giustizialisti scoprono le garanzie di Carlo Nordio Il Messaggero, 6 settembre 2016 Quando Hitler invase la Polonia, dopo essersi annesso, con la minaccia o con la forza, vari territori confinanti - Austria, Sudeti, Boemia e Moravia - Churchill disse che i governi europei avevano fatto il gioco del coccodrillo: avevano sperato che la bestia divorasse gli altri, senza capire che sarebbero stati mangiati per ultimi. La strategia del coccodrillo è stata seguita, naturalmente in guisa più modesta, dai vari partiti della prima repubblica durante la tangentopoli del 1992. Incapaci di vincere gli avversari, interni o esterni, con le armi della politica, si sono affidati allo strumento improprio della giustizia penale, inventandosi la favola, moralmente ipocrita e giuridicamente grottesca, che il destinatario dell’informazione di garanzia dovesse, in attesa del giudizio definitivo, essere estromesso dalle cariche e dalle funzioni. Alla fine, come era immaginabile, furono travolti anche loro. Questa strumentalizzazione ingenua e indecorosa si è accentuata nell’era berlusconiana: tutti ricordano l’azzoppamento del cavaliere dopo la notifica, peraltro a mezzo stampa, dell’informazione di garanzia durante un convegno internazionale. Da allora la strategia del coccodrillo ha mietuto vittime praticamente ovunque. I frutti più recenti sono raccolti dai pentastellati, favoriti dalle vicende giudiziarie che hanno annichilito, almeno a Roma, i partiti tradizionali. Benché infatti il programma dei grillini fosse piuttosto vago ed incerto, il loro appello "all’onestà" è stato vincente e convincente. Come logico corollario, essi hanno proclamato, con solennità palingenetica, che anche la semplice iscrizione nel registro degli indagati doveva esser motivo di allontanamento o di rinunzia alla candidatura. Il coccodrillo era sazio. In realtà il coccodrillo non si sazia mai. Ed ora, con la vicenda Muraro, l’appetito è ritornato. Per porvi un freno, gli amministratori romani fanno quello che hanno fatto tutte le vittime precedenti: attribuiscono all’informazione di garanzia il suo connotato fisiologico originario, peraltro desumibile dalla sua stessa struttura lessicale: un atto dovuto, a tutela di chi lo riceve. E quindi niente dimissioni, si vedrà a indagini concluse. Salvo il fatto che la Muraro ha omesso di informare che aveva avuto notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati. E adesso fa tardivi distinguo lessicali con l’avviso di garanzia. Apprendiamo il "revirement" con duplice esultanza: come modesti giuristi, perché questo concetto lo abbiamo sempre sostenuto, attirandoci le ire delle vestali del giustizialismo; e come cittadini, perché pensiamo che le sorti degli eletti dal popolo non debbano dipendere dalle aleatorie e dilatorie vicende processuali. Tuttavia questa lodevole conversione garantista è contaminata, e forse compromessa, da due eventi deplorevoli. Il primo, costituito dagli attacchi indecenti rivolti a Cantone, al quale lo stesso sindaco aveva chiesto un parere sulla regolarità della nomina della dottoressa Raineri. La quale, dimessasi tra mille polemiche, ritornerà presumibilmente a fare il giudice. Un colossale pasticcio che dimostra, tra l’altro, quanto sia urgente disciplinare l’incompatibilità di una toga con qualsiasi altra carica extragiudiziale. Il secondo, costituito dall’ennesima attribuzione ai soliti "poteri forti" di una volontà complottistica volta a sabotare la giunta neocostituita. Un espediente puerile, che dimostra l’inavvedutezza critica di chi è stato investito, senza adeguata esperienza e preparazione, del potere di governare una città tanto complessa. Sui cui destini già si riprende a gemere. Sperando che non siano, tanto per restare in tema, lacrime di coccodrillo. Tenuità del fatto con contraddittorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 36857/2016. Il giudice per le indagini preliminari non può disporre l’archiviazione dichiarando la non punibilità per la particolare tenuità del fatto senza garantire all’indagato il diritto al contraddittorio. La Cassazione, con la sentenza 36857 depositata ieri, accoglie il ricorso contro la decisione del Gip di chiudere un procedimento per diffamazione, presentato da una giornalista nei confronti della quale era stato applicato l’articolo 131-bis, malgrado la posizione favorevole della pubblica accusa che aveva chiesto di archiviare perché il delitto non era configurabile. La ricorrente era stata querelata da un politico locale accusato in un articolo di non avere corrisposto quanto dovuto per le affissioni. La redattrice, a parere del Gip non aveva controllato abbastanza la verità dei fatti narrati e non aveva usato un linguaggio contenuto. Tuttavia la non particolare gravità dell’addebito e la sua incensuratezza consentivano di applicare l’articolo 131-bis del codice penale. Un verdetto che non soddisfa l’indagata che rivendica il suo diritto a difendersi, aspirando ad un’assoluzione nel merito come chiesto anche dal pubblico ministero. Secondo il pm, infatti, con il suo articolo l’indagata aveva esercitato il suo diritto di critica, rispettando i canoni della continenza delle espressioni e la verità delle notizie riportate. Una conclusione della quale era stata informata la persona offesa, che aveva presentato opposizione. Il Gip aveva fissato l’udienza in camera di consiglio per discutere sulla posizione del Pm e sull’opposizione del querelante. La decisione era stata di disattendere la tesi del Pm per la sussistenza degli estremi del reato e di applicare l’articolo 131-bis trattandosi di un fatto di particolare tenuità. Secondo il giudice per le indagini preliminari l’articolo 411, comma 1 del Codice di rito gli consentiva di archiviare anche per motivi diversi da quelli individuati nella richiesta della pubblica accusa. Compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 131-bis del codice penale, espressamente citata dalla norma. La Suprema corte però non è d’accordo e annulla il provvedimento. Al Gip è, infatti, "sfuggito" che il comma 1 bis dell’articolo 411 prevede che l’eventuale archiviazione per la particolare tenuità del fatto, sia preceduta da apposita richiesta in tal senso dal Pm e che questa debba essere comunicata alle parti, sia indagato sia persona offesa, per assicurare, sul punto, un contraddittorio tra le parti in camera di consiglio. Una procedura specifica che risponde alle caratteristiche tipiche dell’istituto: diritto a una decisione positiva sul fatto-reato, che l’indagato ha comunque interesse a contrastare, e a una valutazione del danno causato, ovviamente rilevante per la persona offesa a prescindere dalla richiesta di avere notizia dell’eventuale archiviazione. Omicidio stradale. Il prelievo di sangue si può eseguire coattivamente di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2016 Non si ferma la produzione, da parte delle Procure italiane, di linee guida sull’applicazione delle nuove norme in materia di omicidio e lesioni stradali(legge 46/2016). A inizio estate è stata la volta dei procuratori di Genova e Torino. Entrambi si soffermano particolarmente sul tema dei prelievi di campioni biologici eseguibili coattivamente, nel novero dei quali la Procura di Trento, in una delle prime circolari diffuse, non riteneva rientrasse quello ematico, poiché non espressamente previsto tra le operazioni enunciate dall’articolo 224-bis del Codice di procedura penale. Di avviso diverso sono le circolari oggi in commento, forti di alcune sentenze della Corte costituzionale ( 54/86, 194/96 e 238/96): inoltre, scrive il procuratore di Torino, Armando Spataro, "poiché il comma 3-bis dell’articolo 359-bis c.p.p. opera esclusivamente nei casi di omicidio stradale e lesioni stradali, va da sé che i prelievi e gli accertamenti ivi citati non possono che essere quelli previsti dal Codice della Strada per l’accertamento dello stato di alterazione da alcol o stupefacenti", tra i quali i commi 4 e 5 dell’articolo 186 e il comma 3 dell’articolo 187 del Codice della strada prevedono il prelievo ematico. Aggiunge il procuratore di Genova, Francesco Cozzi, che l’esclusione del prelievo ematico dalla tipologia di accertamenti effettuabili coattivamente renderebbe "inutile" la modifica dell’articolo 359-bis del Codice di procedura penale fatta con la legge 46/2016, posto che "il prelievo salivare e pilifero è del tutto inidoneo a provare il tasso alcolemico". Della circolare di Genova vanno segnalate alcune rilevanti indicazioni operative: • la quantificazione della velocità si può compiere "anche con apparecchi non omologati"; • l’aggravante della circolazione contromano non ricorre nella circolazione "contro senso unico di marcia"; • l’aggravante dell’inversione di marcia si configura solo in presenza di situazioni di "limitata visibilità". Colpisce positivamente il favore espresso dal procuratore di Genova verso l’epilogo dei procedimenti penali per lesioni stradali gravi e gravissime attraverso il ricorso alla messa alla prova di cui all’articolo 168-bis del Codice penale; questo sia in un’ottica di deflazione del carico di lavoro dei Tribunali - destinato ad aumentare alla luce della procedibilità di ufficio del reato di lesioni personali stradali - sia per garantire la rieducazione dell’imputato secondo i parametri del moderno diritto penale. Infatti, l’esito positivo della messa alla prova - che non può essere però concessa a chi si sia dato alla fuga dopo l’incidente - estingue il reato senza celebrazione del processo. Inoltre, un imputato di lesioni stradali è ulteriormente motivato a svolgere positivamente il percorso di messa alla prova: l’estinzione del reato lo salva anche dalla sanzione accessoria della revoca della patente, che invece lo colpisce in caso di condanna o patteggiamento. Il procuratore di Genova invita perciò la polizia giudiziaria a informare l’interessato della possibilità di chiedere la messa alla prova, sin dal momento della sua identificazione come indagato per il reato di lesioni stradali, e raccomanda ai propri sostituti, quando devono prestare il parere sul progetto rieducativo proposto, di prestare particolare attenzione "all’adempimento riparatorio e risarcitorio verso la vittima del reato nonché alla previsione dello svolgimento di attività di pubblica utilità che (…) presentino un profilo di affinità con la materia stradale e quindi abbiano un contenuto rieducativo con capacità di prevenzione rispetto a comportamenti recidivanti". Doppia bancarotta con attenuante di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sentenza 36816/2016. La presenza in contemporanea delle ipotesi di bancarotta per distrazione e documentale, se il danno è modesto, non basta a escludere l’attenuante della particolare tenuità del fatto. La Cassazione (sentenza 36816) accoglie sul punto il ricorso dell’imputato. I giudici respingono in generale la tesi del ricorrente che negava del tutto la sussistenza dei reati contestati. Secondo la difesa non si poteva parlare di bancarotta per distrazione essendo i beni sottratti al patrimonio della società privi di valore di mercato. Ad essere "spariti" erano strumenti tecnologici ormai obsoleti e non rivendibili e dunque non idonei ad assolvere la funzione di garanzia in favore dei creditori. Nessun dolo anche per la bancarotta documentale non finalizzata a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio ma semplice conseguenza della fine dell’attività. Nel ricorso la difesa lamentava anche l’esclusione della configurabilità dell’attenuante del danno di particolare tenuità prevista dall’articolo 219, comma terzo della legge fallimentare. La Cassazione, afferma la responsabilità nei reati da parte dell’amministratore: i beni avevano un valore modesto ma non nullo e le "carte", sebbene consegnate dal commercialista, non erano mai arrivate curatore. La Suprema corte accoglie invece la richiesta di applicazione dell’attenuante, esclusa dalla Corte territoriale. Per i giudici di merito la contemporanea sussistenza della bancarotta per distrazione e documentale rendeva impossibile concedere l’attenuante. Per la Cassazione però la Corte d’appello ha sbagliato. La pluralità delle condotte di bancarotta è già considerata dall’ordinamento come una fattispecie aggravata che può essere bilanciata con circostanze di segno contrario. È dunque possibile che in presenza di più comportamenti di rilievo penale, ciascuno dei quali produttivo di una modesta lesione al bene tutelato, il giudice possa ritenere le due circostanze equivalenti, oppure considerare prevalente quella favorevole al reo. Il dato empirico della pluralità dei fatti non ha nulla a che vedere con i parametri utili ai fini della concessione dell’attenuante prevista dall’articolo 219 fondata solo sulla verifica in concreto dell’entità del danno cagionato. Per quanto riguarda la bancarotta fraudolenta, il giudizio si deve basare sulla diminuzione non percentuale ma globale, che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile senza gli illeciti. Conclusione analoga per la bancarotta documentale, dove non è rilevante l’ipotesi del passivo, ma la differenza che la mancanza di libri o scritture ha determinato nella quota complessiva dell’attivo da ripartire tra i creditori, con riguardo al momento di consumazione del reato. Azione penale, la tempestività della querela Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2016 Azione penale - Querela - Termine - Decorrenza - Verifica giudiziale in ordine alla tempestività - Accertamento del momento di conoscenza degli elementi costitutivi del reato - Cognizione del giudice di legittimità - Esclusione. Il termine per proporre la querela decorre dalla conoscenza non di qualunque fatto (o del fatto che il querelante ritiene che costituisca reato), ma del fatto che costituisce reato, secondo l’apprezzamento del giudice, cui compete la qualificazione giuridica. Il termine per la presentazione della querela decorre dunque dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, conoscenza che può essere acquisita in modo completo soltanto se e quando il soggetto passivo abbia contezza dell’autore e possa, quindi, liberamente determinarsi.In secondo luogo, va ricordato che l’accertamento del momento di conoscenza degli elementi costitutivi del reato, costituendo profilo di fatto, sfugge al giudizio di legittimità. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 19 maggio 2016 n. 21003. Azione penale - Querela - Termine - Decorrenza - Incertezza sulla data di conoscenza del fatto da parte della persona offesa - Conseguenza in tema di tempestività della querela. Deve ritenersi tempestiva la proposizione della querela quando vi sia incertezza se la conoscenza precisa, certa e diretta del fatto, in tutti i suoi elementi costitutivi, da parte della persona offesa sia avvenuta entro oppure oltre il termine previsto per esercitare utilmente il relativo diritto, dovendo la decadenza ex articolo 124 cod. pen. essere accertata secondo criteri rigorosi e non sulla base di supposizioni prive di adeguato supporto probatorio. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 8 giugno 2015 n. 24380. Azione penale - Querela - Tardività della querela - Eccezione - Onere probatorio gravante su chi eccepisce la tardività. Qualora venga eccepita la tardività della querela, la prova del difetto di tempestività deve essere fornita da chi la deduce ed un’eventuale situazione di incertezza va integrata solo in favore del querelante. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 25 marzo 2015 n. 12695. Reati contro la persona - Diffamazione - Diffusione, tramite "internet", di notizie diffamatorie - Consumazione del reato - Conseguenze in ordine alla tempestività della querela. In tema di diffamazione tramite internet, ai fini della tempestività della querela, occorre considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul web, nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l’interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente ‘in retè o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza. Ne deriva se non la assoluta contestualità tra immissione in rete e cognizione del diffamato, almeno una prossimità temporale di essi, sempre che l’interessato non dia dimostrazione del contrario. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 14 giugno 2012 n. 23624. L’inizio di un radicale cambiamento di Giulio Pagano (Nessuno tocchi Caino) L’Opinione, 6 settembre 2016 Le tre giornate del 40esimo Congresso straordinario del Partito Radicale sono state importanti per due motivi: questo congresso è stato il primo a svolgersi senza la presenza del padre radicale Marco Pannella; il secondo è che non era mai capitato che un partito politico avesse tenuto il suo congresso in un carcere. Ormai da decenni, gli istituti penitenziari sono luoghi in cui non si fa più politica, ma spazi in cui le scelte politiche si subiscono e basta. I detenuti continuano a protestare, ma le loro voci, o meglio le loro grida, non vengono ascoltate all’esterno, se non da pochi. La maggioranza della società civile sceglie di non occuparsi di carcere, e rimane vittima di un pensiero che accompagna l’uomo fin dall’inizio della storia: il male va rinchiuso, allontanato e dimenticato. Restando così accecata nella convinzione che solo in tal modo si può essere al sicuro e si può andare avanti. La scelta del Partito Radicale di usare gli spazi del Carcere di Rebibbia per i dibattiti congressuali ha però un precedente. Nel 2009, infatti, era stata l’associazione "Nessuno tocchi Caino" la prima in assoluto a ospitare nella Casa di Reclusione di Padova i dibattiti del suo IV Congresso. Questa decisione eliminava in un modo del tutto nuovo le barriere tra il mondo esterno e l’universo carcerario. Poiché, per la prima volta nella storia italiana, ai detenuti era data la possibilità di essere partecipi di qualcosa che, sebbene a loro rivolta, riguardava la società, tutta la società. In questo modo, almeno per poco, scomparivano le mura e si era tutti insieme. Non c’erano i buoni, né tantomeno i cattivi. Rimanevano solamente dei cittadini, uniti dal desiderio di cambiare le cose, spinti dai valori della democrazia, che nella sua radice racchiude la parola demos, che vuol dire popolo, e che per definizione non contempla distinzioni. Durante il congresso di Rebibbia si è ricordata la vita di Marco e il Partito Radicale ha poi intrapreso una sua strada. Come la storia ci ricorda, in numerose occasioni, alla morte di un leader sono necessarie scelte difficili e per molti sofferte. Per uno come me, giovane e neoiscritto, che non conosceva Marco di persona e che al Partito si è avvicinato solo in tempi recenti, è stato interessante seguire i dibattiti ed essere partecipe di questo fondamentale momento di passaggio. Tuttavia, non poteva esserci in me, la presunzione di esprimermi con termini decisivi su quale dovesse essere la scelta migliore da intraprendere. Nei giorni precongressuali ho comunque riflettuto molto su cosa sarebbe accaduto e, forse, su quanto sarebbe dovuto accadere. Più volte negli ultimi mesi, mi ero infatti domandato se Marco se ne fosse andato via felice. Chiedendomi più volte, se nel momento in cui chiuse per sempre gli occhi, tutto ciò che lui diede, tutta la fatica che provò per le battaglie vinte o ancora in corso, se tutto il peso che sentì sulle sue spalle nel lottare per dei valori che ai più sono stati sempre secondari, l’avesse confortato. Nella mia incapacità di comprendere la sua persona nel profondo, l’unica risposta che mi sono potuto dare è che Marco abbia lasciato a tutti un compito: continuare in tutto ciò che lui ha cominciato. Penso che a lui non importasse la forma e il modo tramite cui continuare le sue battaglie e le sue lotte nonviolente. L’importante era non smettere. Ora che il congresso è finito, indipendentemente dalla via che è stata votata a maggioranza dai congressisti, ritengo che Marco sarebbe stato fiero di ciò che è accaduto durante i tre giorni del congresso. E dico questo con piena convinzione, poiché, anche se ci sono stati accesi scontri, questo congresso rappresenta la manifestazione per la quale oggi noi stiamo proseguendo nel suo percorso, inseguendo la sua eredità. L’aver tenuto il congresso nel carcere di Rebibbia ne è la chiara dimostrazione. Le cose non cambieranno domani, le cose cambiano oggi, qui e subito, avrebbe detto lui. Il Partito Radicale è l’emblema di questo pensiero. Fin da quando ho scoperto l’esistenza di questo Partito, mi ci son affezionato immediatamente, perché lo scopo del Partito Radicale è cambiare le cose. Le difficoltà che verranno nei giorni e nelle settimane future non riusciranno mai a mutare questa realtà. Qualsiasi fosse stata la strada intrapresa, i Radicali in quanto tali, avrebbero comunque continuato a battersi per i deboli, per gli emarginati, per tutti coloro i quali la maggior parte della società sceglie di non occuparsi. E qualora non ci pensassero i Radicali, se non ci pensassimo noi, non lo farebbe nessuno. Certo, la strada è ancora lunga. Ci sono ancora troppe parole e troppi pochi fatti. Si pensi ai numerosi ergastolani iscritti al Partito a cui non è stato consentito di partecipare. Questo, mi fa pensare che gli ostacoli che si frappongono sulla strada per lo Stato di diritto sono ancora difficili. Ma io, essendo ottimista per natura, penso che non ci si debba soffermare su ciò che appare negativo. Tutti gli ergastolani a cui è stata negata la presenza, hanno comunque mandato i loro saluti e sono sicuro che per i tre giorni del congresso abbiano seguito con attenzione i dibattiti su Radio Radicale: allora è un po’ come se fossero stati insieme a noi. È indispensabile, quindi, concentrarsi su quello che di positivo esiste. Chiedetevi, vi è mai capitato di assistere, per tre giorni di fila a un evento svoltosi in un istituto penitenziario che abbia raccolto e unito detenuti insieme ad avvocati, giornalisti, politici, autorità, attivisti per i diritti umani e membri della società civile? E qualora non siate convinti del cambiamento in atto, soffermatevi sul carcere di Opera! Storicamente una prigione dura, intransigente e chiusa. Oggi rappresenta il luogo da cui è nato il progetto Spes contra spem, che più che un progetto, a me piace sia visto come un laboratorio itinerante che sta facendo il giro delle carceri italiane. È un lavoro che si fonda sull’idea di Marco: prima che l’avere speranza occorre essere questa speranza, bisogna indossarne le vesti. Quindi crederci davvero! E questo hanno iniziato a fare alcuni detenuti; operazione tutt’altro che facile, ma ci sono riusciti raggiungendo in maniera compiuta questa consapevolezza. Nel dicembre 2015, alla nascita di questo percorso durante il VI congresso di "Nessuno tocchi Caino", Marco si trovava a Opera. I detenuti, quando prese la parola, lo applaudirono calorosamente, tantoché alla conclusione, quando non volle più lasciare il microfono, nessuno trovò il modo di interromperlo e continuando i detenuti ad applaudirlo Marco intonò il motto dei radicali a cui subito i detenuti stessi si affiancarono. In quell’occasione si creò un bellissimo spirito di condivisione e guardando negli occhi i presenti io, uno tra il pubblico, ho percepito un nuovo tipo di speranza, ho percepito il cambiamento. In questi tre giorni ci siamo trovati a Rebibbia. Prima eravamo a Opera, poi a Voghera e dopo ancora a Parma. Tra qualche giorno al festival del cinema di Venezia verrà presentato il docufilm di Ambrogio Crespi "Spes contra spem" che documenta le vite di chi ha percorso questa difficile via. Saranno presenti alcuni ergastolani ostativi, quelli, che fino a qualche anno fa, nell’anno 9999, scritto sulla loro condanna venivano costretti a leggere la fine di ogni speranza o di una qualsiasi prospettiva alternativa di futuro. Questo significa che davvero le cose stanno cambiando. Non tutti rimarranno soddisfatti di come il congresso si è concluso, e io mi voglio rivolgere a queste persone chiedendo loro di mettere da parte ogni eventuale rancore perché le cose non sono andate come volevano. Infatti, sarebbe forse opportuno che tutti ricordino l’essenza stessa del Partito Radicale: motore di cambiamento! Oggi questo cambiamento è finalmente in atto. Ma soprattutto, ora più di ieri abbiamo la consapevolezza - e non la speranza - che domani è un giorno nuovo e che niente deve rimanere immutabile. Sardegna: la Uil-Pa Polizia Penitenziaria denuncia "le carceri sono al collasso" castedduonline.it, 6 settembre 2016 Bene le visite del sottosegretario Migliore, ora arrivino interventi concreti. Accogliamo con favore la visita del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore in alcuni Istituti sardi, il vice ministro ha potuto constatare le pessime condizioni in cui versano diverse realtà isolane, ha potuto toccare con mano come la carenza di 428 unità dall’organico previsto di Polizia Penitenziaria incide negativamente sulla sicurezza del personale, ma avrà senz’altro valutato le grandi potenzialità rappresentate dalle colonie agricole che potrebbero diventare il fiore all’occhiello del sistema penitenziario nazionale. A renderlo noto il segretario generale della Sardegna della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Michele Cireddu che aggiunge "anziché potenziare le colonie agricole di Isili, Is Arenas e Mamone con invio di Agenti per un aumento proporzionalmente del numero dei detenuti da impiegare in attività lavorative, sfruttando quella che definiamo una miniera d’oro, il governo ha deciso di ammassare i detenuti nelle case circondariali sarde trasformandole in luoghi di mera contenzione per detenuti aggressivi, psichiatrici ed impermeabili ad ogni attività risocializzante. Caso emblematico il carcere di Uta dove continuano a pervenire detenuti che in altri Istituti si sono resi responsabili di aggressioni a danno degli Agenti che uniti a quelli psichiatrici già presenti, creano un mix esplosivo. Sono ormai quotidiani gli eventi critici come i tentativi di suicidio e le aggressioni a danno degli Agenti ma anche tra detenuti, le dinamiche citate stanno creando situazioni di tensione ormai al limite della sopportazione umana. Un numero esiguo di 6 Ispettori e 3 Sovrintendenti, anziché 32 e 33 come previsto dalle piante organiche ministeriali, devono gestire una mole di lavoro insostenibile, così come la carenza di circa 100 Agenti in organico determina quella che può essere definita "una emergenza quotidiana". Non si discosta la situazione nell’Istituto di Sassari dove la carenza di 128 unità di Polizia Penitenziaria impedisce di fronteggiare in maniera adeguata i numerosi eventi critici che si verificano nelle sezioni detentive. La grave carenza organica è una costante anche degli Istituti di Oristano, Tempio e Nuoro dove sono allocati i detenuti appartenenti al circuito AS 1. Ad Oristano il personale deve fruire di migliaia giorni di congedo ordinario relativo gli anni scorsi, a Tempio svolgono servizio solamente 2 unità del ruolo Ispettori, inoltre nello stesso Istituto così come a Nuoro non sono ancora stati assegnati 1 Direttore ed 1 Comandante in pianta stabile. Non va meglio infine all’attuale organizzazione delle colonie agricole, caso emblematico Isili dove il personale è costretto ad effettuare anche 12 ore di fila, contro ogni normativa, per sopperire alla grave carenza organica. Non permetteremo che il personale di Polizia Penitenziaria continui a subire aggressioni e sia schiacciato sotto la pressa dello stress lavorativo e delle responsabilità giuridiche che oggettivamente non può avere per cause attribuibili ad una discutibile gestione. Chiediamo al sottosegretario azioni concrete per integrare le 428 unità mancanti dall’organico della Sardegna, per valorizzare le colonie agricole ed impedire che i detenuti violenti continuino a rendere impossibili le attività degli Istituti. La Uil nel caso non dovessero arrivare immediate risposte non esiterà a mettere in atto ogni eclatante forma di protesta. Sardegna: Caligaris (Sdr); detenuti stranieri in costante aumento L’Unione Sarda, 6 settembre 2016 "Sono in costante aumento i detenuti stranieri, prevalentemente extracomunitari, nelle carceri della Sardegna. Negli ultimi tre mesi sono passati da 409 a 476 presenze (quasi 1 su quattro), facendo lievitare il numero complessivo delle persone private della libertà nelle strutture penitenziarie isolane. Al 31 maggio scorso infatti vi erano 2070 ristretti, mentre il 31 di agosto sono diventati 2110". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che fotografano la realtà isolana nei dieci istituti di pena. "La percentuale più significativa - osserva - è come sempre quella delle Case di Reclusione all’aperto. Nella Colonia Penale di Mamone-Lodé gli stranieri costituiscono il 72,95% dei ristretti mentre a Is Arenas raggiungono la ragguardevole percentuale del 67,85. Non manca qualche sorpresa come Alghero che ne annovera il 32,30% e Sassari-Bancali con il 29,81%. Seguono Isili (28,31%) e Cagliari-Uta (14,94). Le presenze meno significative sono a Nuoro (8,8%), Oristano-Massama (8,15%) e Tempio (2,9%). Un solo straniero su 41 detenuti si trova invece a Lanusei". "Nel complesso - aggiunge la presidente di Sdr - le colonie penali continuano a essere sottodimensionate rispetto ai posti disponibili mentre soffre notevolmente la Casa Circondariale di Cagliari-Uta che negli stessi tre mesi è passata da 562 a 607 detenuti (567 posti) e rischia di vedere aumentare ulteriormente i reclusi. Analoga considerazione deve essere fatta per Oristano-Massama che con 260 posti per detenuti in regime di alta sicurezza adesso ne ospita 282 (erano 275 a maggio) e il "San Daniele" di Lanusei con 33 posti per 41 protetti. Sono invece leggermente diminuiti i ristretti del "Paolo Pittalis" di Tempio Pausania. Erano 182 per 167 posti a maggio, adesso sono 170". "Non si può però tacere sul fatto che a un aumento dei reclusi non corrisponde un incremento del personale. A parte la grave carenza di direttori, vice direttori, educatori e amministrativi, salta agli occhi quella degli Agenti della Polizia Penitenziaria. Tra Cagliari (-55), Tempio (-90), Sassari (-70) e Oristano (- 33) mancano complessivamente all’appello, secondo quanto indicato nel sito del Ministero della Giustizia, addirittura 248 Agenti. Trarre le conclusioni è fin troppo semplice. Con questo genere di organizzazione - conclude Caligaris - il carcere non può recuperare chi ha commesso dei reati. Il suo ruolo principale appare quello di un grande contenitore sociale di disagio. La realtà sarda lo conferma". Massa Carrara: detenuti e alpini insieme per ripulire le Apuane Il Tirreno, 6 settembre 2016 Un progetto nato per mettere insieme percorsi riabilitativi e cura ambientale. La vicesindaca Fambrini: "Occasione per affinare il sistema di relazioni sociali". Fuori dal carcere per pulire i sentieri sulle Apuane. A breve cinque detenuti del carcere e due soggetti che si trovano in misura alternativa, coordinati dai volontari del CAI, realizzeranno l’attività di pulizia dei sentieri situati del versante carrarese delle Apuane. Quasi una metafora dell’uscita fuori dalle sbarre, andando per sentieri che possano condurre, si spera, alla riabilitazione. "Il Comune di Carrara - ha spiegato Fiorella Fambrini in qualità di Vice Sindaca con delega alle Politiche Sociali - dà particolare rilevanza a progetti di valenza sociale e pubblica utilità: per questo ha accolto, coinvolgendo gli Assessorati alle Politiche Sociali, all’Ambiente e al Turismo, la proposta del Cai sezione di Carrara per un intervento di recupero e bonifica ambientale che vede nel contempo la rivalutazione di sentieri delle Apuane e la loro migliore fruibilità da parte degli abitanti del territorio e dei turisti. Simili azioni si coniugano con quelle di inserimento di soggetti reclusi o in misura alternativa alla detenzione". L’intento insomma è di coniugare la cura del territorio con la capacità dell’esperienza carceraria di andare oltre la pena. "Questo progetto ha un certo rilievo perché riguarda non solo la cura e il rispetto del Territorio, ma anche perché affronta il tema dell’integrazione e del rispetto della dignità umana, offrendo opportunità anche a chi ha sbagliato: grazie all’inserimento in attività lavorative, i detenuti tornano ad essere cittadini attivi, instaurando un rapporto umano con i tutor del Cai. Questa esperienza diventa così un’occasione per mettere alla prova e affinare non solo le loro capacità tecniche, ma anche il sistema di relazioni sociali. Un piccolo grande progetto da sviluppare in futuro", ha concluso la Vice Sindaco Fambrini. "Nell’importanza di iniziative di recupero di questo tipo crede molto la Casa di Reclusione di Massa" ha dichiarato la direttrice Maria Martone. A titolo esemplificativo la Dottoressa Martone ha ricordato la recente attività che coinvolge cinque detenuti assunti all’interno del carcere da una Azienda del settore macchine per il caffè, la produzione di biancheria da destinarsi ad altri Istituti di pena e la coltivazione di ortaggi e frutta biologici venduti nello spaccio interno. "La collettività deve farsi carico di questo problema e aiutare il carcere nel percorso di recupero - ha dichiarato la Dottoressa Martone - il riscatto sociale e il recupero della legalità passano anche dall’occuparsi della tutela del bene comune, come nel caso della pulizia dei sentieri, obiettivo di questo progetto, reso possibile grazie alla sinergia istituzionale che crea un ponte tra la casa di pena e la città". La misura alternativa prevede anche l’obbligo del "risarcimento sociale": "Questo progetto - a parere della Dottoressa Elisa Bertagnini responsabile dell’Ufficio di Esecuzione penale esterna - diventa molto importante nel percorso individuale di recupero, perché responsabilizza i soggetti coinvolti che cercano di rimediare fattivamente, con azioni concrete, al danno commesso". Il Club Alpino Italiano sezione di Carrara, rappresentato dal referente Mario Viaggi, ha quindi esposto il programma: già fatta una selezione di sentieri, sui quali i volontari lavoreranno fianco a fianco con i soggetti individuati dalla Casa di Pena e dall’Ufficio Esecuzione della Prova Esterna. Perugia: la visita di Verini (Pd) al carcere di Orvieto "modello educazionale" di Valentino Saccà orvietosi.it, 6 settembre 2016 La visita di ieri mattina, presso la Casa di Reclusione di Orvieto dell’On. Walter Verini, membro della Commissione Giustizia della Camera, è stata l’ultima tappa a completare il calendario di incontri negli istituti di pena umbri, da Spoleto a Terni, passando per Perugia. "Troviamo in generale il sistema giustizia umbro migliorato - ha detto Verini - superando anche il problema del sovraffollamento delle carceri. La pena deve avere una dimensione umana e ciò significa anche investire in sicurezza dato che un detenuto che viene trattato umanamente difficilmente torna ad delinquere. Poi l’85% dei detenuti lavora, impara un mestiere e questo fa nello specifico del carcere di Orvieto un carcere modello. Anche in caso di terremoto gli agenti sono intervenuti in maniera tempestiva e professionale con il piano di evacuazione. Ora il nostro compito politico è di garantire un turn over". Presenti alla visita anche il sindaco Giuseppe Germani e il segretario del Partito democratico di Orvieto Andrea Scopetti. "Il tema giustizia è uno dei temi sui quali stiamo puntando molto i riflettori oltre a quello della sanità e quello bancario - ha esordito Scopetti -. La visita alle carceri umbre da parte del gruppo parlamentare PD è terminato oggi (ieri, ndr) con il carcere di Orvieto che riteniamo una struttura importante a livello educativo". Scopetti ha poi annunciato per venerdì 9 settembre alle 21 alla Sala Agorà di Ciconia l’incontro con il ministro della giustizia Andrea Orlando nell’ambito di "Dialogando", un calendario di iniziative propedeutiche al referendum costituzionale. Il sindaco Germani, nel suo intervento, ha invece ricordato il progetto sperimentale finalizzato all’impiego di detenuti in lavori di pubblica utilità quali: manutenzione, restauro, pulizia e decoro urbano dei siti di interesse pubblico, attraverso una convenzione tra il Comune, la casa di reclusione di Orvieto e l’ufficio esecuzione penale esterna di Spoleto. "L’obiettivo del Comune di Orvieto - ha detto - è quello di contribuire a trasformare la locale struttura carceraria da luogo in cui scontare la pena a luogo dove si fa inserimento dei detenuti nel tessuto sociale". Airola (Bn): mancano le sigarette, rivolta nel carcere minorile di Alessandro Chetta Corriere del Mezzogiorno, 6 settembre 2016 Tre agenti feriti. I detenuti "armati" con piedi legno dei tavoli e manici di scopa. Il sindacato: "Sono piccoli boss. Non si possono tenere gli ultra21enni in questi istituti". Mancano le sigarette, esplode la rabbia dei ragazzi detenuti. Forti momenti di tensione nel primo pomeriggio all’interno del carcere minorile di Airola, nel Beneventano, a causa di una rivolta di giovani detenuti che hanno devastato alcune celle e sfasciato una sezione detentiva. Caos generato probabilmente per il mancato rifornimento di sigarette e per problemi relativi al vitto (anche se la protesta per le "bionde" viene indicata da più parti come un modo per mascherare lotte intestine tra piccoli boss nel penitenziario). Gli agenti sono stati minacciati con i piedi di legno dei tavoli e con manici di scopa. Minaccia non di poco conto a quanto pare visto che tre esponenti di polizia penitenziaria sono rimasti feriti. Trenta poliziotti per sedare la rivolta - La rivolta è durata diverse ore fino a quando la situazione è tornata a fatica sotto controllo, come ha fatto sapere Giuseppe Centomani, dirigente del Centro giustizia minorile della Campania. è stato necessario l’intervento di una trentina di agenti di polizia penitenziaria provenienti anche da Nisida, dal carcere di Benevento e dal centro di prima accoglienza di Napoli. Il carcere di Airola è di nuovo sotto i riflettori a soli tre mesi di distanza da un altro episodio di cronaca, una lite fra 3 detenuti. Si parlò anche di aggressione agli agenti, ipotesi smentita dal direttore Antonio Di Lauro. A giugno incontrarono Papa Francesco - Sempre a giugno sei ragazzi detenuti ad Airola incontrarono Papa Francesco, a cui consegnarono un crocifisso fatto di pane e altri manufatti da loro realizzati. "Il carcere è un’università del crimine" - Non mancheranno le polemiche. Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria) ad Airola si assiste ad una "manifestazione di forza da parte di clan della criminalità organizzata" che si sarebbero formati all’interno del penitenziario. La rivolta è scoppiata per questo, spiega il sindacalista: "È una lotta tra bande e detenuti maggiorenni legati ai clan". Un modo per dimostrare chi è più forte, tanto da tenere in scacco anche lo Stato. "Il problema è che l’ordinamento consente la presenza di ultra 21enni. Sono piccoli boss che portano avanti una lotta per la supremazia. L’ennesima dimostrazione che il carcere è una università del crimine". "Sfasciata la sezione istituto penale per minori" - Il Sappe ha denunciato anche la devastazione di una sezione dell’Istituto penale per minorenni ("interamente sfasciata"); i detenuti hanno in seguito minacciato ripetutamente gli agenti. "In quel carcere continui focolai di tensione" - "Mi sembra evidente - prosegue il segretario Capece - che c’è necessità di interventi immediati da parte degli organi ministeriali e regionali dell’amministrazione della Giustizia minorile, che assicurino l’ordine e la sicurezza in carcere ad Airola. Ed è grave - aggiunge - che non siano stati raccolti, nel corso del tempo, i segnali lanciati dal Sappe sui costanti e continui focolai di tensione del carcere minorile airolano". Uspp: "Rivedere la riforma che ha esteso l’età a 25 anni" - Per Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Uspp (polizia penitenziaria) "è giunto il momento di rivedere la legge di riforma del 2014 che ha esteso l’esecuzione penale minorile fino al venticinquesimo anno di età. È necessario individuare nuovi strumenti organizzativi per la separazione dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata da tutti gli altri". Airola (Bn): la rieducazione una scommessa incompiuta di Antonio Mattone Il Mattino, 6 settembre 2016 Sono stati alcuni detenuti maggiorenni a scatenare ieri la rivolta nel carcere minorile di Airola. Disordini che hanno messo in ginocchio per alcune ore l’istituto penale minorile della cittadina beneventana, con il pesante bilancio di una sezione dell’istituto completamente sfasciata e due agenti feriti. I futili motivi che avrebbero scatenato la violenza non sarebbero altro che un pretesto dei piccoli boss emergenti per affermare con una manifestazione di forza il loro potere. La maggiore età dei due protagonisti principali della sommossa ha sollevato dubbi e polemiche soprattutto da parte dei sindacati di polizia penitenziaria, ma non solo. La permanenza di questi ragazzi nei circuiti minorili risale a una norma che permette a chi ha iniziato percorsi di recupero negli istituti di pena, di non interromperli, per andare nelle carceri per adulti, fino al compimento del 25esimo anno di età, mentre prima di questo provvedimento si poteva restare solo fino a quando non si erano compiuti 21 anni. Questa proposta fu annunciata dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando nel maggio di due anni fa, proprio durante una visita nel carcere minorile di Nisida. Il Guardasigilli osservò che non bisognava interrompere percorsi di recupero che avevano dato risultati positivi nel momento in cui si compivano 21 anni per andare nel carcere dei "grandi". Qui sappiamo che spesso i giovani reclusi sono esposti alla prepotenza e al cattivo esempio dei detenuti adulti, una vera e propria scuola del crimine che diventa un trampolino di lancio nel mondo della delinquenza. C’è da dire che il territorio della Campania, e del Sud più in generale, è caratterizzato dalla bassa età di chi commette reati. Un fenomeno che riguarda la criminalità organizzata con i gravi reati e gli omicidi commessi da giovani, come quelli appartenenti alla cosiddetta "paranza dei bambini" o dei "barbudos", ma anche fatti di cronaca nera che non riguardano ragazzi affiliati ai clan. Bisogna precisare che il proseguimento del percorso detentivo in carceri minorili non riguarda appartenenti alla malavita organizzata. Tuttavia può succedere che un ragazzo venga giudicato a piede libero per un reato compiuto da minorenne e che la sentenza vada in giudicato dopo anni. Nel frattempo, superata la maggiore età, può aver commesso altri fatti delittuosi per cui è detenuto in una casa circondariale per adulti. Ebbene poiché a prevalere è il titolo esecutivo, il soggetto in questione può ritornare nel carcere minorile, portandosi dietro tutta l’esperienza negativa accumulata. Gli episodi di violenza nelle carceri minorili non credo possano essere attribuiti alla norma voluta dal Ministro Orlando, che ha invece il pregio di cercare di cambiare destini già segnati. Innanzitutto gli eventi critici che hanno luogo negli istituti per minori non sempre sono scatenati da chi ha superato il 18esimo anno di età. Nello scorso mese di giugno una rissa tra detenuti avvenuta a Nisida fu causata da un minorenne, mentre i sindacati di polizia penitenziaria erroneamente attribuirono il fatto a un giovane adulto. Poi bisogna considerare il basso numero di reclusi che appartengono al circuito minorile. Parliamo di circa 400 ragazzi in tutta Italia che dovrebbero essere seguiti con interventi personalizzati molto specifici. Però - e questo è un rischio che tenuto in debita considerazione - bisognerebbe valutare con maggior discernimento chi può beneficiare di questo trattamento, escludendo quelle personalità con spiccata attitudine alla prevaricazione. Infine non possiamo ignorare che viviamo in una società dove sono saltate le regole del vivere civile e dove il germe della violenza si sta insinuando tra le giovani e giovanissime generazioni. Proprio nei giorni scorsi abbiamo assistito a episodi di brutale aggressività commessi da bande di minori che hanno aggredito e malmenato un clochard e un volontario che voleva difenderlo, per non parlare di accoltellamenti e risse tra giovani che ormai sono all’ordine del giorno. Se non sapremo intercettare il disagio giovanile, se non si propongono autorevoli modelli educativi alternativi, dentro e fuori le mura delle carceri, ci troveremo a fare i conti con una violenza che non riusciremo a decifrare, perpetrata da una generazione sempre più allo sbando. Parma: detenuto fa esplodere una bomboletta a gas, poliziotto lo salva Gazzetta di Parma, 6 settembre 2016 Tragedia sfiorata nel carcere di Parma. Un detenuto, appartenente al circuito di Alta Sicurezza, ha incendiato in segno di protesta alcuni fogli di giornale e degli indumenti personali avvolti attorno ad una bomboletta a gas che è deflagrata pochi istanti prima dell’arrivo di un poliziotto. A denunciare l’episodio la segreteria Regionale del Si.N.A.P.Pe. Le condizioni sarebbero potute essere tragiche. Il poliziotto, con coraggio e professionalità è intervenuto per salvare la vita del detenuto, estraendolo dalla fitta coltre di fumo che avvolgeva la sua cella. Poliziotto e detenuto sono poi stati trasportati al Pronto Soccorso del Maggiore per sottoporsi alle cure del caso conseguenti alla considerevole inalazione di fumo ed alle conseguenze dell’esplosione della bomboletta di gas. Il sindacato, poi, lancia un vero e proprio allarme: "Ribadiamo, ancora una volta, come il susseguirsi incessante di tali episodi sia da ricondurre ad una serie di problematiche che da tempo si chiede di risolvere, quali, ad esempio, la necessità di contemperare le esigenze di sicurezza con quelle trattamentali, la difficile convivenza tra detenuti in buone condizioni di salute con quelli malati che affollano le sezioni ordinarie non potendo essere tutti ricoverati presso l’ex Centro Diagnostico Terapeutico (denominato da poco SAI senza che nulla sia cambiato nella sostanza), la carenza di percorsi di reinserimento lavorativo ai quali si predilige spesso attività d’intrattenimento, il silenzio assordante dell’Amministrazione Penitenziaria rispetto alla necessità di salvaguardare l’incolumità fisica del personale di polizia penitenziaria". Spes contra spem, a Venezia un docufilm sull’ergastolo ostativo galileonet.it, 6 settembre 2016 Al Festival di Venezia in scena "Spes contra spem-Liberi dentro", docufilm di Ambrogio Crespi sul fine pena mai. Fine pena: mai. È la condanna scritta nel destino dei detenuti cui è applicata la massima punizione prevista dal nostro codice penale, il cosiddetto ergastolo ostativo. Una pena immutabile che, a differenza di quanto accade con l’ergastolo "normale" - in cui, dopo 26 anni di detenzione, il condannato può uscire dal carcere e avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale - prevede che il detenuto viva tutta la sua esistenza in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario. A raccontarne le ombre è stato Ambrogio Crespi, nel docufilm Spes Contra Spem - Liberi subito, prodotto in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, Indexway e Radio Radicale. L’opera, che sarà presentata questa settimana alla 73° Biennale del Cinema di Venezia, racconta le storie di criminali, mafiosi e pluriomicidi, immergendo lo spettatore nel viaggio di colpa, reclusione e speranza di chi è condannato all’ergastolo ostativo. Il regista, in particolare, ha incontrato e intervistato detenuti e agenti di polizia della casa di reclusione Opera, tracciando - senza pregiudizi e senza buonismi - "un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso", raccontando "storie di uomini con un ergastolo ostativo, un ‘fine pena maì che oggi sono un manifesto delle istituzioni e che ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite ‘liberè perdute. Dal film emerge con chiarezza, infatti, non solo un cambiamento interiore dei detenuti - nel loro modo di pensare, di sentire e di agire - ma anche la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e una maggiore fiducia nelle istituzioni. La prima proiezione è prevista per il 7 settembre alle ore 15:00. A seguire, interverranno il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, il regista Ambrogio Crespi e Sergio d’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino. Il 9 settembre alle 11:00 la seconda proiezione, nella Sala Pasinetti della Biennale. La capienza della sala è di 120 persone e l’ingresso è libero. Terremoto. Il business delle macerie, se il modello è L’Aquila di Serena Giannico Il Manifesto, 6 settembre 2016 Emergenza post terremoto. Rimosse e stoccate come "rifiuti urbani", per ordinanza della Protezione civile. Come in Abruzzo e in Emilia, dove le cosche hanno fatto affari anche con la raccolta dei detriti. Tutto descritto in un dossier di Libera. Macerie trattate come nel terremoto dell’Aquila e dell’Emilia. Scaturiscono dalla dichiarazione dello stato di emergenza e da un’ordinanza della Protezione civile del primo settembre scorso, in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, le modalità per la rimozione e lo stoccaggio dei detriti che al momento sovrastano i borghi del centro Italia sfigurati dalle scosse. L’ordinanza è la 391; s’incentra sugli "ulteriori interventi urgenti conseguenti all’eccezionale evento sismico che ha colpito il territorio di Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo" ed è una deroga al decreto legislativo del 3 aprile 2006. Nell’articolo 3 vengono elencate procedure e disposizioni per la "raccolta e il trasporto del materiale derivante dal crollo, totale o parziale, degli edifici" o dal loro abbattimento. E qui le macerie (stimate in circa 700mila metri cubi, ndr) vengono equiparate ai "rifiuti urbani" e come tale vengono classificate, "limitatamente alle fasi di raccolta e di trasporto da effettuarsi verso siti di deposito temporaneo". "Che - spiega Titti Postiglione, a capo del Dicomac, che sta coordinando i soccorsi del sisma - saranno individuati dalle amministrazioni comunali, di concerto con Arpa, Arta, Asl e Regioni". In queste aree le rovine resteranno per un "periodo di sei mesi" e, nel frattempo, si procederà alle operazioni "di separazione e selezione" dei rifiuti da avviare al "recupero o allo smaltimento". Altro discorso per "i beni di interesse storico e artistico e per gli effetti di valore, anche simbolico", oltre che per l’amianto: essi verranno selezionati e separati all’origine. "Il trasporto dei materiali ai centri di raccolta - viene ancora specificato - è a cura delle aziende che operano direttamente nel servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani presso i territori interessati"… o "indirettamente" a mezzo di imprese di trasporto anche "non iscritte all’albo" e senza la "tracciabilità dei rifiuti". "Le predette attività - recita ancora l’ordinanza - sono effettuate senza lo svolgimento di analisi preventive". Provvedimento analogo a quelli adottati per la tragedia del 6 aprile 2009 a L’Aquila - che produsse 3 milioni di tonnellate di macerie - e per il disastro del maggio 2012 in Emilia. Provvedimenti contro i quali, a suo tempo, si scagliò Libera, definendoli irresponsabili. Perché, in sostanza, in nome dell’emergenza/urgenza vengono eliminati controlli e vincoli. E, in effetti, stando ad inchieste giudiziarie e giornalistiche, nelle due regioni la criminalità organizzata è riuscita a infilarsi nella ricostruzione, anche nel campo della rimozione e del trasporto delle macerie, con camion che hanno battuto le strade dei paesi distrutti. In Emilia l’Antimafia e i gruppi investigativi interforze, negli anni passati, hanno denunciato la vicinanza di alcune imprese edili alla ‘ndrangheta, con le cosche calabresi, e in particolare del Crotonese, in prima linea. Alcune aziende, anche importanti, sono state per ciò bandite dalla White List, l’albo di fornitori e subappaltatori per la ricostruzione, perché "sussistente e attuale il pericolo di infiltrazione mafiosa". In Abruzzo, un anno dopo il dramma, fu proprio Libera a diffondere un dossier su "i traffici sulle macerie, le trame, gli affari, i legami fra le amministrazioni e le mafie, lo sbarco delle cricche, ossia tutto il malaffare del post terremoto", in un viaggio "tra il business fatto sui morti e fra i palazzi di sabbia, su appalti piccoli e grandi, pilotati in nome di un’emergenza infinita". Pagine firmate dal referente abruzzese dell’associazione, Angelo Venti, anche sul "mistero delle macerie scomparse, sul giallo degli isolatori sismici non omologati, sui costi delle case volute da Berlusconi". In seguito, con indagini e intercettazioni, è saltato fuori che i Casalesi, grazie al alcuni costruttori, facevano affari nel capoluogo abruzzese. Qualche giorno fa, a seguito di arresti, in varie regioni, di esponenti del clan ‘ndranghetistico dei Ferrazzo, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, da L’Aquila, ha lanciato l’allarme. "Dunque - ha detto - in riferimento alla ricostruzione dei territori colpiti dal sisma del 24 agosto… bisogna far riferimento al modello Crasi (Centro ricerca e analisi per lo sviluppo investigativo, ndr). Incrociando i dati raccolti dalle varie fonti - ha ricordato il magistrato - il Crasi consente di verificare possibili collegamenti tra soggetti criminali che aspirano a entrare nella ricostruzione. Occorre prevenire - ha evidenziato - in un momento critico, come quello degli affidamenti diretti degli interventi di somma urgenza, è il più pericoloso: lavori per smaltire e rimuovere macerie, installare puntellamenti, portare intermediazione e manodopera". Terremoto. "La mafia stia lontana dalla ricostruzione". Allarme del procuratore Roberti di Antonio Pitoni La Stampa, 6 settembre 2016 L’appuntamento è per oggi, quando il premier Matteo Renzi incontrerà il commissario al terremoto Vasco Errani. Per dare il via alla "fase di dialogo e ascolto" che precederà la ricostruzione dei territori devastati dalla scossa del 24 agosto. Il primo mattone delle fondamenta di Casa Italia. "Un progetto di tutto il Paese, al quale ci avviciniamo più da padri che da rappresentanti del governo", scrive il presidente del Consiglio nella sua E-news. Un progetto "ampio e pluriennale", ispirato dall’imprescindibile parola d’ordine della "prevenzione", che seguirà le linee dell’archistar e senatore a vita Renzo Piano. "Cultura del rammendo" e "cantieri leggeri" ne costituiranno l’ossatura. "Metteremo tutte le risorse che sono necessarie con la legge di Stabilità e con la flessibilità che chiederemo all’Europa", assicura il premier al periodico Vita Magazine. Certo, le popolazioni dei comuni del cratere sismico avranno la priorità. E chi ha parlato in queste ore con Errani racconta di un modello di ricostruzione fondato sul legame tra cittadino e territorio. "Le persone hanno diritto di restare nella propria terra - è il ragionamento fatto con i suoi collaboratori. Un principio che vale non solo per i singoli comuni colpiti dal sisma, ma anche per ciascuna delle frazioni che li compongono". Un modello di cui Errani discuterà oggi con il premier e che farà da apripista al progetto Casa Italia, annunciato da Renzi pensando già all’obiettivo finale: "Il Paese deve cambiare anche nelle modalità di reazione alla tragedia. Siamo tra i più generosi e bravi nell’emergenza, dobbiamo diventarlo anche nella prevenzione e sul lungo periodo". La ricostruzione, quindi, ma anche il fronte delle indagini. La Procura di Rieti avrà a disposizione tutto il "supporto organizzativo di personale e mezzi" necessario per accertare le responsabilità penali connesse ai crolli degli edifici pubblici e privati che, nella sola Amatrice, hanno provocato oltre 250 vittime. Se necessario anche attraverso l’adozione di "misure straordinarie". Il vertice di ieri mattina a palazzo di Giustizia, nel capoluogo reatino, tra il procuratore capo Giuseppe Saieva, il procuratore e l’avvocato generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Salvi e Federico De Siervo, è servito ad assicurare ai magistrati sabini pieno sostegno nella prosecuzione delle indagini. Personale amministrativo aggiuntivo sarà distaccato negli uffici giudiziari del capoluogo reatino. Ma "valuteremo se sarà necessario distaccare anche del personale giudiziario", ha chiarito il pg. Che si è attivato anche per consentire l’utilizzo del database della Procura nazionale antimafia. Da dove ieri si è levato l’allarme del procuratore nazionale Franco Roberti. "Bisogna lavorare molto sulla prevenzione, per evitare attenzioni e appetiti malevoli delle organizzazioni criminali sulla ricostruzione - ha avvertito. Soprattutto sui lavori di urgenza, nella fase immediatamente precedente alla ricostruzione vera e propria". L’inchiesta è ancora all’inizio, come ha ribadito Saieva, limitandosi ad un "avrete notizie" circa la possibilità di acquisire una superperizia da affidare a degli esperti per accertare la qualità e la potenza del terremoto che ha distrutto Accumoli e Amatrice. Quel che sembra certo è che Rieti non seguirà il modello L’Aquila: nessun processo agli esperti come accadde proprio nel capoluogo abruzzese sul mancato allarme alla popolazione. Per abbreviare i tempi della rimozione delle macerie e accelerare quelli della ricostruzione, il lavoro della polizia giudiziaria "sarà assistito da consulenti tecnici" per l’acquisizione del materiale probatorio. Terremoto. Le macerie della democrazia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 6 settembre 2016 Perché nessuno ha proposto di usare per le zone terremotate il "jackpot" della spesa militare italiana? Un tesoretto che, secondo i dati ufficiali della Nato, ammonta a circa 20 miliardi di euro nel 2016, 2,3 miliardi più del 2015: in media 55 milioni di euro al giorno. "Solo macerie, come se ci fosse stato un bombardamento", ha detto la presidente della Camera Boldrini visitando i luoghi terremotati. Parole su cui riflettere al di là dell’immagine. Di fronte alle scene strazianti dei bambini morti sotto le macerie del terremoto, come non pensare a tutti quei bambini (che la tv non ci ha mai mostrato) morti sotto le macerie dei bombardamenti ai quali, dalla Jugoslavia alla Libia, ha partecipato anche l’Italia? "Sembra di essere in guerra", racconta uno dei tanti volontari. In guerra, quella vera, l’Italia in effetti c’è già, bruciando risorse vitali che dovrebbero essere destinate a proteggere la popolazione del nostro paese dai terremoti, dalle frane e alluvioni che provocano sempre più vittime e distruzioni. Politici di aree diverse hanno proposto, in un impeto di generosità, di destinare alle zone terremotate il jackpot del Superenalotto, 130 milioni di euro. Nessuno ha proposto però di usare a tal fine il "jackpot" della spesa militare italiana ammontante, secondo i dati ufficiali della Nato, a circa 20 miliardi di euro nel 2016, 2,3 miliardi più del 2015: in media 55 milioni di euro al giorno, cifra in realtà più alta, includendo le spese extra budget della difesa addebitate ad altri ministeri. Stando comunque ai dati della Nato, l’Italia spende in un solo giorno per il militare più di quanto ha destinato il governo per l’emergenza terremoto (50 milioni di euro), cinque volte più di quanto è stato finora raccolto con gli sms solidali. Mentre mancano i fondi per la ricostruzione e la messa in sicurezza degli edifici con reali sistemi antisismici, per un piano a lungo termine contro i terremoti e il dissesto idrogeologico. Mentre i vigili del fuoco, di cui in queste occasioni si riconoscono formalmente i meriti, hanno organici, stipendi e mezzi del tutto inadeguati all’opera che svolgono, spesso a rischio della vita, non solo nelle emergenze quotidiane, ma nei sempre più frequenti disastri "naturali" (le cui catastrofiche conseguenze sono in gran parte dovute a responsabilità umane). Non mancano invece i finanziamenti e i mezzi per le forze speciali italiane che operano nella nuova guerra in Libia. A Pisa, dove due anni fa è stato costituito il Comando delle forze speciali dell’esercito (Comfose), si sono intensificati da mesi i voli dei C-130J che partono per ignote destinazioni carichi di armi e rifornimenti. Tali operazioni sono segretamente autorizzate dal presidente Renzi scavalcando il parlamento. L’articolo 7 bis della legge n. 198/2015 sulla proroga delle missioni militari all’estero conferisce al presidente del consiglio facoltà di adottare "misure di intelligence di contrasto, in situazioni di crisi, con la cooperazione di forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa", col solo obbligo di riferirne formalmente al "Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica". In altre parole, il presidente del consiglio ha in mano forze speciali e servizi di intelligence da usare in operazioni segrete, con il supporto dell’intero apparato militare. Un potere personale anticostituzionale, potenzialmente pericoloso anche sul piano interno. Mentre ostenta commozione al funerale delle vittime del terremoto, elargendo promesse sulla ricostruzione, il presidente del consiglio Renzi, nel quadro della strategia Usa/Nato, porta l’Italia in altre guerre e a una crescente spesa militare a scapito delle esigenze vitali del paese. Spesa a cui si aggiunge quella segreta per le operazioni militari segrete da lui ordinate. Mentre, sulla promessa ricostruzione delle zone terremotate, Renzi assicura la "massima trasparenza". Migranti. Calais, l’autostrada contro la giungla di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 6 settembre 2016 Catena umana di camionisti, commercianti e operai sulla A16 chiede l’evacuazione immediata dei 10mila rifugiati presenti: "Danneggiano gli affari". Campagna elettorale sui profughi: il Fronte Nazionale si precipita alla protesta. Il governo organizza pullman per redistribuirli sul resto del territorio francese. Nei saloni vellutati di Hangzhou, dove la Cina ha accolto il G20, gli europei hanno alzato la voce: le capacità di accoglienza dei rifugiati nella Ue "hanno quasi raggiunto il limite", ha riassunto il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. Al vertice che si terrà negli Usa questo mese su questo problema dovrebbero concretizzarsi alcune risposte, come un’intensificazione internazionale degli aiuti e una condivisione dei costi. Ma in Europa l’impazienza cresce. Un esempio è quello che accade in queste ore a Calais, uno dei grossi punti di frizione e di disperazione. Ieri è iniziata una mobilitazione della popolazione. L’autostrada A16 è stata bloccata da una catena umana e i manifestanti, ricevuti ieri in Prefettura, non hanno intenzione di mollare prima di avere dal governo una data precisa per l’evacuazione della parte sud della "giungla" (la parte nord è stata evacuata lo scorso febbraio). La protesta degli abitanti ha unito fette della popolazione che di solito sono lontane, sotto lo sguardo deluso e inquieto degli umanitari che si occupano dei migranti: commercianti, camionisti, lavoratori e sindacati. Tutti denunciano le conseguenze economiche sul territorio dovute alla presenza della giungla. "Non vogliamo stigmatizzare nessuno, non siamo contro i rifugiati, siamo stati i primi ad accoglierli - spiega una commerciante - ma qui la situazione economica è drammatica". Un ristoratore afferma che rischia il fallimento, perché ormai gli inglesi non vengono più a Calais. Altri abitanti raccontano la paura, dei camionisti con un gilet rosso con la scritta "Amo Calais" hanno presentato uno striscione: "Siamo camionisti, non passeurs di migranti", per denunciare i tentativi di salire sui Tir da parte dei rifugiati che sperano di poter raggiungere la Gran Bretagna. Dei lavoratori del porto, anche della Cgt, hanno messo delle barriere all’entrata del Tunnel e organizzato un barbecue: "L’occupazione è in calo - spiega uno di loro - qui ci sono famiglie che vivono sul porto, ma a causa degli attacchi ai camion molti trasportatori non vogliono più passare per Calais". Il Fronte nazionale, ieri, si è precipitato a prendere le difese della popolazione. Il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, che alcuni giorni fa era stato di nuovo a Calais, continua a promettere lo smantellamento, ma non può dare date certe. Per la sindaca di Calais, Natacha Bouchart (dei Républicains), "o il governo non prende la misura della gravità della situazione oppure non sa cosa fare e questa non-azione è un’ammissione di impotenza". Il presidente della Regione Nord, Xavier Bertrand (Républicain) chiede che venga aperto un campo in Gran Bretagna per chi vuole chiedere l’asilo oltre-Manica. I rifugiati di Calais sono entrati nella campagna elettorale. Nicolas Sarkozy, che quando era ministro degli Interni nel 2003 aveva firmato gli accordi del Touquet con Londra (soldi dalla Gran Bretagna, 30 milioni l’anno, per gestire a Calais i candidati all’emigrazione oltre-Manica) adesso denuncia l’intesa. Anche Alain Juppé chiede a Londra di gestire in prima persona la propria immigrazione. Ma la soluzione sembra un’equazione impossibile. A Parigi sta per essere aperto un luogo di accoglienza che rispetta le norme Onu, che sarà seguito da un altro con dei posti per le persone più fragili. La ministra della Casa, Emmanuelle Cosse, ha assicurato che in Francia i posti nei Cao (Centri di accoglienza e orientamento) saliranno da 2mila a 5mila entro fine mese. Ma non basta. Ormai, a Calais, intasati in un terreno dimezzato, ci sono tra i 7mila e i 10mila migranti (6900 per le Prefettura, più di 9mila per gli umanitari). L’associazione France Terre d’asile ha recensito a fine agosto 862 minorenni isolati, a fine mese dovrebbe aprire una nuova struttura dedicata a loro. Ma la polizia impedisce ormai la costruzione di capanne in legno, così i rifugiati si intasano di nuovo sotto tende improvvisate. L’estate è stata drammatica, manca l’acqua, i bagni sono insufficienti. Funziona il centro Jules Ferry, che distribuisce sui 4mila pasti al giorno, dove i rifugiati possono fare una doccia. Ma il governo frena e così i posti mancano sempre. Lo scontento e la protesta dilagano, sia tra la popolazione che tra i rifugiati, dove le tensioni crescono tra persone di diversa provenienza (nella notte tra il 22 e il 23 agosto un sudanese è stato pugnalato in una rissa con degli afghani). Il governo organizza dei pullman, per redistribuire i rifugiati sul territorio francese. Ma accetta di abbandonare Calais solo chi ha rinunciato ad andare in Gran Bretagna e ha deciso di iniziare le pratiche di richiesta d’asilo in Francia. La burocrazia è pesante e lenta. Le regole di Dublino continuano a valere, anche se la Francia non le applica a Calais: sono quindi un freno all’accettazione di spostarsi in un’altra regione francese, dove invece restano in vigore. Una buona parte dei rifugiati sono stati schedati in Italia e rischiano così di venire rispediti nel paese di primo sbarco. Migranti. Livorno, i profughi bloccano la strada. "Manca l’acqua" e scatta la rivolta di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 6 settembre 2016 Denunciati tentativi di aggressione nei confronti di alcuni passanti. Pochi giorni fa un’altra protesta davanti alla prefettura per chiedere il pagamento dei contributi giornalieri. Il sindaco Nogarin condanna le violenze ma anche le inadempienze. Stavolta c’è stata una mezza rivolta nell’antico quartiere della Venezia, a Livorno. Una cinquantina di profughi ha protestato violentemente bloccando una strada pare per la mancanza di acqua nella struttura dove sono stati ospitati e minacciando i passanti. Secondo una prima ricostruzione, ci sarebbe stato un tentativo di aggressione nei confronti di alcune persone che erano stati bloccate con auto e scooter dai manifestanti. Qualcuno avrebbe raccontato di aver visto alcuni manifestanti lanciare pietre. Il blocco - I profughi hanno bloccato il traffico in via della Cinta Esterna, una delle strade nevralgiche della città, dove passa il traffico per il porto e nel periodo estivi dei turisti che raggiungono i traghetti per l’Elba, la Corsica e la Sardegna. I manifestanti hanno anche utilizzato biciclette che sono state semidistrutte e lasciate sull’asfalto. Pochi giorni i migranti avevano inscenato un’altra protesta, stavolta pacifica, davanti alla prefettura di Livorno. "Non abbia ricevuto i contributi che ci spettano negli ultimi due mesi, per un totale di 125 euro", aveva detto uno dei loro rappresentanti. La protesta è proseguita per un paio di ore poi, grazie anche alla mediazione delle forze di polizia e del Comune, gli animi si sono placati. L’intervento del sindaco - In serata il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, (M5S) in una nota ha criticato la protesta dei migranti. "La violenza è da condannare in tutte le sue forme - ha scritto Nogarin - e non esiste alcuna giustificazione al comportamento di queste persone che per ore hanno paralizzato il traffico in mezza città e sono arrivate persino ad aggredire i passanti. È altrettanto irresponsabile però lasciare 50 persone senza acqua". Poi Nogarin ha criticano anche il comportamento di chi doveva offrire i giusti servizi ai profughi. "Secondo le prime informazioni la cooperativa romana che aveva in appalto fino a poco tempo fa la gestione del centro di via Sant’Anna - ha riferito il sindaco - ha accumulato un debito di migliaia d’euro con Asa, la municipalizzata dell’acqua. Tutto questo è vergognoso e inaccettabile, ma non giustifica in alcun modo le scene di violenza cui hanno dovuto assistere oggi i livornesi. Una situazione potenzialmente esplosiva che non è degenerata solo grazie al pronto intervento della prefettura e delle forze dell’ordine, cui va il nostro ringraziamento". Migranti. È la nostalgia a spiegare la radicalizzazione dell’Europa di oggi di Adriano Sofri Il Foglio, 6 settembre 2016 C’è una categoria essenziale per chi voglia capire la radicalizzazione xenofoba dell’Europa e, reciprocamente, la radicalizzazione identitaria di migranti extraeuropei in Europa. È la nostalgia. È fin troppo scontato che la nostalgia sia un sentimento fondamentale della destra politica, e specialmente dell’estrema destra, caratterizzata da un lutto antimoderno e dalla paura che persone straniere ed estranee profanino, deridano e devastino l’eredità del passato. Questa nostalgia ha un rapporto stretto con la devozione alla natura, alla sua lunga durata e alla sua vagheggiata purezza, e attraversa così il ruralismo reazionario come una vasta corrente ecologista. Si sa che lo stesso neologismo di "nostalgia" fece ingresso nel 1688 a nominare la vera e propria malattia che colpiva e faceva cantare i soldati svizzeri troppo a lungo lontani dalla propria casa e dai propri posti. Prima di allora, nella Guerra dei trent’anni una malinconica patologia analoga dei soldati spagnoli veniva chiamata "el mal de corazòn". In Italia l’età immediatamente successiva al fascismo regalò a chi gli restava legato l’epiteto di "nostalgici", ridotto a un’accezione miseramente politica. E non è un caso che nelle formazioni demagogiche di estrema destra che si vanno gonfiando in Europa l’ingrediente della nostalgia politica più ottusa e scandalosa, fino all’esplicito neonazismo e al culto di uniformi e gesti, sia così vistoso. Tuttavia il problema con la nostalgia è molto più grosso e coinvolgente che non la sua relegazione a sinonimo di neofascismo. La nostalgia è un sentimento nobile e universale. Oggi, riempire quel sentimento col richiamo a un passato politicamente compromesso e spesso infame è un errore consolante e velleitario. La nostalgia tiene il campo non per il rimpianto di un mondo perduto, reale o immaginario, ma per la paura incombente di un presente minacciato di perdersi. È questo a spiegare il successo della cristallizzazione elettorale della nostalgia in luoghi simbolici della tradizione e insieme radi di stranieri: una proiezione dell’antisemitismo senza ebrei, che riesce a essere così fremente. Oggi si ha nostalgia non del mondo di ieri perduto e illusoriamente richiamato ma del mondo presente che si sente insidiato e minacciato e comunque votato alla fine. I migranti, in carne e ossa o nel fantasma, incarnano il nemico che la globalizzazione altrimenti dissolve in una nuvola losca e anonima. Paradossale se non ridicolo com’è, il migrante più disgraziato e spogliato passa per un emissario della finanza sovranazionale. Per questo i protocolli antisemiti servono ancora così bene alla bisogna. La nostalgia, l’attaccamento ai luoghi e alla storia, alle date incise sui monumenti e sui portoni delle case, sa anche sfuggire al ricatto della xenofobia e della chiusura, ma fa fatica. Sente che la minaccia è vera, sceglie di non cederle anteponendole il valore prevalente della fraternità umana e dell’accoglienza, non di rado tenta di anestetizzare la propria ferita persuadendosi della colpa antica e attuale della propria parte di mondo e del proprio modo di vivere nella tragedia delle vittime di oggi. Si rassegna a passare sopra, se non a vergognarsi delle date scolpite sulle proprie cattedrali e sui portoni delle proprie case. Oppure sente il cuore spezzato fra l’attaccamento alla lunga eredità di cose e di affetti e il ripudio inumano del prossimo che gli ingombra la strada. Una sottile frontiera psicologica separa le avanguardie della nostalgia mutata in cattiveria e aggressione, che supera il ventuno per cento elettorale nel Meclemburgo, e sfiora o prende la maggioranza altrove, da un vasto e vario centro renitente all’aggressività e all’odio, ma sensibile alla paura e al dolore per la perdita, alla nostalgia grata agli antenati e premurosa coi figli. Questa è solo una faccia del dilemma. La nostalgia colora infatti anche il destino dei nuovi arrivati. Siamo abituati alla distinzione, spesso un rovesciamento, fra le prime generazioni e le successive. Impegnate, le prime, a farsi accettare e dunque ad accettare con docilità se non con entusiasmo il nuovo mondo cui sono arrivate. Inclini, le seconde e le terze, a ripudiare la mezza integrazione ricevuta in concessione e a cercarsi radici alternative, secondo l’offerta del mercato delle identità dei bigottismi e del senso della vita. Anche i più convinti fautori e collaboratori dell’integrazione, anche quelli che confidano nella ricchezza promossa dall’incontro e dalla mescolanza, non possono aspettarsi che siano i nuovi arrivati a difendere un retaggio di memorie e tradizioni che la velocità prepotente del mondo globale distrattamente spazza via. L’amore per Amatrice che fa dire a tanti svaligiati di non voler abbandonare quelle pietre, magari contro la ragionevolezza; mentre un uomo afghano è venuto a piangere su quelle pietre in cui è sepolto il suo giovane fratello, che non aveva più il suo paese, e non ne aveva ancora un altro, morto in una terra di nessuno, morto nessuno in terra d’altri. Anche i nuovi arrivati delle guerre, delle persecuzioni e delle carestie che oggi fanno saltare i nervi d’Europa saranno disposti, nonostante i muri, i fili spinati, gli sgambetti, le botte, le minacce, le derisioni, le umiliazioni, anche questi nuovi arrivati si affanneranno a mostrarsi grati, a imparare a somigliare ai loro ospiti, a cantare con più fervore gli inni nazionali. Molti l’hanno già fatto quando ancora erano a casa e avevano una casa, indossando magliette delle squadre di Barcellona e di Monaco, e continueranno a farlo una volta arrivati davvero a Monaco o Barcellona. Si può diventare presto romanisti o ferraristi, altra cosa è visitar chiese come chi vi ha camminato da bambino come a casa propria, leggere la storia sulle mura di un palazzo comunale, avvertire un’eco dantesca nella loquela di un venditore ambulante. I nuovi arrivati, alla seconda e alla terza generazione - già alla generazione dei bambini che partoriscono nelle stive dei barconi, che si portano in braccio dalla Macedonia alla Serbia all’Ungheria al Brennero - saranno invasi dalla nostalgia di luoghi e case e lingue e costumi che hanno perduto violentemente, da cui sono stati espulsi e braccati, che erano la terra promessa loro prima del massacro e della cacciata. Impareranno forse la storia del Rinascimento fiorentino e dell’Illuminismo parigino e delle libertà degli svizzeri, ma conosceranno certo nei dettagli il rifiuto e la paura che l’Europa oppose al loro rifugio, i partiti che se ne impadronirono e ne dissolsero l’unione, i dirigenti provvisori che vollero comprare in soldi la loro estromissione. Avranno nostalgia del proprio mondo perduto, non solo per dare un fondamento e un mito alla propria rivalsa, ma perché negli umani, come negli altri animali, resta una memoria dei luoghi, del vento che vi soffia, dell’aria che vi si respira, di suoni e canzoni. Due nostalgie crescono e si fanno prepotenti nell’Europa di oggi, e si contrappongono fino ad aggredirsi ed escludersi, confiscando e svuotando la nostalgia comune per la terra cui tutti apparteniamo e che da tutti e per tutti è minacciata. Divisi dalle nostre nostalgie, le stiamo rendendo opposte e nemiche, e ci ammazzeremo a vicenda in loro nome. Se sapessimo fraternizzare in nome della nostalgia comune per la terra minacciata, per la nostalgia del futuro che è la vera terra promessa e rubata delle generazioni cui affidiamo il senso del nostro passaggio, diventeremmo un buon partito. Colombia. Accordo bilaterale fermo, detenuto italiano malato resta in carcere Il Tirreno, 6 settembre 2016 L’avvocato: era stato concesso il trasferimento per motivi umanitari. In carcere in Colombia, dopo una condanna a 21 anni e 4 mesi di reclusione per detenzione di droga, gravemente malato e considerato invalido al 100% per i postumi di un’ischemia cerebrale, ma non può rientrare in Italia nonostante il parere positivo per ragioni umanitarie espresso il 19 febbraio 2015 dal ministero di Giustizia colombiano perché tra i due Paesi non esisteva ancora un accordo bilaterale sui trasferimenti di detenuti. È la storia di Manolo Pieroni, 35 anni, nato a Pisa e residente a Segromigno in Monte (Lucca) resa nota dal suo legale, l’avvocato Giuseppe Lipera di Catania, che chiede con una lettera "un intervento" ai ministri della Giustizia, dell’Interno e degli Affari esteri. "Anche alla luce - spiega il penalista - del fatto che Pieroni e la sua compagna sono stato informati, telefonicamente, dal governo italiano dell’avvenuta stipula, il 25 gennaio 2016, di un accordo bilaterale tra i due Paesi. Purtroppo passeranno anni prima della sua entrata in vigore. Pieroni sta vivendo una situazione personale tragica, oltre che a essere stato condannato ingiustamente perché innocente - aggiunge l’avvocato Lipera - due mesi fa ha perso il madre e la sorella affetta da grave malattia. È in un carcere che ospita 2.500 detenuti a fronte dei 1.000 previsti, vive in condizioni igieniche precarie ed stato accoltellato al braccio durante aggressioni per futili motivi". Per questo il legale chiede un "intervento del governo per ottenere il rientro in Italia di un uomo ormai ridotto allo stremo delle forze". Egitto. Consulente dei Regeni, la libertà è un’illusione di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2016 Tutto da rifare per le sorti di Ahmed Abdallah, l’attivista egiziano e consulente dei legali della famiglia Regeni in Egitto. La sua scarcerazione, disposta sabato scorso dalla Corte del Cairo, è stata annullata dopo l’appello presentato dalla Procura della Capitale. Confermata, dunque, per altri 45 giorni la custodia cautelare per Abdallah e per altri quattro attivisti. La Corte Penale del Cairo Est ha accolto il ricorso contro le scarcerazioni, rendendo di fatto vane le scene di gioia ed euforia scoppiate sabato dentro l’aula del tribunale. Abdallah resta in carcere e la sua detenzione si allunga di un mese e mezzo, a meno di clamorosi sviluppi, aggiungendosi ai quattro mesi e mezzo già scontati. L’attivista egiziano e leader della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), ong che si occupa di persone scomparse (spesso sparizioni forzate) in Egitto, era stato arrestato il 25 aprile: da ricordare che l’arresto non è legato al caso Regeni, ma alla partecipazione a una protesta contro la cessione di alcuni possedimenti egiziani: è accusato di istigazione alla violenza per rovesciare il governo: "Una pessima notizia quella che abbiamo appreso oggi (ieri, ndr) dalla Corte penale - commenta amaro Mohamed Lotfy, della ong Ecrf, vice e grande amico di Abdallah. In queste settimane siamo sempre stati vicini ad Ahmed e alla notizia della scarcerazione, dietro pagamento di una cauzione (10.000 lire egiziane, circa mille euro, ndr), sabato avevamo esultato. Era chiaro che la Procura avrebbe fatto ricorso, ma il parere della Corte ci aveva fatto ben sperare. La battaglia per la libertà riprende, noi non ci arrendiamo". Sabato scorso, mentre la Corte penale di Cairo Est disponeva la sua decisione, poi ribaltata, la polizia egiziana iniziava le indagini sulla morte misteriosa di una turista italiana. Secondo la ricostruzione ufficiale, la donna, originaria di Jesi, in provincia di Ancona, si sarebbe suicidata lanciandosi dal balcone della sua stanza al 17° piano del lussuoso Conrad Hotel, lungo la Corniche del Nilo, a tre chilometri da piazza Tahrir. Il pensiero è corso subito alla tragedia di Giulio Regeni, il cui cadavere è stato ritrovato il 3 febbraio al lato dell’autostrada per Alessandria d’Egitto. Tesi suffragata dal fatto che le autorità diplomatiche italiane, "orfane " da marzo dell’ambasciatore (nel frattempo quello "ritirato" dalla Farnesina, Maurizio Massari, è stato sostituito da Giampaolo Cantini, non ancora sbarcato al Cairo) sono state avvisate il giorno dopo. Eppure l’ipotesi del suicidio, nonostante tutto, sembra prendere sempre di più il sopravvento, sebbene non si giustifichi il silenzio assoluto dal ministero degli Esteri. La famiglia della vittima sarebbe stata avvisata. Di lei si sa poco, a parte le origini marchigiane e la presenza al Cairo legata a un fratello impegnato in un’impresa turistica nella Capitale. Le telecamere di sorveglianza dell’hotel a cinque stelle avrebbero confermato il gesto volontario, avvalorato anche da alcuni appunti lasciati dalla donna su un diario personale. Etiopia. Incendio nel carcere per detenuti politici, 23 morti di Edith Driscoll interris.it, 6 settembre 2016 21 prigionieri sono morti soffocati o calpestati nella calca, 2 sono stati uccisi mentre cercavano di fuggire. Sono 23 i morti nell’incendio in un carcere di massima sicurezza ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, in cui sono detenuti prigionieri politici. Lo rende noto il governo etiope che ha confermato il numero specificando che nell’incendio scoppiato nel carcere di Qilinto, 21 prigionieri sono morti soffocati o calpestati nella calca seguita al divampare delle fiamme, mentre altri due sono stati uccisi mentre cercavano di fuggire. Alcuni media locali hanno invece riferito che numerose vittime, tra cui importanti oppositori, sono state uccise a colpi d’arma da fuoco dalle guardie carcerarie. Nel centro di detenzione si trovano numerose persone arrestate durante manifestazioni anti-governative in condizioni di detenzione terribili: nelle celle di 12-24 metri quadrati sono ammassati da 90 a 130 carcerati. Tra i detenuti, figurano il vicepresidente del Congresso nazionale, Gerba, il segretario generale aggiunto del suo partito, Tufa, il direttore del giornale Negere Ethiopia, Shiferaw, e il difensore dei diritti umani, Teressa. Negli ultimi mesi l’Etiopia è attraversata da un’ondata di proteste senza precedenti. In particolare nella regione di Oromia, dove vive la più importante etnia del Paese, moltissime sono state le manifestazioni da novembre dell’anno scorso. Proprio ieri l’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite aveva espresso "forte preoccupazione" per "l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti" in Etiopia. Egitto. Una ong denuncia la creazione di 13 nuove prigioni di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 settembre 2016 In Egitto dal 2013 ad oggi sono aumentate le prigioni. La ong The Arabic Network for Human Rights Information (Anhri) ha denunciato la costruzione di tredici nuove prigioni in Egitto dal 2013 ad oggi, anno della caduta dei Fratelli musulmani nel 2013. In questo modo gli istituti di pena sono aumenati di circa un terzo mentre altre tre strutture carcerarie sono in fase di costruzione. Prima della rivoluzione del 2011, che detronizzò l’ex rais Hosni Mubarak, nel Paese vi erano 43 carceri. (Nella foto l’ex presidente Morsi in prigione lo scorso 19 giugno AP Photo/Amr Nabil) Il responsabile della ong, Gamal Eid, ha riferito che due delle nuove strutture carcerarie potranno contenere fino ad un massimo di 15mila detenuti. "L’aumento del numero delle carceri significa un aumento della privazione delle libertà", ha sottolineato il gruppo. L’Egitto, prosegue la ong, può contare adesso su un totale di 504 luoghi di detenzione per i detenuti che includono vecchie e nuove prigioni, stazioni e dipartimenti di polizia. Brasile. Apac, le carceri dove i detenuti rinascono uomini di Stefano Leszczynski Radio Vaticana, 6 settembre 2016 Esiste una realtà carceraria in Brasile che punta tutto sulla riabilitazione e il reinserimento sociale del detenuto, partendo dall’assioma che la società diventa più sicura se chi ha commesso un delitto smette di essere un criminale. In Brasile, a partire dagli Anni 70 si è andato affermando un modello detentivo che prende il nome dall’associazione che lo promuove: APAC - Associazione di protezione e assistenza ai condannati. Nelle prigioni APAC non c’è polizia penitenziaria, non ci sono armi e i detenuti lavorano tutti. Il risultato è una bassissima percentuale di recidiva. A spiegarci bene di cosa si tratta è Jacopo Sabatiello, della ong internazionale Fondazione AVSI in Brasile partner di APAC. Le APAC - Tutto ha origine dall’intuizione di un avvocato e giornalista dalle lontane origini italiane, Mario Ottoboni. È lui, impegnato nella pastorale carceraria, a dare il via negli Anni 70 al modello delle APAC, strutture carcerarie che non sono gestite dalla Stato ma da un’associazione del terzo settore, senza la presenza di armi o di guardie penitenziarie. Una prigione che è cogestita da un’associazione e dagli stessi detenuti. Coinvolgimento della società - Cuore del metodo Apac è quello del coinvolgimento della società, condizione necessaria se si vuole utilizzare il periodo detentivo della pena, come un percorso di risocializzazione diretto a reintegrare i detenuti nella società. Altro punto forte di questo metodo è la partecipazione di volontari, che lavorano dentro queste strutture facendo assistenza in vari ambiti. Le Apac sono carceri vere e proprie - C’è un sistema di dura disciplina che regola le giornate. I detenuti si svegliano all’alba. Alle 7.30 c’è quello che chiamano il primo atto di socializzazione, che è una preghiera comune. Poi c’è la colazione, le attività lavorative fino a pranzo, poi ancora lavoro fino alle cinque e dopo si comincia a studiare per i vari diplomi; dopo la cena un breve momento di ricreazione e si va a dormire. Nelle carceri tradizionali, invece, i detenuti sono costretti a oziare per tutta la giornata. Successo nel recupero dei detenuti - Oggi in Brasile ci sono 50 di queste carceri, per un totale di circa 3mila detenuti. Si tratta di carceri piccole con un massimo di 200 persone proprio per favorire l’accompagnamento individuale di queste persone. L’uomo è al centro - All’entrata di ogni Apac c’è una scritta che recita: qui entra l’uomo, il delitto resta fuori. Quindi una particolare attenzione all’essere umano e alla sua innata dignità. La recidiva nelle carceri tradizionali si stima sia fra il 70 - 80%. Nelle APAC la recidiva è intorno al 20% e il costo di mantenimento di queste strutture a carico dello Stato è molto basso. Francia. Migliaia di cinesi in piazza contro il razzismo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 6 settembre 2016 Dopo l’assassinio di Zhang Chaolin, sarto ucciso ad agosto a Aubervilliers, manifestazione a Parigi: i franco-cinesi denunciano un "razzismo" crescente, che si fa sentire in strada, sul lavoro, ma anche a scuola. Grande protesta, domenica a Parigi, dei franco-cinesi. All’origine, l’assassinio di Zhang Chaolin, un sarto ucciso il 7 agosto a Aubervilliers, alla periferia di Parigi, in seguito a un’aggressione. "Liberté, égalité, fraternité et sécurité", con una scritta stampata su delle T-shirt bianche, hanno chiesto protezione. I franco-cinesi denunciano un "razzismo" crescente, che si fa sentire in strada, sul lavoro, ma anche a scuola: vogliono lottare "contro i pregiudizi" che colpiscono una comunità che è considerata molto lavoratrice, con famiglie ritenute ricche, con figli bravi a scuola. I franco-cinesi non hanno l’abitudine di protestare in piazza, ma quella di domenica è stata la quarta manifestazione dopo la morte di Chaolin, che ha creato uno shock. "È troppo tempo che stiamo zitti", affermano gli organizzatori, che denunciano un razzismo "anti-giallo". Nel corteo (15.500 persone secondo la polizia, 50mila per gli organizzatori), probabilmente per mancanza di legami creati nel tempo, le organizzazioni anti-razziste tradizionali avevano inviato una rappresentanza soltanto simbolica. I franco-cinesi vivono soprattutto in quartieri specifici, un po’ chiusi in se stessi, senza far parlare troppo di loro. Sono soprattutto presenti nel tessile, nell’artigianato, nei ristoranti. Le statistiche in Francia non registrano l’origine etnica, ma secondo alcune stime dovrebbero esserci 700-800mila franco-cinesi. Nel 2008, l’Insee ha recensito un po’ più di 80mila residenti nati nella Repubblica popolare cinese. La grande ondata di immigrazione cinese è stata negli anni 70, con 110mila rifugiati dal sud-est asiatico (dove vivevano forti comunità cinesi). Negli ultimi anni è in netto aumento la presenza di studenti universitari provenienti dalla Cina.