Ergastolo, lo scandalo quando la pena è davvero senza fine di Mario Chiavario Avvenire, 3 settembre 2016 Racconti di giudici e condannati, testimonianze del dolore che la prospettiva dell’annullamento di ogni orizzonte "di fuori" comporta. Tutto porta a riconsiderare l’istituto dell’ergastolo ostativo. Ha suscitato interesse e polemiche la scelta dei Radicali di tenere il loro congresso nel penitenziario di Rebibbia. È una sfida, se vogliamo, provocatoria ma coerente, con il rilievo da sempre dato dal partito alla questione carceraria e, a differenza di altre lanciate da quell’area politica, non meritava pregiudiziali ripulse: se si sceglie una sede come quella per dibattere sul come far "avanzare la Costituzione nelle carceri", perché dolersene? Meno felice, la richiesta, non a torto respinta nelle sedi competenti, di un’autorizzazione al trasferimento temporaneo, nella capitale, di una quarantina di detenuti iscritti al partito, taluni dei quali condannati per crimini gravissimi, affinché potessero prender parte di persona al congresso: la fondamentale libertà di partecipazione all’attività politica può ben incontrare dei limiti, a salvaguardia di altre esigenze non meno degne di tutela, tra le quali, preminente, quella della sicurezza pubblica e purché il relativo bilanciamento non richieda costi umani ed economici sproporzionati (così insegna anche la Corte europea dei diritti dell’uomo); ora, la partecipazione a un dibattito non passa necessariamente attraverso la presenza fisica e d’altronde è difficile negare che ad accettare la richiesta si sarebbero corsi grossi rischi, non bilanciabili se non apprestando eccezionali risorse di personale e di mezzi di controllo. In ogni caso, non devono essere dei timori artificiosamente alimentati a deviare l’attenzione dalla percezione delle dimensioni reali di problemi enormi. In particolare, sulla massima tra le pene carcerarie - l’ergastolo - siamo sicuri di essere sempre indotti a coglierne tutto il senso e tutta la portata? Certo, a detta di molti c’è poco da discutere. Almeno quando si tratta di colpevoli di efferati delitti, non ci sarebbe che un unico strumento, come contrappasso al crimine, risarcimento morale alle vittime e antidoto contro i rischi di pericolose recidive; "oggi che non c’è più la pena di morte...", a sradicare le "male piante", guai, insomma, a rinunciare alla loro separazione - quanto più inderogabilmente rigida e totale, ma soprattutto definitiva ("e buttare la chiave!") - dal resto della società... Quanto a chi la pensa altrimenti, si appoggia solitamente a una constatazione, che si vuole a sua volta sicura e tranquillizzante, seppur in tutt’altra direzione: ormai l’ergastolo non è più necessariamente - si dice e si ripete - il "carcere duro" di un tempo e non è neppure una reclusione propriamente "a vita", giacché, dopo 26 anni, chi vi è stato sottoposto può, in via di principio, fruire della liberazione condizionale; nessuno, dunque, in Italia, sarebbe irrimediabilmente condannato a finire i suoi giorni dietro le sbarre. Atteggiamenti, quantomeno, più problematici sono suggeriti, in forme inconsuete ma di forte presa non solo emotiva, da due recenti volumi, uno dei quali, solo da qualche mese in libreria, riprende già nel titolo - Ergastolani senza scampo - un’icastica espressione coniata da Adriano Sofri. Aperto da una prefazione di Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte costituzionale, vi si concentra l’attenzione su una realtà che smentisce l’assolutezza dell’assunto secondo cui in Italia non ci sarebbe più la prigione perpetua. È "l’ergastolo ostativo", riguardante quei detenuti che, condannati per reati gravissimi, non collaborino a smantellare le organizzazioni criminali di cui facevano parte: ne consegue l’esclusione dai "benefici" che la legge concede agli altri ergastolani e dunque anche dalla liberazione condizionale. Sulle "criticità costituzionali" che ne emergono si sofferma a fondo Andrea Pugiotto, docente dell’Università di Ferrara. In sintesi: "È comprensibile e ragionevole che, nei confronti degli autori di delitti di particolare gravità, il legislatore stabilisca regole di accesso ai benefici penitenziari più severe di quelle valevoli per la generalità degli altri condannati"; inaccettabile, però, "la previsione di una pena senza fine... adoperata come strumento di pressione" (per ottenere un comportamento altrimenti non obbligatorio) e operante "in modo indifferenziato". A dare sostegno al ragionamento del costituzionalista ferrarese è una ricerca empirica i cui risultati sono illustrati, in appendice al volume, da Davide Galliani, docente della Statale di Milano; ma stimolante, nei suoi chiaroscuri, appare soprattutto il contributo di una persona - Carmelo Musumeci - che la prospettiva di una porta del carcere chiusa per sempre l’ha sperimentata per oltre 20 anni: fino a quando, cioè, la magistratura non ha sentenziato che, per ragioni indipendenti dalla volontà di lui, erano venuti meno i presupposti per una sua utile collaborazione con la giustizia, divenendo perciò inesigibile la condizione richiesta al fine della concessione dei "benefici". Ritmato con cadenze che evocano quelle di monologhi e dialoghi teatrali, è un condensato di speranze, di delusioni, di rabbie, di disperazioni, proprie e altrui, scandite secondo i tempi, dall’alba alla notte, di una giornata che finisce spesso con il suggello di un sogno, "di non attraversare mai più una notte come questa". Musumeci non rivendica un’innocenza, che sa di non avere, per i crimini addebitatigli (in risposta alla domanda di un ragazzo, un giorno ebbe semmai a dire: "Sono nato colpevole. Sono quello che ho potuto essere, non quello che mi sarebbe piaciuto essere"). In modi spesso graffianti e urticanti, porta piuttosto una testimonianza delle varie, desolanti sfaccettature che la prospettiva dell’annullamento di ogni orizzonte "di fuori" comporta, nella vita individuale e nelle relazioni intersoggettive di una persona (comprese quelle marcate di più intensa affettività), con conseguenze di cui si stenta sovente a scorgere un rapporto con il tipo di crimine commesso e una coerenza con quel fine "rieducativo" che l’art. 27 della Costituzione vorrebbe proprio della pena. Ripulse violente della situazione, scoraggiamenti, impegni a risalite, nuovi abbattimenti materiali e morali: è un vissuto intessuto di ombre sinistre e tragiche ma non del tutto privo di luci, anche quello che emerge dall’esperienza di un altro ergastolano, filtrata dalla mano di Elvio Fassone nel suo Fine pena ora, da poco giunto alla quarta edizione. Non manca, nemmeno qui, una sezione più strettamente "giuridica", in cui l’autore, già magistrato e senatore della Repubblica, formula proposte di riforma normative e organizzative, badando anche a "non dimenticare Abele" (seppur non in contrapposizione ma in armonia con quanto fare "per Caino"). Ciò che più vi risalta è però quanto precede, costruito quasi per intero sulla scorta di un’ultra-venticinquennale corrispondenza epistolare tra Fassone stesso e "Salvatore", in larga parte trascritta letteralmente (compresi gli errori di ortografia del detenuto). E ad imprimervi una peculiarità inconfondibile è il fatto che l’uno dei due interlocutori sia stato il presidente del maxiprocesso di assise da cui è scaturita la condanna dell’altro. Pure qui, nessuna pretesa d’innocenza da parte dell’ergastolano, esponente di spicco di un clan mafioso e responsabile di numerosi omicidi nell’ambito di una feroce guerra per bande. Piuttosto, l’insoddisfatto desiderio di far qualcosa perché i giovanissimi nipoti, già attratti nelle spire della malavita, non vi rimangano definitivamente impigliati ("gli direi di studiare, di imparare ha fare un lavoro, altrimenti finiscono dove sono finito io"). E dall’altra parte - quella del giudice - niente, mai, da rinnegare, neppure circa la severità della condanna inflitta. Ma interrogativi, sì, e moltissimi, a partire dal turbamento suscitato da un’affermazione di Salvatore, pronunciata in una pausa di quel processo durante il quale egli aveva via via abbandonato l’arroganza dei primi giorni ("se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo"). Ne verrà un forte stimolo, per il giudice, a prendere lui per primo la penna, una volta concluso il processo, e ad avviare un rapporto che sempre più si apre, dall’altra parte, anche alle più struggenti confidenze, non in vista di appoggi nella ricerca di indebiti privilegi ma piuttosto come espressione di una richiesta, a volte disperata a volge fiduciosa, di una "paternità morale" nel senso migliore dell’espressione. Fine pena ora s’intitola il libro... Ma non è la registrazione di uno sbocco felice - antitetico al "fine pena mai" degli "ergastolani senza scampo" - che la vicenda abbia già avuto. Fissa invece il rischio di una conclusione tragica, perché la narrazione inizia e si chiude sulla notizia di un tentativo di suicidio, fortunatamente sventato ma rivelatore, qui più che mai, della frustrazione di un’esistenza dopo l’ennesimo scacco conseguito a uno sforzo di lottare in positivo per sé e per gli altri e di ricominciare ogni volta daccapo. È però ancora il giudice a lasciare aperta una fessura alla speranza, scrivendo, a conclusione di tutto, "Ora tocca me; tocca me essergli padre. Raccontare la sua storia è un po’ risarcirlo e accompagnarlo ancora. E, forse, metterlo al riparo dalla sua disperazione". Quei 44 ergastolani ostaggio dell’antimafia populista di Giuseppe Rossodivita* Il Dubbio, 3 settembre 2016 "Boss e stragisti al Congresso dei Radicali? Provocazione spudorata". Così il titolo di un articolo su Il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa che, come rivendicato successivamente dalle colonne dello stesso giornale, ha bloccato il trasferimento da parte del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), di 44 ergastolani presso il carcere di Rebibbia per consentirgli di partecipare al 40° Congresso (da qualche ignorante chiamato raduno) del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Bene, l’Italia è salva, viva Il Fatto Quotidiano. Purtroppo, al di là delle autocelebrazioni del giornale di Travaglio, non è così. La vicenda è invece paradigmatica di una sottocultura che ha condizionato negativamente la crescita di un paese che sul punto da anni non compie altro che passi indietro. Sulla spinta di questa sottocultura populista e che fonda il proprio successo sull’ignoranza, madre e padre delle paure di chi in questa condizione viene mantenuto, l’Italia non solo non è salva, ma sta messa decisamente male. Allora cerchiamo di fare un po’ di informazione, quella che, come da prassi in questi casi, è stata fatta scientificamente mancare. Il trasferimento dei detenuti ergastolani, diversi ex 41 bis, era stato richiesto nell’ambito di un progetto cui questi detenuti hanno aderito denominato "Spes contra Spem", che si potrebbe tradurre con la frase per cui non basta avere speranza ma occorre essere speranza, farsi speranza in prima persona, con il proprio agire quotidiano, come ripetuto quasi ossessivamente negli ultimi anni da Marco Pannella. Con tutti questi detenuti si sono tenuti diversi incontri, ai quali anche chi scrive ha partecipato, quale Segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei che affianca Nessuno Tocchi Caino nella battaglia volta a far accertare l’incostituzionalità dell’ergastolo cosiddetto "ostativo". Cos’è l’ergastolo ostativo? È quell’ergastolo che esiste, ma che per finalità ora editoriali, ora elettorali, viene negato che esista. Se chiedete ad un passante per strada com’è l’ergastolo in Italia, vi risponderà che in Italia l’ergastolo non c’è, perché tanto prima o poi tutti escono di galera. Ovviamente non è così, ma far credere il contrario alimenta paure che poi determinano vendite di giornali e consensi elettorali per chi si propone come salvatore della patria, essendone invece il boia. L’ergastolo ostativo è quell’ergastolo che viene comminato per aver commesso particolari tipi di delitti di mafia, che impediscono di godere di qualsiasi beneficio penitenziario legato ad un percorso di rieducazione e reinserimento. L’ergastolo ostativo è quell’ergastolo che porterà queste persone, un migliaio circa, ad uscire di galera, come si usa dire con cruda espressione, solamente "con i piedi in avanti". È la morte per pena, molto simile alla pena di morte. A meno che non barattino la loro vita con quella di qualcun’altro: potrebbero uscire vivi, gli ergastolani ostativi, solo se "collaborando" facciano chiamate di reità nei confronti di altri. Solo a quel punto le porte del carcere si potrebbero aprire. Ma "collaborare" nell’unico modo oggi preso in considerazione dallo Stato, facendo cioè incarcerare altri, non sempre è possibile, magari anche volendolo, per mille diverse ragioni, basti pensare alle ritorsioni nei confronti di figli e familiari tipici della criminalità organizzata. Senza contare che una "collaborazione" determinata da motivi egoistici ? non morire in carcere ? non necessariamente risulta sincera o veritiera, potendo rivelarsi calunniosa e non necessariamente restituisce alla società una persona migliore: ma questo ai Travaglio d’Italia non interessa, interessando loro solo la certezza della virile vendetta dello Stato, anche se contraria alla Costituzione. Il punto però è che il problema di questi detenuti è un problema del nostro Paese. Con il sistema attuale le mafie prosperano. È un dato di fatto. La storia e la cronaca testimoniano che le mafie non si sconfiggono solo a colpi di sentenze: per ogni mafioso condannato altre giovani leve sono pronte a prenderne il posto, essendo cresciute nel loro mito. Ciò che alimenta le mafie è una vera e propria sottocultura, che trae la sua forza dalle deteriori condizioni economiche, sociali e culturali in cui larghe fette di Paese vengono mantenute, anzitutto dalle mafie stesse, anche quando indossano il "vestito buono" della politica politicante. I 44 detenuti iscritti al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito sono stati assassini e stragisti, ciascuno almeno venti se non trenta anni fa. Ora sono altro, lo sono divenuti giorno dopo giorno, nei venti o trent’anni di reclusione che hanno subito e vorrebbero poter esser testimoni e testimonial di una dissociazione - come quella che portò alla sconfitta del terrorismo - che lo Stato invece sino ad ora si ostina a non prendere in alcuna considerazione. Per lo Stato o collabori o muori in carcere: questo è il modello fallimentare con cui combattere i fenomeni mafiosi. Il messaggio culturale che questi 44 detenuti potrebbero invece lanciare ? e avrebbero potuto lanciare dal Congresso del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - è dirompente, soprattutto nei loro territori di provenienza, soprattutto per quelle giovani leve che oggi li considerano come esempi in quanto boss, killer o stragisti: la cultura mafiosa è sbagliata, è sottocultura, c’è un altro modo per poter vivere da uomini e donne in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia ed è un modo che ripudia quella sottocultura mafiosa e sposa la legalità su cui solo si può fondare la pacifica e civile convivenza, quella legalità che solo lo Stato può garantire. Firmato ex boss ed ex assassini di mafia. Così, ancora una volta, la sottocultura dell’antimafia populista e di facciata si è contrapposta ad un’altra sottocultura, quella mafiosa. È il Paese, e non certo i Radicali o i 44 detenuti, ad aver perso un’occasione. Per ora. Perché essere speranza di lotta alla mafia - come hanno voluto essere con il coraggio civile maturato in decenni di detenzione questi 44 detenuti - significa non stare lì ad aspettare che qualcun’altro combatta la mafia per loro o per noi, magari solo con quegli strumenti messi in campo sino ad oggi e che hanno garantito alle mafie, come alle anti-mafie di facciata, lunga vita e prosperità. *Segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei Radicali: al congresso di Rebibbia nel mirino il "fine pena mai" Agi, 3 settembre 2016 Ieri la seconda giornata di congresso per i Radicali che hanno scelto il teatro del carcere romano di Rebibbia per la prima assemblea straordinaria che si svolge dopo la scomparsa di Marco Pannella. Il futuro del partito transnazionale e le scelte da operare, ma anche l’eredità materiale e l’elezione del segretario, del tesoriere e del presidente, sono i temi sul tavolo della tre giorni che si concluderà sabato e che ieri si è aperta con l’intervento del Guardasigilli, Andrea Orlando. Sullo sfondo l’ombra di una possibile scissione. Ma non poteva mancare il tema delle carceri e del fine pena mai, "protagonista", in questa seconda giornata, anche negli interventi di alcuni detenuti sul fine rieducativo della pena. E in quello della radicale Rita Bernardini "Sono uno dei tanti cosiddetti uomini ombra", ha sottolineato al microfono Giuseppe all’ergastolo. "Che servono queste belle parole che si dicono", che serve fare "un percorso di studio" o lavorare, ha detto ancora. "Rimpiango che sia stata abolita la pena di morte a questo punto - ha "forzato" in un passaggio del suo intervento - Se fosse ripristinata allora spero essere il primo a essere giustiziato, magari fucilato nella pubblica piazza e guardare negli occhi non chi sparerebbe ma chi mi ha messo qui dentro all’ergastolo". "Non sono un ergastolano italiano o straniero", ha detto Fabio e ha sottolineato: "ancora nel terzo millennio si assiste a condanne all’ergastolo ostativo" ma "senza speranza non vi è futuro". Si deve "partite dal termine vita umana come valore anche per chi ha commesso reato", ha insistito. "Non è un caso che siamo qui, che siano intervenuti il ministro della Giustizia, il capo del Dap, il direttore del carcere, il comandante dell’Istituto e il cappellano. Non è un caso che siano intervenuti i detenuti" iscritti, ha sottolineato Rita Bernardini. "È il giorno dopo giorno, costruito nel dialogo, nella lotta, nella fermezza", ha aggiunto. Non è un caso se il ministro Orlando "ha potuto dire che se il carcere ha avuto un minimo di visibilità se qualcosa è migliorato lo dobbiamo a Marco Pannella e Papa Francesco", ha osservato. "Non è la battaglia estemporanea", ha notato ricordando l’impegno di ‘Nessuno tocchi Caino" contro l’ergastolo ostativo. "Hic et nunc. Non possiamo aspettare, Marco lo ripeteva. Dobbiamo fare in modo che questo nostro stato esca fuori dall’illegalità. Dobbiamo farlo subito". Marco Pannella non metteva a rischio la sua vita con gli scioperi della fame e della sete, lo faceva perché trovava insopportabile vivere in uno stato in cui vengono violati i diritti umani fondamentali", ha anche detto. Il ministro Orlando convoca gli "Stati generali della lotta alla criminalità organizzata" Askanews, 3 settembre 2016 "Non ci rassegniamo a una cultura omertosa ancora presente". "Abbiamo deciso di convocare un percorso di discussione e riflessione nel quale chiameremo persone di mondi diversi a confrontarsi sul tema di cosa è oggi la mafia e come la si può contrastare: abbiamo definito questo percorso gli "Stati generali della lotta alla criminalità organizzata". Sarà un’occasione per fare un inventario su ciò che funziona e ciò che non funziona dei nostri strumenti, ma anche per riflettere sulle cause profonde di questo fenomeno che purtroppo accompagna il nostro Paese da troppo tempo". Lo ha annunciato il ministro della Giustizia Andrea Orlando sul suo profilo Facebook. "Oggi - ha ricordato Orlando - ci arriva una notizia da Palermo. La sorella di un boss mafioso, che ha deciso di collaborare con la giustizia, commenta così la decisione del fratello: "Mio fratello è morto". Non è la prima volta che ci arrivano notizie del genere, ma purtroppo sono il segno di una cultura ancora presente nella società italiana, dove l’omertà è più forte addirittura dei legami affettivi. Questo è un messaggio che va raccolto con grande preoccupazione, al quale bisogna reagire costruendo strumenti anche nuovi di lotta alla criminalità organizzata, che vadano anche oltre l’aspetto meramente repressivo e lo coniughino con iniziativa di carattere culturale, educativa, quella in generale dell’iniziativa sociale e economico". "Non lasciare che queste notizie ci scorrano addosso, non rassegnarsi a questa idea omertosa che ancora esiste nella società italiana e che vediamo talvolta anche raggiungere sfere di insospettabili, sia un nostro dovere civile e anche il modo di dare un senso all’attività delle istituzioni", ha concluso il Guardasigilli. Il detenuto non esce per le nozze di Attilio Levolella Il Tempo, 3 settembre 2016 Niente "libera uscita" dal carcere. Né per pronunciare il fatidico "sì", né tantomeno per "consumare" la prima notte di nozze. Detenute e detenuti debbono mettersi il cuore in pace: impensabile ottenere un "permesso" per il proprio matrimonio. Significativa la decisione con cui la Cassazione (sentenza penale 35813) ha respinto definitivamente la richiesta avanzata da un uomo, rinchiuso in carcere, di poter tornare in libertà per qualche ora, giusto il tempo di sposare la compagna e di "consumare" le nozze. Per i magistrati, sia chiaro, voler prendere parte alla cerimonia è umanamente comprensibile. E identico discorso si può fare per il naturale desiderio manifestato dall’uomo di avere rapporti intimi con la moglie. Ma tutto ciò non è sufficiente per poter trascorrere delle ore fuori dal carcere. E questa valutazione non è modificata neanche dal richiamo fatto dal detenuto alla volontà di avere dei figli. Secondo i giudici, in sostanza, la necessità di "convolare a nozze" e il desiderio di "consumare il matrimonio" non possono in alcun modo legittimare la concessione del "permesso". E a dare forza a questa posizione è anche la Corte europea dei diritti dell’uomo: "Qualsiasi detenzione regolare comporta una restrizione alla vita privata e familiare" e ciò vale anche per il "diritto di sposarsi". Cagliari: Pili (Unidos); sono 20 capi di Cosa Nostra e Camorra nel carcere di Uta La Nuova Sardegna, 3 settembre 2016 La denuncia del deputato di Unidos Mauro Pili che ha annunciato di voler visitare la struttura. "Da stamattina nel braccio di alta sicurezza denominato inopportunamente Arborea nella struttura penitenziaria di Uta, a pochi chilometri da Cagliari, ci sono 20 capi di Cosa Nostra e Camorra, tra cui diversi del clan dei casalesi". Lo denuncia il deputato di Unidos, Mauro Pili, che annuncia per le prossime ore una "visita ispettiva nel carcere per accertare personalmente la situazione della struttura e verificare i nuovi arrivi". "Hanno approfittato di terremoto e sbarchi di migranti - sottolinea - per far il blitz mafioso camorristico. I boss sono arrivati alla spicciolata in meno di una settimana. Il blitz ferragostano è andato in porto anche se nelle prossime ore dovrebbero completare l’operazione con altri 20 capi clan e cosca. Tutto questo contravvenendo alle regole che impongono la netta separazione tra i detenuti Alta Sicurezza e quelli ordinari". Secondo Pili il braccio Arborea è stato isolato "con inutili accorgimenti: l’unica precauzione messa in campo è un nastro specchiato apposto sulle porte d’ingresso del reparto. Ma la tensione comincia già a salire per il tipo di personaggi giunti ad Uta e il primo problema è l’utilizzo della palestra. I boss hanno chiesto di poterne usufruire, ma ci sono solo 12 postazioni per oltre 500 detenuti. Il tema più grave è, però - aggiunge - quello del seguito di questi boss e le conseguenti infiltrazioni mafiose. I personaggi già sbarcati ad Uta sono di primo piano a partire da uno dei capi dei Casalesi, Salvatore Ferrara, detto Sasà, 45enne originario di Casal di Principe, nativo di Napoli, finito in manette insieme ad altre dieci persone, perché sospettato di essere parte di un’associazione a delinquere a carattere transnazionale volta a commettere una serie indeterminata di reati attraverso una rete illegale di gioco on line sino ad arrivare al capo clan di Forcella Fernando Schlemmer. Familiari e adepti potrebbero decidere di spostarsi a soggiornare nelle zone limitrofe al carcere con tutto quello che ne consegue". Biella: l’ex detenuto "avevo un tumore e in carcere non mi hanno curato". Ora è morto di Matteo Floris e Andrea Marzocchi La Provincia di Biella, 3 settembre 2016 "Mi chiamo Ioan Gal, sono in fin di vita e vorrei raccontare la mia storia". Più che una storia sembra un incubo quello vissuto dall’uomo di 51 anni che ci chiede di incontrarlo mentre si trova ricoverato all’Hospice "L’Orsa Maggiore" di Biella. Vuole raccontare la sua versione dei fatti. Originario di Timisoara, in Romania, negli ultimi anni ha vissuto a Torino. Non conosce Biella, non sa che la struttura nella quale si trova è quella riservata ai malati terminali. Tuttavia si rende conto che potrebbe restargli poco da vivere. Un cancro lo ha letteralmente consumato. In pochi mesi, caratterizzati da sofferenze e dolori atroci, Ioan ha perso circa venti chili. La storia che vuole raccontare, però, non è quella di un semplice paziente, ma quella di un uomo che si ammala mentre è recluso in carcere. Fino a poco tempo fa, infatti, Ioan Gal era detenuto nella Casa circondariale di via dei Tigli, dove doveva scontare un anno e quattro mesi di reclusione per tentato furto. Pena alla quale si sono poi aggiunti altri cinque mesi per una seconda condanna. Proprio qui, a suo dire, è iniziato il calvario, un inferno ben peggiore di quello normalmente vissuto da chi viene privato della libertà, un inferno finito a giugno di quest’anno, quando è stato scarcerato. Quando si è aperto il cancello, Ioan non è stato in grado di tornare alla propria vita. Non si reggeva in piedi, stava male. Tanto da rendere necessario l’intervento di un’ambulanza del 118, chiamata dagli stessi agenti della polizia penitenziaria, e il trasporto all’ospedale. Durante il ricovero al "Degli Infermi", durato alcune settimane, è stato sottoposto a diversi accertamenti che hanno portato a scoprire quale fosse il male che lo attanagliava e gli rendeva l’esistenza impossibile da mesi. Gli è stata diagnosticata la sindrome di Ciuffini-Pancoast, tecnicamente una "lesione solida da carcinoma adeno-squamoso polmonare ed infiltrante piani muscolari-ossee vascolari, della parete toracica, con paralisi flaccida e algia severa alla spalla e al braccio destri". "Alla fine del 2014 sono stato trasferito dal carcere delle Vallette di Torino a quello di Biella - racconta quando lo incontriamo, avvertiti dall’amico che si sta prendendo cura di lui -. All’inizio le cose andavano bene. Ero sano, pieno di vita, avevo anche iniziato a svolgere qualche lavoro all’interno della struttura". La situazione cambia all’improvviso, drasticamente, nel mese di giugno del 2015. "Ho accusato un forte mal di testa per un paio di giorni - spiega - poi in infermeria mi hanno dato qualche pastiglia e mi è passato. Nel giro di poco, però, il dolore è sceso verso la spalla ed è peggiorato. Due o tre giorni dopo, il braccio destro, dal gomito alla mano, mi faceva male da morire". Le condizioni di Ioan precipitano rapidamente: "Stavo malissimo giorno e notte - continua a raccontare, a settembre praticamente non riuscivo più a muovere il braccio, faticavo a camminare, non dormivo, non ero più in grado di prendermi cura di me. L’unico sollievo erano gli antidolorifici che però mi davano quando volevano loro". Passano i mesi e Ioan non migliora. Un gruppetto di detenuti, vedendo la sua sofferenza, si organizza per dargli una mano. Uno lo aiuta per il cibo, un altro gli lava i vestiti, un altro ancora lo accompagna e letteralmente lo sostiene quando deve spostarsi. Negli ultimi tempi l’amministrazione penitenziaria, viste le sue condizioni, decide pure di affiancargli un "piantone", un altro recluso pagato per assisterlo. "Lo stato di salute di Ioan era grave, chiunque era in grado di accorgersene - sostiene Eugenio Maiolo, ex detenuto che una volta uscito dal carcere ha continuato ad aiutare il 51enne. Passava le notti a urlare e a lamentarsi per il dolore. Qualcuno doveva fare qualcosa e invece non è stato fatto nulla. Ricordo che una volta l’ho portato a fare una doccia. Era febbraio. A un certo punto ho visto un lago di sangue. Gli era uscito dal retto. Ho chiesto che gli venisse fatta una gastroscopia e mi è stato risposto di farmi gli affari miei". In realtà esami e accertamenti ci sono stati, anche con controlli specialistici all’ospedale, ma non si sono rivelati affatto risolutivi. Altri erano in programma a pochi giorni dalla sua uscita dal carcere: "Ricordo un paio di visite effettuate fuori dalla struttura - chiarisce Gal -, una dall’ortopedico e un’altra per un’elettromiografia. Poi mi facevano i raggi. Ma avevo bisogno di controlli ulteriori, di un ricovero, invece niente. Per mesi nessuno ha voluto capire davvero cosa avessi fino a quando sono uscito e sono stato ricoverato. Dove sono adesso sto bene e si prendono cura di me. Nel frattempo ho vissuto l’inferno. Quando sono entrato in carcere pesavo circa 65 chili, quando mi hanno liberato ero sceso a 40". Eppure Ioan sostiene di averci provato in tutti i modi a ottenere maggiori "attenzioni", si sentiva abbandonato a se stesso: "Ho anche presentato una denuncia ad agosto del 2015. Non pretendevo di guarire, ma almeno di essere curato come si deve. Chiedevo che venisse fatto qualcosa per alleviare l’insopportabile dolore. Ero un detenuto, ma pensavo comunque di avere il diritto di essere curato. Alla fine non sapevo nemmeno più dove fossi o con chi stessi parlando. Perché in tutto questo tempo, viste le mie condizioni, non è stato possibile scoprire che avevo un tumore?". La rabbia di Ioan è rivolta solo ai responsabili dell’area sanitaria, indipendente dall’amministrazione della casa circondariale. La nota positiva, infatti, volendone trovare una, è rappresentata dal comportamento della polizia penitenziaria: "Gli agenti e gli assistenti - conferma Ioan Gal, così come gli infermieri, hanno fatto tutto il possibile, tutto ciò che era in loro potere. Cercavano di aiutarmi". A Ioan sono rimaste solo una grande amarezza e la sensazione di aver subito un grave torto: "Non dico che se fossi stato ricoverato prima sarei guarito - aggiunge -, magari mi troverei nella stessa identica situazione. Però mi sarebbero stati evitati mesi di incredibili sofferenze. Voglio giustizia". Oltre alla giustizia, Ioan chiedeva che la sua storia diventasse pubblica, anche per evitare che altri potessero vivere la medesima esperienza. Chiedeva, al passato, perché nei primi giorni di questo mese si è improvvisamente aggravato e lunedì 8 agosto ha smesso di soffrire, due settimane dopo averci raccontato la sua versione dei fatti. Sperava di riuscire a leggerla sul giornale, ma non ha fatto in tempo. Massa Carrara: i detenuti vanno sulle Apuane (a pulire) di Manuela D’Angelo Corriere Fiorentino, 3 settembre 2016 Il progetto, siglato dal Comune di Carrara con il carcere di Massa e il Club alpino italiano punta al loro reinserimento sociale attraverso il lavoro e attività esterne. Giovani detenuti del carcere di Massa e volontari del CAI di Carrara saranno impegnati nei prossimi mesi nella pulizia dei sentieri di montagna, sulle Alpi Apuane. L’amministrazione comunale di Carrara, la Casa di Reclusione di Massa e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna hanno siglato una convenzione con il CAI, il più famoso club alpino italiano, per impegnare cinque detenuti in un progetto sull’ambiente, che allo stesso tempo dovrebbe essere da stimolo per il loro reinserimento sociale. Il progetto - Il progetto si chiama "Lavorare insieme: ragazzi del carcere e volontari del Cai per la pulizia dei sentieri delle Apuane Carraresi"; parteciperanno detenuti che si trovano in misura alternativa, coordinati dai volontari del CAI per interventi di recupero e bonifica ambientale, la rivalutazione dei sentieri delle Apuane e la loro migliore fruibilità da parte degli abitanti del territorio e dei turisti. "Questo progetto - ha spiegato il vicesindaco di Carrara Fiorella Fambrini - ha un certo rilievo perché riguarda non solo la cura e il rispetto del territorio, ma anche perché affronta il tema dell’integrazione e del rispetto della dignità umana, offrendo opportunità anche a chi ha sbagliato: grazie all’inserimento in attività lavorative, i detenuti tornano a essere cittadini attivi, instaurando un rapporto umano con i tutor del CAI". "Questa esperienza diventa così un’occasione per mettere alla prova e affinare non solo le loro capacità tecniche, ma anche il sistema di relazioni sociali. Un piccolo grande progetto da sviluppare in futuro", ha aggiunto. Le altre esperienze - La Casa di Reclusione di Massa non è nuova ad iniziative di questo tipo: lo stesso protocollo è stato firmato a luglio scorso con il comune di Massa e il CAI della sezione massese per la pulizia dei sentieri a bassa quota e la direttrice del carcere Maria Martone ha ricordato anche altre attività che coinvolgono i suoi detenuti, che lavorano con contratti regolari all’interno del carcere, assunti da una azienda del settore macchine per il caffè, o che producono biancheria da destinare ad altri Istituti di pena. E c’è anche la coltivazione di ortaggi e frutta biologica venduta poi nello spaccio interno. Lecce: coltivare la speranza e raccoglierne i frutti, a Borgo San Nicola serra di pomodori leccenews24.it, 3 settembre 2016 Quindici detenuti del carcere di Borgo San Nicola hanno partecipato ad un progetto che li ha visti coltivare oltre duemila piante di pomodori all’interno di una serra, costruita appositamente in un’area dell’istituto carcerario, di mille metri quadri suddivisi in due settori. Lecce. La speranza va coltivata, giorno dopo giorno. Una metafora che accompagna chi, nella vita, ha commesso degli errori. Nella Casa Circondariale di Lecce, però, i detenuti coltivano nel vero senso della parola dei pomodori "nel deserto", dando vita ad un sistema carcerario definito "sostenibile". Obiettivo raggiunto dal progetto degli ortaggi in serra nelle carceri, ideato da Maria Antonietta Zecca grazie al supporto della Cooperativa San Rocco di Leverano e fortemente voluto dalla dott.ssa Rita Russo, direttore dell’Istituto Carcerario del Capoluogo Salentino. Un progetto che si sostiene grazie alle somme destinate ad "Impresa Intramuraria", accantonate in Cassa-ammende. A partire dal mese di Dicembre 2015, infatti, diverse erano le attività di formazione in aula e di realizzazione di un serra, montata all’interno del perimetro di sicurezza di Borgo San Nicola. Mille metri quadri coltivabili, suddivisi in due settori da cinquecento metri l’uno. Dal Lunedì al Venerdì, all’interno della serra e nel rispetto di rigide regole di protocollo, quindici detenuti - suddivisi in due squadre - hanno preparato il terreno per fare attecchire le colture, piantando poi oltre duemila piante di pomodori, iniziando a raccogliere gli ortaggi. "Siamo molto soddisfatti del lavoro svolto - ha dichiarato il tutor, l’Agrotecnico Luigi Zecca - la produzione è stimata fra i quaranta e i quarantacinque quintali di pomodori suddivisi fra insalataro e ciliegino". "Si tratta di un risultato che ha stupito prima di tutto i detenuti stessi, i quali per la prima volta hanno potuto toccare con mano i frutti del loro lavoro", ha invece precisato l’ideatrice del progetto, Maria Antonietta Zecca, da un trentennio impegnata nello sviluppo di progetti sociali e di marketing. "La terra, il duro lavoro nei campi, possiede lo straordinario potere di far diventare le persone migliori. Fa capire come si ottengano risultati col sudore della fronte, l’impegno e la pazienza. In più si crea economia e, in tal modo, la società ne trae benefici". Massa Carrara: detenuto picchia un agente, la protesta del Sappe controradio.it, 3 settembre 2016 Mercoledì sera, un poliziotto penitenziario addetto alla vigilanza è stato aggredito presso la Casa di Reclusione di Massa da un detenuto. Protesta del sindacato di polizia penitenziaria. Pasquale Salemme, segretario regionale per la Toscana del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, ha fatto sapere che "nella serata di mercoledì, nella casa di reclusione di Massa, un assistente capo, addetto alla vigilanza ed osservazione della sezione infermeria, è stato aggredito da un detenuto di origini campane". L’agente, in seguito alle percosse subite, ha riportato lesioni personali giudicate guaribili in dieci giorni". "Permane alta la tensione nelle carceri della Toscana" - ha proseguito Salemme - "Una situazione allucinante, tanto più grave se si considera che questa è l’ennesima aggressione che avviene in un carcere in Toscana contro appartenenti alla Polizia Penitenziaria". Il detenuto, in passato, era già stato deferito più volte all’autorità giudiziaria per oltraggio, resistenza e minacce a pubblico ufficiale. Il Sappe, "nel denunciare le criticità della Casa di Reclusione di Massa, correlate alla grave carenza di organico, sollecita un intervento del Dap e del Governo, affinché provvedano ad aumentare il Reparto di Polizia Penitenziaria, già carente di circa 30 unità, ed esprime solidarietà al collega ferito". Sulla vicenda è intervenuto anche il segretario generale del Sappe, Donato Capece, sollecitando l’intervento del ministro e del Capo Dap: "quella di Massa è l’ennesima grave e intollerabile aggressione da parte di un detenuto ai danni di un poliziotto penitenziario, al quale va la nostra solidarietà. La situazione nelle nostre carceri resta allarmante, nonostante si sprechino dichiarazioni tranquillanti sul superamento dell’emergenza penitenziaria". Nuoro: la parrocchia tra i detenuti di Badu e Carros e Mamone La Nuova Sardegna, 3 settembre 2016 Tre giornate di riflessione e confronto con un gruppo di detenuti per interrogarsi su quale sia al giorno d’oggi il rapporto uomo-natura e uomo-donna, alla luce dei tanti e gravi fatti di cronaca che riempiono le colonne dei quotidiani. È anche da percorsi come questo che passa il reinserimento nella società di chi ha trascorso parte della sua vita tra le mura di un carcere: l’obiettivo che da anni persegue l’associazione di volontariato e cooperativa sociale Ut Unum Sint della parrocchia Santa Maria Gabriella, promotrice dell’iniziativa che prende il via questo pomeriggio. Una decina i detenuti (e le loro famiglie) coinvolti, alcuni provenienti dal penitenziario di Badu e Carros, altri dalla colonia penale di Mamone, altri ancora che stanno usufruendo di misure alternative alla detenzione. "Le belle esperienze vissute da qualche anno ci hanno condotto ad organizzare e proporre una nuova iniziativa", spiega don Pietro Borrotzu, parroco e presidente dell’associazione. "Affronteremo le grandi immigrazioni di popoli, l’enciclica di Papa Francesco "Laudato Si", e i gravi fatti di cronaca". Temi impegnativi con cui si confronteranno i detenuti e i relatori degli incontri. Un modo per "riannodare i fili" e rimettere in piedi le relazioni sociali e parentali (non a caso sono invitate anche le famiglie dei reclusi). Ma, prima di tutto, con se stessi. "Attraverso la riflessione - dice il parroco - si riesce a rielaborare il passato, guardandolo con gli occhi di oggi e prendendo consapevolezza di quel che si è commesso". La giornata di oggi, a partire dalle 15.30, è dedicata alla proiezione del filmato di presentazione dell’enciclica "Laudato Si". Al termine, è previsto il laboratorio di riflessione "La natura dono per l’uomo: armonia o conflitto?", tenuto dal responsabile del territorio di Agenzia Forestas Lanusei, Salvatore Mele. Sabato in programma due incontri. Il primo verterà sul "Rapporto uomo/donna: dialogo e festa o parole e conflitto?". Relatrice sarà Lorena Urrai, psicologa alla Asl e alla casa circondariale di Lanusei. Nel pomeriggio (dalle 15,30) si parlerà di "Natura in dialogo con l’uomo e la donna: possibili collaborazioni tra i popoli" con Malika Sabri, mediatrice culturale, e Abdou Ndiaye, operatore patronato Inas-Cisl, settore immigrazione. La giornata di domenica, invece, prevede un’escursione al bosco di Santa Barbara (Villagrande Strisaili) e a Santa Maria Navarrese. Reggio Calabria: mostra per promuovere la libera espressione dei carcerati di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 3 settembre 2016 Il 10 settembre più di 60 opere tra dipinti sculture, fotografie, iconografie, saranno in mostra al palazzo della Provincia di Reggio Calabria per promuovere la libera espressione dei detenuti attraverso l’arte e nello stesso tempo sensibilizzare l’opinione pubblica sul significato della pena che deve andare oltre l’aspetto punitivo verso una rieducazione alla conoscenza e al bello. La ricerca infatti dimostra che: "un carcere aperto e impostato su linee umanizzanti, costruttive e socializzanti, riduce la recidiva". L’arte è uno dei mezzi attraverso il quale si può attuare questa teoria perché permette al detenuto di guardarsi dentro e di entrare in contatto con la visione nascosta del proprio io. La mostra, Patrocinata dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Provincia -assessorato alla Cultura e alla Difesa della Legalità e dal Comune di Reggio Calabria, è il primo evento di questo genere organizzato a Reggio Calabria ed è stata possibile grazie al supporto degli artisti dell’associazione Visionarte, che hanno dato il loro supporto nella fase di creazione dei lavori e alla disponibilità della dott.ssa Longo, direttrice della Casa Circondariale e dei suoi collaboratori. Sarà inaugurata il 10 settembre alle 18.00 e sarà visitabile fino al 17 settembre, tutti i giorni dalle 09.30 alle 12.30 e dalle 16 alle 19. Attraverso questo percorso liberatorio d tirare fuori ciò che difficilmente a parole riesce a comunicare. La mostra patrocinata dal Consiglio regionale della Calabria, della Provincia e Comune di RC, è il primo evento di questo genere organizzato a Reggio Calabria ed è stata possibile grazie al supporto degli artisti dell’associazione Visionarte, che hanno dato il loro supporto nella fase di creazione dei lavori e alla disponibilità della dott.ssa Longo, direttrice della Casa Circondariale e dei suoi collaboratori. È un evento unico che dimostra come l’arte non conosca confini. L’obiettivo deve essere la restituzione del detenuto alla Società. In quell’ottica di conoscenza e recupero del bello che aiuta a rendere il percorso di reclusione veramente utile ai fini della rieducazione del singolo. Portare l’arte nei luoghi di detenzione significa fornire al detenuto due immense opportunità: fare un percorso liberatorio, e assaporare la bellezza. Il carcere deve dare valore alla dignità del detenuto; la pena in carcere è una restrizione della libertà e non anche degli altri diritti della persona umana e la realizzazione è stata possibile grazie alla disponibilità della direttrice del casa circondariale dott.sa Longo, degli educatori e dell’impegno dell’associazione "Visionarte" impegnati nei laboratori e che dimostra essere una straordinaria occasione per mostrare alla cittadinanza quello che il carcere offre ponendosi come risorsa, non soltanto come luogo di segregazione. E allontanare i pregiudizi e sensibilizzare l’opinione pubblica. L’arte rende l’uomo più civile. La realizzazione dell’evento è stato possibile grazie alla disponibilità della dott.ssa Longo, degli educatori e avrà inizio giorno 3 settembre alle ore presso il palazzo Foti (provincia). 40 opere tra dipinti, fotografia in mostra al carcere di Arghillà per liberare l’arte da pregiudizi e sensibilizzare l’opinione pubblica. È un evento unico che dimostra come l’arte non conosca confini. Grazie alla disponibilità dell’ Amministrazione penitenziaria e dei suoi operatori, l ‘Associazione Visionarte ha potuto realizzare opere pittoriche e fotografiche con il preciso scopo di portare alla luce immagini, colori, segni, quello che spesso con le parole non si riesce a comunicare. Obiettivo della manifestazione è di promuovere la libera espressione dei detenuti, e nello stesso tempo sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul significato della pena che va oltre la dimensione punitiva del carcere per promuoverne gli aspetti educativi, riabilitativi, tenendo presente anche il dramma umano dietro ogni storia di reclusione. L’arte quindi diventa un mezzo per guardarsi dentro e per esprimere liberamente e comunicare vissuti difficilmente verbalizzabili. La realizzazione di opere pittoriche dei detenuti con il preciso scopo di portare alla luce attraverso immagini, colori, segni quello che spesso con le parole non si riesce a comunicare. "Robinù", di Michele Santoro. La paranza dei baby gangster recensione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 settembre 2016 Un’arma in mano ti cambia la vita. Anche se non hai ancora vent’anni, e ce l’hai tutta davanti. Ma potrebbe durare pochissimo, oppure a lungo: dipende da quell’arma. Come nel Far West, come in guerra. E come a Napoli nel 2016, se hai deciso di fare il malavitoso. Che da quelle parti vuol dire fare il camorrista, e nel ventunesimo secolo significa sparare più degli altri, ammazzare prima che ti ammazzino, diventare capo (o provare a diventarlo) facendo fuori il capo precedente, o il rivale dalle stesse pretese. Ecco perché quel ragazzino col giubbotto rosso che riempie l’intero schermo e ti dice che ha imbracciato per la prima volta un kalashnikov a 17 anni con la naturalezza di chi racconta il primo calcio tirato a un pallone di cuoio, è la faccia della nuova camorra disorganizzata. Quella che continua a insanguinare Napoli e dintorni nella pressoché totale indifferenza nazionale, relegata a qualche fascicolo giudiziario e ai periodici allarmi di magistrati e investigatori. Senza che nessuno si inquieti più di tanto. I nuovi baby-boss della camorra - È la criminalità dei baby-boss, chiamati ora "barbudos" ora "paranza dei bambini", svelata dal film di Michele Santoro "Robinù", in programmazione la prossima settimana al festival del cinema di Venezia. Un racconto vivo e dal vivo di giovanissimi gangster imbevuti di un nichilismo senza aspettative e senza rimorsi. Storie vere e facce vere, come quella del giovane infatuato del mitra, u kalà: "Con quello in mano non hai paura di niente, tiene 33 botte, è come camminare blindato". Una scrollata di spalle: "È bellissimo, è come avere una macchina a benzina invece che a diesel. È come abbracciare Belén". Frasi che racchiudono l’intero orizzonte di quella malavita: armi, donne e motori. La vita dietro le sbarre - Nella cella di Poggioreale dove è entrato a 22 anni e dovrà trascorrere i prossimi sedici, mantenendo un sorriso che sa di rassegnazione ma anche di sfida verso chi non riesce a capire, Michele spiega che voleva avere "femmine, potere e soldi". Per questo ha "fatto i reati", compresi i conflitti a fuoco: "La 357 spara da sola, quasi...". Aspirava a diventare un capo, adesso il suo mondo sono le sbarre del carcere, "uscirò a quarant’anni, sarò peggio di prima". Uno con la sua stessa testa profetizza: "Se tieni un leone in gabbia, quando lo metti fuori che fa? Deve mangiare". Fuori c’è chi lo ammira, chi lo aspetta. Suo fratello Angelo no, per sfuggire a quel futuro è andato a fare il pizzaiolo a Parigi; dal carcere Michele l’ha rinnegato, "per me è morto", e Angelo quando pensa a lui piange: "Mi manca". Barba e tatuaggi per distinguersi - Fuori, quel sottobosco di banditi minorenni continua ad alimentarsi di spaccio e di evasione scolastica, "mi hanno bocciato quattro o cinque volte" dice uno mentre deride i coetanei che entrano in classe e sembra che li compatisca. Lui a loro. A lui piaceva Emanuele Sibillo, morto ammazzato da latitante a luglio 2015 nella nuova faida di Forcella. Aveva 19 anni. S’era fatto crescere la barba, come gli altri del suo gruppo per i quali è divenuta un segno distintivo insieme ai tatuaggi, alcuni commercianti del quartiere gli hanno dedicato un busto in gesso e un bambino a carnevale s’è mascherato con le sue sembianze. Assomigliava a un soldato dell’Isis, e probabilmente di quel genere di terroristi invidiava la determinazione alla conquistare il potere; non importa se in nome dell’Islam o dei soldi che ti consentono di svettare su tutti gli altri. "Chi ha ucciso Emanuele deve morire", sentenzia una ragazza innamorata. "Se vedo uno che spende 1.000 euro, io ne voglio spendere 2.000 perché devo dimostrare di stargli sopra", dice Michele. Un altro lancia un insulto: "Pentito!", e l’offeso ribatte: "Pentito è tuo padre!". La scalata a colpi di kalashnikov - La filosofia dei baby-boss è tutta qui: prima per affermarsi bisognava aspettare di crescere; adesso non serve più, basta farsi largo a colpi di kalashnikov o di 357, e sei già grande. Comandi, diventi un capo, in attesa di farti sfidare dal prossimo aspirante. In passato lo facevano gli adulti, finiti sotto terra o in galera, adesso tocca a loro. È l’evoluzione di quel tipo di criminalità orizzontale e non verticistica chiamata camorra, un po’ anarchica e senza regole, a differenza di mafia e ‘ndrangheta. Forse inevitabile, difficilmente replicabile altrove. Chi vedrà questo film non potrà più fare finta di non sapere, alla notizia del prossimo omicidio sotto il Vesuvio. Né potrà stupirsi o scandalizzarsi. Gli basterà ricordare quel volto quasi inespressivo che svela: "La prima pistola l’ho avuta a 15 anni. Me l’ha data un ragazzo che mi voleva spiegare come si vive a Napoli. È morto sparato". Terremoto. La nomina di Errani, azzardo e opportunità di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 settembre 2016 Va fugato sul campo che sia una mossa interna agli equilibri Pd. La cosa più importante è l’unità del Paese nella sfida per la ricostruzione. La si giri come si vuole, c’è un forte senso di azzardo nella scelta di mandare Vasco Errani sul cratere del terremoto del 24 agosto. E il primo a saperlo, da politico navigato qual è, immaginiamo sia proprio il commissario alla ricostruzione nominato da Matteo Renzi e ormai all’opera in zona già da un paio di giorni. Infatti la prima sfida tutta in salita per lui sta proprio qui: nella necessità di costruire di sé una narrazione non politica, quasi tecnica, certo super partes ("da oggi non sono un uomo del Pd ma delle istituzioni"), essendo cresciuto sin da ragazzo nelle sezioni emiliane del partito comunista ed essendo peraltro stimato, anche da molti avversari, proprio nella sua qualità di politico. È come se un bravo centravanti, nell’intervallo di un incontro di calcio, decidesse di infilarsi la casacca dell’arbitro, garantendo tuttavia sulla parola piena imparzialità. Naturalmente non è lecito dubitare della parola di Errani, sino a prova contraria. Ma poiché, come lui stesso fa notare, di fronte a un sisma il nodo preliminare è la credibilità di chi opera, andrebbe sgomberato il campo anche da un dubbio fastidioso: che la nomina di un eminente bersaniano, quale lui è da sempre, serva a Renzi nelle alchimie interne del Partito democratico, per trattare con la minoranza, magari in vista del referendum istituzionale. È un dubbio che ci crea disagio, lo ammettiamo, poiché sottintenderebbe un commercio politico sulle macerie; eppure, in questo Paese avvelenato, pare attraversare la mente di parecchi italiani. Il tempo e il dibattito nel Pd ci chiariranno le idee. Intanto, anche in questo caso, vogliamo credere ad Errani sulla parola: "Non avrei mai accettato una nomina per logiche interne al partito". Però ne discende un dubbio successivo: perché, allora, è stato scelto proprio lui? Capiamoci: non è in discussione la qualità della persona. Ma è plausibile chiedersi se una figura tutta tecnica non sarebbe servita, di più e meglio, a tenere uniti gli italiani attorno a un compito così delicato. La risposta è: Errani era già stato commissario, quattro anni fa, sul terremoto dell’Emilia. Ha dunque esperienza specifica, e tecnica. Vero. È anche vero, però, che il sisma emiliano ha avuto peculiarità del tutto diverse, per ragioni geografiche, economiche e persino culturali, da quello dell’Aquila del 2009 o da questo; e che quella ricostruzione, pur avendo nell’insieme funzionato, non è stata esente da zone d’ombra. C’è tuttavia ancora un elemento di cui tener conto: il senso dello Stato. Errani ha dimostrato di possederne in buona copia da governatore dell’Emilia, negli anni del suo mandato ma, soprattutto, nel modo in cui a quel mandato ha ritenuto di dover rinunciare. Condannato a un anno in appello per una vicenda collegata al finanziamento a una cooperativa di cui suo fratello era presidente, s’è dimesso in poche ore, senza mezza polemica, rifiutando di dire la sua sui giornali per rispetto dei giudici. Quando la Cassazione ha annullato la condanna e una nuova sentenza d’appello lo ha assolto, s’è ritrovato a essere una notevole risorsa sulla panchina del Pd. Ora Errani, che fa della coesione sociale il proprio mantra, dovrà appellarsi a tutto il suo senso dello Stato per uscire dall’azzardo in cui si trova. Di coesione sociale, qui, ne troverà assai meno che nella sua Emilia. Il bagno nel fango e nella polvere del sisma appare la ricetta più immediata perché la gente di queste contrade non lo senta come un alieno calato dall’alto. In tal senso è incoraggiante il siparietto con il sindaco di Amatrice, Pirozzi, che antropologicamente (prima che politicamente) è quanto di più distante da lui: "La mia credibilità è legata alla tua, la tua alla mia". Fare squadra. Sistema. Per conto dell’Italia tutta. L’idea che da questo fango e da questa polvere esca un Errani rinato e che quell’Errani davvero serva a far rinascere Amatrice, Arquata e gli altri paesi del sisma, non può essere una previsione. Ma è, di certo, un augurio. Migranti. L’inutile sacrificio di Aylan: più morti tra i baby-profughi di Francesco Pacifico Il Mattino, 3 settembre 2016 La prima vittima registrata quest’anno si chiamava Khalid. Aveva due anni e con la madre ventottenne e altri quaranta profughi aveva lasciato la Siria su un gommone per raggiungere la Grecia. Poi le mareggiate e il freddo, in periodo che non si addice alle traversate in mare, fecero sbattere l’imbarcazione sulle rocce di un’isola dell’Egeo. Dove di solito si va in vacanza. Dopo Khalid almeno altri cinquecento minori hanno perso la vita in un’ecatombe che non sembra volere avere fine nel Mediterraneo. Perché se diminuisce il numero dei disperati nel 2016 sbarcati sulle coste italiane e greche (284.473 in totale secondo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu contro il milione e più di tutto il 2015) sale quello delle vittime in mare: soltanto nel Belpaese ci sono 26,4 decessi o dispersi su ogni mille migranti. L’anno scorso si era al 17,6 per mille. Dice l’ex ministro degli Esteri, Emma Bonino: "Non so se c’è una spiegazione a questa incongruenza. Forse dovete chiedertela agli inquirenti e alla guardia costiera. Immagino, per quello che posso, che si attraversi il Mediterraneo con le cosiddette imbarcazioni, che sono sempre meno sicure e sempre più cariche. E, ovviamente, sono sempre più usate. Certo è il mancato rispetto per la vita: bambini, donne incinta, non si rispetta nulla e nessuno". Secondo "Save the Children" soltanto garantendo "vie di accesso sicure e legali all’Europa" ai bambini e alle loro famiglie nei Paesi che sono crocevia dell’immigrazione clandestina (la Siria e la Libia) si potranno evitare nuove tragedie. Come quella del 28 gennaio a Samos, non lontano dalle coste turche, dove si rovesciò un barcone con 24 migranti, dei quali 18 bambini (13 maschietti e 5 bambine) provenienti dalla Siria. Qualche giorno dopo la guardia costiera turca, abbordando un gommone al largo di Lesbos, trovò una neonata morte di fame e di freddo, che aveva attraversato con la madre il confine turco-siriano. Nello stesso periodo altre due natanti erano affondati nelle acque dell’Egeo: furono scoperti in acqua i cadaveri di sette minorenni, che si erano imbarcati da Edremit, nella provincia di Balikesir, sempre nella speranza di raggiungere la Grecia o la Turchia e di fuggire dalla guerra. Questo il fronte siriano. Ma non meno cruento è stato quanto avvenuto sull’altro quadrante, quello maghrebino che guarda all’Italia. Alla fine dello scorso maggio, nel Canale di Sicilia, naufragò un peschereccio con a bordo molti bambini. Alcuni superstiti dissero che "ce ne erano almeno 40 in acqua e nessuno si è salvato. Il capitano, nonostante le centinaia di persone in mare, li ha abbandonati lì, lasciandoli annegare uno dopo l’altro". Nelle stesse ore sbarcò a Palermo, dopo essere stata salvata da una nave di Medicine sans Frontieres, una ragazzina stuprata e messa incinta dagli altri compagni di sventura durante la traversata sul canale di Sicilia. Raccontò Paola Mazzoni, medico di Msf: "Non è la prima volta che riusciamo a filtrare casi di minorenni incinte perché vittime di violenza. È difficile intercettare storie come questa perché si tratta di persone provate dal punto di vista psicologico. Le violenze sessuali non sono solo sulle donne, sono certa che anche ragazzi giovanissimi sono vittime di stupro". Ma non mancano ragazzini "con le ossa deformate per le percosse, dopo i lunghi giorni di prigionia". Giusto un anno fa, il 3 settembre 2015, commosse il mondo l’immagine del piccolo Aylan, curdo di tre anni in fuga dalla guerra in Siria e morto sulla spiaggia di Bodrum. C’era un’onda che lambiva, quasi lo coprisse come una copertina, il capo. E un poliziotto che, più clemente del mare, ne prese in braccio il cadavere, sperando che respirasse ancora quel bimbo che meno di qualche mese sorrideva in un’altra foto, abbracciando un orsetto e il fratello maggiore Galib. Il quale, a cinque anni, perse anche lui quel giorno la vita. E un anno dopo il mondo è ancora fermo a indignarsi e intenerirsi vedendo il fotogramma di un altro bambino, stavolta non preda degli scafisti, che ad Aleppo siede su un’ambulanza tutto sporco, dopo essere stato estratto vivo dalle macerie causate da un bombardamento. La Fondazione Migrantes ha calcolato che sono stati "almeno cinquecento" i bambini e gli adolescenti morti nel Mediterraneo durante le traversate verso Italia e Grecia nei primi otto mesi dell’anno. In tutto il 2015 furono settecento. Ma Federico Fossi dell’Unchr spiega che la contabilità in questi casi può essere fallace: "Visto l’altissimo numero di dispersi è difficile sapere se appartengono a uomini, donne o minori. Spesso dobbiamo rifarci alle testimonianze dei superstiti: gente provata da giorni di mare, che spesso non conosceva neppure chi gli era vicino. Per non parlare del fatto che molti minori viaggiano da soli". Questo è un problema nel problema. Soltanto in Italia, e nei primi sette mesi dell’anno, sono arrivati in Europa 13.705 tra bambini e ragazzi non accompagnati. Nell’arco di tutto lo scorso anno erano stati 1.447. Vengono per lo più dall’Eritrea, dal Gambia, dall’Egitto, dalla Nigeria o dalla Somalia. Sono affidati dai loro genitori ad altri disperati in fuga verso l’Occidente o direttamente, e dietro lauto compenso, agli scafisti nella speranza che raggiungano parenti o amici già stabilizzati in Europa. Ma una volta arrivati sulle coste greche o italiane spariscono, nonostante le strutture e i percorsi protetti ideati per loro. Non fa fatica Emma Bonino a parlare di "altre vittime. Dei minori accompagnati ne perdiamo le tracce a decine. E purtroppo non è da escludere che finiscano preda di altre reti criminali, che possono essere quella dei narcotrafficanti, della prostituzione o degli indottrinamenti. Nell’ultimo eccidio fatto da Daesh a sparare, non a caso, sono stati ragazzini". Migranti. Il padre del piccolo Aylan: "un anno dopo, si continua a morire in mare" di Maurizia Marcoaldi La Repubblica, 3 settembre 2016 Il 2 settembre del 2015 il mondo si commuoveva per la foto del bambino trovato cadavere sulla spiaggia di Bodrum. Poco è cambiato, dopo gli impegni e le promesse: in 12 mesi nel Mediterraneo oltre 4.000 vittime. "Le morti continuano e nessuno fa niente. Eppure dopo la perdita in mare della mia famiglia i politici avevano detto: mai più!". Parole amare e di denuncia quelle di Abdullah Kurdi, il padre del piccolo Aylan, il profugo siriano di soli tre anni ritrovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum, sulla costa egea della Turchia. Sono passati 12 mesi da quando lo scatto della giornalista turca Nilufer Demir suscitò sdegno e commozione in tutto il mondo, richiamando la comunità internazionale a un senso di responsabilità di fronte al dramma dei profughi siriani. Un anno dopo, Abdullah Kurdi, in un’intervista al quotidiano tedesco Bild, condanna l’inerzia dei governi. Purtroppo sono ancora tanti i padri dei piccoli Aylan che continuano a veder morire i propri figli nel silenzio e nell’indifferenza mondiale. A testimoniare il dramma dei profughi ci sono le storie di Abdelaziz, Mamdouh, Yassir che con le loro famiglie sono scappati da due guerre, dalla Siria e dalla Libia, e hanno intrapreso la rotta balcanica con la speranza di una nuova vita nel continente europeo. Il destino di questi tre uomini era legato allo stesso sogno di una seconda opportunità, pagato 600 euro a persona a un trafficante conosciuto a Tripoli. Ma all’inizio di agosto il sogno si è trasformato in un incubo: Abdelaziz ha perso una figlia e la moglie nel naufragio al largo delle coste libiche, Mamdouh la moglie e Yassir l’intera famiglia. A fare eco alle parole di Abdullah Kurdi e alle dolorose testimonianze dei tanti profughi siriani e libici, che ogni giorno cercano di raggiungere l’Europa, ci sono le principali associazioni di assistenza umanitaria. "Dall’inizio del 2016, lungo le rotte migratorie in tutto il mondo muore una persona ogni 80 minuti", sottolinea l’Oxfam chiedendo ai leader mondiali di proteggere tutte le persone in fuga e di assicurare un accesso più sicuro al continente. Sempre secondo l’Oxfam, il Mediterraneo si conferma la rotta più difficile con 4.181 persone morte dal ritrovamento del corpo di Aylan, il 12,6% in più rispetto all’anno precedente. Anche Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, mostra tutta la sua preoccupazione dichiarando che "se i Paesi ricchi non si assumeranno maggiori responsabilità, condanneranno migliaia di bambini a rischiare la vita in viaggi pericolosissimi". L’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani dà il senso del dramma attraverso i numeri: 3.171 i morti registrati nel 2016 secondo il Missing Migrants Project dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e almeno 700, per Caritas/Migrantes, i bambini morti durante i viaggi della speranza nel solo 2015. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parla di 11 morti al giorno. E guardando oltre le tragedie che si consumano quotidianamente in mare, "esorta i governi e i loro partner nazionali ad impegnarsi per lo sviluppo e l’attuazione di piani nazionali complessivi di integrazione. I numerosi contributi che i rifugiati apportano alla loro nuova società devono essere riconosciuti". L’Unhcr chiede inoltre "un chiaro impegno per la prevenzione della discriminazione, la promozione dell’inclusione e la lotta contro il razzismo e la xenofobia" e dichiarato che sebbene il numero di rifugiati e migranti in arrivo in Grecia sia considerevolmente diminuito, a seguito dell’attuazione dell’accordo tra Unione europea e Turchia, gli arrivi in Italia sono rimasti sostanzialmente stabili con circa 115.000. Insomma, a un anno di distanza poco sembra essere cambiato. Tanti bambini continuano a morire in silenzio e tanti altri vivono una vita che, come dimostrano gli scatti diffusi sui social network dagli attivisti di Aleppo Media Center, poco ha a che vedere con la spensieratezza che dovrebbe contraddistinguere la loro età. A breve, il 19 e il 20 settembre a New York, i principali leader mondiali discuteranno della crisi migratoria globale in due importanti meeting: il Summit delle Nazioni Unite per i rifugiati e migranti, e il Leaders’ Summit sui rifugiati convocato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Ma lo stesso rappresentante di Amnesty si è dichiarato scettico sul vertice Onu che potrebbe "terminare con dichiarazioni ipocrite, mentre molti bambini continueranno a soffrire". Eppure questi due incontri potrebbero essere un’opportunità unica per impegnarsi nella tutela della vita umana. Migranti. La caccia agli scafisti della Guardia costiera libica di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 settembre 2016 I due lunghi gommoni grigio-chiari rollano piano sulle onde dolci, in questo inizio di giornata estiva in condizioni metereologiche perfette per il Mediterraneo meridionale. Sono le otto e mezza di mattina a sedici miglia dalla costa, solo quattro miglia fuori dalle acque territoriali libiche. Davanti a loro, a circa un miglio di distanza, è ferma la portaelicotteri "Aliseo", dai cui pennoni alti sventola il tricolore. I marinai con l’uniforme bianca sono ben visibili, indaffarati sul ponte per calare in mare due lance e un canotto, su cui si legge in caratteri blu "Marina Militare Italiana". L’aria è talmente limpida che alle nostre spalle si può scorgere il tratto del litorale da Garabulli al biancore urbano di Tripoli. "Quanti siete? Ci sono donne o bambini?", gridiamo verso la selva di corpi scuri, che da quando ci hanno visto approcciarli a bordo del motoscafo con le insegne della guardia costiera libica si sono come immobilizzati dal terrore. Vorremmo rassicurarli. "Siete fortunati. Presto dalla nave italiana verranno a prendervi", aggiungiamo. Allora uno di loro, un tipo sulla trentina che si presenta come Mohammad, arrivato in Libia un anno fa dal Mali, risponde che sono circa 250, tra loro sei donne e due o tre bambini. "Il più piccolo ha otto mesi", urla e lo prende in braccio per mostrarlo. Ma, proprio mentre i migranti sembrano acquistare fiducia, uno dei tre militari libici con cui siamo a bordo, Aghil Usala di 22 anni, afferra il Kalashnikov d’ordinanza con il caricatore innestato e lo punta minaccioso verso l’imbarcazione più vicina. "Non vi muovete per alcun motivo, o sparo! Dobbiamo controllare", ordina rauco, nervoso, il dito sul grilletto. È uno dei momenti più difficili dell’intera giornata. Uno di quegli episodi che catalizza la miriade di interessi contrastanti, drammi, incomprensioni, speranze e delusioni che caratterizzano il gigantesco traffico di esseri umani dalla Libia. In genere, è stato raccontato a bordo delle navi italiane, oppure in compagnia degli stessi migranti, ma mai dal punto di vista dei libici. 1.000 euro costa il viaggio da Tripoli all’Italia - Nelle prigioni di Misurata, Tripoli e Khoms abbiamo incontrato centinaia di poveracci che sono stati arrestati sulle spiagge, o appena in mare, dopo anni di patimenti e sofferenze per guadagnare i 1.000 euro necessari al viaggio verso l’Italia. Non è raro che siano le stesse milizie libiche a farsi pagare per lasciarli passare. Sui muri delle celle sporche si leggono scritte a mano poesie di morte, preghiere, racconti di solitudine e disperazione. Il nostro motoscafo in vetroresina leggera è lungo sette metri, letteralmente vola a quasi cinquanta nodi, appena sfiora il mare alla prima luce dell’alba che illumina la superfice immobile nel porto di Khoms. Ogni ondina è uno spruzzo alto, passiamo qualche delfino, neppure i gabbiani in planata riescono a starci dietro. "Se ci sono migranti, li prendiamo subito. Le loro barche non vanno oltre i sei nodi. Hanno motori da 40 cavalli, noi siamo spinti da due fuoribordo nuovi di pacca da 250 l’uno. Con oltre 600 litri di benzina a bordo possiamo navigare veloci per almeno una decina d’ore", spiega Youssef Shatavi, il nostro capitano 27enne. È l’unico con un minimo d’esperienza in mare, per gli altri due soldati è il primo imbarco. Alle sei incontriamo un peschereccio in legno con le reti a strascico. Segue un piccolo cargo. "Avevamo il radar, ma è rotto. I cellulari non funzionano al largo. Confidiamo nella radio. Però spesso non ci rispondono neppure dalla base", confida Youssef. Erano due settimane che attendevamo questo momento. Tre giorni fa ci eravamo già imbarcati nel pieno della notte, ma poi il vento teso con onde di oltre due metri nel Golfo della Sirte aveva bloccato tutti in porto, compresi i migranti. Dopo quasi due ore e mezza di navigazione spaccaossa, dalla radio giunge l’inconfondibile accento del meridione italiano. "Due gommoni, con forse centinaia di persone a bordo", si capisce tra il gracchiare delle interferenze. Appena intercettato il nome della nave "Aliseo", già la sua sagoma grigiastra si profila all’orizzonte. Anche a occhio nudo si distinguono a prua i due gommoni dei migranti. Sono lunghi almeno 12 metri, bassi, con i passeggeri accoccolati sui tubolari. Hanno spento il motore, anche se poi a bordo di ognuno scopriremo una quindicina di taniche da 20 litri, tutte ancora piene di benzina. "Con tutto quel carburante potevano tranquillamente arrivare in Italia", dirà Youssef. I libici vogliono riportare i gommoni a riva - La prima reazione dei libici sarebbe di agganciare al traino i due gommoni e riportarli a riva. Per loro sarebbe un bel "bottino". Per pagare le spese dei pattugliamenti (e non solo!) i comandi hanno promesso almeno il 50 per cento dei valori delle barche e dei motori ai loro uomini. Non sembra che Youssef sia bene a conoscenza delle norme del diritto internazionale. Siamo fuori dalle acque territoriali libiche, anche se di poco, e gli italiani hanno individuato i migranti per primi. Con i suoi uomini stanno stimando il costo dei due motori Yamaha da 40 cavalli, sembrano in ottimo stato. Intanto dalla nave madre arrivano le lance degli italiani. Un tenente di vascello ci chiede di allontanarci "per cortesia", mentre vengono gettati i giubbotti salvagente ai migranti. Youssef attende paziente che il primo gommone venga evacuato, quindi accelera a tutto gas e accosta. I suoi due marinai fanno per staccare il fuoribordo, quando arriva il tenente di vascello italiano per dichiarare che il tutto è sotto sequestro. "Qui siamo sulla scena di un salvataggio. Potrebbe esserci stato un crimine. Secondo le leggi del mare, tocca a noi italiani portare a Taranto ogni elemento che possa aiutare l’inchiesta, visto che siamo stati i primi ad individuare i gommoni. Se volete i motori occorre che le vostre autorità li chiedano alle nostre", spiega urlando dalla sua barca. Arriva l’ordine: "Lasciate tutto agli italiani" - Youssef non spiccica una parola d’inglese o italiano. Aiuta questa volta avere il nostro traduttore a bordo. Ma il braccio di ferro continua. Youssef chiede allora "almeno un motore". E aggiunge, come ispirato da un’idea fulminante: "Anche noi libici dobbiamo svolgere un’inchiesta, queste barche vengono dalle nostre coste. Dunque un motore a voi e uno a noi. Tenetevi pure tutto il resto, due gommoni e benzina". Trascorrono le ore. Fa caldo. Gli italiani si consultano a lungo con le radio. Viene contattato il comando di Taranto, che ribadisce l’ordine di sequestrare entrambi i motori come "prove importanti sulla scena di un possibile reato". Intanto sudano copiosamente nelle tute da sub d’ordinanza sotto il sole sempre più a picco. "Perché anche voi libici non chiedete istruzioni ai vostri capi?", suggeriscono. Youssef è riluttante, non è ben chiaro cosa capisca dalla traduzione. Non gli è mai capitata una situazione del genere. "Ho sempre visto da lontano le navi italiane. Ma non ci siamo mai parlati direttamente. E mai ho chiamato i nostri comandi mentre ero in mare", ammette. Alla fine, verso le dieci e trenta, miracolosamente viene raggiunto il suo capo a Misurata, che ordina di "lasciare tutto agli italiani". In pochi minuti la situazione si sblocca. Sleghiamo la cima che ci univa al gommone vuoto dei migranti. Gli italiani lo trascinano lentamente assieme all’altro verso la Aliseo. Il nostro rientro a Khoms è invece una folle corsa al limite del ribaltamento, tra schiuma e rimbalzi sul mare increspato dalla brezza del mezzogiorno, ma nel silenzio risentito dell’equipaggio. Diritti umani. Arresti, torture, uccisioni: avvocati nel mirino dei regimi di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 3 settembre 2016 Dall’Egitto alla Turchia, l’attacco a difensori dei diritti umani è ormai una pratica diffusa. Nel Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei trasgressori, svoltosi a l’Avana nel 1990, venne ratificato che "I governi devono assicurare che gli avvocati siano in grado di svolgere tutte le loro funzioni professionali senza intimidazioni, ostacoli, molestie o interferenze improprie". Un principio oggi sistematicamente violato, infatti a fronte dell’attacco subito da coloro che nel mondo difendono i diritti umani, cresce anche la persecuzione di chi ha come compito quello di garantire i diritti legali dei cittadini. Un salto "qualitativo" della repressione che identifica il difensore con il suo cliente, quando quest’ultimo è un oppositore politico l’avvocato viene messo nel mirino dei regimi. In occasione della presentazione del rapporto 2015-2016 di Amnesty International, nel febbraio di quest’anno, il segretario generale dell’organizzazione Salil Shetty ha evidenziato come "non sono solo i nostri diritti a essere minacciati, lo sono anche le leggi e il sistema che li proteggono". Una tendenza che attraversa il pianeta non esclusa l’Europa. Emblematico il caso di Malek Adley, l’avvocato egiziano, responsabile della Rete degli avvocati dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights, che ha scontato 114 giorni di prigione preventiva (un trattamento al quale sono sottoposti 10mila dei circa 60mila prigionieri politici egiziani) per le manifestazioni del 15 e 25 aprile contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita da parte del Cairo. Adley fortunatamente è stato liberato il 27 agosto e probabilmente ha pagato il suo impegno nel ricercare la verità, insieme al collega Ahmed Abdallah, sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni. Le numerose situazioni di guerra e instabilità politica "spingono" i regimi a compiere costanti violazioni, è così enormemente aumentata la possibilità di attacco a coloro che difendono i diritti umani, considerati come una minaccia alla sicurezza nazionale. Oltre alle torture, carcerazioni illegali e false accuse, sempre di più, come messo in evidenza da Amnesty International, viene ad esempio usata la pratica delle sparizioni forzate. In Siria, dall’inizio del conflitto nel 2011, oltre gli attivisti anche gli avvocati divengono dei veri e propri desaparecidos. Come nel caso del legale e difensore dei diritti umani, Khalil Màtouq, arrestato a Damasco nel 2012 e poi scomparso. Ancora dopo quattro anni non si hanno ancora sue notizie, anche se si nutrono poche speranze circa la sua sorte. Purtroppo invece, è chiara la fine dell’avvocato keniota Willie Kimani, il cui corpo, insieme a quello del suo cliente, è stato ritrovato nel luglio scorso in un fiume. Secondo l’Alta Corte sono stati vittime di sparizione forzata e in seguito uccisi dalla polizia. Come afferma Nicola Canestrini, coordinatore del progetto Endangered Lawyers, portato avanti per l’Unione delle Camere Penali, che si occupa di censire i casi di avvocati in pericolo e costruire reti di organizzazioni a difesa dei legali: "Non credo nella sindrome del salvatore del mondo ma siamo anche intellettuali e la società ha il diritto di aspettarsi da noi, oltre la preparazione tecnica, anche la funzione di apripista su questioni importanti". Probabilmente pensavano la stessa cosa gli 8 avvocati turchi appartenenti alla ÖHD (Özgürlükçü Hukukçular Dernegi - Associazione Avvocati per la Libertà) che la mattina del 16 marzo 2016 a Istanbul sono stati arrestati nell’ambito di un indagine per "terrorismo". Si tratta di legali conosciuti internazionalmente per il lavoro a difesa dei diritti umani. Tra di loro l’avvocato Ramazan Demir che - come hanno reso noto i Giuristi Democratici e Legal Team Italia - ha già subito persecuzioni di vario livello. L’accusa principale era quella di aver divulgato materiale video che documentava le violazioni dell’esercito turco ai danni delle popolazioni curde. Dopo il fallito golpe di luglio la repressione generalizzata in Turchia è aumentata esponenzialmente. Turchia. Liberati oltre 30 mila prigionieri per far posto ai detenuti "gulenisti" Nova, 3 settembre 2016 Le autorità turche hanno disposto il rilascio di oltre 30 mila prigionieri come parte della riforma del sistema penale iniziata dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, durante una conferenza stampa tenuta oggi, precisando che finora il numero dei detenuti rilasciati è di 33.838 persone. Già ieri sul suo account Twitter Bozdag aveva spiegato che non si tratta di "un’amnistia", dato che i detenuti saranno posti in libertà condizionale. "Il regolamento si riferisce a reati commessi prima del luglio 2016 - ha detto Bozdag -. I crimini commessi dopo il primo luglio non rientrano nella misura". Bozdag ha spiegato che in base al nuovo provvedimento saranno liberate circa 38 mila persone. Intanto, sono stati pubblicati ieri sulla Gazzetta ufficiale tre nuovi decreti che prevedono la destituzione di più di 40 mila dipendenti pubblici, di cui oltre la metà assunti presso il ministero dell’Istruzione per il loro presunto legame con l’organizzazione fondata da Fethullah Gulen, il predicatore islamico ritenuto l’ispiratore del fallito golpe del 15 luglio. In base ai nuovi decreti sono stati rimossi dal loro incarico 28.163 dipendenti del ministero dell’Istruzione, 2.018 del ministero della Sanità, 1.642 del ministero delle Finanze, 733 del ministero dell’Agricoltura e 439 del ministero della Famiglia e delle politiche sociali. Altri 369 dipendenti hanno perso il posto nel ministero dell’Interno, tra cui 24 prefetti che però non stavano prestando servizio. Il governo invece ha licenziato 302 dipendenti, mentre il ministero degli Esteri 215. Il ministero degli Affari religiosi (Diyanet) ha licenziato 1.519 dipendenti, mentre l’emittente televisiva statale "Trt" ne ha espulsi 312. Infine 7.669 agenti di polizia, tra cui 852 ufficiali, sono stati rimossi dai loro incarichi insieme a 323 membri della Gendarmeria e due del comando della guardia costiera. Le epurazioni attuate dalle autorità di Ankara dopo il fallito golpe hanno riguardato tutte le istituzioni statali, incluse le università. Con i nuovi decreti perderanno il posto infatti altri 2.346 accademici. Nel contesto dello stato di emergenza proclamato pochi giorni dopo l’azione militare del 15 luglio, sono state rimosse dai loro incarichi in istituzioni pubbliche circa 80 mila persone e molte di esse sono state arrestate con l’accusa di simpatizzare per il movimento di Gulen. Secondo i decreti pubblicati sulla Gazzetta ufficiali, il personale licenziato non potrà essere reintegrato nel posto di lavoro, né assegnato ad altre istituzioni, allo stesso modo sarà privato del passaporto e di qualsiasi licenza per il porto d’armi o il brevetto di volo. Giudici e procuratori che invece hanno lasciato il loro incarico dopo il golpe di propria spontanea volontà potranno fare domanda per essere reintegrati nei prossimi due mesi. Myanmar. Abusi e violenze nel sistema penale, democratizzazione lontana ibtimes.com, 3 settembre 2016 La fragilissima e giovane democrazia del Myanmar, guidata dal 30 marzo 2016 dal primo civile eletto a ricoprire la carica di Capo di Stato, Htin Kyaw, e garantita dal Consigliere di Stato, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace nell’ormai lontano 1991, sta cercando di trovare il miglior bilanciamento possibile tra il potere centrale, quello militare e quello delle centinaia di gruppi ribelli per avviare una stagione di progressiva democratizzazione del Paese. Pochi giorni fa proprio Suu Kyi, nel corso di una conferenza stampa, si è impegnata a riformare lo Stato birmano in senso federale, concedendo così ampi margini di potere agli enti locali e mostrando ampia capacità di dialogo anche nei colloqui di pace con i diversi gruppi ribelli etnici e politici del Paese: dal 31 agosto sono in corso a Naypyidaw, capitale della repubblica, dei colloqui di pace con 700 rappresentanti di diversi gruppi ribelli, tra cui l’Organizzazione kachin per l’Indipendenza (Kio). A tenere banco c’è sempre lei, Aung San Suu Kyi, quell’"eroina nazionale" che punta a scrivere la parola "fine" a 70 anni di conflitti etnici e politici. In questo processo complesso, e probabilmente lungo, la Birmania ha trovato appoggi e sostegno in ogni parte del mondo: dalle Nazioni Unite agli Stati Uniti d’America passando persino per il governo di Pechino. La riconciliazione della Birmania e la stabilità politica ed economica del Paese asiatico sono il principale interesse di tutti, soprattutto dei vicini cinesi che temono principalmente quei business rosicchiati dal mercato nero, come il commercio di giada e legname pregiato provenienti proprio dalla Birmania. Ma non è tutto rose, fiori e belle intenzioni nella Repubblica del Myanmar e le principali contraddizioni sono nelle carceri e nei campi di rieducazione: come diceva Cesare Beccaria "lo stato delle carceri risulta specchio dello Stato e delle Nazioni" e il trattamento dei prigionieri nei campi di lavoro in Birmania è un esempio molto interessante per comprendere la realtà del Paese, oltre che essere la chiara dimostrazione che la strada da fare per uscire da decenni di governo militare è ancora molto lunga. Un’inchiesta pubblicata su Myanmar Now il 1 settembre 2016 e ripresa dalla Reuters dimostra infatti come gli abusi e la violenza a carico dei detenuti nei campi di lavoro nello stato di Shan, nel nord del Paese, siano una pratica istituzionalizzata e quotidiana. L’inchiesta rivela come la brutalità - percosse, insulti, lavori forzati, trattamenti inumani e degradanti e vere e proprie torture - sia alla base del trattamento garantito ai detenuti nel sistema penale del Myanmar, una "schiavitù sponsorizzata dallo Stato" secondo diversi attivisti per i diritti umani: condizioni di lavoro estreme e una corruzione dilagante tra sorveglianti (altri detenuti che si comportano da veri e propri caporali) e guardie carcerarie, che costringono i detenuti a pagare tangenti per evitare percosse ed essere assegnati a lavori troppo pesanti. Nei 48 campi di lavoro presenti in Myanmar, popolati da 20.000 prigionieri condannati ai lavori forzati, le condizioni di vita e di lavoro sono terribili: le punizioni corporali violano persino le leggi esistenti nello stesso Paese e molti detenuti sono costretti a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero appartenenti a privati. Lo Stato infatti appalta spesso questi lavoratori-schiavi-reclusi alle aziende private, in aperta violazione delle convenzioni internazionali circa il lavoro forzato, e in 18 di questi campi di lavoro migliaia di detenuti buttano letteralmente il sangue nelle cave di granito e roccia calcarea, impiegati nell’estrazione e nella produzione di ghiaia. Le autorità carcerarie, grazie alla vendita della ghiaia ad agenzie governative o a società private, fatturano ogni anno diversi milioni di dollari. Le diverse testimonianze raccolte da Myanmar Now raccontano una realtà detentiva che richiama la mente ai campi di lavoro della Corea del Nord: detenuti costretti a lavorare con pesanti catene ai polsi e persino con ceppi di legno alle caviglie, percossi se stremati o se ritenuti poco produttivi nel lavoro, taglieggiati dai caporali o dai sorveglianti per non essere continuamente picchiati. Diversi ex-prigionieri, ma anche numerosi ex-guardiani, hanno descritto scenari terribili all’interno di un sistema carcerario che incoraggia gli abusi, le violenze e la corruzione perché totalmente al di fuori della legalità, con le autorità carcerarie alle quali sono stati concessi pieni poteri sull’assegnazione dei compiti e sulle punizioni da infliggere. L’ex carceriere-capo Khin Maung Myint ha raccontato che occorre corrompere i guardiani anche solo per poter scegliere con quali catene essere legati, se leggere o pesanti, ma che pagando di più si può persino ottenere la liberazione dalle stesse catene. Il regime penitenziario diffonde così la sua autorità attraverso la paura, la perdita di ogni speranza da parte dei detenuti: secondo una direttiva interna i campi di lavoro devono generare profitti sufficienti per coprire i costi di gestione (in sostanza i detenuti si pagano la galera da soli lavorando come schiavi) e questo produce altre atrocità e richieste folli ai detenuti-lavoratori per quanto riguarda il rendimento. Le autorità carcerarie negano ogni addebito e ogni trattamento illegittimo mentre in Ministero dell’Interno birmano - dicastero ancora sotto il controllo dei militari - ha fatto sapere che approfondirà le denunce di Myanmar Now, senza tuttavia commentare ulteriormente quanto descritto nell’inchiesta. Molti membri del partito di governo sono ex-detenuti che conoscono bene la situazione nei campi di lavoro, avendo speso lunghi anni detenuti sotto il regime della giunta militare. La stessa Aung San Suu Kyi è stata tenuta agli arresti domiciliari per 15 anni prima di essere liberata e di potersi candidare alla presidenza: mettere mano al sistema penitenziario birmano, e in generale all’intero sistema penale, è quindi una priorità per il nuovo governo democratico, che tuttavia dovrà lottare non poco contro una cultura istituzionale secondo la quale i detenuti in carcere sono "risorse sprecate". Il Dipartimento penitenziario per ora ha concesso 5 minuti in più di visita ai familiari dei detenuti (da 15 a 20) e la possibilità di visitare il parente detenuto qualsiasi giorno della settimana: la strada da fare è ancora molto lunga. Pakistan. Attacco in tribunale causa 13 morti. Rivendica Jaamat ul-Ahrar di Emanuele Giordana Il Manifesto, 3 settembre 2016 Nelle stesse ore, nei sobborghi della capitale provinciale, presa di mira una comunità di cristiani. Il gruppo jihadista si era staccato nel 2014 dal cartello madre dei talebani pachistani per poi farvi ritorno nel 2015. Un duplice attacco suicida in Pakistan nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan, ha segnato ieri l’ennesima giornata di violenza nel Paese dei puri. Entrambi gli attacchi, il cui bilancio è sinora di 13 morti tra poliziotti e civili oltre a diverse decine di feriti, ha preso di mira una corte di giustizia a Mardan, distretto a una cinquantina di chilometri da Peshawar. E nei sobborghi della capitale provinciale, poco prima, era stata presa di mira una Christian Colony, una comunità di cristiani. Tutti e due gli attentati - condotti da kamikaze armati - portano la stessa firma: Jamaat ul-Ahrar, un gruppo jihadista a geometria variabile che si è staccato nel 2014 dal cartello madre dei talebani pachistani (Tehrek-e-Taliban Pakistan o Ttp) per poi farvi ritorno nel 2015. Aveva espresso il suo sostegno a Daesh e al progetto del Grande Khorasan che dovrebbe segnare l’espansione a est del califfato di Raqqa. La strage di Mardan si deve a un uomo solo che prima ha lanciato una granata e poi si è fatto esplodere davanti alla corte di giustizia quando ha capito che non sarebbe riuscito a entrare nel tribunale. Tra i 13 morti ci sono 3 poliziotti e 4 avvocati. I feriti sono oltre 40. Il quotidiano pachistano The Dawn fa notare che il mese scorso 73 persone sono state uccise da un kamikaze all’Ospedale civile di Quetta (capitale della provincia occidentale Belucistan) e che la maggior parte erano avvocati, al nosocomio per rendere omaggio a Bilal Anwar Kasi, presidente dell’associazione provinciale degli avvocati (Balochistan Bar Association), vittima a sua volta di un omicidio. Anche l’attacco di Quetta, come i due odierni, era stato rivendicato da Jamaat ul-Ahrar e nel contempo da Desh. La tentata strage alla Christian Colony di Peshawar si è invece conclusa con alcuni agenti feriti e la morte dei 4 kamikaze (che si sono fatti esplodere), entrati all’alba nella zona dove vivono i cristiani, una sorta di ghetto abbastanza comune nelle città pachistane e spesso di recente costruzione: quartieri nati per paura di persecuzioni, leggi sulla blasfemia e attacchi a chiese o luoghi di ritrovo messi in atto da gruppi settari. Ma, secondo la stampa locale, questa volta non erano i cristiani l’obiettivo del commando: la Christian Colony si trova alla periferia di Peshawar dove sono situati anche un centro di formazione, un istituto per cadetti e una scuola dell’esercito. Scoperti dall’intelligence e con la polizia alle calcagna, i militanti avrebbero optato per un obiettivo vicino e più semplice da colpire. La dinamica dell’attacco (sventato) ricorderebbe quella avvenuto il 16 dicembre 2014 in una scuola militare di Peshawar come ritorsione contro l’operativo Zarb-e-Azb* e nel quale un commando del Ttp fece una massacro tra gli studenti che si concluse con un bilancio di 141 vittime. Quanto alla Jamaat ul-Ahrar, il gruppo che ha rivendicato gli attentati, la sua posizione è controversa. Inizialmente si è scisso nel 2014 dal Ttp accusato di aver sposato una fallimentare linea negoziale col governo. I suoi leader, tra cui l’ex portavoce del Ttp, hanno in seguito dato il loro sostegno a Daesh (anche se non gli hanno giurato bay’a, fedeltà) ma nel 2015 il gruppo ha poi reso noto di essere rientrato nei ranghi del Ttp, conservandone però l’etichetta. Riconoscendo dunque nuovamente come leader mullah Fazlullah, che non ha mai aderito a Daesh ed è semmai vicino ad Al Qaeda (nemico giurato dello Stato islamico) e che si troverebbe in Afghanistan uccel di bosco. *Zarb-e-Azb è un’operazione lanciata nel 2014 allo scopo di colpire le basi jihadiste nelle aree tribali. Secondo l’esercito avrebbe eliminato 3500 militanti mentre sarebbero morti 537 soldati. Ha prodotto un milione di sfollati. Australia. La sfida dell’ex giudice "io nei campi-prigione al posto di un profugo" di Enrico Franceschini La Repubblica, 3 settembre 2016 Sarebbe probabilmente il più insolito scambio di persone della storia. In Australia un ex-giudice di 88 anni si offre di prendere il posto di un immigrato clandestino detenuto nelle "isole prigioni" in cui il paese tiene i rifugiati. "Capisco che è una strana proposta ma la faccio in assoluta sincerità", scrive Jim Macken, il magistrato in pensione, al ministro dell’Immigrazione Peter Dutton. "La ragione è semplice: non posso continuare a tacere, mentre uomini, donne e bambini innocenti sono tenuti in custodia in circostanze rivoltanti. E il peggio è che le condizioni della loro prigionia hanno l’obiettivo di dissuadere altri profughi dal cercare asilo nel nostro paese. In sostanza, il governo australiano tratta i detenuti di questi campi come scudi umani. È un atteggiamento profondamente immorale. Perciò voglio fare qualcosa". L’ex-giudice propone che un singolo immigrato venga liberato e ottenga l’autorizzazione a risiedere in Australia. In cambio, lui accetterà di restare nei campi di prigionia "per tutti gli anni che mi restano da vivere". Se necessario, Macken è pronto a rinunciare alla cittadinanza australiana, in modo da diventare a tutti gli effetti uno straniero senza diritti. "Non ho nulla da perdere", dice al Guardian, "se il mio gesto darà a un profugo l’opportunità di una vita in Australia, sono pronto a prenderne il posto". Ex-sindacalista, per 15 anni presidente del tribunale del lavoro di Sidney, infine nominato membro del prestigioso Ordine d’Australia, l’anziano ex-magistrato è autore di libri e iniziative in difesa dei diritti umani. Oltre che al ministro dell’Immigrazione, che per ora non gli ha risposto, ha comunicato la sua proposta al primo ministro Malcolm Turnbull e a Bill Shorten, leader del partito laburista, a cui Macken è iscritto da quando era giovane. "Mostrate compassione e senso di giustizia", esorta entrambi, "se volete avete il potere per mettere fine a questa vergognosa situazione". Il mese scorso un’inchiesta del Guardian ha rivelato le durissime condizioni a cui sono sottoposti gli immigrati che tentato di raggiungere l’Australia. Negli ultimi anni gli sbarchi di migranti clandestini sono aumentati anche lì, spingendo il governo a prendere drastiche misure per ridurli. Tra queste, la decisione di rinchiudere i profughi in due campi di prigionia gestiti da privati, in due minuscole isole che non fanno parte dell’Australia, Nauru, soprannominata la più piccola repubblica del mondo, e Manus, che appartiene a Papua Nuova Guinea. "Il 90%, bambini inclusi, sono costretti a prendere pillole anti-depressive, passiamo la giornata a dormire in baracche, non abbiamo contatti con l’esterno", è riuscita a far sapere una donna di una delle isole-prigioni al quotidiano londinese, un raro caso in cui un mezzo di informazione ha potuto avere accesso ai campi profughi. La rivelazione ha suscitato proteste da parte delle associazioni per i diritti umani, ma l’Australia continua nella stessa politica.