"Le carceri italiane sono un dramma e offendono la civiltà", diceva Ciampi di Valter Vecellio Il Dubbio, 30 settembre 2016 Sono state dette, e scritte, tante cose giuste e vere, a proposito del presidente Carlo Azeglio Ciampi; è vero, è stato un grande europeista (di quell’Europa, bisogna aggiungere, che non c’è, e contro la quale molti lavorano); ci mancherà, non c’è dubbio, e per tante ragioni, che in tanti hanno descritto. Un coro, un po’ ovvio, un po’ di maniera; e scontate anche le volgarità che non sa trattenersi dal dire qualcuno che del resto conferma d’essere quello che è. C’è però qualche ulteriore "tassello" che è utile aggiungere al ritratto di questo Presidente, non a torto definito dell’orgoglio e della consapevolezza di come questo Paese può essere grande, e a volte sa perfino esserlo. Procedo per flash, piccole "tessere" di un più vasto mosaico. Immaginate un pomeriggio di sei anni fa. Tanto per non smentirsi, Marco Pannella è impegnato nell’iniziativa che maggiormente lo "prende", quella per la "giustizia giusta", e a partire dalla condizione delle carceri. Pannella "lancia" l’ennesimo sciopero della fame e della sete, di "dialogo" con le istituzioni per l’amnistia. Si sta preparando per un’intervista televisiva. Ecco che arriva una lettera, busta e carta del Senato; la firma è quella di Ciampi. Pannella scorre veloce il messaggio, sorride compiaciuto. Cosa c’è scritto? Ecco il testo della lettera: "Caro Pannella, come ti ho anticipato nel corso della nostra conversazione, l’età mi "impone" regole severe, che non posso trasgredire. Un’obbedienza che questa volta, molto più che in altre circostanze, mi pesa. Considerami presente, insieme con tutti quei cittadini - numerosi mi auguro - che hanno raccolto il tuo disperato appello, che con la loro presenza intendono rappresentare alle Istituzioni, ai mezzi di informazione, all’opinione pubblica la reale natura di quello che pudicamente continuiamo a chiamare "problema carcerario", ma il cui vero nome è "dramma". Il dramma che si consuma nelle nostre carceri è nel numero dei suicidi, ma lo è anche nelle condizioni in cui vivono i detenuti. I numeri che contano le "vittime" e quelli che misurano gli indici di affollamento sono dati che turbano la nostra coscienza di uomini, di cittadini di uno stato di diritto. Nelle nostre carceri viene annientata la dignità di migliaia di uomini e di donne, regredisce la civiltà di una società. Le condizioni prevalenti nelle nostre carceri sono l’ostacolo principale alla messa in opera di trattamenti di riabilitazione. Quei luoghi offendono la nostra stessa dignità di uomini liberi, sollevando dubbi sul nostro grado di civiltà. Con questi sentimenti, rinnovo il mio incondizionato sostegno alla tua iniziativa e ti invio un cordiale saluto. Carlo Azeglio Ciampi". La data è del 2010. Potrebbe valere per l’oggi: per quell’"oggi" che vede il Partito Radicale mobilitato per una marcia, per il 6 novembre prossimo, da Regina Coeli al Vaticano, in nome di Pannella e papa Francesco, per l’amnistia, per un carcere diverso, per la giustizia giusta. Un altro flash. Ciampi è presidente della Repubblica. Vuole concedere la grazia ad Adriano Sofri, che sta scontando una lunga pena detentiva, condannato definitivamente in relazione alla vicenda dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Non discutiamo qui, se condanna e processi siano giusti o meno; altra è la posta in gioco. Sofri rivendica la sua innocenza, e pazientemente sconta la condanna inflitta; non chiede grazia o speciali trattamenti. Tutto si può dire su quel caso, ma non che Sofri non l’abbia vissuto con grande dignità. Ciampi è combattuto, quella grazia vuole poterla concedere come le sue prerogative presidenziali prevedono, ma viene ostacolato in ogni modo. Gli si fa intendere che la grazia è un qualcosa che deve essere concessa di concerto con il ministro della Giustizia, all’epoca il leghista Roberto Castelli, che, tetragono, oppone il suo no, e nega la firma. Ci vuole del buono, e, in particolare, tutto il buono di cui Pannella è capace, per far capire quello che appare chiaro a prima vista: e cioè che la grazia è una facoltà presidenziale che non è sottoposta ad alcun vincolo o autorizzazione: se il presidente vuole, può; e nessuno può e deve interferire. Ci vuole del buono, e tutto il buono di cui Pannella mette in essere, sciopero della fame e della sete compresi, perché questo diritto-facoltà sia riconosciuto, dalla dottrina e dal buon senso. È utile qui recuperare alcuni documenti dell’epoca. Cominciamo con una nota ufficiale del Quirinale: "Il presidente della Repubblica ha sempre avuto a cuore, come Marco Pannella, l’attuazione integrale del dettato costituzionale. In merito all’istituto della Grazia, il presidente Ciampi, come già pubblicamente noto, ha avviato una procedura con l’intento di proseguirla fino al chiarimento definitivo". Pannella a stretto giro di posta, corrisponde: "Continuerò nella mia azione non violenta fin quando non acquisirò la certezza che l’esercizio del potere di grazia del presidente della Repubblica sia ormai nuovamente assicurata. Al Presidente rispondo innanzitutto chiedendogli di nuovo di volermi perdonare: anch’io come tutti, non compresi la gravità di quel che a due riprese egli volle che ci fosse comunicato, cioè sul suo esser impedito a procedere nell’esercitare il potere impostogli dalla Costituzione. Inoltre lo ringrazio di cuore e per il contenuto e per l’invio di questa sua dichiarazione. Ma lo strapotere in Italia di poteri di fatto, di traditori della Costituzione in nome di una pretesa Costituzione e di pretese leggi di fatto fondate su prassi anticostituzionali, questo strapotere è mobilitato come non mai in questi giorni, per opporgli i selvaggi colpi di coda e le insidie del tempo e dei tempi. Quanto al "caso Sofri" in quanto tale continua a non riguardare la nostra e la mia lotta di radicali. Prima della grazia, infatti, esso riguarda la giustizia. Il proseguirsi della sua detenzione riguarda in primo luogo non lui, ma la giustizia stessa che, ne sono ormai sicuro gli è scandalosamente negata. Auguri e grazie, caro Presidente!". Alla fine (ma davvero alla fine, che il mandato presidenziale di Ciampi scade), viene riconosciuto. Una "piccola" grande battaglia per l’affermazione di un diritto negato. Terzo flash. Maurizio Costanzo conduce su Canale 5 il suo "Buona domenica". Si parla, in quella puntata, di Pannella e del suo sciopero della sete, in corso da sei giorni, assieme a Roberto Giachetti. Anche questa volta di "dialogo", e per chiedere il rispetto del diritto, della "legge". Le Camere devono eleggere due giudici costituzionali di loro competenza. Piccola cosa, direte voi. Proprio no: la Corte Costituzionale ha il compito di stabilire se una legge sia o no compatibile con la Costituzione, compito prezioso e delicato; che su quindici componenti ne manchino un paio è un grave vulnus, Pannella e Giachetti chiedono che sia sanato; che il Parlamento faccia il suo lavoro, anche a costo di ricorrere alla seduta continua. Per questo la "sollecitazione" sotto forma di sciopero della fame e della sete. Sono due scheletri che camminano, Pannella e Giachetti; e Costanzo squarcia il pesante muro di silenzio che grava sulla loro iniziativa. È in corso la trasmissione, e arriva in diretta una telefonata, il Quirinale. "Vorrei dire", sillaba Ciampi, "in relazione a quanto hanno detto ora l’onorevole Pannella e l’onorevole Giachetti che le loro preoccupazioni per il vuoto creatosi in una istituzione fondamentale, quale è per il nostro Stato la Corte Costituzionale, vengano coperti, sono da me pienamente condivise. E sono state da me espresse preoccupazioni più volte?". Ciampi poi si rivolge direttamente a Pannella e a Giachetti: "Voglio ricordar loro che il principio fondamentale della nostra civiltà è il rispetto per la vita, anche per la propria. E di tutto cuore rivolgo un caldo appello: caro Pannella, caro Giachetti, sospendete subito questo sciopero della sete e della fame". Mentre Ciampi parla, la telecamera inquadra un carrello, fatto entrare da Costanzo, con sopra due bicchieri colmi d’acqua: "Approfittatene subito", esorta Ciampi. Appello che i due accolgono. La condannano, ma la sessualità dei detenuti è un diritto di Maria Brucale Il Dubbio, 30 settembre 2016 Il carcere rieduca, redime, pulisce, rinnova, corregge, emenda, restituisce il cittadino, ora sano, alla società civile. Non può essere meramente punitivo e afflittivo. Il reinserimento deve essere parametro anche del giudice che perviene alla pronuncia di condanna perché è il senso, è la finalità ultima cui è protesa ogni detenzione. Mai la pena può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità atti a menomare la dignità della persona. La Costituzione lo dice, la Costituzione lo pretende. Questo il principio, questa l’utopia. Il carcere in Italia è privazione, afflizione, mortificazione quotidiana, negazione dei più elementari diritti, frustrazione costante della personalità, menomazione della sfera affettiva, annichilimento della natura stessa di uomini. Il carcere ti piega, ti umilia, ti rende servo obbediente e silenzioso, ti spoglia della volontà costringendoti ad accantonarla, ti aliena, ti annienta gli istinti forzandoti a domarli, reprimerli, sconfessarli, trasformarli, custodirli, schiacciarli. Il carcere nega all’uomo di essere uomo. Si legge nell’art. 18, comma secondo, legge 354 del 1975, ordinamento penitenziario: "I colloqui - tra il detenuto e i familiari - si svolgono in appositi locali sotto il controllo vista e non auditivo del personale di custodia". Tradotto in parole povere, la sessualità è negata. Il desiderio, la spinta naturale, l’istinto sono negati, spezzati, repressi, spenti per l’intera durata della pena. Il sesso fa parte dell’uomo, della sua essenza. Trascende l’istintualità, è sostanza di uomo. Il carcere strappa all’uomo la sua essenza, comprime, forza, brutalizza la sua natura, la mutila. Mutilazione è, può essere rieducazione? Può il carcere redimere, pulire, rinnovare, correggere, emendare, restituire alla società - civile? - un uomo sano che ha mutilato della sua sostanza, natura, essenza. Era il 2012 quando il tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’avallo della procura generale competente, interpellava la Corte Costituzionale chiedendo che fosse dichiarato illegittimo l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario laddove prevedeva la costante presenza vigile del personale penitenziario agli incontri del recluso con i propri congiunti e, di fatto, escludeva l’espressione di qualsivoglia sessualità. La prescrizione, per il tribunale, costituiva con evidenza una lesione del diritto ad una carcerazione umana e non degradante rientrando il diritto della persona ristretta ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il partner, tra i diritti inviolabili dell’uomo, secondo anche le raccomandazioni del Consiglio d’Europa: diritti limitati, ma non annullati, dalla condizione di restrizione della libertà personale. La pronuncia della Consulta, intervenuta nel dicembre del 2012, rassegnava nella sostanza la propria incompetenza a definire, senza l’intervento del legislatore, un ambito tanto complesso e delicato che involge il tema dell’ordine e della sicurezza e richiede l’estrinsecazione chiara di termini e di modalità di accesso al diritto a vivere, pur reclusi, la propria sessualità, l’individuazione dei relativi destinatari, interni ed esterni, la definizione dei presupposti comportamentali per la concessione delle "visite intime", la specificazione del loro numero e della loro durata, la predisposizione dei locali, la determinazione delle misure organizzative. Nulla di fatto, dunque, finora. Oggi, nel ddl di modifica del codice penale, di procedura penale, dell’ordinamento penitenziario, si legge, tra gli obiettivi della delega: "riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio". Un segnale di attenzione ancora timido che deve tradursi in disposizioni normative che riconoscano l’esistenza di un diritto e garantiscano la piena dignità delle persone detenute nella fruizione di esso, nella sola direzione possibile, quella voluta dal Ministro Orlando nell’avventura degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale: l’attuazione (finalmente!) dell’art. 27 della Costituzione. Viaggio a Pianosa, dentro le celle dove lo Stato isolò i suoi nemici di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 settembre 2016 Stanze di 5 metri per 4 con tre brande fissate al pavimento. Lì furono rinchiusi brigatisti e boss mafiosi. Oggi nell’isola carcere restano 20 reclusi che fanno lavori all’aperto. I calcinacci a terra, le pareti scrostate, le porte blindate arrugginite sono l’immagine del tempo trascorso. Come la sterpaglia che assedia i muri di cinta e i cortili interni. Ma entrare dentro le celle dell’ex carcere di Pianosa, che ha ospitato i più pericolosi nemici delle istituzioni, desta ancora un senso d’inquietudine e angoscia per le due guerre combattute dallo Stato contro terrorismo e mafia. Anche attraverso questo quasi-lager. La lotta al terrorismo - È chiuso da vent’anni, e venti anni prima, 1977, la piccola isola alle spalle dell’Elba fu trasformata da colonia penale a penitenziario di massima sicurezza. Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa - che dopo aver contrastato la prima generazione di brigatisti rossi fu addetto alla protezione esterna delle prigioni italiane, poi richiamato all’antiterrorismo e infine assassinato da killer mafiosi - fece erigere un muro per isolare detenuti e secondini dal resto dell’isola: un chilometro e mezzo di cemento armato ancora in piedi nonostante sia una creatura del secolo scorso come il muro di Berlino. Dietro quella barriera, che raddoppiò quella intitolata a Vittorio Emanuele tanti anni prima, fra strade sterrate, uliveti e arbusti si arriva alla sezione Agrippa, uno dei cinque edifici che ospitavano i reclusi. È qui che fu istituito il girone dei dannati. Mentre nelle metropoli si sparava quasi ogni giorno, i capi delle Brigate rosse e bande armate simili (da Alberto Franceschini a Roberto Ognibene, passando per Giorgio Semeria e altri) furono chiusi in queste celle di cinque metri per quattro con tre brande fissate al pavimento, una panca e uno stipetto murato, uno sgabuzzino con il water. Costretti a vivere 23 ore al giorno dietro la porta blindata affacciata da un lato sul corridoio e dall’altro sul cortile del passeggio: 15 passi per 10, con una grata che mostrava il cielo a scacchi anche durante l’ora d’aria quotidiana. Le bombe di Cosa nostra - All’Asinara c’erano condizioni simili, e i brigatisti in libertà provarono a organizzare un’evasione; qui non l’hanno nemmeno immaginata. Poi arrivarono i camorristi più feroci, fino all’esaurimento degli "anni di piombo", seconda metà degli Ottanta. Pianosa tornò a essere un’isola quasi normale, Agrippa non fu più sinonimo di isolamento e "carcere duro". Ma nel 1992 le bombe mafiose fecero calare la seconda notte della Repubblica, e lo Stato replicò la sua reazione: la strage di Capaci provocò la decisione, l’eccidio di via D’Amelio fece scattare la traduzione di decine di boss. L’allora ministro Claudio Martelli firmò l’ordine sul cofano della sua macchina, la notte del 19 luglio, dopo aver reso omaggio al cadavere straziato di Paolo Borsellino. Capimafia del calibro di Michele Greco, Pippo Calò e Giuseppe Madonia si ritrovarono dal cosiddetto "grand hotel Ucciardone" ai patimenti di Pianosa, codificati dall’articolo "41 bis" dell’ordinamento penitenziario e reso ancora più aspro da una prassi già sperimentata coi terroristi. Al punto da innescare nuovi "pentimenti" tra chi non riuscì a sopportare il nuovo regime: dal killer mafioso Pino Marchese, che in pochi mesi fornì la traccia per individuare gli assassini di Giovanni Falcone, al camorrista Carmine Alfieri, che parlò dei rapporti con l’alta politica. Disposti a tradire ogni legame pur di non rimanere su quest’isola di cemento armato. Le denunce di Amnesty International - Insieme ai grandi latitanti caduti in trappola, da Leoluca Bagarella a Nitto Santapaola, cominciarono ad arrivare le denunce di Amnesty International e pure le minacce. Come quella recapitata nel 1993, prima delle bombe di Firenze, Roma e Milano, da sedicenti familiari di detenuti che lamentavano maltrattamenti e vessazioni. È uno dei capitoli della presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, in cui fu prevista - nella ricostruzione dell’accusa - anche la chiusura del super-carcere toscano. Arrivata nel ‘97, quando fu svuotata l’ultima cella e Cosa nostra aveva già cambiato strategia. Da allora la sezione Agrippa è rimasta un monumento alla repressione delle sfide più gravi subite dalla Repubblica italiana. Abbandonato a se stesso. I nuovi progetti - Mentre ha ripreso vita la diramazione Sambonello, dove negli anni Trenta il regime fascista confinò Sandro Pertini, che oggi ospita una ventina di detenuti sbarcati dalla prigione di Porto Azzurro, che qui trascorrono il loro periodo di lavoro esterno: condannati che curano gli orti e i campi, in un progetto di reinserimento sociale che dovrebbe incrementarsi con il sostegno del ministro della Giustizia Andrea Orlando. "Qui è stato scritto un pezzo importante della storia criminale del Paese, e da qui adesso può partire un importante percorso di riscatto", ha detto l’altro giorno il Guardasigilli visitando Pianosa. Divenuta un Parco naturale, con turisti a numero chiuso obbligati a oltrepassare il "muro dalla Chiesa" prima di immergersi nella natura un tempo destinata a inghiottire i reclusi più reietti, oggi integralmente restituita alla sua bellezza. E con le stradine dell’antico borgo intitolate alle vittime di mafia. La riforma della giustizia penale resti fuori dai soliti giochi di Carlo Nordio Il Messaggero, 30 settembre 2016 Se è vero che, come recita l’Ecclesiaste, ogni cosa ha il suo tempo e c’è un tempo per ogni cosa, il momento scelto dal governo per l’approvazione della riforma della giustizia penale non poteva essere peggiore. Questo argomento è infatti diventato una sorta di tabù, soprattutto da quando le vicende processuali di Berlusconi hanno collocato una pesante ipoteca su ogni iniziativa innovatrice, vista a seconda dei casi, a torto o a ragione, come un favore o un dispetto nei confronti del Cavaliere. Ma proprio perché questo terreno è minato da ordigni fatali collocati da forze opposte ed eterogenee - magistratura, avvocatura, opposizioni esterne e minoranze interne, garantisti interessati e giacobini forcaioli - la prudenza avrebbe consigliato un’occasione migliore. Per intenderci, non esattamente nell’imminenza del referendum, quando la minima oscillazione di schieramenti può compromettere la sopravvivenza del governo, della legislatura e, forse, la nostra credibilità nell’Unione Europea. Non entreremo nel merito di questa riforma, già pesantemente criticata dall’Associazione magistrati e vista con scetticismo anche da ambienti non pregiudizialmente ostili al governo. Per conto nostro, pur ammettendone la buona volontà degli autori, crediamo che farebbe la fine delle precedenti, edificate su due impalcature decrepite. Parliamo del codice penale, che è del 1930 e reca la firma di Mussolini, e di quello di procedura, ormai snaturato da tante aggiunte e soppressioni da renderlo incomprensibile. In definitiva, se approvata, non servirà a niente, perché non si mette vino buono nella botte marcia. Ma questo discorso ci porterebbe a un futuro troppo lontano. Limitiamoci dunque a considerare il presente. L’errore più grave del governo, a ben vedere, non è stato o quello di introdurre un’ennesima pezza sul vestito di Arlecchino: in questo ha avuto precedenti illustri e recenti, anche più dilettanteschi e funesti. E nemmeno quello di scegliere, come dicevamo, un momento difficile con una maggioranza volatile: si può sempre, per ragioni tecniche, aggiornare la discussione rinviando tutto all’anno nuovo. L’errore più grave, ci pare, è stato quello di manifestare un’esitazione nuova ed estranea all’immagine consolidata del primo ministro. Esitazione che può essere interpretata come debolezza, sconfinante nella subalternità. Che senso ha, infatti, condizionare la fiducia sul provvedimento all’amicizia o all’ostilità della magistratura? Non si era sempre detto, e a ragione, che una legge è frutto di meditazione culturale e magari di mediazione politica, ma che una volta definita non può essere influenzata da forze diverse da quelle espresse dalla volontà popolare? Se un progetto è buono, lo si mantiene; se è controverso, lo si discute; se è cattivo, lo si cambia. Ma non lo si espone ai capricci - e Dio non voglia ai ricatti - di organismi estranei all’istituzione parlamentare. A maggior ragione quando lo stesso governo si è avvalso dello strumento della fiducia su questioni di assai minor rilievo, anche a costo di doversi smentire per ben due volte, come quando ha incautamente rottamato cinquecento magistrati senza prospettarsene le conseguenze sull’efficienza degli uffici giudiziari. Queste cose le diciamo con rammarico, perché mai come ora il Paese ha avuto bisogno di stabilità e di coerenza: ma se questa viene meno, anche quella rischia di saltare. E se le ragioni del referendum impongono una logica di realistico pragmatismo, non è il caso di comprometterne gli esiti con questi tentennamenti su argomenti vitali. La giustizia ha aspettato tanto, e soprattutto aspetta ancora riforme ben più incisive e radicali di quella oggi contestata. L’auspicio è che, recuperata l’originaria energia, il governo le sappia affrontare al momento giusto con lucidità e coraggio, senza guardare in faccia a nessuno. I giudici festeggiano lo stop al ddl penale: "abbiamo vinto grazie all’Anm" di Paolo Comi Il Dubbio, 30 settembre 2016 La "linea" Piercamillo Davigo paga. Il successo è innegabile, nitido. Sono state sufficienti un paio di interviste su alcuni quotidiani "giusti" ed il gioco è fatto. I lavori parlamentari del disegno di legge 2067 sul processo penale sono stati come per prodigio subito interrotti. Quando sembrava che l’accordo fra le forze politiche fosse stato faticosamente, raggiunto, ecco che la fatwa del presidente dell’Associazione nazionale magistrati rimette tutto in discussione. La lettura del cortocircuito governativo sulla giustizia è molto popolare tra gli stessi magistrati. Alcuni dei quali raccontano di aver letto sulle mailing list riservate dei giudici entusiastici, trionfali commenti di diversi colleghi dopo il no di Renzi alla fiducia sulla riforma. Esaltazione della linea Davigo, che ha procurato la retromarcia del premier sulla blindatura del testo. Vere e proprie esultanze per quella frase, "su una legge che dovrebbe servire ai giudici non si può andare contro il capo dell’Anm". Una frase del genere, scrivono le toghe nelle loro mail, "Renzi non l’avrebbe mai pronunciata un anno fa". Vittoria. Governo ridotto alla resa. Il giubilo proviene sia da magistrati che appartengono alla corrente di Davigo, Autonomia & Indipendenza, che da altri gruppi della magistratura associata. Non si tratta insomma solo di propaganda interna all’Anm, ma della consapevolezza che qualcosa sta cambiando negli equilibri del potere. Si potrebbe osservare che l’errore è stato all’inizio: non aveva speranze di essere approvato un disegno di legge che ha per titolo "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena". Troppe garanzie tutte insieme, fumo negli occhi per il potentissimo partito dei pubblici ministeri. Nel dibattito che sta ora avvenendo all’interno dell’Anm, il risultato ottenuto da Davigo è lampante. Domenica scorsa, all’incontro organizzato dalla sua corrente, ha accusato apertamente il governo Renzi di aver compiuto in questa legislatura le cose più "incredibili". Sono lontanissimi i tempi della felpata gestione di Rodolfo Sabelli, che allo scontro frontale prediligeva la mediazione. In meno di un anno, Davigo è riuscito ad imporre la sua linea alla Giunta esecutiva dell’Anm senza correre il rischio che qualcuno gli facesse ombra. Tra i nodi del contendere, una norma che avrebbe riportato il Paese nell’alveo dello Stato di diritto. E cioè, l’obbligo per i pubblici ministeri, quando sono scaduti i mesi e mesi per terminare le indagini, di decidere entro tre mesi dalla loro chiusura, se chiedere l’archiviazione o se andare avanti formulando il capo d’imputazione. Secondo la norma che si voleva introdurre per rendere certi i tempi della effettiva chiusura delle indagini, se il pm rimane inerte per tre mesi, i suoi colleghi della procura generale decideranno al suo posto, ricorrendo all’avocazione. Norma di assoluto buon senso, che avrebbe impedito ai pubblici ministeri di tenere sulla graticola per anni i propri indagati. Troppo bello per essere vero. Renzi ha ceduto, Davigo ha vinto. Accreditandosi ancora di più fra i suoi colleghi. E, forse, in caso di vittoria del No al referendum, proponendosi come alternativa per Palazzo Chigi. Raffaele Cantone permettendo. Fine gogna mai, non c’è riforma che tenga di Giuseppe Sottile Il Foglio, 30 settembre 2016 I magistrati non accetteranno mai il recinto dei limiti di tempo. Ma come gli è venuta in mente al ministro di Giustizia, Andrea Orlando, l’idea pazza di imbrigliare i magistrati delle procure entro una scadenza perentoria? Da politico esperto avrebbe dovuto sapere che dentro i palazzi di giustizia puoi introdurre qualsiasi norma ma non quella che assegna i tempi entro i quali deve comunque essere presa una decisione. Il motivo è semplice. Il magistrato - sempre in nome di princìpi sacri e inviolabili, come l’autonomia o l’obbligatorietà dell’azione penale - non accetterà mai la logica del recinto. E il semplice pensiero di avere qualcuno che gli imponga un orario di lavoro gli procura quasi l’orticaria. Soprattutto se il magistrato è già una star del sistema giudiziario e, in quanto star, ha quindi bisogno di partecipare ai convegni, di mantenere le pubbliche relazioni, di rilasciare interviste, di avere uno spazio nei talk-show, di intervenire nel dibattito politico e, in particolar modo, di intestarsi la titolarità di quelle inchieste capaci di fare rumore, tanto rumore. Perché solo l’indagine che artiglia un potente vola immediatamente sui giornali, restituendo a chi l’ha avviata onore e gloria, salti di carriera e schegge di onnipotenza. Orlando, che è un ministro saggio e un uomo per bene, ha forse sottovalutato questo dettaglio e nella sua riforma, quella che ora rischia di arenarsi al Senato, ha pensato di far convivere sia il bastone che la carota, sia il diavolo che l’acquasanta. Con grande compiacimento dell’ala giustizialista sempre presente nel Parlamento, ha prima dilatato i tempi della prescrizione, avallando così il principio che un processo - primo grado, appello e Cassazione - possa durare oltre vent’anni e che un povero cristo possa anche rimanere in attesa di giudizio per un quarto di secolo: fine gogna mai. Ma subito dopo ha pure scritto un articolino con il quale richiama i pubblici ministeri, a un minimo di ordine: completata l’indagine, avrete tre mesi di tempo per decidere se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio; e se non rispetterete questo termine, l’indagine sarà automaticamente avocata dalla procura generale che si comporterà di conseguenza. Apriti cielo. È stata la goccia d’olio che ha fatto impazzire la maionese, la parola in più che ha di colpo acutizzato tutti i mal di pancia fino a determinare la rottura del confronto con l’associazione dei magistrati. "È una riforma inutile e dannosa", ha tagliato corto Piercamillo Davigo, che dell’Anm è il presidente più amato perché senza macchia e senza paura, come i biondi cavalieri della nostra infanzia. E al Guardasigilli non è rimasto che sperare in una successiva sessione parlamentare, quando le acque del referendum si saranno calmate e ogni scontro sarà probabilmente meno arcigno e acuminato. Restano però da esaminare le conseguenze. Per il vasto mondo degli imputati - cioè di coloro che la mattina vanno in tribunale ad affrontare un processo - lo stop alla riforma proposta può anche rappresentare un colpo di fortuna, un improvviso bacio della provvidenza: se i giudici non si sbrigano, in tempi ragionevoli arriverà la prescrizione e, con la prescrizione, la cancellazione del reato. Resta invece senza confini e senza tempi l’altra gogna: quella, ancora più velenosa e corrosiva che puntualmente nasce da un sospetto, da un avviso di garanzia, da una perquisizione, da un invito a comparire, perfino da una maldicenza. È la gogna, tanto per essere chiari, riservata all’indagato. Quando si concluderà l’indagine che lo coinvolge? E chi lo sa: forse tra un anno, forse due, forse ancora di più. Dipende dal singolo magistrato, certo. Ma può dipendere anche dal perito a cui è stato affidato un accertamento. Dipende dalla procura, ma può anche dipendere dal giudice per le indagini preliminari, quello che chiamiamo Gip. Dipende anche dal segreto istruttorio ma se c’è un pm che lo rispetta, ce n’è certamente un altro che non vede l’ora di spifferare la notizia al giornalista amico, lo stesso con il quale, magari, sta preparando un libro certamente destinato a scalare le classifiche. Oppure - e qui si torna al nodo che il ministro Orlando avrebbe voluto sciogliere - può capitare, come capita spesso, che nasca un conflitto tra la procura e il Gip; e a quel punto, addio certezze: la matassa finirà per imbrogliarsi in maniera così verminosa che non ci sarà Cassazione in grado di dirimere la controversia o di fissare quantomeno tempi certi per la soluzione del dilemma. Scatterà inesorabilmente il gioco lungo ed estenuante dei ricorsi e dei controricorsi, delle deduzioni e delle controdeduzioni. Tutto legittimo, per carità. Tutto secondo il codice di procedura penale. Ma con una sola conseguenza: fine gogna mai. Perché, mentre gli uffici litigano - a volte in maniera anche bizzarra, come vedremo - l’indagato diventa sempre più un appestato, inchiodato lì, alla croce del sospetto, e condannato, senza alcuna sentenza, a subire ogni sputtanamento, ogni mascariamento, ogni ostracismo. Altro che presunzione di innocenza, come vorrebbe la Costituzione più bella del mondo. Pensate a ciò che è successo al senatore Antonio D’Alì, trapanese. Imputato di concorso esterno in associazione mafiosa ha dovuto aspettare sei anni prima di vedere riconosciuta la propria innocenza. E dire che, per ridurre al minimo i tempi del giudizio e anche della gogna, aveva scelto il rito abbreviato. Ma il processo era nato male. Era scaturito da un contrasto tra i pubblici ministeri che chiedevano l’archiviazione, e il Gip che ha invece imposto nuove indagini. Il tira e molla è andato avanti per un po’. Poi, all’improvviso, il miracolo. I rappresentanti dell’accusa, gli stessi che avevano chiesto il proscioglimento perché non c’erano elementi tali da giustificare un processo, sono diventati colpevolisti e hanno fatto di tutto, sia in primo grado che in appello, per arrivare alla condanna dell’imputato. Sono arrivati a chiedere sette anni e quattro mesi di carcere ma la sentenza definitiva ha fatto piazza pulita: D’Alì assolto perché il fatto non sussiste. Altro nome eccellente, altra bizzarria. A Catania la gogna di Mario Ciancio, potente editore del quotidiano La Sicilia, sembra non dovere finire mai. È cominciata nel 2010 e sembrava essere finita a inizio di quest’anno quando Gaetana Bernabò Distefano, giudice delle indagini preliminari, ha firmato una sentenza di proscioglimento con la quale sosteneva che il concorso esterno è un reato talmente fumoso che non si sa con esattezza a che cosa possa essere applicato. Ma una dichiarazione polemica del capo dell’ufficio dei Gip, Nunzio Sarpietro, e l’inevitabile ricorso della procura hanno spinto la Cassazione ad annullare la sentenza della Bernabò Distefano e a riaprire i giochi. Per richiuderli passeranno mesi, forse anni. Anche perché, visto che il dottor Sarpietro si è pronunciato con tanta forza contro la collega, difficilmente la decisione potrà essere affidata al suo ufficio: sarebbe come avallare un pregiudizio. Dovrà quindi passare a un altro tribunale, quello di Messina, i cui giudici saranno costretti a studiare il voluminoso fascicolo dalla prima all’ultima carta ed è veramente difficile prevedere quando potrà arrivare la sentenza di proscioglimento o di rinvio a giudizio. Fine gogna mai. Figurarsi poi se Ciancio fosse malauguratamente costretto dal giudice messinese ad affrontare le tappe di un processo: primo grado, appello, Cassazione. La sua vicenda finirebbe dritta dritta nel reliquario degli orrori giudiziari. Un reliquario immenso. Dove già riposa la storia di Calogero Mannino, ex ministro democristiano, tenuto alla sbarra per ventiquattro anni, con una infamante accusa di mafia, e poi assolto. Dove si ritrova la storia di Mario Mori, il generale dei carabinieri che da quindici anni esce indenne da un processo ed entra in un altro, sempre per mafia. E dove ritroveremo anche fra qualche anno la storia della fantomatica trattativa tra i boss della mafia e alcuni uomini delle istituzioni. Il processo - una boiata pazzesca, stando alla valutazione di Giovanni Fiandaca, uomo di sinistra e professore ordinario di Diritto penale - è cominciato da quasi quattro anni e siamo ancora alla sfilata dei testimoni. Pensate: avevano fissato pure l’interrogatorio di Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica, e non sapevano che quello, poveraccio, stava per morire. Non solo: per ascoltare Massimo Ciancimino, ritenuto con tutte le sue patacche il teste chiave del processo, hanno impiegato cinque mesi. E se questo ancora non basta per convincervi di che pasta è fatto questo processo, sappiate che non c’è farfallone di Stato, come il pentito calabrese Antonino Lo Giudice, detto il Nano, che non trovi udienza per illustrare alla Corte le sue nefandezze. Verbali dove trovi tutto e il contrario di tutto, confessioni e ritrattazioni, irripetibili illazioni e accuse canagliesche contro carabinieri e poliziotti, persino contro Giuseppe Pignatone, oggi stimatissimo procuratore di Roma. Ma a che serve, si dirà, tutto questo lerciume? Se chiedi ai magistrati che lo chiamano a deporre, ti rispondono che anche la strampalata deposizione del Nano è finalizzata alla ricerca della verità. Ma se rivolgi la stessa domanda agli imputati, che non riescono nemmeno a ipotizzare in quale anno o in quale secolo potrà concludersi il loro calvario, la risposta è un’altra: fine gogna mai. Preavviso di garanzia al Pd di Renzi. L’avvertimento di Davigo: presto processi sulle primarie di Anna Maria Greco Il Giornale, 30 settembre 2016 Un avviso bonario o un preavviso di garanzia? Come leggere le parole di Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, che nel suo nuovo libro scritto a quattro mani con Gherardo Colombo ("La tua giustizia non è la mia") ha lanciato un minaccioso pizzino al Pd? "Prima si rubava per fare carriera nel partito - il suo ragionamento. Ora invece ci sono altri metodi. Quando celebreremo i processi sulle primarie, capiremo come funziona". E considerando che le primarie - con relativi strascichi giudiziari - le ha fatte solo il Pd, ecco che Renzi può temere l’assalto giudiziario. C’è una frase di Piercamillo Davigo che suona come un avvertimento al premier Matteo Renzi: "Il problema è che mentre prima, pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici, adesso si usano altri sistemi. Al momento non è ancora chiaro quali siano, perché i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti. Quando li faremo, scopriremo come funzionano". Le primarie, si sa, in Italia le fa solo il Pd con Sel e il presidente dell’Anm, ex stella del pool di Mani pulite, parla da magistrato e certo a ragion veduta, informata. La frase sibillina la scrive nel libro firmato con Gherardo Colombo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. È in uscita con Longanesi e il Corriere della sera ne ha anticipato alcune parti. Perché Davigo lancia un avvertimento su corruzione e primarie che certo fa tremare il partito del presidente del Consiglio? Che cosa sa? Di problemi quest’anno ce ne sono stati nelle elezioni dei democratici, con denunce, accuse di brogli e inchieste. A Milano ha fatto notizia la mobilitazione di cinesi per Giuseppe Sala, ma a Napoli sono intervenuti pesantemente i pm. Telecamere nascoste dai cronisti hanno, infatti, registrato scene sospette davanti ai circoli Pd allestiti per il voto del 6 marzo, con consiglieri e delegati che davano soldi agli elettori per votare la candidata Valeria Valente, diventata candidata sindaco con uno scarto di quasi 452 voti rispetto allo sfidante Antonio Bassolino. Ai seggi di Scampia, Villa San Giovanni, Piscinola, San Giovanni - Sala Rusticone, consegnavano ad alcune persone l’euro per la donazione al partito o anche 10 euro, perché mettessero la croce sul nome giusto. Bassolino, "disgustato per il mercimonio" di voti, ha poi presentato ricorso, chiedendo l’annullamento dello scrutinio nei seggi incriminati. E la procura di Napoli ha iniziato una indagine conoscitiva sulla base del video. Ci sono anche le immagini girate davanti ad un Caf del rione Sanità, dove si vedono entrare diverse persone munite di schede elettorali. Ne sono nati tre filoni d’indagine. Mentre la commissione di garanzia per le primarie del centrosinistra ad aprile archiviava il procedimento disciplinare sugli accusati Tonino Borriello e Gennaro Cierro. "A Napoli c’erano file lunghe così, alle primarie del Pd, neanche regalassero soldi. Anzi sì, li regalavano", è stata la satira di Maurizio Crozza. Anche a La Spezia ci sono state accuse di brogli durante lo spoglio di aprile, denunce di anomalie, risse e ricorsi. Ma guai giudiziari si vedono da anni, anche attorno alle primarie per il parlamento Pd-Sel del 2012. A Salerno intercettazioni rivelavano progetti di brogli e i magistrati hanno indagato su stretti collaboratori di Vincenzo De Luca. A Brindisi, il processo per falso a 30 scrutatori che, per l’accusa, avrebbero inserito nomi di votanti mai andati al seggio. La procura di Potenza ha indagato sulle primarie per la segreteria del Pd in Basilicata del 2014. E nel 2015 è stata la procura di Savona a indagare sul presunto inquinamento delle primarie liguri del Pd, per violazione della legge sulle candidature nella pubbliche amministrazioni. Al centro, le vicende del seggio di Albenga, città dove Raffaella Paita ha vinto su Sergio Cofferati. E questi ha denunciato che c’erano stati troppi stranieri e minori alle urne. Sono solo alcuni casi, c’è da capire a quale pensasse Davigo. E che sorprese verranno fuori per il Pd. Cybersecurity: il crimine online fa 12 vittime al secondo. Ottobre, mese della sicurezza di Arturo Di Corinto La Repubblica, 30 settembre 2016 Nell’ultimo anno in Europa aumento esponenziale di attacchi informatici nei confronti di aziende, governi, partiti e banche. Il cybercrimine fa 12 vittime al secondo. Mentre i governi devono difendersi dagli state sponsored attacks, la commissione europea ha deciso di aumentare la consapevolezza dell’importanza di una cultura diffusa della sicurezza informatica. Le cifre sono sbalorditive: il cybercrime fa un milione di vittime al giorno in tutto il mondo, produce centinaia di miliardi di danni, blocca servizi essenziali ma non abbiamo abbastanza esperti per fronteggiarlo. Addirittura le nostre aziende sono impreparate perfino a definire le strategie minime di contrasto e non trovano personale già formato in grado di occuparsene. È questo il motivo per cui sabato 1 Ottobre comincia il mese europeo dedicato alla sicurezza informatica voluto dall’Unione Europea. Nell’ultimo anno nel continente c’è stato l’aumento esponenziale di attacchi informatici nei confronti di stati sovrani, aziende, gruppi bancari e partiti politici e l’Europa ha finalmente realizzato che deve dotarsi di risorse e regole adeguate a limitare i danni che ne derivano. Perciò, attraverso l’Enisa l’Agenzia Europea per la Sicurezza delle Reti e dell’Informazione e il direttorato DG Connect, la Commissione ha deciso di coinvolgere realtà associative e imprenditoriali per aumentare il livello di consapevolezza di fronte a uno scenario che Bruce Schneier, uno dei massimi esperti al mondo di reti non esita a definire di cyberwarfare. Così insieme a Europol e molti attori commerciali, imprese ed organizzazioni europee saranno protagoniste di parecchie iniziative, circa 30 solo in Italia, che hanno l’obiettivo di sensibilizzare, educare e discutere dei tanti aspetti di quella sicurezza informatica che oggi rappresenta, come ha detto il nostro Garante per la privacy, Antonello Soro, un asset fondamentale per cittadini e imprese. L’iniziativa inoltre è l’occasione per rimarcare l’importanza e creare il terreno per la futura adozione del framework per la sicurezza informatica da poco licenziato a Bruxelles dove il 6 luglio il Parlamento Europeo ha stabilito che gli operatori dei servizi essenziali devono imparare a proteggersi dagli attacchi informatici e notificarli in tempo alle autorità. E questo perché il loro danneggiamento potrebbe compromettere il normale svolgimento delle attività quotidiane dei cittadini europei. E con una interessante novità: da Strasburgo, tuonano, non si parli più soltanto delle infrastrutture critiche come dighe, ospedali, aeroporti, elettrodotti e ferrovie quando si parla di servizi essenziali, ma si includano nella definizione anche i servizi cloud, i search enginge, i mercati elettronici, che contribuiscono a tante attività sociali ed economiche. Gli eventi. A Roma il Palazzo dei Congressi ha ospitato uno degli eventi maggiori previsti in Italia: Cybertech Europe, che prevedeva la partecipazione di Eugene Kaspersky, fondatore dell’omonima azienda di cybersecurity, leader mondiale del settore. Altri eventi importanti sono il Security Summit a Verona il 5 e quello di Milano organizzato da Clusit per il giorno10. A Bologna il 15 ottobre c’è un evento organizzato da Wikipedia e il 29 HackinBo. Mentre all’università di Macerata ci sarà un evento sul deep web. Il tema principale in tutta Europa rimane comunque il cybercrime. Basti pensare che il fenomeno, che fa 12 vittime al secondo, presenta altri numeri impressionanti. Nel solo 2015 i cybercriminali hanno prodotto 230 mila forme di malware mentre i quattro quinti delle aziende della Top 500 di Fortune ha subito una violazione dei propri sistemi scoprendola a distanza di 4 o 5 mesi. Così, mentre il 90% dei databreach è stato causato da software difettoso o malconfigurato, colpendo aziende sanitarie, manifatturiere, finanziare, governi e trasporti, e causando una perdita di 158 miliardi di dollari per i consumatori, diventa più chiaro il problema dello skill shortage informatico. Anche qui le cifre sono sbalorditive: manca almeno un milione di professionisti. E le molte iniziative di attori privati per rimediare al problema non sembrano in grado di potere affrontare la carenza di personale competente nei settori della cybersecurity e della cyberintelligence che secondo stime diverse di Intel security e Ibm security si attesta a livello globale su due milioni di figure professionali. E tuttavia da più parti si solleva un problema, quello della formazione. L’urgenza appare un massiccio investimento formativo nel campo della sicurezza informatica che vada al di là di hackaton, workshop e contest a premi. Positive in questo senso le iniziative come Project Zero di Google che offre 200mila dollari a chi scopre le falle di Android facendole diventare patrimonio collettivo, il Talent Lab di Kaspersky che mira a formare universitari e professionisti sotto i 30 anni per instradarli in un percorso di coaching sotto la sua ala protettrice. O l’Ibm che collabora con alcune università italiane come da tempo già fanno in NTT Data Italia con il distretto di cybersecurity di Cosenza. Ma queste iniziative sporadiche ed estemporanee non possono sostituire una specifica offerta universitaria in tutto il paese, da rivolgere a ogni tipo di candidato, anche a donne e studenti lavoratori. Tribunali, Orlando anticipa il bando per assumere 1.000 cancellieri di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016 Mentre Renzi strizza l’occhio agli "amici magistrati" per congelare la riforma del processo penale di Orlando fino al referendum e l’Anm rilancia l’allarme "paralisi" degli uffici giudiziari per carenza di cancellieri (ne mancano 9mila), riunendo domani a Roma i capi di tutti gli uffici giudiziari, il ministro della Giustizia risponde fissando tempi e contenuti del decreto di assunzione a tempo indeterminato di mille unità di personale amministrativo non dirigenziale e avviando la procedura per il reclutamento di altri 360 magistrati (ne mancano mille). Insieme alla ministra della Funzione pubblica Madia ha deciso che il decreto sui cancellieri arriverà (anticipatamente) il 20 ottobre e il bando verrà pubblicato il 21 novrembre. Poi ha scritto al Csm per la pubblicazione del nuovo bando di concorso dei magistrati, la cui pubblicazione "è programmata per la fine del prossimo mese". Insomma, di fronte all’inedita alleanza Renzi-Davigo, il guarda- sigilli cerca di togliere acqua al mulino della protesta, passando al contrattacco. Alla vigilia di quella che si preannuncia un’assemblea infuocata nell’Aula magna della Cassazione, dove Procuratori e presidenti di Corti e Tribunali descriveranno, dati alla mano, una giustizia quasi al col- lasso per mancanza di personale, Orlando fa sapere che, dei mille posti a concorso, 800 andranno ai vincitori e 200 agli idonei delle graduatorie in corso di validità di concorsi banditi da amministrazioni diverse; che con il bando saranno valorizzati e riconosciuti i percorsi professionali di chi ha svolto tirocini e stage presso gli uffici giudiziari; che sono state concordate anche le modalità di ricollocamento del personale in esubero dalle Province e altri enti (così da evitare che i portantini finiscano a fare i dirigenti di cancelleria) e che nella seconda fase della mobilità obbligatoria il ministero della Giustizia garantisce ulteriori 800 posti in tutta Italia. Una goccia nel mare, anche se le assunzioni sono bloccate da 20 anni. Dall’Anm filtra "apprezzamento" per lo sforzo di Orlando, nei confronti del quale "resta la stima", ma "la soluzione è molto parziale". Per le toghe, la mobilità va del tutto abbandonata perché è solo "uno stratagemma"; bene il bando ma occorre almeno "una programmazione in un arco temporale". Quanto alla carenza di magistrati: con il pensionamento a 70 anni voluto da Renzi, i vuoti sono aumentati e il recente decreto che proroga di un anno solo i posti apicali di Cassazione contiene una serie di misure "punitive". Se non sarà modificato, potrebbe rientrare tra i motivi di uno sciopero (con avvocati e cancellieri) sul personale, che l’Anm non esclude di indire entro l’anno. Per i reati tributari la prescrizione corre a più velocità di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016 Con la presentazione della dichiarazione (il cui termine scade oggi, 30 settembre) iniziano a decorrere anche i termini di prescrizione per eventuali illeciti penali di tipo dichiarativo: è il caso delle dichiarazioni fraudolente con o senza fatture false e delle dichiarazioni infedeli. È proprio dal giorno della presentazione della dichiarazione, infatti, che questi reati si ritengono consumati con la conseguenza che i termini prescrizionali entro cui occorre pervenire a sentenza definitiva di condanna decorrono da tale data. Si ricorda che la prescrizione è una causa di estinzione del reato, o meglio è la modalità di estinzione del diritto per il mancato esercizio dello stesso da parte del titolare per il tempo determinato dalla legge. Nel diritto penale, più concretamente, la prescrizione trova fondamento nell’attenuarsi dell’interesse dello Stato a punire quei reati il cui "ricordo sociale" si è affievolito per il decorso del tempo. Risponde, altresì, all’esigenza di garantire all’imputato una durata ragionevole del processo, secondo quanto stabilito dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Gli unici limiti all’operatività dell’effetto estintivo della prescrizione sono rappresentati dalla commissione di un delitto punito con la pena dell’ergastolo in considerazione della sua gravità e dall’esistenza di una sentenza di condanna irrevocabile intervenuta prima della decorrenza del termine di prescrizione. Occorre ricordare poi che la prescrizione opera per tutta la durata del processo penale: ciò significa che, tranne nel caso in cui si verifichi una causa interruttiva (si veda l’articolo in basso), la sentenza definitiva deve intervenire entro il termine di prescrizione, altrimenti il reato non sarà più perseguibile. Inizialmente il decreto legislativo 74/2000 non aveva introdotto specifiche regole sui termini prescrizionali dei delitti tributari trovando così applicazione la disciplina generale prevista dal codice penale. Ne conseguiva che tali reati si prescrivevano nel termine di sei anni che, a seguito di eventuale interruzione, diventavano sette e mezzo (a decorrere, per i reati dichiarativi, dalla presentazione della dichiarazione). Con la legge 148/2011, dal 17 settembre 2011 è stata introdotta una disciplina ad hoc nel decreto 74/2000 (nuovo comma 1-bis dell’articolo 17). In base a tale norma i termini di prescrizione per alcuni delitti tributari sono stati elevati di un terzo. Ciò significa, in altre parole, che il termine precedente di 6 anni, aumentato di 1/3 è diventato di otto anni ovvero di dieci in caso di interruzione. Attualmente, pertanto, per gli illeciti penali tributari commessi dopo il 17 settembre 2011 esiste un regime prescrizionale differenziato e, in particolare: per i reati di omesso versamento delle ritenute, dell’Iva, l’indebita compensazione e la sottrazione fraudolenta si applica il termine di sei anni, ovvero sette e mezzo in caso di interruzione; per tutti gli altri reati (dichiarazioni fraudolente, infedele, omessa presentazione, occultamento o distruzione di scritture contabili, emissione di fatture false) trova applicazione il più lungo termine di 8 anni che diventa di 10 in presenza di cause interruttive. Da segnalare infine che la Corte di Giustizia Ue (C-105/14 dell’8/9/2015, sentenza "Taricco") ha ritenuto che in tema di gravi frodi Iva il termine ordinario di prescrizione debba ricominciare a decorrere da capo in presenza di ogni atto interruttivo. Secondo la Corte Ue, il giudice italiano deve disapplicare le norme del codice penale nella misura in cui queste - fissando un limite massimo al corso della prescrizione, pur in presenza di atti interruttivi - impediscano allo Stato di adempiere agli obblighi di tutela effettiva degli interessi finanziari della Ue. Su questa problematica la Corte di appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale rilevando che il principio di legalità costituirebbe un "contro limite" all’ingresso del diritto comunitario nel nostro ordinamento. La decisione della Consulta verrà assunta il prossimo 23 novembre. Il caso Capua e la gogna infinita di Annalisa Chirico Il Giornale, 30 settembre 2016 Ilaria Capua non ha mai avuto un processo. È stata prosciolta in udienza preliminare, per lei soltanto la gogna di un’inchiesta mediatica durata troppo a lungo. Congedandosi dalla Camera dei deputati che ha accolto le sue dimissioni, la virologa di fama mondiale ha dichiarato: "Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente che attendono, impotenti, che la giustizia faccia il suo corso". Perché assai spesso si dimentica un particolare: la giustizia differita è giustizia negata. I tribunali che rinviano, i giudici che fanno attendere, le sentenze che non arrivano, rendono più complicato l’esercizio del diritto di difesa e soprattutto prolungano il tempo di una vita sospesa. Per molti anni la sinistra e la grancassa giustizialista hanno brandito il sacrosanto diritto di difendersi nel processo contro la vile scappatoia di chi pretendeva di difendersi dal processo. Una palese ipocrisia. Basta ascoltare le parole di Ilaria Capua per rendersi conto che difendersi da accuse ingiuste, rifiutare l’onta e i tormenti di un processo infondato è un diritto che ci appartiene. È anche per questo che in diversi paesi europei se la procura ti accusa e tu risulti innocente all’esito del dibattimento lo Stato si fa carico di rimborsarti le spese legali: poiché non può restituirti il tempo sottratto alla tua esistenza privata, ti riconosce una forma di compensazione. In Italia invece si registra uno stridente contrasto: nei giorni in cui Ilaria Capua diventa ex deputata perché "ognuno di noi ha un tempo limitato da vivere e utilizzarlo al meglio è un dovere", in Senato la maggioranza si batte per approvare la cosiddetta "riforma del processo penale" che mira ad allungare i termini della prescrizione nel paese con i processi più lunghi d’Europa. Usando una metafora, potremmo dire che ci saranno più casi Capua, non meno. Con il paradosso che toccherà ai cittadini, condannati al mestiere di imputato per un lasso di tempo spropositatamente lungo, pagare il prezzo di una giustizia inefficiente. I colpevoli, dal canto loro, resteranno a piede libero, e magari continueranno a delinquere, nelle more di un processo lento e interminabile. Il caso Capua è una lampadina che illumina le vere urgenze della giustizia italiana: gogna mediatica e presunzione d’innocenza. La prima è letale; la seconda è ridotta a una formula vuota. Su questo il governo ha qualcosa da dire? Depenalizzazione, il giudice può cancellare le conseguenze civili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016 La pronuncia che prende atto dell’intervenuta depenalizzazione, in sede di impugnazione, si estende, revocandoli, anche ai capi che riguardano gli interessi civili. Non così, invece, se la sentenza è già passata in giudicato: in questo caso infatti la revoca disposta dal giudice dell’esecuzione non si estende ai capi "civili". A chiarirlo sono le Sezioni unite penali con un’informazione provvisoria depositata ieri, le cui motivazioni saranno note solo tra qualche tempo. La controversa questione era sorta a proposito di una condanna inflitta per il reato di danneggiamento, con la contestuale imposizione del risarcimento del danno. Tuttavia il reato era stato abolito a inizio anno dalla manovra di depenalizzazione e, in particolare, dal decreto legislativo n. 7 del 2016. L’illecito è rimasto rilevante sul pian civile e punito con una misura pecuniaria da 100 a 8.000 euro. Tuttavia, differenza delle ipotesi depenalizzate nel successivo decreto legislativo n. 8 del 2016, per le quali è stato espressamente stabilito che il giudice dell’impugnazione decide anche sulle parti civili della condanna, nulla è stato previsto per i casi di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato come illecito civile sulla base del decreto 7/16. A confrontarsi erano due orientamenti. Il primo ritiene che il giudice dell’impugnazione nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione per i soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che riguardano gli effetti civili. Si valorizza, per questa linea interpretativa, l’articolo 2 comma secondo del Codice penale, per il quale l’abolitio criminis produce la cessazione degli effetti penali della condanna, facendo invece sopravvivere le obbligazioni civili. Si sottolinea quindi che ai diritti del danneggiato dal reato per quanto riguarda le deliberazioni civili non si applicano i principi della successione nel tempo delle leggi penali, ma quell’altro, articolo 11 delle preleggi, secondo il quale la legge dispone solo per il futuro. Inoltre, se si dovesse considerare obbligata la trasmissione al giudice civile competente per l’irrogazione delle sanzioni civili dopo l’assoluzione dell’imputato perchè il fatto di danneggiamento non è più previsto come reato, dovrebbe essere imposto alla parte civile la prosecuzione del giudizio in sede civile, malgrado sia stata già raggiunta una definizione di questo in sede invece penale. A questa tesi se ne contrapponeva però un’altra, per la quale deve essere esclusa la possibilità per il giudice dell’impugnazione di pronunciarsi sulle statuizioni civili. Infatti il testo della legge che ammette la possibilità "solo nei casi disciplinati dal decreto legislativo 8/2016 è di univoca interpretazione ed indice della specifica volontà del legislatore di ammettere tale potere limitatamente alle ipotesi di reato trasformate in illeciti amministrativi e non anche per quelle abrogate ex Dlgs 7 del 2016". La "continuazione" congela la non punibilità di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016 Corte di cassazione 40650/2016. Bastano due infrazioni consecutive per perdere il beneficio della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Lo ha stabilito la Terza sezione penale della Cassazione - sentenza 40650/16, depositata ieri - che ha respinto il ricorso di un imputato potentino portato a giudizio per omesso versamento di ritenute previdenziali. Gli episodi contestati all’imprenditore erano due, di rilievo davvero modesto (l’omissione complessiva era di poco superiore a 2.200 euro, la pena patteggiata di 18 giorni di reclusione, sospesi) ma nonostante ciò la Cassazione gli ha negato il "beneficio" introdotto dal Dlgs 28/2015. Secondo la difesa, la non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale doveva trovare applicazione sia in considerazione della scarsa offensività della condotta sia perchè la nuova e più favorevole norma era entrata in vigore tre anni dopo il patteggiamento, e subito dopo il processo d’appello. Il legale dell’imputato aveva quindi chiesto il riconoscimento della legge penale successiva più favorevole, visto che non c’è dubbio che si versi in un ambito di normativa sostanziale e non meramente processuale. Tuttavia la Terza penale non ha accolto le eccezioni dell’imputato, fermandosi davanti al chiaro dettato della norma introdotta lo scorso anno. L’articolo 131-bis del Codice esclude infatti dal campo di applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto tutti i comportamenti "abituali", spiegando poi due commi più sotto che l’"abitualità" a questi fini scatta ogni volta che l’indagato "abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità". Secondo la Cassazione, la valutazione della pluralità dei fatti "ostativi"può essere condotta, sempre limitatamente a queste finalità, anche all’interno del singolo procedimento per il quale si procede, finendo così per "ampliare ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale". Da qui lo sbarramento al riconoscimento della particolare tenuità anche nel caso di reati "avvinti dal vincolo della continuazione", come nelle ipotesi del processo impugnato. Per la Terza, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità non può essere quindi dichiarata "in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione e giudicati nel medesimo procedimento, configurando anche il reato continuato una ipotesi di "comportamento abituale". Peculato al segretario comunale se non versa i tributi ricevuti direttamente dai privati di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 29 settembre 2016 n. 40754. Scatta il reato di peculato continuato per il segretario comunale che - in diversi episodi - per conto dell’amministrazione riceve dai privati brevi manu somme di denaro senza riversarle tempestivamente all’ente locale. La Corte di cassazione con la sentenza n. 40754/16, depositata ieri, ha così respinto per inammissibilità il ricorso dell’imputato che difendeva come lecita la prassi da lui stesso inaugurata e che, invece, i giudici hanno stigmatizzato come un ingiustificato innovativo modus operandi foriero quantomeno di "confusione gestionale". Il caso - L’imputato, allora segretario generale del servizio finanziario di un piccolo Comune isolano siciliano, per un totale di circa 39mila euro aveva riscosso direttamente da privati diritti di segreteria, spese di registrazione o tasse di bollo a titolo di concessione di aree cimiteriali o di stipula di contratti di appalto. Ma oltre all’informale riscossione il segretario non procedeva al tempestivo versamento nelle cassa comunali di quelle che sono entrate tributarie per l’ente locale. E, anzi tratteneva la maggior parte delle somme in situazioni di propria piena disponibilità, addirittura presso la cassaforte di un’abitazione fuori dal territorio comunale nonostante fosse proprietario di un’altra casa nel Comune dove lavorava. In conclusione, al momento della denuncia dei fatti egli aveva riversato al Comune solo un’esigua parte delle somme a lui direttamente versate dai privati e non risultava accertata la circostanza difensiva secondo cui il denaro era materialmente allegato nel fascicolo di ogni singola pratica. Senza sottolineare la circostanza del pieno possesso da parte dell’imputato di larga parte delle somme in quanto custodite nella cassaforte all’interno di una sua abitazione privata. In tali circostanze a nulla è valso all’imputato restituire interamente le somme di competenza del Comune successivamente alla denuncia. Stessa bocciatura per l’argomento difensivo secondo cui nessun reato vi sarebbe stato in quanto al momento dell’arresto non era ancora scaduto il termine per adempiere all’obbligo di rendicontazione. Tra l’altro i fatti contestati risalivano fino all’anno precedente a quello ancora da rendicontare. La sussistenza del dolo - L’imputato sosteneva di non aver commesso peculato anche per l’assenza di dolo in quanto aveva agito in modo difforme alla precedente gestione solo per favorire i privati contraenti attraverso la percezione diretta del denaro nel proprio ufficio. E sosteneva di aver ritardato per sovraccarico di lavoro al versamento del denaro nelle casse dell’ente locale. Al contrario i giudici e la Cassazione hanno risposto che il dolo generico richiesto dalla fattispecie incriminatrice era insito nella condotta stessa. Stesse conclusioni sulla ritardata o mancata registrazione dei contratti per aver mantenuto senza alcuna giustificazione il possesso delle somme relative ai connessi adempimenti tributari. Inutilmente su questo punto, il segretario infedele aveva sostenuto che ciò non aveva alcuna rilevanza penale poiché l’assenza di registrazione non poneva nel nulla i contratti conclusi tra il Comune e i privati. L’introversione del possesso del denaro che l’imputato sosteneva non essere dimostrata dai giudici di merito visto anche il gesto della restituzione è, secondo la Cassazione, ampiamente dimostrato dalla piena disponibilità di esso da parte del segretario comunale e dalle circostanze da cui emerge che egli fosse l’unico a conoscenza dei tempi e dei luoghi dove fosse custodito. Aderisci anche tu alla IV marcia per l’Amnistia 6 novembre 2016! di Irene Testa (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2016 Appello per organizzazioni e singoli. Il 6 novembre ci ritroveremo a Roma per la "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, la Libertà" intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco. È una nuova straordinaria mobilitazione, per ribadire la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti e alla coscienza civile del Paese. In molti, da quando Marco ci ha lasciato, hanno ricordato le sue iniziative, le sue grandi campagne nonviolente, i suoi numerosi digiuni per i carcerati, per le loro famiglie e la comunità penitenziaria, per liberare un sistema giustizia che nega le pur minime garanzie del cittadino e intrappola intere generazioni in processi infiniti e costosi. In particolare, Marco ha costantemente richiamato l’attenzione delle istituzioni su due questioni: il ripristino della legalità nelle carceri, quale riforma strutturale, e la necessità e l’urgenza di una amnistia quale primo passo per affrontare la crisi complessiva della giustizia. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, nella Mozione Generale approvata dal 40° Congresso tenutosi a Roma, nel carcere di Rebibbia, il 1, 2 e 3 settembre 2016, ha stabilito "la prosecuzione della battaglia storica di Marco Pannella per l’amnistia e l’indulto quale riforma obbligata per l’immediato rientro dello Stato nella legalità". La crisi della giustizia e il protrarsi della non applicazione del dettato costituzionale pongono in grave pericolo l’esistenza dello Stato di diritto, come ci ammonisce da tempo il Consiglio d’Europa attraverso le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: non dobbiamo mai dimenticare, quanto invece ricordare e denunciare con forza come l’Italia sia costantemente, da almeno trent’anni, condannata per violazione dell’art. 6 della Cedu, riguardante la "ragionevole durata del processo", diritto umano tutelato anche dalla nostra Costituzione all’articolo 111, secondo comma. E ancora una volta - infine - sentiamo il dovere di sottolineare anche il richiamo - troppo trascurato dagli addetti, dai media e dall’opinione pubblica - all’importanza che avrebbe una riforma della giustizia al fine di garantire al Paese la ripresa in ogni settore dell’economia, affaticata e depressa a causa del malfunzionamento del sistema giudiziario nei suoi aspetti penali come in quelli civili. Il sentire di Marco lo ritroviamo nelle parole di Papa Francesco, non a caso anch’esse censurate e finora inascoltate. Tra i più importanti eventi dell’Anno Santo, il 6 novembre, si celebrerà a San Pietro il "giubileo dei carcerati". "Il Giubileo ha sempre costituito - ha detto Papa Francesco il 1° settembre del 2015 - l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto". Noi ci ritroviamo nelle parole di Papa Francesco anche quando si è pronunciato contro l’ergastolo, definendolo "una pena di morte nascosta" o quando si è espresso contro l’abuso della carcerazione preventiva o dell’isolamento praticato nelle carceri di massima sicurezza. [23 ottobre 2014, Sala dei Papi, incontro con una delegazione di giuristi cattolici]. Oltre al Santo Padre, a favore di un provvedimento di amnistia a più riprese si sono espressi rappresentanti di primo piano della Conferenza Episcopale Italiana, di altre realtà del mondo cattolico e di associazioni laiche che da anni si battono per i diritti degli ultimi. È urgente ora che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la propria voce, che il Governo e il Parlamento si attivino per accogliere o respingere le proposte del Partito Radicale o per trovare altre soluzioni in grado di risolvere efficacemente questi problemi, non di rinviarli e aggravarli. È urgente interrompere la cortina di indifferenza e di silenzio in cui si cerca di eludere questi problemi e questo ormai prossimo appuntamento. La disinformazione, la mancanza di conoscenza, e l’assenza di confronto e dibattito paritario non violano solamente i diritti di questa o quella forza politica - e in questo caso al Partito Radicale - ma colpiscono alla radice uno dei fondamenti del corretto funzionamento di ogni democrazia. È dunque urgente che la stampa e, in particolare, il servizio pubblico radio televisivo interrompano un comportamento fortemente lesivo dei diritti dei cittadini e consentano finalmente di conoscere e giudicare questa proposta, così come il confronto sulle altre grandi questioni centrali del nostro tempo. Per tutto questo, ci rivolgiamo con fiducia a te affinché tu voglia essere presente a San Pietro il 6 novembre partecipando alla grande "Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà", con partenza dal carcere di Regina Coeli e arrivo in Piazza San Pietro. Hanno già aderito Don Luigi Ciotti; A Carla Arancio Presidente del Comitato Funzionari Polizia Penitenziaria; Marco Arcangeli Presidente camere penali Rieti; Ileana Argentin Deputata del PD; Stefano Anastasia Garante diritti dei detenuti Regione Lazio; Enrico Buemi Senatore socialista; Don Mario Cadeddu già cappellano c.c. Macomer; Guido Calvi avvocato, già Senatore; Suor Fabiola Catalano; Annalisa Chirico giornalista e Presidente dell’Associazione Fino a Prova Contraria; Gianmarco Chiocci giornalista, direttore de Il Tempo; Luigi Compagna Senatore del GAL; Biagio Costanzo Sindaco di Episcopia; Ilaria Cucchi D Francesca D’Aloja scrittrice; Francesco D’Anselmo direttore del carcere di Porto Azzurro e di Pianosa; Peppe De Cristofaro Deputato di Sel; Erri De Luca scrittore; Roberto Deriu Consigliere PD Regione Sardegna; Marco Di Lello Deputato di Socialisti & Democratici; Lillo Di Mauro Presidente Consulta penitenziaria di Roma E Lucia Ercoli responsabile sanitaria ass. Medicina Solidale F Loris Facchinetti vice presidente del Tribunale Dreyfuss; Ornella Favero direttrice della rivista Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia; Eleonora Forenza Deputata europea, Lista Tsipras G Patrizio Gonnella presidente dell’Associazione Antigone M Luigi Manconi Senatore, Presidente della Commissione Diritti umani; Emanuele Mancuso avvocato; Gianni Melilla Deputato di SEL; Bruno Mellano Garante diritti dei detenuti del Piemonte; Oreste Pastorelli Deputato, Tesoriere del PSI; Don Nicolò Porcu già cappellano della C.R. Magone; Don Vincenzo Russo cappellano del carcere Sollicciano di Firenze S Mario Sberna Deputato di Centro Democratico; Arturo Scotto Deputato, capogruppo di SEL; Agostino Siviglia avvocato, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Reggio Calabria; Don Sandro Spriano cappellano del Carcere Rebibbia di Roma; Paolo Strano Presidente di Semi di Libertà Onlus T Don Francesco Tamponi cappellano del carcere di Tempio; Francesco Tagliaferri Presidente Camera Penale di Roma V Livio Valvano Sindaco di Melfi; Valter Verini Deputato, capogruppo del PD Commissione Giustizia Adesioni di organizzazioni Associazione Antigone; Associazione A Buon Diritto; Associazione A Roma Insieme; Associazione Fuori Dall’Ombra; Associazione Il detenuto Ignoto; Associazione Medicina Solidale; Associazione Migrare; Associazione Nessuno Tocchi Caino; Associazione Pronto Intervento Disagi; Associazione Semi di Libertà; Associazione di volontariato culturale Non Mollare; Comitato Per la giustizia Piero Calamandrei; Consulta penitenziaria di Roma; Funzione Pubblica Fp-Cgil Nazionale; UCPI, Unione Camere Penali Italiane; UEPE, Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Veneto; Ristretti Orizzonti; Vocelibera, cooperativa sociale di Varese; Il Direttivo della Camera Penale di Roma; Consiglio Direttivo della Camera Penale di Reggio Calabria. Calabria: carceri, la Cisal incontra il dirigente Buffa "soluzioni rapide e concrete" strill.it, 30 settembre 2016 "Per porre fine ad alcune gravi problematiche da tempo presenti all’interno dell’Amministrazione Penitenziaria in Calabria, più volte rappresentate all’ex provveditore regionale e finora rimaste irrisolte" si legge in una nota stampa, la Cisal ha incontrato il massimo vertice nazionale in ambito del personale. Al termine dell’incontro, il direttore generale del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Pietro Buffa, ha espresso la volontà di risolvere in brevissimo tempo i casi sottoposti alla sua attenzione, tra cui quello delle croniche carenze di personale esistenti sia nell’area amministrativo-contabile che in quella della Sicurezza (Polizia Penitenziaria) della Casa Circondariale di Crotone e quello dell’inquadramento con trasferimento di tutto il personale della soppressa Casa circondariale di Lamezia Terme. L’incontro presso la direzione generale del Dap di Roma è stato fortemente voluto, per rappresentare, direttamente e ancor più dettagliatamente, al netto di possibili fraintendimenti e incomprensioni, le gravi problematiche esistenti nell’ambito del Prap Calabria. A Buffa, la delegazione Cisal ha ribadito che, "pur comprendendo le limitazioni imposte dalle carenze di specifiche figure professionali, a livello nazionale in generale e regionale in particolare, dovute ai vincoli economico-normativi che finora ne hanno impedito l’assunzione, il personale tutto della Calabria non può andare avanti così ancora a lungo, cioè essere sistematicamente impegnato in compiti nettamente al di fuori del proprio profilo professionale o oltre le proprie umane possibilità e/o sempre in attesa di ricevere l’atteso trasferimento". "È questo - ha evidenziato il consigliere Antonello Iuliano - ad esempio il caso del personale che opera all’interno dell’Area Contabile del carcere di Crotone in cui, tranne che per un breve lasso di tempo, sin dal momento dell’apertura dell’Istituto, praticamente non vi sono mai stati contabili ‘fissì". Il segretario Fabio Schiavone - a cui ha fatto eco il delegato Savaltore Macrì - ha posto l’accento sulla problematica inerente il mancato trasferimento del personale della ex carcere di Lamezia che, dopo un breve periodo in cui è stato "in missione", si trova oramai da tempo in un’anomala posizione di "distacco". Allo stesso tempo il segretario ha anche esposto la problematica della consistente carenza di personale di Polizia Penitenziaria nella città pitagorica; situazione che tutti i dipendenti - fronteggiano al meglio delle proprie possibilità, rispettando turni e disposizioni varie con grande spirito di sacrificio, competenza e profondo senso del dovere, nonché comprensione delle esigenze dell’Amministrazione - stanno subendo da troppo tempo. E la situazione, col passare del tempo, rischia di complicarsi sempre più. Da qui l’impellente necessità di un’integrazione di personale specifico, al fine di porre termine al cronico ricorso di personale in missione da un lato e, distaccato "senza oneri a carico dell’Amministrazione", dall’altro. Possibile mai - hanno chiosato i rappresentanti sindacali - che non si possa trovare una valida soluzione a tutto ciò? Possibile mai che non ci sia stato, finora, qualcuno di "buona volontà" che abbia avuto la coscienza di chiedersi se tutto ciò fosse normale e giusto? Buffa, dal canto suo, con molta chiarezza, ha illustrato i passi che intende compiere per risolvere i suindicati problemi. Valutare al più presto e con molta attenzione le piante organiche nonché l’effettiva dislocazione delle risorse umane degli Istituti penitenziari in Calabria e, sulla scorta delle carenze emerse, attraverso interpello proporre agli ex dipendenti del carcere di Lamezia Terme una scelta, per poi procedere con i trasferimenti a domanda o d’ufficio. Per quanto attiene, poi, il problema contabile, il direttore Buffa ha spiegato che, non appena riceverà il via libera dagli Organi di controllo, attingendo a graduatorie concorsuali già esistenti, conta di assumere circa 20 contabili per colmare delle carenze settoriali esistenti in diversi Istituti tra cui, ovviamente, quello crotonese. Bolzano: detenuti, niente strutture per chi ha disagio psichico Alto Adige, 30 settembre 2016 I posti nelle Residenze di cura e sicurezza sono assolutamente insufficienti. Documento di diffida al ministero dei giudici bolzanini. Carcere super affollato. La riforma che ha portato alla soppressione degli ospedali psichiatrici giudiziari sta creando non pochi problemi anche in Alto Adige a seguito della clamorosa sottovalutazione del fabbisogno di strutture in grado di prendersi cura di persone finite nei guai con la giustizia ma risultate psichicamente labili e socialmente pericolose. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono stati sostituiti dalle cosiddette Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) che però sono state dislocate su base regionale e sono risultate completamente insufficienti a far fronte alle necessità. In sostanza le Rems sono strutture ricettive a carattere sanitario. Rispondono anche a criteri di custodia poiché accolgono pazienti con disturbi psichici, autori di reato, ritenuti socialmente pericolosi. Per il Trentino Alto Adige le Rems sono state attivate a Pergine ma vi è stata una totale sottovalutazione delle necessità. A Pergine infatti sono disponibili appena dieci posti, cinque riservati all’Alto Adige e altrettanti al Trentino. Ma sono maledettamente pochi. La situazione sta creando problemi a catena in quanto diversi detenuti con problemi psichici che avrebbero bisogno di essere ricoverati in questa strutture (che sono anche di cura) sono costretti a restare in carcere con inevitabili problemi di convivenza con gli altri detenuti. Qualche giorno fa alcuni giudici di Bolzano hanno deciso di inviare una nota di diffida al dipartimento per l’amministrazione penitenziaria facendo presente l’impossibilità di trovare soluzioni per un trattamento adeguato di alcuni detenuti problematici. Anche perché nessuno dei detenuti può essere obbligato ad accettare un determinato trattamento farmacologico. In altre parole anche a fronte di comportamenti allarmanti di determinati detenuti, nessuno in carcere può pensare di imporre ad un soggetto problematico nemmeno un semplice calmante. E allora cosa succede? In alcuni casi, quando non si sa come poter affrontare l’emergenza, si cerca una soluzione temporanea ricorrendo al reparto psichiatrico dell’ospedale di San Maurizio che però solitamente, dopo un massimo di due giorni di trattamento sanitario, rimanda il paziente/detenuto in cella. La situazione è resa ancora più drammatica dal fatto che il carcere di Bolzano è tornato super affollato (120 persone e più) con una buona parte di detenuti (circa la metà) alle prese con problemi di tossicodipendenza e sieropositività. Lecce: 34enne morì in un carcere messicano "tu seviziato, condannate giudice e agenti" di Chiara Spagnolo La Repubblica, 30 settembre 2016 Il decesso di Simone Renda avvenne il 3 marzo 2007 nel carcere di Playa del Carmen e il processo messicano si risolse in una farsa. La Procura: "Fu sottoposto a trattamenti crudeli, inumani e degradanti". La giustizia italiana chiede il conto a otto cittadini messicani ritenuti responsabili della morte di Simone Renda, il bancario leccese di 34 anni deceduto il 3 marzo 2007 nel carcere di Playa del Carmen. In quel paradiso Simone era andato in vacanza. Poi tante scuse da parte delle autorità messicane e poche spiegazioni, di cui peraltro la famiglia non si è mai accontentata. Così come non si è accontentata del processo farsa celebrato in Messico. Dalla tenace volontà di scoprire la verità della madre, Cecilia Greco, è nata l’inchiesta bis in Italia, grazie alla possibilità fornita dalla Convenzione di New York, che in caso di trattamenti disumani e degradanti affida la giurisdizione alla Paese della vittima. E se la magistratura messicana parlò di incidente chiudendo il procedimento con condanne lievi, quella italiana ricostruì la storia in modo molto diverso, arrivando a chiedere - tramite la pm Angela Rotondano - 176 anni di carcere per gli otto presunti responsabili. Gli imputati sono il giudice qualificatore Hermilla Valero Gonzales; Francisco Javier Frias e Josè Alfredo Martinez, agenti della polizia turistica del municipio di Playa del Carmen; il responsabile dell’Ufficio ricezione del carcere di Playa del Carmen, Gomez Cruz, i vicedirettori del carcere municipale, Pedro May Balam e Arceno Parra Cano; le guardie carcerarie Luis Alberto Arcos e Najera Sanchez Enrique. Per tutti l’accusa iniziale, abbandono di persona incapace da cui è derivata la morte, è stata poi trasformata in concorso in omicidio volontario per aver sottoposto la vittima a trattamenti crudeli, inumani e degradanti per punirlo di una presunta infrazione amministrativa durante la detenzione in carcere. Per questa ipotesi di reato sono state chieste condanne da 24 a 21 anni di reclusione. La ricostruzione della Procura di Lecce inchioda ognuno degli imputati a responsabilità precise, ritenendo che Simone Renda si sentì male il 1° marzo 2007 mentre preparava le valigie per tornare in Italia. Uscì dalla sua camera d’albergo poco vestito e qualcuno allertò la polizia, che lo portò dritto in carcere. Durante l’arresto sarebbe stato colto da un secondo infarto - poi confermato dall’autopsia - ma nessuno si curò di farlo trasferire in ospedale, nonostante la precisa indicazione del medico che lo visitò. In cella morì dopo due giorni: se in quelle 48 ore fosse stato adeguatamente curato, secondo gli inquirenti italiani, si sarebbe potuto salvare. Per questo sono stati chiamati a rispondere della sua morte tutti gli uomini che lo hanno tenuto in carcere e per i quali la sentenza italiana arriverà il prossimo 15 dicembre. Bergamo: la burocrazia si accanisce sul detenuto "risiede in cella, Imu sulla seconda casa" di Sandro De Riccardis La Repubblica, 30 settembre 2016 L’alloggio dove viveva da uomo libero viene considerata dal fisco come una casa di vacanza. Quindi le aliquote sono maggiorate. L’avvocato: "Situazione assurda". Condannato per un omicidio commesso nell’ambito dello spaccio di droga, dopo aver scontato tre anni e mezzo di detenzione, dalla sua cella ha scoperto di dover pagare un importo di tasse sulla casa dieci volte maggiore di quello che pagava da uomo libero. L’amministrazione finanziaria ha infatti considerato il carcere come la sua prima abitazione, perché l’uomo lì aveva trasferito la residenza. Così la casa dove viveva prima dell’arresto è diventata la seconda abitazione su cui vengono applicate le aliquote Imu maggiorate. Antonio Cavallo è stato condannato insieme ad Alessio Valiano per l’omicidio di Ivano Casetto, trovato morto nella neve in via Caduti di Marcinelle, il 6 dicembre 2012. Un regolamento di conti che gli è costata una pesante condanna, anche se i giudici alla fine hanno escluso la premeditazione. Ora, da recluso nel carcere di Bergamo, Cavallo ha visto le sue tasse impennarsi. Sono stati i suoi anziani genitori, di 81 e 83 anni, ad accorgersi che il cambio di residenza aveva portato a un consistente aumento dell’importo dell’Imu. "Abbiamo pagato 44 euro ogni anno, per un secondo garage collegato alla nostra casa di Desio – raccontano. Questa volta sono arrivati due bollettini da 227 e 219 euro. Il primo da pagare entro la fine di settembre, il secondo entro novembre". La casa dove Cavallo viveva, dopo il trasferimento della residenza nel carcere di Bergamo, è diventata una seconda abitazione, alla stregua di una casa di villeggiatura. A cui si applica l’aliquota del 9,80 per mille. "È una situazione assurda - accusa il legale di Cavallo, l’avvocato Debora Piazza - Il mio assistito non ha la possibilità di lavorare in carcere, e in più si ritrova a dover pagare una somma spropositata di tasse. Cavallo paga già le spese di mantenimento in carcere, e ora queste tasse del tutto illegittime". Dopo che anche gli uffici del comune di Desio hanno riconosciuto l’anomalia e sospeso il pagamento dell’Imu, l’avvocato Piazza intende portare la vicenda all’attenzione del garante regionale del detenuto. "Il problema è la burocrazia, devono fare ricorso al mio ufficio e noi interveniamo - spiega il garante regionale dei detenuti, Donato Giordano - Facciamo tutta l’istruttoria, interveniamo sull’amministrazione e cerchiamo di risolvere il problema. Abbiamo avuto lo stesso tipo di situazioni con gli anziani che vivono nelle case di riposo e spostano lì la loro residenza". Milano: il Card. Scola al carcere di Opera "espiazione costruttiva, no alla condanna a vita" di Danilo Bogoni Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2016 Dal cardinale Angelo Scola, in visita alla Casa di reclusione di Opera dove ha inaugurato la mostra "Vangelo filatelico" e celebrato l’Eucaristia, l’invio a "ripensare in profondità" la questione dell’ergastolo ostativo. "Questo ergastolo - ha proseguito l’arcivescovo di Milano - non può essere una tomba anticipata". "Già conoscevo - ha proseguito il porporato - la questione, e vedendo questa sorta di scultura (autori della quale sono Alfonso Agnello e Orazio Paolello, n.d.r.) in cui è stato identificato il carcere ostativo con una tomba, non può non venire in mente a tutti noi che una scelta di questo genere è troppo schiacciante l’uomo e quindi diventa schiacciante per la società. Condannare oggi un uomo al carcere perpetuo non è una cosa buona per né per lui, né per i suoi cari e neppure per la società". Dopo aver raccolto il convinto, caloroso applauso dei reclusi, l’arcivescovo ha soggiunto: "se camminiamo insieme, se restiamo uniti possiamo realmente far procedere la nostra civiltà e cultura". Ancora: "quello che fate qui sta costruendo società nuova. Sentitevi attori sociali e non solo personali. Dovete vivere e l’uomo vive solo nel presente. Fate la mattina un segno di croce, che porta in sé il segno perfetto della Trinità, e la sera recitate un’Ave Maria: Ricordatevi della Madonna - Myriam più o essere pregata anche dai nostri fratelli musulmani che la venerano - perché è una madre che ci porta suo Figlio". Dopo aver visitato, accompagnato dal direttore del carcere, Giacinto Siciliano e dal recluso Matteo Nicolò Boe in veste di cicerone la collezione "Visitare i carcerati" e i vari elaborati realizzati da "Scintille prigionieri", il cardinale Scola ha ammesso: "Oggi è nato, in me, un atteggiamento di gioia e di speranza vedendo quale espressione creativa avete realizzato con questa esposizione filatelica, con i vostri commenti, i disegni, la bella dedica al Papa. Ciò che qui si sta facendo rompe le sbarre di ferro, perché è vero che l’uomo comunica con il corpo, ma la sua capacità di spostamento è legata allo Spirito che permette di entrare in relazione con chi è lontano nello spazio e nel tempo". Di qui il ringraziamento ai reclusi: "In questo che è un periodo inevitabile di espiazione, se ovviamente giusta e proporzionata, avete trovato la strada di investire questo tempo e non di subirlo, vivendolo come un presente che cambia e converte la vostra vita fin da ora. Così, come testimoniano i vostri lavori che speriamo ricevano sempre di più fisionomia e non siano solo un palliativo, il momento della prova diventa di edificazione". L’arcivescovo si è anche rivolo alle Istituzioni religiose e alla stessa Chiesa: "Insistiamo perché comprendano, in profondità, l’importanza della modalità con cui attraversate questo tempo e la favoriscano in tutti i modi cosicché il vostro lavoro sia oggettivamente tale. Questa è certamente la strada per un riconoscimento della colpa, per l’attraversamento della pena e per quel reinserimento a cui agognate e del quale la società civile ha bisogno". Con uno sguardo al passato Scola non ha avuto difficoltà ad affermare che "da questo punto di vista, nei miei venticinque anni di Episcopato, ho visto un cambiamento buono. Abbiamo tanti problemi in un’Europa che rischia la chiusura, ma ci sono anche segni di edificazione civile e, per alcuni di voi, ecclesiale". Portando il saluto del Papa, che aveva incontro poche ore prima, informandolo della visita al Carcere di Opera e alla mostra filatelica "Visitare i carcerati" l’arcivescovo ha annunciato l’imminente visita a Milano - forse a primavera - di papa Francesco, soggiungendo che non mancherà di far visita a una Casa di reclusione. Prima dell’inaugurazione la collezione "Vangelo filatelico", realizzata con francobolli donati al Santo Padre e da questi fatti pervenire ad Opera tramite l’arcivescovo Konrad Krajewski, è sta presentata nel corso di un incontro, aperto dal direttore Giacinto Siciliano a parere del quale "il carcere può diventare in prospettiva una risorsa per la nostra società e per la nostra civiltà". Hanno portato il loro contributo e le loro testimonianze il giornalista Domenico Quirico Mauro Olivieri, direttore dell’Ufficio filatelico della Città del Vaticano che con Poste Italiane ha promosso l’evento "Visitare i carcerati". Orietta Rossi, autrice del francobollo vaticano "Visitare i carcerati" che: "Quando siamo sospinti all’incontro con l’alto, per esempio facendo vista ai carcerati, non solo agiamo per pura umanità ma facciamo un atto di attenzione verso l’altro". Accolta con una autentica standing ovation l’ispettrice Maria Visientini, ha illustrato l’iniziativa della cartolina, affrancata col francobollo vaticano obliterato con l’annullo speciale disegnato (come quello italiano) da Matto Boe, attraverso la quale raccogliere fondi per le popolazioni terremotate dell’Italia Centrale. Marco Ventura ha mostrato i singoli passaggi che hanno portato alla nascita del francobollo vaticano dedicato a Massimiliano Kolbe, l’educatore Paolo Pizzuto ha spiegato le ragioni che lo indussero a scegliere, per l’attuazione del Progetto filatelia nelle carceri, l’alta sicurezza. La collezione è stata direttamente descritta dagli autori (Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio e Diego Rosmini), mentre la cartolina di Poste Italiane è stata illustrata dal suo autore: Gaetano Puzzangaro. Il saluto del ministero dello Sviluppo economico è stato portato da Angelo Di Stasi. Chiusura di Luisa Todini, presidente di Poste Italiane, secondo la quale "la filatelia può contribuire ad accompagnare i detenuti in un percorso di riflessione e arricchimento culturale, che rappresenta un elemento prezioso nel cammino verso il reinserimento nella società. Collezionare francobolli dedicati ai personaggi e agli eventi che hanno segnato il nostro passato e il nostro presente - ha dichiarato Luisa Todini - aiuta a guardare con più fiducia al futuro e ad alimentare quella speranza che - come ha detto una volta Papa Francesco rivolgendosi proprio ai detenuti - costituisce la vera misura del tempo". Essere concretamente vicini a chi vive una situazione, anche temporanea, di disagio, oltre che costituire un atto di civiltà e di fiducia nel prossimo, è nel dna di Poste, che da oltre 150 anni rappresenta per tutti i cittadini e le famiglie italiane un costante punto di riferimento in termini di persone, luoghi e valori". Livorno: all’isola di Pianosa studio di fattibilità per un vigneto coltivato dai detenuti controradio.it, 30 settembre 2016 La volontà di creare un vigneto, da coltivare insieme ai detenuti, sull’isola di Pianosa "c’è", attualmente "stiamo lavorando per fare la mappatura dei vari terreni e vedere quali sono di competenza del ministero della Giustizia, quali del Demanio e quali dell’Ente parco dell’Arcipelago toscano. In accordo con il Comune di Campo nell’Elba, che è commissariato, vogliamo chiedere la concessione di 30 ettari" da destinare alle viti. Lo ha detto il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana Giuseppe Martone, a margine di un incontro a Firenze organizzato dai Frescobaldi insieme al ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina e dedicato, tra l’altro, al progetto Gorgona. Sull’isola carcere, infatti, Frescobaldi ha piantato due ettari di vigneti che sta coltivando insieme ai detenuti giungendo proprio in questi giorni alla quinta vendemmia. A Pianosa, dove il carcere è chiuso dal 2011, il progetto potrebbe essere replicato, ha spiegato Martone, "tanto è vero che il ministero della Giustizia sta lanciando un progetto che riguarda l’economia agricola nelle isole carceri della Sardegna e della Toscana. "In Toscana questo riguarda appunto Gorgona e Pianosa. Il progetto dovrebbe portare ad aumentare il numero di detenuti che scontano la loro pena all’aperto". Per Pianosa "lo studio di fattibilità è già stato fatto", e successivamente sarà svolto un bando per la gestione dei terreni da piantare a viti. Attualmente, ha ricordato, "è già in produzione un orto e l’idea è quella di applicare un welfare state diverso dall’accezione classica, per andare oltre a un’idea di mero assistenzialismo nei confronti delle categorie protette" e aprire anche al contributo dei privati che abbiano le competenze "utili a rendere produttivo un qualcosa, sia esso un vitigno o un orto. È allo studio anche una decretazione legge che permetta di vendere a un prezzo di mercato competitivo questo tipo di produzioni e poi reinvestire in attività proprie. L’importante è che queste attività siano produttive - ha concluso - e che abbiano un ritorno anche per soddisfazione di chi ci lavora e che possa avere un ritorno economico". Firenze: concorso "Creatività in carcere", detenuti artisti per raccontare il carcere stamptoscana.it, 30 settembre 2016 Il bozzetto "Pianeta carcere" realizzato da Vincenzo, detenuto recluso nel carcere di Volterra, ha vinto il concorso di idee "Creatività in carcere" lanciato dall’Ordine degli psicologi della Toscana per la scelta del logo che accompagnerà il gruppo di lavoro "Psicologia penitenziaria". Un gruppo di lavoro impegnato attivamente su tematiche riguardanti il carcere e la promozione del benessere dei detenuti. La cerimonia di premiazione è avvenuta nella casa di reclusione di Volterra. "Tenendo fede al mandato deontologico di promuovere la salute di tutti i cittadini senza preclusione alcuna di tipo razziale o sociale - ha detto il presidente dell’Ordine Lauro Mengheri - si ritiene che l’istituto penitenziario sia luogo elettivo per incontrare le persone e aiutarle non solo a superare le problematicità legate alla reclusione, ma anche a sviluppare le risorse atte a diminuire la probabilità di essere in futuro di nuovo coinvolte nel sistema giustizia". L’iniziativa, a cui hanno risposto oltre 50 detenuti di tutte le carceri toscane, aveva l’obiettivo di rappresentare il rapporto tra detenzione e psicologia, esprimendosi attraverso la grafica, la pittura e la fotografia. Tra gli interventi quello del vice sindaco del Comune di Volterra Riccardo fedeli e Maria Grazia Giampiccolo, Direttore Casa di reclusione di Volterra I dati. Quella del disagio psicologico nelle carceri, come ha sottolineato l’Ordine degli psicologi della Toscana, rimane un’emergenza. In Toscana nel 2015 erano 415 i detenuti in attesa di primo giudizio, 271 condannati non definitivi e appellanti 271 e 148 ricorrenti. I condannati definitivi 2297, 113 gli internati. Una situazione che colpisce i professionisti operanti nel contesto inframurario nonché i detenuti. Una realtà che spesso finisce per mettere a repentaglio il benessere delle persone che vivono in questo contesto. In Italia ci sono 450 psicologi che lavorano nelle carceri, fanno sostegno, interazione fra i detenuti, diagnosi, esperti ex art. 80 e psicologi delle ASL che lavorano negli istituti penitenziari. Napoli: cena stellata al carcere di Poggioreale, chef e detenuti insieme per beneficenza vesuviolive.it, 30 settembre 2016 Una cena "stellata" per accorciare le distanze tra il carcere e la vita reale. L’evento si svolgerà a Poggioreale, martedì 18 ottobre 2016, e vedrà la partecipazione di molti chef prestigiosi e dei detenuti della casa circondariale. L’evento, segnalato da La Repubblica, è stato ideato dalla onlus "Il carcere possibile", diretta da Sergio Schlitzer, con la collaborazione no profit dell’associazione "Wine & the City", fondata da Donatella Bernabò Silorata. Ai fornelli ci saranno professionisti veri, tutti dotati di una stella Michelin. Con loro anche il pizzaiolo Ciro Salvo, che delizierà tutti con le sue pizze fritte. L’obiettivo è raccogliere fondi per sostenere il progetto e finanziare la creazione di un laboratorio di cucina nella struttura, a disposizione dei detenuti. L’iniziativa è molto importante e rappresenta un tentativo di riscatto sociale per i detenuti e di miglioramento delle loro condizioni all’interno del carcere. Per tutte le informazioni, rivolgersi all’e-mail: info@wineandthecity.it o allo 081 68 1505. Radio Carcere: altre importanti adesioni alla Marcia per l’amnistia del 6 novembre Ristretti Orizzonti, 30 settembre 2016 Puntata di Radio Carcere dal titolo: "Cgil, Unione delle Camere Penali Italiane, A Roma insieme, Uepe del Veneto e la Regione Basilicata aderiscono alla Marcia per l’amnistia e per la riforma della Giustizia". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/487394/radio-carcere-6112016-cgil-unione-delle-camere-penali-italiane-a-roma-insieme-uepe-del "Naufragio con spettatore", un corto dal carcere per raccontare la radicalizzazione di Teresa Valiani Redattore Sociale, 30 settembre 2016 "Naufragio con spettatore" arriva da Rebibbia, vince il "Premio MigrArti" e ottiene la menzione speciale della Giuria al Festival di Venezia. È prodotto dal Centro studi Enrico Maria Salerno, con la regia di Fabio Cavalli. Gli occhi fissi sulla macchina da presa, per raccontare in 15 minuti l’inferno della radicalizzazione e sottolineare, una volta di più, che l’arte e la cultura restano le armi più efficaci contro la violenza e il terrorismo. Molto più di qualsiasi muro o sbarramento. Si chiama "Naufragio con spettatore", arriva dal carcere, ed è il nuovo cortometraggio prodotto da Laura Andreini Salerno per "La Ribalta - Centro Studi Enrico Maria Salerno", in collaborazione con il ministero dei Beni e delle Attività culturali e Turismo. Regia, sceneggiatura e soggetto sono di Fabio Cavalli, attore, regista e co-produttore di ‘Cesare deve morirè (Orso d’Oro a Berlino nel 2011), direttore del laboratorio di teatro che ispirò i fratelli Taviani. Realizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, che da 15 anni diffonde e crea opere teatrali e cinematografiche di prestigio internazionale con i detenuti del carcere romano, "Naufragio con spettatore" ha già incassato un riconoscimento importante: vincitore del Progetto MigrArti 2016 del Mibact - Direzione Generale Cinema, è stato selezionato alla 73ma Mostra internazionale del Cinema di Venezia - Sezione Premio MigrArti 2016 ottenendo la menzione speciale della Giuria. E sarà proiettato nel corso di un seminario sul terrorismo internazionale in programma a Roma a dicembre. "Nelle nostre carceri gli islamici sono circa il 15 per cento, più o meno 6 mila uomini. Non è facile per loro adattarsi in un posto come questo, sono come naufraghi. Non è facile soprattutto per i detenuti che stanno qui, convivere con loro, e anche per noi agenti non è semplice. Bisogna cercare… di capirsi". L’assistente di polizia penitenziaria che dà voce al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si chiama Sandro Pepe e non è stato scelto a caso: "Diciamo che faccio un po’ di mediazione culturale: nel mio Dna c’è un bel po’ di sangue africano". Nel corto scorrono le ore della quotidianità rinchiusa, di una solitudine che ha il sapore acre della ruggine e della lontananza dagli affetti. Di famiglie che vivono dall’altra parte del Mediterraneo, di cognomi che non vengono mai chiamati a colloquio. "Poi c’è il problema della lingua - spiega Pepe -. All’inizio i detenuti di lingua araba tendono a stare isolati tra di loro. Se la detenzione è breve nemmeno ci provano a cercare un contatto: stanno buttati tutto il giorno sul letto. Chi ti insulta, chi prega, se ti dicono una parolaccia nemmeno la capisci". I volti diventano disegni, da uno schizzo affiora uno sguardo. Le pennellate del regista si accavallano ai sogni che Nadil, protagonista del corto, ha messo su carta o "cartoncino, perché qui in carcere è impossibile trovare tele e si disegna su tutto". Nadil (interpretato da Pietro Lo Faro) e la sua passione per il disegno: il suo amore per l’arte che lo porterà a rifiutare l’estremismo e le chiamate dei compagni di detenzione di Rossano Calabro, dove è recluso "il volto feroce dell’estremismo". "Questo breve film - sottolinea il regista - è dedicato alla sua avventura e all’epopea di tutti gli uomini partiti dal Sud del mondo e naufragati in carcere. Come Yassin, giovane detenuto marocchino, che dalla sua cella di Cassino ha composto e cantato lo struggente inno alla luna che accompagna le immagini". "Questo è un corto di verità e finzione - prosegue Fabio Cavalli - perché certe verità sono difficili se non impossibili da dire e solo l’arte può mediare in questo abisso che separa le realtà che ci circondano: ed è quello che faccio in teatro, che ho fatto con "Cesare deve morire". Questo corto, prima parte di una quadrilogia che mi auguro di realizzare, è fatto con interpreti che guardano in macchina e questo ha un significato preciso: come diceva Emanuel Levinass, l’unica possibilità che abbiamo di non condividere il dolore degli altri è voltare la faccia dall’altra parte, non guardarli negli occhi perché se li guardiamo riconosciamo nei loro occhi i nostri, che diventano uno specchio. Il naufragio è quello di chi approda in carcere, di chi attraversa il mare ma anche di ciascuno di noi nella tempesta della vita. Gli spettatori del naufragio siamo noi, che insieme siamo anche naufraghi. Per questo guardare negli occhi Nadil e Yassine è emozionante quanto contemplare nello specchio il nostro disagio di vivere. Ringrazio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la Giuria del Premio MigrArti e condivido con i miei attori, con i quali lavoro magnificamente, ogni difficoltà e ogni successo". La storia. Il problema del proselitismo e reclutamento islamista nelle carceri italiane è stato posto all’ordine del giorno della riflessione politica e culturale negli ultimi tempi. Naufragio con spettatore dà voce a Nadil, un giovane detenuto di origine egiziana di fede mussulmana che ha incontrato in carcere alcuni jihadisti e se n’è tenuto lontano con la forza ed il desiderio di continuare a essere se stesso, senza rinunciare alla sua fede, ma anche senza cedimenti al fanatismo. Il corto rivela le vite dei naufraghi detenuti, uomini che il naufragio l’hanno conosciuto due volte: la prima come evento concreto, da migranti, nel quale hanno visto morire compagni e fratelli. La seconda volta il naufragio - come metafora - li ha investiti durante l’avventura nella nuova terra: la lotta per la sopravvivenza e l’affermazione di sé; il crimine; la condanna, la pena. Nelle carceri italiane un terzo dei detenuti proviene da mondi lontani. Sono portatori di culture, religioni, abitudini diverse, spesso in conflitto con le nostre. Fuori e dentro. La conoscenza diretta con quegli uomini costringe a soffermarsi sui loro volti e a riconoscerli come specchio dei nostri. Il teatro di Rebibbia e il Centro Studi Enrico Maria Salerno. Diretto da Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli, il Centro Studi lavora dal 2003 alla promozione delle attività teatrali a Rebibbia, coinvolgendo i cittadini reclusi in un progetto di crescita culturale, artistica e professionale. Attualmente il progetto accoglie circa 100 detenuti e ne ha coinvolti oltre 600 dall’inizio dell’attività. Il tasso di recidiva fra i detenuti impegnati nelle attività si è drasticamente ridotto sotto il 10 per cento, a testimonianza del potere di trasformazione del sé che l’arte esercita in modo straordinario. Il Teatro di Rebibbia è diventato, negli ultimi anni, una delle principali sale teatrali di Roma per affluenza di pubblico, con oltre 10 mila spettatori (interni ed esterni) nel 2015; con oltre 100 giornate di programmazione fra teatro, musica, cinema, video ed eventi culturali. Immigrati: numeri stabili, ma più profughi Avvenire, 30 settembre 2016 Numeri stabili, ma dinamiche in evoluzione. Cambia, infatti, la presenza degli immigrati in Italia e cresce il numero dei "nuovi italiani", visto che è salita a 159mila la quota di coloro che hanno acquisito la cittadinanza. La fotografia periodicamente scattata dall’Istat indica che, sulla base ai dati forniti dal Ministero dell’Interno, al 1° gennaio 2016 i cittadini non comunitari regolarmente presenti in Italia sono meno di 4 milioni (per l’esattezza 3.931.133), cifra stabile rispetto all’anno precedente. I Paesi più "rappresentati" dagli immigrati - Marocco (510.450) e Albania (482.959) i paesi più rappresentati, seguiti da Cina (333.986), Ucraina (240.141) e India (169.394). La presenza non comunitaria risulta sempre più stabile sul territorio. Continuano, infatti, a crescere i soggiornanti di lungo periodo, che rappresentano il 59,5% del totale. Si riducono le comunità straniere storiche - Processi di stabilizzazione e nuovi flussi stanno però cambiando volto all’immigrazione. Se alcune collettività "storiche" presenti in Italia da lunghissimo tempo, come ad esempio quella albanese, sono ancora altamente rappresentate, sono anche quelle che perdono in assoluto il numero maggiore di permessi validi. Quella albanese ha avuto la perdita maggiore (-3%), insieme a quella marocchina (-1,5%), un calo in buona misura legato proprio alle acquisizioni di cittadinanza italiana. Diminuisce il numero dei nuovi permessi di soggiorno - Durante il 2015 ne sono stati rilasciati 238.936, il 3,9% in meno rispetto al 2014. La flessione riguarda in particolare gli ingressi per motivi di lavoro, scesi del 62% (-35.312); e se nel 2014 rappresentavano il 23% dei nuovi ingressi, nel 2015 sono scesi al 9%. Continua invece a ritmi sostenuti la crescita dei permessi per asilo e protezione umanitaria (+19.398 ingressi, pari a +40,5%) che nel 2015 arrivano a rappresentare il 28,2% dei nuovi ingressi (19,3% nel 2014, 7,5% nel 2013). La distribuzione geografica - Al Centro-Nord si conferma la maggiore presenza, col 36,6% nel Nord-ovest, il 26,8% nel Nord-est e il 23,5% al Centro; solo il 13,2%ha un permesso rilasciato o rinnovato al Sud. Le regioni col tasso più alto sono Lombardia (26,3%), Emilia-Romagna (11,7%) e Veneto (11,0%). Un quinto degli immigrati vive tra Milano (12,1%) e Roma (8,7%). Una sala operativa italo-libica contro terroristi e trafficanti di Grazia Longo La Stampa, 30 settembre 2016 Con base a Tripoli avrà il compito di monitorare le coste e sigillare i confini. Monitoraggio delle coste e dei confini meridionali della Libia grazie all’uso di droni e alla formazione di squadre speciali di guardie di frontiera. Sono questi gli obiettivi principali della sala operativa italo-libica, che si è appena attivata a Tripoli. L’obiettivo è quello di arginare l’emergenza immigrati, ma anche il terrorismo islamico. Perché se è vero che sulle carrette del mare di profughi non si nascondono - tranne casi eccezionali - pericolosi tagliagole, è altrettanto assodato che i soldati del Califfo siglano redditizi affari con la criminalità. Traffico di esseri umani e infiltrazioni terroristiche saranno dunque oggetto di verifiche, valutazioni e strategie operative. Tutte, ovviamente, ancora da concordare e da definire nei dettagli. Sarà proprio la centrale operativa congiunta - la prima nel suo genere e frutto di un patto siglato tra il nostro governo e quello di accordo nazionale libico - a stabilire e applicare tutte le tecnologie e le metodologie necessarie a contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, a fronte del recente aumento del flusso dei migranti verso l’Europa, l’Italia in particolare. Il 90 per cento dei migranti che sbarca in Italia arriva dalla Libia, dove si raccolgono migliaia di persone provenienti dall’Africa: la sala operativa ha il compito di "sigillare" le frontiere di Stati come il Niger, il Mali, il Ciad, per contenere i flussi migratori. Per collaborare con il personale di Tripoli sono partiti dall’Italia, esperti dell’intelligence, del Dipartimento della pubblica sicurezza e del ministero della Difesa. Il nostro team risponderà direttamente al governo: il premier Matteo Renzi ha tra le sue priorità sia il problema dei migranti sia l’allarme terroristico. All’attenzione dei servizi di sicurezza ci sono gli affari tra i trafficanti di esseri umani e i miliziani dell’Isis o di Al Qaeda del Maghreb (forte nel Sud della Libia). Altre preziose fonti di guadagno e di sostentamento dei terroristi, poi, sono il contrabbando di petrolio e il traffico di beni archeologici. Due fenomeni che - grazie anche all’arretramento dell’Isis che ha perso circa il 25 per cento del terreno - sono fortunatamente in una fase di ridimensionamento. Gli analisti stimano infatti che i terroristi islamici abbiano subìto un calo tra il 40 e il 50 per cento dell’approvvigionamento di risorse petrolifere e archeologiche. La situazione nel Sud della Libia è quanto mai complessa e articolata. Le formazioni armate attive nella zona sono molteplici. Ci sono i guerriglieri di Al Qaeda nel Maghreb Islamico e del gruppo Katibat al Mourabitoun, creato dal noto terrorista algerino Mokhtar Belmokhtar. Mentre a Est di Ghat, nell’area di Ubari, sono attivi i gruppi armati del popolo Tebu. Nella zona, infine, ci sono anche le milizie dei nomadi Tuareg. Grazie alla sala operativa italo-libica si indagherà maggiormente sul legame tra i violenti e cinici trafficanti di uomini e i terroristi. Tra le due entità esiste infatti un meccanismo che l’intelligence paragona a quello dei vasi comunicanti. E puntando i riflettori sui flussi migratori potrebbero arrivare ottimi spunti di indagine contro il terrorismo e la radicalizzazione di estremisti islamici. Per questo si sta valutando il ricorso ai mezzi aerei a pilotaggio remoto, più conosciuti come droni, caratterizzati dall’assenza di un equipaggio a bordo e l’addestramento di guardie di frontiera. Stati Uniti. Il lato oscuro della giustizia americana di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 30 settembre 2016 Il caso di un detenuto di Guantánamo, sottoposto a numerose torture anche se non incriminato, fa riflettere sulle storture di un intero sistema. Per tante cose gli Stati Uniti sono un riferimento anche nell’amministrazione della giustizia. Ma non per tutte. Non per la pena di morte, ancora in vigore in gran parte degli stati della federazione. Non per i controproducenti esiti della robusta dose di privatizzazione del sistema carcerario, tali da indurre di recente il Dipartimento di Giustizia a fare mea culpa nell’annunciare un programma di riduzione delle "prigioni private". E, soprattutto, non per la difficoltà di chiudere definitivamente con la tentazione del diavolo sfiorata dopo l’11 settembre 2001, in chiave di autodifesa dalla minaccia terroristica, attraverso l’esperienza di quel non-luogo giuridico che è stata ed è la prigione di Guantánamo a Cuba. Di cui oggi è paradossalmente proprio l’inquilino numero uno (in ordine di tempo) a continuare a rappresentare, suo malgrado, la muta denuncia giuridica. "Una cosa è essere torturati. Un’altra cosa ancora è essere torturati e messi a tacere. Ancora peggio è essere torturati, messi a tacere e dimenticati", riassume Joseph Margulies, docente alla facoltà di legge della prestigiosa Cornell University di New York, autore del libro sull’11 settembre Che cosa è cambiato quando tutto è cambiato, e avvocato di diritti civili che assiste un solitario confinato nel carcere americano a Cuba come Zaynal Abidin Muhammad Husayn, alias Abu Zubaydah, il primo ad essere rinchiuso nella prigione segreta della Cia e ad essere sottoposto a pesanti interrogatori. Al collega Gian Luigi Gatta (un professore di diritto penale all’Università Statale di Milano che in questi mesi sta svolgendo alla Cornell University un periodo di studio), e poi anche in un intervento pubblico sul sito online di Time, Margulies ha raccontato che Abu Zubaydah è di fatto stato l’eponimo del memoriale sulla tortura scritto dai consulenti legali dell’amministrazione Bush per ampliare i margini di violenti interrogatori, subendo un po’ tutti i trattamenti "di vigore" autorizzati, e anche qualcuno di quelli non autorizzati come la "reidratazione rettale". Tutta questa serie di "attenzioni" nei suoi confronti erano dovute al fatto che l’intelligence americana lo ritenesse un leader di al-Qaeda vicino a Osama bin Laden, e persino l’addestratore di alcuni dei dirottatori dell’11 settembre. Ma a differenza di altri detenuti pure sottoposti a duri interrogatori a Guantánamo (dove dal 2006 era stato trasferito dopo un primo periodo in una prigione segreta fuori Bangkok), Zubaydah non è mai stato incriminato per alcun reato, mai processato da una Corte federale, mai condotto davanti a una Commissione militare o di qualsiasi altro genere, militare o civile o raffazzonata che fosse. Anzi, nel 2014 il Comitato del Senato, autore del più completo bilancio del programma delle "extraordinary renditions" di sospetti terroristi in giro per il mondo e dei successivi interrogatori da parte della Cia, dopo aver valutato una montagna di documenti e di notizie provenienti anche dalla stessa Cia, ha concluso che su Zubaydah l’intelligence si era sbagliata: niente a che fare con al Quaeda, nessun coinvolgimento negli attacchi dell’11 settembre. Era proprio quello che Zubaydah aveva provato a dire dall’inizio a chi lo interrogava, "forse", ritiene di affermare il professor Margulies, "mentre veniva legato per l’ennesima volta a quell’asse intriso d’acqua (per la reidratazione rettale), gettato ancora una volta in una cella costruita per lui a mo’ di bara, o appeso ancora una volta a un gancio sul soffitto". Oggi Zubaydah è ancora a Guantánamo, perché - secondo il suo avvocato che su Guantánamo già portò davanti alla Corte Suprema il caso "Rasul contro Bush" - l’intelligence americana "concorda sul fatto che Zubaydah debba rimanere irraggiungibile per il resto della sua vita". Sicché "a parte poche persone, compresi gli uomini che lo hanno interrogato e una manciata di altri prigionieri e funzionari governativi, nessuno al mondo l’ha sentito parlare dal 2002. Non ci illudiamo che possa essere liberato da questo "tribunale da Alice nel Paese delle meraviglie", l’abisso incolmabile tra il mito del patriottismo e la realtà della tortura mette in imbarazzo gli Stati Uniti. Messo a tacere e dimenticato, almeno fino alla morte: è l’assicurazione che è stata data ai suoi torturatori". Turchia. Entro cinque mesi sarà eretto il muro lungo tutti i 911 km del confine siriano di Marta Ottaviani La Stampa, 30 settembre 2016 La prima parte dell’opera, di oltre 200 chilometri, è stata ultimata nei dintorni di Reyhanli, uno dei distretti dove il flusso migratorio a partire dal 2011 è stato più forte. Dalla politica dell’accoglienza ai muri divisori. Dopo mesi di fasi alterne, nelle quali i flussi migratori venivano assorbiti e contenuti, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha pensato bene di chiudere la partita con l’erezione di un muro lungo tutti i 911 chilometri del confine siriano. La prima parte dell’opera, di oltre 200 chilometri, è stata ultimata proprio nelle ultime settimane. Interessa la zona dell’Hatay, soprattutto i territori nei dintorni di Reyhanli, uno dei distretti dove il flusso migratorio, a partire dal 2011 è stato più forte. Ma Ankara non si è accontenta e adesso l’opera verrà estesa a tutta la frontiera, diventando, a tutti gli effetti, uno dei muri più lunghi del mondo. I lavori dureranno 5 mesi. Se la prima parte era stata portata a termine sotto il controllo del Ministero della Difesa, la seconda sarà supervisionata niente meno che dal Toki, l’Agenzia per la pianificazione dilizia, che in pochi anni ha costruito un milione di nuovi palazzi, con tutte le relative accuse di speculazione edilizia contro l’esecutivo islamico-moderato al governo dal 2002. "La costruzione sarà ultimata in cinque mesi" hanno detto fonti governative al quotidiano Hurriyet, specificando che però in alcune zone, soprattutto Hakkari e Sirnak, dove di inverno le condizioni climatiche sono particolarmente rigide, ci potrebbero essere dei rallentamenti. Ancora un mistero i costi dell’operazione, ma fonti vicine al Toki hanno detto che dovrebbe aggirarsi intorno ai 672 milioni di dollari. La Turchia per anni si è distinta per l’aver accolto sul suo territorio nazionale quasi 3 milioni di rifugiati siriani. Secondo le voci più vicine al governo il nuovo muro dovrebbe servire come filtro ai foreign fighters, che si annidano a migliaia sul territorio della Mezzaluna, con tutti i problemi di radicalizzazione conseguenti. Le voci più critiche credono che si tratti dell’ennesimo provvedimento per indebolire il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione terrorista-separatista che lotta per la creazione di uno stato indipendente. Ankara è accusata di battersi con fin troppo vigore contro questa siglia, trascurando l’opposizione a Daesh, con il quale in passato è stata anche accusata di collaborare. Siria. L’agonia di Aleppo e la risposta militare delle super potenze di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 settembre 2016 Siria. Città al collasso, le Ong contano 100 bambini uccisi da venerdì e 500 civili in 10 giorni. Gli Usa danno l’ok a missili anti-aereo alle opposizioni e pensano a reazioni militari. La Russia dice no alla tregua di una settimana e propone 48 ore. Un terremoto: così i residenti di Aleppo descrivono l’agonia della città, bombe e missili scuotono letteralmente la terra sotto i piedi. Ora si combatte in città vecchia, simbolo di bellezza e abbondanza evaporate nei fumi della guerra civile: ad Aleppo non si trova più neppure il pane. Non si trovano acqua, medici e medicine, i gesti della vita quotidiana. I bambini conoscono solo la lotta giornaliera per la sopravvivenza. Con la fastosità di Aleppo è evaporata anche l’infanzia. Rami Adham prova da qualche anno a metterci una pezza: siriano finlandese, è noto come il "contrabbandiere di giocattoli": palloni da calcio, barbie, peluche, 70 kg di giochi alla volta che nelle sue 28 visite in Siria ha portato con sé. Alla Bbc Rami dice di voler "preservare gli eroi che rappresentano il futuro della Siria". C’è da chiedersi quale sia il futuro per un paese di cui metà della popolazione, 11 milioni di persone, è rifugiata all’estero o sfollata all’interno, che piange quasi mezzo milione di morti e legami sociali in frantumi. Aleppo ne è l’esempio, divisa a metà tra governo e opposizioni. L’ultima settimana ha visto una terribile escalation: Damasco avanza via terra, decisa a "spazzar via i terroristi"; le opposizioni non arretrano per non lasciare spazio al compromesso politico. I numeri delle Ong sono terrificanti: 100 bambini uccisi e 223 feriti secondo l’Unicef da venerdì, quasi 500 civili morti da lunedì 19 settembre, solo 35 medici presenti nei quartieri est. Altri due ospedali sono stati colpiti ieri da missili, centrate anche due panetterie, tra le poche ancora aperte e con lo scarso cibo a disposizione che ha raggiunto prezzi stellari. Di certezze ce ne sono poche ad Aleppo. Una di queste è che il conflitto non finirà a breve: secondo fonti delle opposizioni e ufficiali Usa, Washington avrebbe autorizzato le petromonarchie del Golfo a rifornire i "ribelli" di missili anti-aereo Manpad, preoccupando molti osservatori: l’equipaggiamento, come quello inviato prima, finirà nelle mani delle opposizioni militarmente più efficaci, l’ex al-Nusra e la galassia salafita che la sostiene pur sedendosi al tavolo di Ginevra e che da agosto ha ammassato ad Aleppo migliaia di miliziani per la cosiddetta battaglia finale. Eppure sulla città si aggira ancora il fantasma della tregua che genera solo false speranze. Ieri Casa Bianca e Cremlino hanno riproposto, ognuno a modo suo, la stantia promessa del dialogo mescolata a intimidazioni reciproche. Il segretario di Stato Usa Kerry ha minacciato di chiudere se Mosca non interrompe subito i raid, ma fonti dell’amministrazione parlano già di reazioni militari suggerite ad un recalcitrante Obama. La Russia risponde: le dichiarazioni Usa sulla Siria - ha detto il vice ministro degli Esteri Ryabkov - sostengono il terrorismo. Ha poi rigettato la proposta di 7 giorni di tregua, "inaccettabile" perché volto a far riorganizzare le opposizioni e rilanciato: 48 ore per far arrivare degli aiuti, quelli che durante il cessate il fuoco dal 12 al 18 settembre non sono stati consegnati. Il gap tra Washington e Mosca, impegnate in un braccio di ferro che travalica le frontiere siriane, si amplia irrigidendo le posizioni dei due fronti: quello pro-Assad, guidato dalla Russia e sostenuto da Iran e Hezbollah; e quello del composito fronte di opposizione, gestito dal Golfo e ufficialmente solo in parte dagli Stati Uniti. Qui sta la base fragile della strategia Usa: mentre Putin è sponsor di un solo soggetto, Assad, figura che incarna gli interessi russi, Obama deve giostrarsi tra innumerevoli attori. Se dietro le quinte gli Usa riforniscono di armi i "ribelli", consapevoli che una buona parte finisce ai qaedisti, in pubblico è impossibile sostenere apertamente questa porzione delle opposizioni. Eppure sanno che si tratta della più radicata e meglio armata, la sola che può dare filo da torcere all’esercito governativo. Medio Oriente. L’Ambasciata Palestinese a Roma chiede indagini su carceri israeliane di Fabrizio Federici avantionline.it, 30 settembre 2016 Proprio mentre forte nel mondo è la commozione per la morte di Shimon Peres (lo statista israeliano, a suo tempo tra i promotori, al fianco di Yzhak Rabin, del processo di pace con i palestinesi, poi Presidente della repubblica dal 2007 al 2014, e da sempre, purtroppo, più amato all’estero che in patria), giunge la denuncia, da parte dell’Ambasciata Palestinese a Roma, della problematica situazione di molti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. "Particolarmente grave - ha detto, in una conferenza stampa all’ambasciata, Mai Al- Kaila, ambasciatrice in Italia dell’Autorità Nazionale Palestinese - è, dal punto di vista del diritto, la prassi della detenzione amministrativa nelle carceri israeliane: basata su una legge che autorizza l’esercito ad arrestare e detenere un cittadino sino a sei mesi, rinnovabili senza preavviso, né possibilità di appello. Il prigioniero, in pratica, può restare incarcerato per anni, in via amministrativa, senza sapere il perché. Attualmente i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane sono circa 7.000. Tra questi: 68 donne, delle quali 17 minorenni, 480 detenuti al di sotto di 18 anni di età e 6 deputati, 3 dei quali prigionieri amministrativi. Vorrei citare il numero degli arresti nell’ultimo anno: dall’inizio dell’ultima rivolta palestinese, ai primi di ottobre 2015, gli arrestati sono stati 6.730; gli arrestati dall’inizio del 2016 sino alla fine di giugno, 3.445, dei quali 400 casi di arresti amministrativi. I minorenni arrestati nello stesso periodo sono stati 712, e le donne 102. Il totale dei detenuti amministrativi ancora in prigione è di 750". L’organizzazione israeliana per i diritti umani "Bet selem" ha chiesto l’apertura di indagini riguardo 739 casi di morte e tortura nelle carceri dal 2000 (ultimo caso sospetto, quello del cisgiordano Yasser Hamdoumi, ergastolano, morto in carcere domenica 25 settembre, dopo esser stato operato, anni fa, per problemi cardiaci). "Il 15 giugno scorso", rileva ancora l’ambasciatrice palestinese, "la Knesset, il Parlamento israeliano, ha approvato una legge "anti-terrorismo", presentata dal ministro della Giustizia, che mira ad inasprire le punizioni nei confronti dei prigionieri e ad estendere gli arresti amministrativi: legge che viola palesemente il diritto internazionale e le convenzioni di Ginevra, tutelanti i diritti dei prigionieri e delle popolazioni sotto occupazione". Ci auguriamo fortemente che le organizzazioni pacifiste israeliane - movimento che comunque raccoglie decine di migliaia di persone, paragonabile, per certi aspetti, a quello da sempre esistito, negli USA, contro le guerre dello "Zio Sam" - riescano a mobilitarsi efficacemente, premendo sul governo conservatore per modificare questa situazione. La protesta di organizzazioni come "Bet Selem" già s’è fatta sentire all’indomani dell’ultima "Guerra di Gaza" dell’estate 2014; raccogliendo anche l’adesione di molti "refusnik" (cioè quei soldati e membri della riserva che si rifiutano di servire nell’esercito israeliano sotto certe condizioni, ad esempio rifiutandosi d’ operare nei Territori Occupati: e che spesso son rimasti fortemente traumatizzati dagli orrori della guerra, uscendo poi dalle forze armate: anche qui è pregnante il paragone con gli USA dei conflitti, in Vietnam e Iraq). Ancora attivo, anche se, ormai, più nella documentazione fotografica delle irregolarità nella definizione dei confini tra aree palestinesi e aree degli insediamenti israeliani in Cisgiordania) è "Peace Now", storico pioniere del pacifismo israeliano, nato nella primavera del 1978. Mentre, mesi fa, ha fatto scalpore in tutto il mondo la notizia d’ un altissimo dirigente dei servizi segreti israeliani, dimessosi perché in profondo disaccordo col suo Governo, su tutta la politica nei confronti dei palestinesi. Da sempre sappiamo che il problema mediorientale è quantomai complesso, trattandosi d’un conflitto che vede contrapporsi due parti aventi, ognuna, consistenti ragioni. Mentre a indebolire la credibilità dell’ Autorità Nazionale Palestinese concorrono, purtroppo, la presenza d’una forza come Hamas, radicalmente contraria ad Israele, nella maggioranza di governo, le ambiguità registratesi in passato, nella politica dell’ OLP, nei confronti del terrorismo contro i civili israeliani, le vecchie accuse di corruzione ai dirigenti di Al-Fatah, Arafat compreso. Ma oggi, ambedue le leadership contrapposte, israeliana e palestinese, pur indebolite dall’obbiettiva mancanza di leader della statura di Rabin, Peres, Arafat, e in un contesto internazionale a dir poco caotico e allarmante, sono chiamate a uno sforzo di pace che non può fare a meno di partire, per quanto possibile, proprio dall’accantonamento del passato, nella consapevolezza di errori e colpe di ambedue le parti. Uno statista che sembra aver pienamente capito è l’attuale Presidente israeliano, Reuven Rivlin, dal 2014 successore di Peres, esponente storico del Likud già apprezzato, però, anche dai laburisti per la correttezza dimostrata, in passato, come presidente della Knesset. Tra i cui primi atti come Capo dello Stato, c’è stata la visita a uno dei villaggi palestinesi distrutti durante la Guerra d’indipendenza d’Israele del 1948: col riconoscimento delle gravi colpe commesse allora dai combattenti con la stella di Davide, giunti a massacrare anche donne e bambini. In quest’iniziativa, aggiungiamo, Rivlin ha sviluppato, a guardar bene, quegli spunti autocritici verso Israele che lo stesso Moshe Dayan, all’epoca Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, aveva espresso già nel lontano 1956, durante l’orazione funebre del 30 aprile per Roy Rotenberg, guardia del villaggio di Nahal Oz, al confine con la Striscia di Gaza, ucciso dai palestinesi. Iran: giustiziati in un solo giorno17 prigionieri nel carcere di Vakil Abad a Mashhad politicamentecorretto.com, 30 settembre 2016 Dal 13 al 24 Settembre, sono stati impiccati 19 prigionieri nelle carceri di Shiraz, Gorgan, Tabas, Tabriz, Bandar Abbas, Rasht, Taybad, Orumiyeh e Neyriz. Nel frattempo 13 prigionieri in isolamento nel carcere di Gohardasht a Karaj e il quello di Khorin a Varamin, e sette prigionieri tra i 25 e i 30 anni nel carcere centrale di Minab, si trovano nel braccio della morte. A questi si aggiungono le migliaia di prigionieri nel braccio della morte delle carceri di tutto il paese, soprattutto in quello di Ghezel Hessar. Queste esecuzioni, avvenute simultaneamente alla partecipazione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del cosiddetto "moderato" Rouhani, dimostrano quanto vacue e ingannevoli siano le pretese di moderazione del regime teocratico del Velayat-e-Faqih. Le varie fazioni interne a questa tirannia religiosa che governa l’Iran, non hanno alcuna disputa fra loro per quanto riguarda la repressione del popolo iraniano. Incapace di affrontare la crisi in patria e all’estero, soprattutto mentre la rivelazione di nuovi aspetti del massacro dei 30.000 prigionieri politici del 1988, ha accresciuto la rabbia della gente nei confronti del regime al potere, il regime teocratico non ha trovato nessun altra soluzione se non quella di inasprire la repressione, aumentando in particolare l’uso della pena capitale. Abdolreza Rahmani Fazli, Ministro degli Interni di Rouhani, alludendo al rapporto di 20.000 pagine sulla diffusione delle patologie sociali, ha ammesso che "la minaccia principale sta negli affari interni" (Agenzia di stampa ufficiale Isna - 26 Settembre). La Resistenza Iraniana chiede al popolo iraniano, ed in particolare ai giovani coraggiosi, di protestare contro le misure repressive del regime e chiede solidarietà per le famiglie dei giustiziati. Chiede inoltre che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Consiglio per i Diritti Umani, l’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani e tutte le organizzazioni per i diritti umani, intervengano immediatamente per combattere il trend in crescita delle esecuzioni in Iran. Il regime del Velayat-e-Faqih è una vergogna per l’umanità contemporanea, deve essere espulso dalla comunità mondiale, i suoi leaders devono essere portati di fronte ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità e qualunque relazione con esso deve essere condizionata alla fine delle esecuzioni. Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Brasile. Evasione di massa dal carcere di Jardinopolis, in fuga di 200 detenuti Askanews, 30 settembre 2016 Fuga di massa da un carcere in Brasile. Duecento detenuti sono evasi dal penitenziario di Jardinopolis, a 300 chilometri da San Paolo. L’ammutinamento è iniziato dando fuoco ai materassi nelle celle, poi nel caos dell’incendio è scattata la fuga, ma che è durata ben poco per un centinaio di loro. La polizia ha catturato molti dei detenuti che stavano allontanandosi dalla zona passando da campi di canna da zucchero. Altri fuggitivi si sono arresi. La polizia sostiene di avere la situazione sotto controllo. La sovrappopolazione delle carceri brasiliane è uno dei motivi principali degli ammutinamenti che sono sempre più frequenti nel paese sudamericano. Il carcere di Jardinopolis ha una capacità di 1.080 posti, ma al momento dell’evasione la popolazione penitenziaria ammontava a 1.864 detenuti.