Indagine del ministero della Giustizia: carcere preventivo nel 46% dei casi Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Nonostante la riforma, quasi metà dei cittadini sottoposti a misure cautelari (in attesa di processo) finisce ancora in prigione. Infatti, la custodia in carcere resta lo strumento privilegiato: viene disposta nel 46% dei casi. I primi dati relativi al monitoraggio 2015 sulle misure cautelari personali, fatti arrivare (per ora) da 48 uffici sui 136 prescelti alla direzione generale della Giustizia penale del ministero della Giustizia, sono il risultato di un’indagine svolta sulla base della riforma del Codice di procedura penale, che avrebbe dovuto limitare la possibilità di utilizzare la custodia cautelare. La scelta del ministero è stata di interpellare soprattutto uffici medio-piccoli, con eccezione del Tribunale di Napoli. All’appello, comunque, hanno risposto in pochi ma il ministero fa notare che "si tratta del primo anno di sperimentazione". Sulla base dei dati pervenuti, nel corso del 2015 sono state emesse, dagli uffici che hanno risposto alla richiesta di monitoraggio, 12.959 misure cautelari personali. La custodia in carcere è stata disposta in 6.016 casi (il 46% del totale); seguono gli arresti domiciliari con 3.704 casi (29%); l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria in 1.430 casi (11%). Il documento analizza poi il numero dei procedimenti, 3.894, in cui nel corso del 2015 sono state applicate misure cautelari: la quasi totalità, 3.743, risultano iscritti nel 2015, mentre 151, meno del 4%, in anni precedenti. Più nel dettaglio, dei 3.743 procedimenti iscritti nel 2015, in 42 casi è stata emessa sentenza definitiva di assoluzione, mentre per 156 è intervenuta una sentenza di assoluzione ma non ancora definitiva. "Le assoluzioni definitive - si legge nel documento della Giustizia - impattano 14 procedimenti con misura carceraria e 15 con misura detentiva domiciliare. Quelle non definitive, 69 procedimenti con misura carceraria e 52 con domiciliari". Secondo l’Unione delle camere penali, i dati testimoniano un’applicazione marginale della riforma e che il ricorso alla custodia cautelare in carcere resta "altissimo", "nonostante il legislatore abbia sempre inteso l’adozione di questo strumento da parte del giudice quale extrema ratio, e dovendosene conseguentemente auspicare un’applicazione "residuale" e, dunque, davvero marginale in termini statistici". Da segnalare anche la lieve decrescita delle pendenze nei processi penali: da 1.663.391 di fine 2015 a 1.643.606 alla fine del primo semestre 2016, secondo i dati della Giustizia, con un calo percentuale dell’1,19 per cento, il più sensibile dal 2009. Se la giustizia abusa del carcere di Giovanni Verde Il Mattino, 2 settembre 2016 Il ministero della Giustizia ha presentato una relazione sulle misure cautelari personali predisposte nel 2015. Dagli uffici che hanno risposto alla richiesta di monitoraggio risulta che sono state disposte quasi 13mila misure cautelari; di queste più di seimila sono consistite nella custodia cautelare in carcere (46% del totale); tremila settecento sono stati gli arresti domiciliari (29%). In millequattrocento casi si è disposto l’obbligo della presentazione alla polizia giudiziaria (11%). Il documento analizza, inoltre, il numero dei procedimenti in cui, nel corso del 2015, sono state applicate misure cautelari. Sono stati 3.743 procedimenti, iscritti nella quasi totalità nel 2015; mentre soltanto 151 risalgono ad anni precedenti. Di questi procedimenti, 42 risultano chiusi con sentenza definitiva di assoluzione; per 156 è intervenuta una sentenza non definitiva di assoluzione. Per 2.405 procedimenti si è avuta condanna non definitiva; in un numero non precisato di casi è stata concessa la sospensione condizionale della pena. Tra questi 2.405 procedimenti, in 1006 era stata disposta la custodia in carcere (42%). Per il restante ammontare, nel 42% dei casi si sono ordinati gli arresti domiciliari; nel rimanente 10% misure alternative. Questi dati non consentono considerazioni definitive. Lo stesso ministero avverte che essi riguardano soltanto gli uffici che hanno risposto alla richiesta di monitoraggio. Non sappiamo, tuttavia, quale sia la percentuale degli uffici che hanno collaborato. Ci manca la possibilità di fare un raffronto tra il numero delle misure personali ordinate e il numero dei procedimenti pendenti per i quali era possibile disporle. Ci mancano notizie relative alla durata delle misure. Non è chiaro il rapporto tra le tredicimila misure disposte nel 2015 e i 3.743 procedimenti iscritti nello stesso anno. Ciò nonostante qualche riflessione può essere azzardata. La misura cautelare in carcere è stata disposta in oltre seimila casi e, nel corso dei 3.473 procedimenti iscritti nel 2015,abbiamo avuto circa duecento assoluzioni e 2.405 condanne non definitive, con le quali, in un numero non precisato di casi, è stata concessa la sospensione condizionale della pena. In questi casi (di assoluzione o di condanna con sospensione condizionale della pena) si è, perciò, avuta l’applicazione di una misura cautelare personale (che nel 46% del casi è consistita nella carcerazione) non giustificata. Il numero delle misure cautelari personali è di per sé consistente. Il numero delle carcerazioni preventive non è da sottovalutare (risponde al 46% del totale), così come non può lasciare indifferenti che in non pochi casi (che non possiamo quantificare con esattezza) le misure cautelari sono state disposte malamente. Sarebbe facile, sulla base di questi dati, denunciare un eccessivo ricorso alle misure cautelari preventive. Non lo vogliamo fare. Ci rendiamo conto, infatti, della difficoltà in cui opera la magistratura, che, quando non ordina la carcerazione preventiva, non infrequentemente è messa sotto accusa dalla pubblica opinione, che si duole per il lassismo. E abbiamo sotto gli occhi le critiche feroci ai magistrati quante volte gli indagati non arrestati continuano a delinquere. Insomma, i magistrati sono tra l’incudine e il martello, perché il fondamentale principio della presunzione di innocenza deve fare continuamente i conti con le esigenze di sicurezza sociale particolarmente avvertite in questi momenti bui. Alla radice del problema vi sono due fattori. Il primo è culturale. Siamo abituati a considerare la giustizia come un affare che riguarda gli altri e, quando riguarda gli altri, abbiamo propensione ad un giustizialismo primitivo. Dovremmo essere capaci di cambiare la prospettiva e considerare il processo che riguarda gli altri come se fosse il nostro processo. Se riuscissimo a farlo, forse ci renderemmo conto che il ricorso alle misure cautelari personali dovrebbe essere assolutamente eccezionale e estremamente limitato nel tempo. E ciò dovrebbe essere avvertito anche dai magistrati, i quali, prima di ordinare tali misure, dovrebbero chiedersi quante possibilità vi siano che l’accusa resista al controllo dibattimentale e dovrebbero evitare di ricorrere a tali misure quando abbiano a ritenere che l’accoglimento delle richieste della pubblica accusa non siano di evidenza tale da farne pronosticare l’accoglimento con un alto tasso di probabilità. Leggendo le cronache giudiziarie, si ha spesso l’impressione che la misura preventiva sia disposta come una sorta di condanna anticipata quante volte l’accusa e i giudici addetti al controllo abbiano la sensazione della colpevolezza dell’indagato, anche se avvertono la precarietà dell’impianto accusatorio. L’altro fattore riguarda l’organizzazione e il processo. Le misure cautelari personali sono giustificabili se sono di breve durata. Perché ciò sia reso possibile sarebbe necessario organizzare processi rapidi e immediati. Il nostro codice di rito non è costruito per tali processi. Di più. Nel nostro Paese l’unica sanzione effettiva è quella penale. Ciò ha portato a una dilatazione della responsabilità penale sia perché qualsiasi legge di qualche importanza è accompagnata da divieti penalmente sanzionati, sia perché non ci si ferma alle cause immediate dell’evento dannoso, ma sempre più spesso si va alla ricerca delle concause mediate o remote. I processi, in tal modo, si complicano; spesso, per l’alto numero degli imputati, diventano difficilmente gestibili; e, comunque, perdono la caratteristica dell’evidenza, che dovrebbe essere a base della sanzione penale, per immergersi nella non facile ricerca di elementi, anche lontani, di imputabilità, che giustifichino la condanna. Altrove, i processi con molte parti sono eccezionali; da noi sono frequenti. E poi non dimentichiamo la nostra cura per la motivazione. I processi sono rallentati anche per l’esigenza di rendere conto. Ma quando leggiamo, come è accaduto di recente, di una motivazione depositata dopo più di un anno di oltre milleduecento pagine, oltre al sospetto di un dibattimento dilatato oltre misura, viene da chiedersi se, per paradosso, l’eccesso di motivazione non si traduca in assenza di motivazione, quale nei fatti si ha quando dalla mole delle pagine scritte non è possibile o non è facile estrarre le effettive "rationes decidendi". Dovremmo decidere una volta per tutte quale è la giustizia che vogliamo. Per volere troppo o per pretendere troppo dalla magistratura, si finisce con l’avere una giustizia sempre più insoddisfacente. Legge antiterrorismo: 007 in cella per controllare chi "festeggia" per gli attentati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2016 Lo prevede la legge istitutiva della superprocura antimafia e antiterrorismo. Gli agenti segreti operano da tempo all’interno del carcere Due Palazzi di Padova. A rivelarlo è stato il questore della città in merito alla denuncia della polizia penitenziaria che avrebbe assistito alle ovazioni di tre nordafricani davanti ai tg che davano notizia degli attentati di Parigi e Nizza. Che esista il problema delle radicalizzazioni in carcere è un tema che Il Dubbio ha affrontato più volte. Il ministro Orlando, pur non sottovalutando il problema, aveva comunque spiegato che non esistono dati allarmanti. Il 3 agosto in audizione alla commissione Schengen spiegò che su 7.500 detenuti che professano la religione musulmana, sono 345 quelli interessati da possibili radicalizzazioni (spesso in carcere per reati comuni), di cui 153 più allarmanti: tra loro i 99 che hanno "festeggiato" in occasione degli attentati di Parigi, del Belgio e di Dacca e i 39 sottoposti al regime detentivo di alta sicurezza perché imputati per reati di terrorismo. Ma come mai i servizi segreti possono operare sotto copertura dentro le carceri? Il 18 febbraio del 2015 fu varato il decreto "Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale". Un decreto che poi è diventato legge di Stato. È nata così la superprocura Antimafia e antiterrorismo: la nuova legge, infatti, affida al procuratore nazionale Antimafia il coordinamento nazionale delle inchieste sul terrorismo anche internazionale. Tale legge, tra le varie novità, autorizza gli 007 ad infiltrarsi nelle carceri nazionali al fine di prevenire l’arruolamento dei terroristi. Il testo, infatti, in via transitoria (fino al 31 gennaio 2016) prevedeva la possibilità che i servizi segreti effettuino colloqui investigativi con i detenuti per la prevenzione dei delitti con finalità terroristica di matrice internazionale, previa informazione preliminare e conclusiva al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Gli agenti segreti, inoltre, sono autorizzati a commettere "reati" nell’ambito delle indagini contro il terrorismo, potendo fruire di una speciale causa di non punibilità, e quindi a non deporre, anche nei procedimenti penali sulle attività svolte "sotto copertura". In gergo, le chiamano "garanzie funzionali: è il potere degli agenti speciali di violare la legge pur di arrivare al risultato. La legge 124 del 2007 prevede già una procedura specifica: previa autorizzazione del presidente del Consiglio, l’agente dei Servizi può essere autorizzato a commettere reati. Ma mai di quelli troppo gravi come ad esempio l’omicidio. Nel caso dovessero aumentare le cosiddette "garanzie funzionali", i nostri 007 potrebbero avere la licenza di uccidere. Il paletto tolto considerato "ingombrante" rimane comunque quello di dare la possibilità ai servizi segreti di operare sotto copertura all’interno delle carceri. Comunque sia, grazie alla nuova legge, un agente segreto può mantenere la sua personalità di copertura anche se arrestato, se interrogato e se condotto in carcere. La legge precedente del 2007 lo vietava espressamente. Ma se esisteva è perché c’era un motivo. La normativa venne varata dall’allora Governo Prodi con un ampio consenso parlamentare e andò a riformare in modo sostanziale i Servizi Segreti italiani. La revisione precedente del settore era avvenuta trent’anni prima, nel 1977. Entrando nello specifico di quella normativa si andò a modificare il funzionamento dei Servizi, alla luce dell’evidente mutato contesto storico e politico internazionale, che era ancora basato sul modello della legge del 1977 nata in piena Guerra Fredda; ovvero, due servizi distinti e dipendenti da altrettanti ministeri (Difesa e Interni) sui quali il governo e il Parlamento avevano un controllo limitato. Con la riforma dell’intelligence avvenuta nel 2007 si andarono a definire tutta una serie di garanzie funzionali per gli agenti; una sorta di regole di ingaggio che vanno a prevedere la possibilità di compiere una serie di reati senza il rischio di essere puniti se questi atti sono indispensabili alle finalità dei Servizi. Condotte illecite che devono essere autorizzate o dal presidente del Consiglio o dall’Autorità delegata alla materia. La non punibilità per reati commessi per raggiungere obiettivi inerenti le missioni affidatagli non riguardano casi di "delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone". In sostanza tutta una serie di paletti che, sull’onda emotiva degli attentati da parte di terroristi islamici, la legge tende ad eliminare per fornire ulteriori armi in dotazione agli agenti segreti italiani. La solidarietà per i terremotati coinvolge anche i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2016 All’istituto penitenziario di Ferrara, l’Arginone, è stata presa una decisione spontanea, diffusa rapidamente di cella in cella e accolta con grande slancio ed entusiasmo dai detenuti, felici di poter contribuire, pur privati della libertà, alla macchina degli aiuti nelle zone terremotate. Ogni detenuto ha dunque stabilito di destinare una parte del proprio libretto di risparmio alle popolazioni colpite dal sisma. Attraverso l’ufficio competente della casa circondariale, la somma è stata dunque prelevata per un ammontare di 600 euro, che poi si provvederà a far arrivare a destinazione. La radicale Rita Bernardini, nei giorni scorsi, ha ricevuto una lettera in cui Cristian, un ristretto di Rebibbia, ha annunciato che stanno facendo una raccolta economica per le persone che - parole sue - "hanno subito l’ira della natura, colpite dal terremoto, per dimostrare la nostra vicinanza nel lutto e nel dolore e soprattutto nel rispetto delle persone che non ce l’hanno fatta. ". La coop special servizi, una cooperativa romana per l’inclusione speciale, ha organizzato il 3 settembre, al quartiere romano di Primavalle, una giornata per reperire beni di prima necessità per i terremotati. In quel giorno verranno a dare una mano una decina di ragazzi reclusi a Rebibbia appartenenti all’associazione "doppia mandata". Ci sono anche i detenuti della casa circondariale di Trapani che hanno voluto essere vicini alle popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto e hanno attivato una colletta tra di loro per raccogliere del denaro. La somma è stata versata sul conto corrente della Croce Rossa Italiana attivato in favore dei terremotati. Anche i detenuti del carcere di San Giuliano, vicini alle popolazioni del centro Italia; commossi infatti dall’immensa sofferenza causata dal catastrofico terremoto che ha colpito il centro Italia, si sono subito attivati nel raccogliere denaro per una colletta. Anche nel passato i detenuti hanno dimostrato vicinanza attraverso gesti concreti. Quando c’è stato il terribile terremoto in Abruzzo alcuni detenuti di Rebibbia che lavoravano in cucina hanno espresso il desiderio di potersi mettere a disposizione per aiutare i terremotati. C’è stato subito un raccordo con la direzione del carcere, così con la Croce Rossa è stato possibile inserire quei detenuti tra i volontari alla mensa del campo base all’Aquila. I detenuti furono accolti con entusiasmo sia dai volontari che dai terremotati. Se il ministro della Giustizia volesse, c’è la possibilità di far entrare i detenuti nell’organizzazione di aiuti e nella ricostruzione. La legge penitenziaria lo prevede e nell’articolo 76 è specificato che ci sono anche dei benefici per i detenuti che si sono distinti per gli atti meritori di valore civile: come ad esempio la grazia, la liberazione condizionale e la revoca anticipata della misura di sicurezza. Sarebbe, nel caso, la vera giustizia riparativa: quella che ha come scopo ultimo il coinvolgimento dell’intera comunità nel percorso di reinserimento del condannato, un modo per espiare la colpa e la determinazione nel tornare a camminare insieme. Sicuramente con i gesti di solidarietà di questi giorni, i detenuti hanno dato un segnale di vicinanza e sensibilità che porta con sé un valore aggiunto, la capacità di guardare oltre la propria condizione e saper essere solidali nei confronti di chi sta soffrendo. Orlando: penso ad una legge sul reato di tortura, bene dibattito Parlamento su cannabis Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 "Penso ad una legge destinata a definire il reato di tortura e penso che, al di là di quello che sarà l’approdo - io seguirò con grande attenzione la discussione parlamentare - costituisca un fatto positivo che il Parlamento sia investito del tema della legalizzazione delle droghe leggere". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenendo questo pomeriggio al 40° Congresso del Partito Radicale, il primo che si tiene dentro la Casa circondariale nuovo complesso Rebibbia "Raffaele Cinotti". "Terrò per me le mie opinioni e l’esito di quella discussione non sarà scontato, ma il fatto che se ne torni a discutere sarà l’occasione per mettere in discussione alcuni tabù che fino ad oggi sono sembrati indiscutibili. E questo penso che di per sé sia un fatto positivo". "È uno slogan smentito dal tasso di recidiva tra i più alti d’Europa - ha proseguito Orlando - che sia sufficiente dire carcere per ottenere sicurezza". "Aggiungo che un carcere che preveda trattamenti individualizzati e l’utilizzo integrato di pene alternative non è mai una concessione ai criminali, come grida qualcuno, né è la dimostrazione che lo Stato ha alzato bandiera bianca. È piuttosto il previdente investimento di una società che decide di non consegnare al carcere la funzione di scuola di formazione della criminalità". Il ministro ha poi fornito i numeri del sistema penitenziario ricordando che ha toccato il picco massimo di sovraffollamento nel 2010, con oltre 77 mila detenuti a fronte di circa 44.000 posti disponibili. "Oggi - continua Orlando, guardarsi indietro non consente certo di dire che la situazione è risolta. Che siamo sulla via della stabilizzazione, però, sì. Pur con le cautele legate alle molte variabili presenti, ci sono segnali di un equilibrio su cui il numero complessivo dei detenuti si sta assestando, e che si aggira tra i 53 e i 54 mila detenuti". "Ma quello che più è rilevante, a mio parere, è il numero dei soggetti sottoposti oggi a misure alternative, in pratica raddoppiato rispetto al dicembre 2010". "Ciò testimonia che stiamo cercando di rivoluzionare un universo finora tolemaico, che ruotava solo ed esclusivamente intorno alla detenzione carceraria". Magistrati. Proroga pensioni, dopo lo scontro Mi prova a mediare e chiama Orlando di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 settembre 2016 Un piccolo giallo ha accompagnato l’emanazione del decreto legge 168, relativo a "Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa". Definitivamente risolto ieri mattina quando è stato possibile consultare l’articolato sulla Gazzetta Ufficiale. Per tutta la giornata del 31 agosto, infatti, si pensava che il testo approvato il giorno precedente dal Consiglio dei ministri contenesse, oltre alla proroga dell’età pensionabile per i vertici della Corte di cassazione, alcuni importanti cambiamenti al processo civile. Autorevoli quotidiani avevano anche provveduto a diffondere ampi stralci degli articoli del codice di procedura civile che sarebbero stati oggetto di modifica. Solamente nella tarda serata, quando il decreto era in viaggio presso la Presidenza della Repubblica, si è appreso che non conteneva le parti relative alle modifiche al processo civile che erano state stralciate. In conclusione, quindi, il provvedimento, fortemente voluto dal premier Matteo Renzi e che nelle intenzioni del governo dovrebbe migliorare "l’efficienza degli uffici giudiziari", contiene di significativo solamente la proroga fino al 31 dicembre del 2017 di circa 30 alti magistrati in servizio presso la Corte di Cassazione, a partire dal suo presidente. A dire il vero, però, contiene anche una modifica al testo sull’Ordinamento giudiziario, nella parte relativa ai trasferimenti dei magistrati, aumentando da tre a quattro anni il periodo dopo il quale un magistrato è legittimato a fare domanda per un’altra sede. Modifica che ha subito suscitato le ire dei giovani magistrati di prima nomina i quali dovranno aspettare un anno in più prima di poter fare domanda per una sede di loro gradimento. Essendo il primo trasferimento, da vincitore di concorso, disposto d’ufficio. Alcune toghe, maliziosamente, hanno fatto notare che allungare di un anno il tempo necessario prima di presentare domanda sia una norma "contra personam". Entrata in vigore ieri, questa disposizione penalizzerà alcuni magistrati che hanno appena maturato o stanno per maturare il triennio e volevano concorre per uno dei posti da dirigente, come presidente di un Tribunale o procuratore della Repubblica, che il Csm ha pubblicato nelle ultime settimane. Mercoledì al Csm plenum decisivo A questo punto, prima della definitiva conversione da parte del Parlamento, per la quale ci sono sessanta giorni di tempo, una data sul calendario va cerchiata in rosso: il prossimo 7 settembre. La mattina, Plenum del Csm, il primo dopo la pausa estiva e dove è stato inserito all’ordine del giorno la discussione della pratica aperta dal togato di Autonomia & Indipendenza Aldo Morgigni per valutare i profili di incostituzionalità di questo decreto. In particolare rispetto all’articolo 105, che attribuisce al Csm il potere su assunzioni, trasferimenti e assegnazioni di sede dei magistrati, e all’articolo 107, nella parte in cui è indicato che i magistrati si differenziano fra loro solamente per le funzioni. Norme che secondo tutti i magistrati, come si legge nei vari comunicati diramati in queste ore, mettono sullo stesso piano sia i vertici della Cassazione che tutte le altre toghe. I primi, però, oggetto della proroga, gli altri, invece, costretti alla pensione al compimento dei 70 anni d’età. Il pomeriggio, la riunione della Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati dove verranno valutate le iniziative da prendere in caso il governo intenda portare il decreto alle Camere per la conversione senza alcuna modifica. Come detto, il gruppo di Area si è già espresso per una giornata di sciopero. Magistratura Indipendente ha, invece, chiesto un incontro con il Capo dello Stato e con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il quale, intervenendo ieri al congresso dei radicali in corso nel carcere romano di Rebibbia, ha dichiarato che la proroga in questione "è già circoscritta" e comunque "ha l’obiettivo di assicurare il funzionamento della Corte di Cassazione". Perché la proroga della pensione dei supremi giudici è sbagliata di Livio Pepino Il Manifesto, 2 settembre 2016 Per la terza volta nell’arco di tre anni il governo ha prolungato l’età per il collocamento in pensione dei magistrati. Questa volta - salvo modifiche in sede di conversione in legge del relativo decreto - la proroga riguarda solo i vertici delle magistrature e, in particolare, della Corte di cassazione i cui titolari, ove non abbiano compiuto i 72 anni nel corso del 2016, potranno restare in servizio sino al 31 dicembre 2017. Di nuovo, dunque, il presidente del consiglio - ché a lui questa decisione si deve - si rivela incapace di dare effettivo seguito alla scelta, annunciata con squilli di tromba nel 2014, di portare a 70 anni la fine della attività lavorativa di giudici e pubblici ministeri. E, di nuovo, ciò apre un conflitto tra governo e magistrati, che lamentano la disparità di trattamento tra i vertici della Cassazione e gli altri ruoli e, in talune componenti, si spingono a minacciare uno sciopero. Ma c’è, nella vicenda, qualcosa in più del pressapochismo governativo e del corporativismo dell’Associazione nazionale magistrati. Si tratta di un’ulteriore tappa nella definizione di un rapporto opaco e istituzionalmente scorretto tra governo e magistratura (o, almeno, alcune sue componenti). Conviene riassumere i fatti. L’ordinamento giudiziario prevedeva, sin dal 1946, il collocamento in pensione dei magistrati al compimento del settantesimo anno. La norma è rimasta ferma sino al 1992 quando, all’esito di una serie di (contradditori) decreti legge, si pervenne - guardasigilli Martelli - a prevedere la possibilità, presto diventata regola, di trattenimento in servizio fino a 72 anni. Dieci anni dopo poi, nel 2002, regnante Berlusconi, tale termine venne elevato a 75 anni. Infine, nel 2014, il governo Renzi dispose il ritorno alla situazione originaria (pensionamento a 70 anni). La scelta, opportuna e condivisibile, non venne peraltro accompagnata, per un mix di incapacità e presunzione, da un piano di attuazione graduale con conseguenti improvvisi e contestuali vuoti di organico di difficile gestione. Ne sono seguite, nel 2014 e nel 2015, due proroghe di un anno e, oggi, una terza proroga, con incertezze interpretative, confusioni, disparità di trattamento tra magistrati, ricorsi amministrativi e quant’altro. Tutti questi provvedimenti - il prolungamento dell’età pensionabile come la sua riduzione e le successive proroghe - sono stati motivati con esigenze di servizio che vanno dalla difficoltà di coprire altrimenti vuoti di organico fino alla opportunità di favorire un ricambio e un ringiovanimento del corpo giudiziario. In realtà, i continui cambiamenti non hanno in alcun modo risolto i problemi evocati e hanno, al contrario, aumentato l’incertezza e l’improvvisazione. Ma, soprattutto, hanno portato significative ferite all’indipendenza della magistratura o, almeno, alla sua immagine. Ogni cambiamento ha infatti un "nome": la modifica del 1992 quello del procuratore della Repubblica di Roma, Ugo Giudiceandrea, mantenuto in servizio - si disse - perché ritenuto, dopo l’archiviazione del "caso Gladio" che aveva coinvolto il presidente della Repubblica Cossiga, più affidabile del possibile successore; la modifica del 2002 quello dell’allora presidente della Corte di cassazione Nicola Marvulli, prorogato nella speranza (rivelatasi infondata) di suoi interventi favorevoli al presidente del consiglio Berlusconi in dibattimenti pendenti davanti alla Suprema Corte, a cominciare dal "processo Mills"; la modifica odierna quello dell’attuale presidente della Suprema Corte Gianni Canzio (nominato grazie alla precedente proroga), da taluno ritenuto più di altri sensibile alle "compatibilità" politiche a seguito di discusse esternazioni (come quella, resa in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario milanese del 2015 a commento della vicenda della audizione del presidente della Repubblica Napolitano da parte del Tribunale di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia, secondo cui: "È mia ferma e personale opinione che questa dura prova si poteva risparmiare al capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica Italiana"). Illazioni infondate dovute allo scandalismo o alla ricerca di scoop di questo o quel giornale? È probabile. Ma resta il fatto che, esse sì, avrebbero potuto essere evitate a beneficio di istituzioni che non hanno certo bisogno di ulteriori delegittimazioni e sospetti. Gli automatismi - quelli del trattamento economico come quelli relativi alla permanenza in servizio - sono, prima di tutto, garanzie di indipendenza dei magistrati dal governo e dal potere politico. Come recita un antico detto, le funzioni giudiziarie devono essere esercitate, almeno da parte di chi lo vuole, "sine spe ac metu", cioè senza speranze di benefici o timore di ritorsioni in conseguenza delle proprie decisioni. Anche questo vale a rendere credibili i magistrati di fronte all’opinione pubblica. E non giova il dubbio, alimentato dall’ingiustificata riduzione di quegli automatismi, che talune nomine o proroghe siano (o siano state) oggetto di contrattazioni o di richieste col "cappello in mano". Detenuti: sì al "permesso di necessità" per assistere la moglie psicotica di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 1 settembre 2016 n. 36329. In coerenza con l’"umanizzazione delle pena" perseguita dall’articolo 30 dell’Ordinamento penitenziario, anche la malattia psichica grave del familiare (in questo caso la moglie) autorizza la concessione al detenuto di un "permesso di necessità". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 1° settembre 2016 n. 36329, rigettando il ricorso del Procuratore generale di Lecce che, invece, dopo aver ricordato che il richiedente stava espiando una condanna per omicidio, aveva escluso la riconducibilità della fattispecie al requisito della "eccezionalità" vista la "cronicità" della patologia. Il Tribunale di sorveglianza nell’accordare i tre giorni di visita aveva sottolineato l’importanza per il detenuto di poter stare accanto alla moglie "affetta da psicosi cronica gravissima con deterioramento cognitivo e turbe del comportamento". E nella motivazione aveva anche richiamato la "positività dei risultati dell’osservazione della personalità espletata in Istituto di Pena" dal detenuto che aveva intrapreso un giusto percorso riabilitativo. Riguardo questo secondo punto la Procura ha lamentato l’erronea applicazione di criteri valutativi (condotta carceraria, revisione critica della devianza) che "sono propri dei permessi premio, ma che non possono incidere sulla decisione afferente un premio di necessità". Un rilievo quest’ultimo sostanzialmente corretto secondo la Cassazione che ricorda come "il contegno regolare del detenuto può servire, al più, come fattore rafforzativo di una decisione già assunta, poiché il permesso di necessità prescinde del tutto dal ravvedimento del condannato, potendo essere concesso anche al detenuto che non abbia tenuto condotta corretta". Facendo un po’ di storia, i giudici ricordano poi che, al termine di un lungo dibattito, nel ‘75 il Parlamento decise di accordare permessi soltanto per gravi esigenze familiari del detenuto e non anche, come pure si era proposto, per attenuare l’isolamento della vita carceraria e favorire il mantenimento delle relazioni. L’ordinamento penitenziario però con una formula generica previde che "analoghi permessi" potessero essere accordati "per gravi ed accertati motivi". La flessibilità dell’espressione, prosegue la sentenza, si tradusse in una certa ampiezza interpretativa da parte della magistratura, cui però nel 1977 il legislatore pose rimedio prevedendo la concessione di permessi solo "eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità". Dal 1986, poi, con l’introduzione del "permesso premio" si esaurì anche la residua applicazione "variegata" dei permessi, e l’istituto venne riportato definitivamente alla sola funzione di "umanizzazione della pena". "Così oggi - prosegue la Corte - il permesso previsto dall’articolo 30 O.P. al comma 2 può essere concesso soltanto eccezionalmente e per eventi familiari di particolare gravità", termine che "non si riferisce soltanto ad un evento luttuoso o drammatico, ma deve essere inteso come un qualsiasi avvenimento particolarmente significativo nella vita di una persona". E la gravissima psicosi cronica della moglie del detenuto è "una condizione che integra una vicenda eccezionale, e cioè non usuale, particolarmente grave perché idonea ad incidere profondamente nel tratto esistenziale del detenuto e pertanto nel grado di umanità della detenzione e nella rilevanza per il suo percorso di recupero". In questo senso, conclude la Corte, "diviene arduo" condividere l’assunto secondo cui "l’attestazione di cronicità del severo quadro di psicopatologico della moglie del detenuto sarebbe in un insanabile contrasto con il requisito dell’eccezionalità della concessione, poiché questa accezione finirebbe per sovrapporre il requisito dell’eccezionalità alla nozione di assoluta straordinarietà ed irripetibilità dell’evento familiare, facendo divenire quest’ultimo sostanzialmente come unico nel suo verificarsi". "Deve, invece, ritenersi che il permesso di necessità vada concesso non in ipotesi di evento unico, bensì in ipotesi di vicenda familiare particolarmente grave e non usuale, idonea ad incidere profondamente nella vicenda umana del detenuto e nel grado di umanità della stessa nozione detentiva". E in questa nozione "certamente rientra la grave malattia psicotica". Messa alla prova su reati con pena base massima di quattro anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 1° settembre 2016 n. 36272. La messa alla prova va applicata ai reati con una pena- base massima fissata a quattro anni, senza che nel conto possano pesare le aggravanti, neppure a effetto speciale. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 36272, dirimono il contrasto sul punto, abbracciando la tesi meno restrittiva e valorizzando il fine deflattivo di un istituto teso alla risocializzazione della persona. La Suprema corte ricorda che l’articolo 168-bis del Codice penale delimita l’ambito operativo della messa alla prova (articolo 168-bis del codice penale) individuando un duplice criterio, nominativo e quantitativo. Da una parte ci sono i delitti indicati dall’articolo 550, comma 2 del Codice di procedura penale e, dall’altro, i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva, sola congiunta o alternativa, alla pecuniaria non superiore ai 4 anni. La norma non puntualizza però se il tetto vada stabilito considerando le circostanze aggravanti o meno. Da qui sorge il contrasto: secondo la scuola di pensiero restrittiva si tratta di una "lacuna" che va colmata ricorrendo a un’interpretazione per analogia. Il legislatore quando ha inteso delimitare lo spazio di applicazione di istituti processuali o sostanziali, attraverso il criterio quantitativo "edittale", lo ha sempre fatto considerando le circostanze aggravanti (articolo 63 comma 3 del codice penale). Una strada seguita ad esempio per l’applicazione delle misure cautelari, per l’arresto in flagranza, per individuare i casi di citazione diretta a giudizio o per la prescrizione. Per questo, anche nel caso della messa alla prova, pur in assenza di una espressa previsione, la soluzione la soluzione deve essere in linea con la disciplina dettata per le altre ipotesi. Un’interpretazione a maglie strette che la Cassazione boccia per abbracciare la tesi, "più aderente alla legge e più coerente sul piano logico e sistematico" secondo la quale il parametro quantitativo contenuto nell’articolo 168-bis del Codice penale si riferisce solo alla pena massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione di qualsiasi aggravante, incluse quelle ad effetto speciale. L’articolo non contiene alcun riferimento - sottolinea la Cassazione - a una possibile incidenza delle aggravanti: un dato che non può essere trascurato perché la prima regola di una corretta interpretazione parte dal dato letterale. Per i giudici il legislatore, quando vuole dare rilevanza alle circostanze aggravanti lo fa in modo esplicito. Né il fatto che la maggior parte delle disposizioni del Codice tengano conto delle aggravanti può essere trasformato da linea di tendenza a regola generale. La Cassazione tiene conto poi soprattutto delle intenzioni del legislatore, che si desumono già dai lavori parlamentari. Nella formulazione originaria contenuta nel disegno di legge c’era un espresso riferimento alle circostanze speciali poi soppresso nel corso della "navetta". Nessun vuoto normativo quindi da colmare per analogia. Piuttosto è necessario guardare all’intento del legislatore che è quello di uscire da un sistema sanzionatorio "tolemaico" che punta sulla detenzione muraria. In quest’ottica nella messa alla prova devono rientrare anche i reati ritenuti, in astratto, gravi. Spetta poi al giudice valutare la fondatezza della richiesta dell’imputato, senza che ci siano però "paletti" in entrata a restringere il raggio d’azione di un istituto che finirebbe per rientrare in un’ottica premiale allontanandosi così dal suo obiettivo. Terremoto de L’Aquila: "Ampia responsabilità del professionista che ha ristrutturato" di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Corte di Cassazione- Sezione quarta penale - Sentenza 1° settembre 2016 n. 36285. Nelle indagini sul terremoto del 24 agosto, potrebbe diventare ancora più difficile la posizione dei professionisti che hanno ristrutturato gli edifici crollati: proprio ieri la Cassazione ha depositato una sentenza che attribuisce loro ampie responsabilità, in questo caso sul sisma che il 6 aprile 2009 colpì L’Aquila. Secondo i giudici, il loro compito va oltre quello che si potrebbe desumere dal fatto che i lavori consistono "solo" in interventi migliorativi parziali. E comprende anche l’obbligo di informare chiaramente i proprietari sui potenziali rischi che a volte un intervento parziale può comportare, in modo che possano eventualmente commissionare ulteriori lavoro. La sentenza (la n. 36285/2016) esamina le responsabilità penali di un tecnico incaricato da un condominio, sette anni prima del sisma, di progettare ed eseguire il rinforzo di sei pilastri in calcestruzzo armato. L’edificio è poi integralmente crollato. Dunque, come in questi giorni tra Reatino ed Ascolano, anche in questo caso si discute di "adeguamento" e di "miglioramento" sismico, di analisi sulla struttura edilizia globale quando vi si esegue un parziale intervento (che potrebbe anche rafforzare alcune parti dell’edificio ma far gravare maggior peso su altre che vengono invece lasciate com’erano) e di "posizione di garanzia del direttore dei lavori" (intesa come obbligo di garantire sia la corretta esecuzione dei lavori sia la complessiva sicurezza del manufatto). Il fulcro del ragionamento della Corte è l’autonomia tra le opere affidate e quelle già esistenti prima dei lavori sotto accusa: su queste ultime, evidentemente, non c’è un vero potere di intervento da parte del direttore dei lavori. Nonostante questo, secondo la Cassazione egli ha comunque l’obbligo giuridico di intervenire (articolo 40 del Codice penale), proprio perché a lui è attribuita una posizione di garanzia. Infatti, essa implica l’obbligo giuridico di impedire che si verifichi un evento (il crollo, in questo caso). E non impedire un evento pur avendo l’obbligo di farlo equivale a cagionarlo. Nel caso specifico, il direttore dei lavori è stato condannato perché aveva l’obbligo di ben eseguire il mandato conferitogli: rafforzare pilastri che presentavano gravi fragilità per errori di valutazione compiuti da progettisti ed esecutori iniziali, in particolare sulla qualità del calcestruzzo. Un intervento che esigeva un collaudo, necessariamente esteso all’intera struttura. Anche se si trattava di un intervento "migliorativo" secondo il Dm 16 gennaio 1996, punto C.9.1.2., era infatti un risanamento strutturale e funzionale, con implicazioni importanti di natura statica. Gli interventi di miglioramento devono documentare l’adeguamento limitatamente alle opere interessate, ma nella relazione tecnica deve anche essere dimostrato che gli interventi progettuali non producano sostanziali modifiche nel comportamento strutturale globale dell’edificio. Tutto ciò, comunque, non implica una condanna sicura per il professionista "negligente": la Cassazione lo ha rinviato in Corte d’appello, per far stabilire se le vittime avrebbero commissionato altri e decisivi lavori, qualora informate dei rischi. Effetti processuali dell’abolitio criminis Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Impugnazioni - Giudizio in cassazione - Annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per reato abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 - Esame del giudice dell’impugnazione - Preclusione a decidere in merito ai collegati effetti civili. L’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose abrogate dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, determina la preclusione a decidere in merito ai collegati effetti civili. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 26 luglio 2016 n. 32198. Impugnazioni - Sentenza di assoluzione per reato abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 - Abolitio criminis - Effetti sull’impugnazione della parte civile - Sopravvenuta carenza di interesse - Inammissibilità del ricorso. È inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza di assoluzione dal reato di danneggiamento "semplice", trasformato in illecito civile dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 16 maggio 2016 n. 20206. Impugnazioni - Giudizio in cassazione - Annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per un reato abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 - Effetti sulle statuizioni civili - Revoca. In tema di giudizio di cassazione, l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose abrogate dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n.7, comporta la revoca della statuizioni civili. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 7 aprile 2016 n. 14044. Impugnazioni - Abolitio criminis - Sentenza di condanna per un reato abrogato dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 - Effetti sulle statuizioni civili. Il giudice dell’impugnazione avverso una sentenza di condanna relativa ad una delle fattispecie criminose abrogate dal D.Lgs. 15 gennaio 2016 n.7, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve decidere sulle questioni civili allorché la sentenza sia stata emessa prima dell’entrata in vigore del citato decreto. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 7 aprile 2016 n. 14041. Il Ministro della Giustizia agli "Uomini ombra": state muti e rimanete nell’ombra di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 2 settembre 2016 Ha fatto clamore l’iniziativa del partito Radicale di organizzare un congresso in carcere a Rebibbia dall’1 al 3 settembre invitando numerosi ergastolani sparsi nelle nostre Patrie Galere. Apriti cielo! C’è stato un secco "no" del Ministro della Giustizia. E non per il congresso in carcere, ma per l’eventuale presenza di ergastolani provenienti da altri istituti di pena. Le dichiarazioni forcaiole e scomposte di alcuni noti personaggi che ho letto riguardo a questa iniziativa del partito Radicale mi hanno fatto pensare che certa ferocia politica non è meno crudele di quella mafiosa. E credo che anche i mass media che le riportano con tanto clamore siano fomentatori della paura che serpeggia tra la gente. Io non sono uno degli ergastolani invitati al congresso e spero che nessuno si offenda se dico la mia. A me, sinceramente, sarebbe piaciuto di più andare alla celebrazione funebre di Alessandro Margara, scomparso di recente, piuttosto che al congresso dei Radicali perché ho letto che alla messa in chiesa in memoria di questo grande magistrato di sorveglianza hanno parlato in quattro: la magistrata di sorveglianza Antonietta Fiorillo, il magistrato di sorveglianza Franco Maisto, il garante regionale Franco Corleone e l’ex ministro della giustizia Giovanni Maria Flick. Purtroppo, però, non c’era nessun prigioniero o ex detenuto in rappresentanza della popolazione carceraria. E ho pensato che sarebbe stato bello se ci fosse stato lo spazio di tre minuti per un detenuto, perché l’uomo Margara aveva dedicato tutta la sua vita non ai magistrati e ai garanti, bensì ai prigionieri. Ma questa però è un’altra storia. Sarebbe stata costruttiva e positiva la presenza di ergastolani al congresso di un partito che si dedica da anni a portare la legalità, la costituzione e la giustizia in carcere (e questo anche in memoria di Marco Pannella). Molti di questi ergastolani che avevano dato la loro disponibilità ad essere presenti li conosco da anni, alcuni da quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Molti di loro hanno dato segni di ravvedimento, inconfutabili, studiando e mettendo in discussione il loro passato. Ritengo che sarebbe dovuta essere una buona notizia per il sistema penitenziario sapere che questi "uomini nuovi" abbiano deciso di uscire dall’omertà, dalla cultura mafiosa e dall’ombra parlando e confrontandosi pubblicamente. In questa polemica, con tutta sincerità, vedo tanta ipocrisia perché mentre ci viene chiesto di essere bravi, buoni, pacifici, moderati, ragionevoli e capaci di ravvedimento, in realtà vengono attuate delle scelte che spingono a rimanere culturalmente mafiosi. A volte penso che la sconfitta della mafia faccia paura non tanto ai mafiosi, ma a quelli (non tutti) che fanno finta di combatterla. Le mie sono parole forti, ma non ne trovo altre perché vedo che quando un uomo ce la mette tutta per cambiare e migliorarsi gli viene costantemente rinfacciato il proprio passato, condannandolo così ad essere bollato come cattivo e colpevole per sempre. Penso che in carcere possa uscire il meglio o il peggio dell’essere umano; peccato che, nella maggioranza dei casi, alcune persone lavorano per fare uscire il peggio. Faccio tanti auguri al partito Radicale per il congresso e mi dispiace che si sia persa un’occasione per sconfiggere la cultura mafiosa e per ricordare all’opinione pubblica che in Italia esiste la Pena di Morte Viva, ben diversa, ma non meno crudele di quella di morte che vogliono ristabilire in Turchia. Un sorriso fra le sbarre. Sicilia: salute dei detenuti, l’Assessore Gucciardi firma le linee guida regionali blogsicilia.it, 2 settembre 2016 Salute dei detenuti, l’Assessore Regionale per la Salute ha firmato le linee guida sui sistemi organizzativi in ambito sanitario penitenziario, per le Aziende Sanitarie Provinciali della Regione Siciliana. Il documento che fa seguito ad una precedente direttiva già emanata dallo stesso Assessore nei primi giorni del mese di agosto, assume una particolare importanza alla luce del passaggio delle funzioni sanitarie della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, disciplinato dal D.lgs n. 222 del 15/12/2015. Le linee guida sono il frutto di una collaborazione tra l’Assessorato della Salute e il Provveditorato Regionale per la Sicilia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, diretto dal Dott. Gianfranco De Gesu che hanno costituito un Tavolo Tecnico composto da propri rappresentanti. Per l’Assessore Regionale per la Salute, On. Baldassare Gucciardi, il principale obiettivo da raggiungere a seguito del passaggio delle funzioni, è quello di assicurare alla popolazione detenuta negli istituti insistenti sul territorio regionale la prevenzione, la diagnosi, la cura, la riabilitazione previste dai livelli essenziali ed uniformi di assistenza attraverso prestazioni analoghe a quelle erogate ai cittadini in stato di libertà e definite dai piani sanitari regionali, considerando la peculiarità della condizione di vita dei soggetti destinatari dell’assistenza sanitaria e senza pregiudicare le esigenze di sicurezza. Proprio nelle scorse ore si è saputo del rischio contagio legionella nel carcere di Favignana. Parma: propaganda Isis in carcere, in via Burla cinque sorvegliati speciali parmatoday.it, 2 settembre 2016 Il Ministero dell’Interno aveva lanciato l’allarme mesi fa: ecco la situazione nel penitenziario cittadino. Propaganda Isis nelle carceri italiane. Da mesi il Ministero dell’Interno ha lanciato l’allarme per il pericolo derivante dalla possibile diffusione delle idee legate al Califfato all’interno degli istituti penitenziari italiani, soprattutto in presenza di numerosi detenuti stranieri e di religione musulmana. All’interno del carcere di via Burla di Parma, secondo le informazioni che abbiamo raccolto, sarebbe quattro o cinque detenuti quelli maggiormente attenzionati dal Dap, Direzione Amministrazione Penitenziaria. Secondo il protocollo del Ministero dell’Interno, che viene applicato anche nel carcere di massima sicurezza ducale, ci sono diversi gradi di attenzione nei confronto dei detenuti: attenzionati, monitorato e sorvegliato, che il grado più alto di attenzione. Il Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri sottolinea che il sistema di monitoraggio "rischia di essere una caccia alle streghe e che diventi una corsia preferenziale per le espulsioni, pensiamo al giovane di Fidenza che è stato espulso. Il solo dire Allah Akbar e il solo alzare il tono potrebbe comportare l’attenzione nei confronti del detenuto che l’ha detto. È poi difficile trovare i legami con il gruppo terroristico, trovare delle prove concrete. Per chi è fuori dal carcere si rischia che basti un post su Facebook" Trapani: acqua inquinata nel carcere di Favignana, denuncia della Polizia penitenziaria di Rossana Tessitore e Gaetano D’Amico siciliainformazioni.com, 2 settembre 2016 Apprendiamo dagli Organi di informazione che il dott. Lillo Navarra, Segretario regionale siciliano del Sappe, Sindacato Autonomo Regionale di Polizia Penitenziari, ha allertato l’Amministrazione Penitenziaria, denunciando la contaminazione dell’acqua erogata ai cittadini detenuti delle carceri di Favignana, da un batterio, la legionella, molto pericoloso per la salute. L’infezione da Legionella si trasmette principalmente attraverso flussi di acqua contaminati e si riproduce soprattutto in ambienti umidi, come i sistemi di tubature, sui quali forma un film batterico. Sedimenti organici, ruggini, depositi di materiali sulle superfici dei sistemi di distribuzione delle acque facilitano l’insediamento della Legionella. Per questo, la legionellosi pone un serio problema di salute pubblica, perché costituisce un elemento di rischio in tutte le situazioni in cui le persone siano riunite in uno stesso ambiente, e perché colpisce gravemente la funzionalità polmonare dei soggetti infettati. La situazione degli Istituti di Pena è ormai una miccia accesa e ci conferma quanto sia importante che Crocetta si presenti in Aula, per affrontare questa emergenza sociale, come avevamo chiesto noi, come Comitato, con la nostra lettera aperta ai Deputati regionali, per invitarli a convocare in Aula il Presidente della Regione, come azione parlamentare prioritaria, all’apertura dell’ARS, dopo la chiusura estiva. Ai deputati Toto Cordaro, Francesco Cascio, Marika Cirone Di Marco, Pippo Di Giacomo che, per primi, hanno positivamente risposto alla nostra iniziativa, si unisce oggi, anche, il deputato Vincenzo Figuccia. Siamo in attesa, inoltre, che il Garante per i diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, informi i cittadini siciliani, i parenti dei detenuti e i detenuti stessi sulla reale situazione, avendo, per legge, accesso alla documentazione sanitaria. Ferrara: il carcere verrà intitolato al maresciallo Costantino Satta estense.com, 2 settembre 2016 L’amministrazione penitenziaria ricorda così il comandante ucciso l’8 giugno 1945 nella casa circondariale di Piangipane. Verrà intitolata al maresciallo Costantino Satta la casa circondariale dell’Arginone di Ferrara. Alla cerimonia, che avverrà alle 10 di martedì 13 settembre, presso il carcere, sono stati invitati il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo e altre autorità civili e militari. Satta, sardo nato a Macomer (in provincia di Nuoro) nel 1898, sposato e con cinque figli, è stato comandante delle carceri giudiziarie di Ferrara, allora in via Piangipane. Venne ucciso con tre colpi di rivoltella l’8 giugno 1945 da un comando di otto uomini che si era recato nel carcere per liberare dei partigiani e giustiziare 17 detenuti fascisti e repubblichini. Secondo quanto scrive la pagina a lui dedicata dalla polizia penitenziaria, quel giorno si presentarono alla portineria del carcere "quattro individui in divisa kaki armati di mitragliatori. Gli uomini scortavano un uomo con i polsi coperti. Alla richiesta di Satta di mostrare l’ordine di carcerazione, gli uomini lo costrinsero, sotto la minaccia delle armi, ad aprire il cancello che portava verso la matricola. Gli assalitori, raggiunti da altri da altri quattro uomini con la medesima divisa, costrinsero gli agenti a consegnare le chiavi delle sezioni consentendo l’evasione di molti detenuti politici. Imposero quindi al Maresciallo Satta di accompagnarli nella sezione ove erano ubicati i detenuti fascisti e repubblichini che furono fucilati sul posto. Prima della fuga, Costantino Satta fu colpito a morte da uno degli assalitori". La rivista "Le due Città" nel 2003 descrisse, tramite stralci di documenti dell’epoca, la vicenda, svoltasi in contesto di guerra civile in una Ferrara dove l’ordine pubblico era diventato un problema per le autorità, con continue rappresaglie. Toccante quanto scrisse l’allora direttore del carcere alla Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena e che riportiamo da "Le due città": "Ieri sera col contabile, Col. Capri, mi sono recato in casa della signora Mazzetto Augusta, vedova del compianto maresciallo Satta, per portarle a nome del personale il ricavato di una offerta spontanea ammontante ad alcune migliaia di lire. La raccolta è stata autorizzata dal sottoscritto perché si era venuti a sapere che la disgraziata famiglia oggi non avrebbe avuto la possibilità materiale di comprare il pane. Come è a conoscenza il Superiore Ministero il Satta l’8 giugno 1945 venne ucciso nell’adempimento del servizio durante l’aggressione a queste carceri nella quale occasione venivano trucidati anche 17 detenuti. Egli ha lasciato la moglie con cinque figli, e la famiglia vive con il modesto lavoro della figlia maggiore di 22 anni, mentre il figlio Rinaldo di anni 18 da alcuni mesi è disoccupato. Ancora non le è stata liquidata la pensione la cui documentazione completa per il riconoscimento della causa di servizio è stata inviata con nota n. 448 del 30 aprile u.s. Le condizioni di vita di questa povera famiglia, alloggiata nel granaio (una vera topaia) di una cascina, cogli infissi sgangherati e senza vetri, con il tetto quasi aperto, mi hanno grandemente rattristato, anche al pensare che l’ottimo Satta, che tutti ricordano come un onesto e integerrimo graduato, ha compiuto il suo dovere fino all’estremo sacrificio della vita, mentre i suoi ora soffrono la fame. Mi permetto pertanto pregare il Superiore Ministero di voler concedere all’inconsolabile vedova ed ai bambini scalzi e macilenti, un sussidio e sollecitare nello stesso tempo la liquidazione della pensione. Ripeto, si tratta di un caso pietosissimo, ed ho ancora dinanzi a me la visione di un quadro così doloroso…". Milano: tra i Capitani dell’Anno i detenuti "maestri" in cucina informazione.it, 2 settembre 2016 Il ristorante InGalera di Bollate verrà premiato il primo ottobre a Milano accanto ad alcuni tra i più bei nomi dell’imprenditoria milanese. Il riconoscimento per l’alto valore sociale dell’iniziativa. Capitani dell’Anno nuovamente sulla rampa di lancio. Il prestigioso premio nato a Bologna (e che festeggia ben 21 anni) torna con due novità: un’edizione speciale dedicata al Food & Benessere (Parma, 7 e 8 ottobre) e un’altra ad Auto e Moto, realizzata in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia (Modena, 12 novembre). Tra le curiosità dei Premi 2016 (sostenuto da Consultinvest e in collaborazione con Adaci e Air Berlin) il riconoscimento che, il primo ottobre a Milano, per il Sociale, verrà attribuito a InGalera, il primo ed unico ristorante in Italia, realizzato in un carcere, aperto al pubblico sia a mezzogiorno che alla sera, in cui lavorano gli ospiti del carcere di Bollate detenuti, seguiti da uno chef e un maître professionisti, dove imparano o hanno già imparato la lavorazione dei cibi e sanno sorprendere i clienti con ricette esclusive e ben fatte. Il ristorante nasce per offrire ai carcerati, regolarmente assunti, la possibilità di riappropriarsi o apprendere la cultura del lavoro, un percorso di formazione professionale e responsabilizzazione, mettendoli in rapporto con il mercato, il mondo del lavoro e la società civile. Parma: agente penitenziario aggredito con una bomboletta a gas La Repubblica, 2 settembre 2016 L’episodio nel reparto di isolamento. La denuncia del sindacato Sinappe. Il sindacato di polizia penitenziaria Sinappe denuncia un nuovo caso di aggressione di un agente da parte di un detenuto rinchiuso nel reparto di isolamento del carcere di via Burla. L’episodio è avvenuto nella giornata di giovedì: l’uomo si sarebbe scagliato contro una guardia di sezione e lo avrebbe colpito con una bomboletta a gas, provocandogli una lesione lacero-contusa al volto. Il detenuto, denuncia il sindacato, non sarebbe nuovo ad atteggiamenti aggressivi e intolleranti. È ristretto nel circuito di alta sicurezza e in questo periodo si trova nel reparto isolamento: "Non si esclude che possa trattarsi di soggetto psichiatrico di cui sarebbe a questo punto doveroso il trasferimento in altra sede". Il sindacato esprime solidarietà a collega aggredito e propone una riflessione: "L’interrogativo che si vuole fornire, magari anche in chiave provocatoria, è relativo all’efficacia rieducativa del vigente sistema di gestione della popolazione detenuta - scrive il Sinappe - ovvero, in un clima garantista e trattamentale (assolutamente in linea con il mandato costituzionale della polizia penitenziaria e con la funzione rieducativa della pena) può leggersi come un fallimento del sistema un evento turbativo dell’ordine e della sicurezza? (...) Affermazioni deflagranti che si prestano persino a facili strumentalizzazioni di coloro che ci accuseranno di voler vedere realizzato un progetto di "detenzione dura" - prosegue la nota del sindacato - in realtà, vanno lette unicamente come una provocazione che serva da spinta all’Amministrazione tutta a ripensare ad una modalità di gestione della popolazione detenuta che, fermo il sacrosanto principio della funzione rieducativa della pena, miri sì a restituire alla società persone migliori dopo il percorso detentivo, ma salvaguardi l’incolumità fisica dei suoi operatori". "… e non fanno rumore", di Claudio Capretti recensione di Ofelia Sisca mangialibri.com, 2 settembre 2016 Un volontario, Claudio Capretti in prima persona, entra a contatto con le carceri. Esatto, le carceri. Prima ancora che con i detenuti infatti è con le mura e i cancelli che l’uomo deve fare i conti. Tanti cancelli che uno dopo l’altro, inesorabilmente e con fare monotono, lento e instancabile si chiudono alle sue spalle nel lasciarlo entrare, per permettergli di esercitare il suo servizio. Ma non è solo quello che c’è, quello che si vede, a dargli da pensare. È proprio il grande nulla che regna intorno, quel momento di silenzio assoluto che permette il riecheggio dei cancelli, il vero motore della riflessione; lo specifico non rumore che ognuno che sia venuto a contatto almeno una volta nella vita con l’ingresso in un istituto di detenzione porta con sé, insieme con il cigolio dell’apertura e lo sproporzionato rimbombo delle sbarre che si chiudono dietro i proprio passi… Il rumore, la memoria, il male, le parole, i pensieri, il volto, i sogni, le lacrime, le mani, il tempo, gli sguardi, il bene. Ambiti entro i quali vengono raccolte riflessioni e situazioni, esperienze che danno una tangibilità all’astrazione del concetto che ogni parola, titolo rappresentato del macro-insieme, evoca. Il tutto racchiuso dall’enorme ma ben circoscritto ambiente del carcere. Come tante celle, i capitoli del libro vanno a delineare l’assetto emozionale e a disegnare quasi architettonicamente la conformazione restrittiva dell’universo carcerario, al quale l’autore si interfaccia come volontario e come osservatore vorace. Un percorso che dallo sconcerto conduce fino ad una quasi euforia, che pervade l’autore identificando un nuovo tipo di felicità che cresce con la riscoperta di sé attraverso il rendersi utili. Lo spirito della spinta al bene muove le pagine di questo diario di bordo, leitmotiv ben esemplificato già dalla citazione di George Bernanos che ispira la scrittura del libro e che ricorda quanto sia ciò che rimane di intatto e puro in ogni uomo a spiegare un essere umano, molto più che i suoi difetti. Terremoto. Le macerie sui Palazzi della politica di Aldo Carra Il Manifesto, 2 settembre 2016 Sisma e crisi. Alla faglia geologica si è aggiunta una vera e propria faglia democratica. Abbandono delle aree interne a favore dello sviluppo costiero, subordinazione delle politiche di risanamento ai vincoli della spesa pubblica, svuotamento delle autonomie locali a favore della centralizzazione: tante facce di un unico fenomeno, il modello di sviluppo capitalistico all’italiana. Sembrava fino a pochi giorni fa che l’agenda politica dei prossimi tre mesi fosse stata già scritta: tema referendum, svolgimento con parti già assegnate agli attori politici ed unica incognita la dimensione che avrebbe assunto il No dentro il Pd. Ma il terremoto ha mandato in frantumi anche questo copione. Già dopo le elezioni amministrative, quando tutti aspettavano una calda direzione del Pd ed una resa dei conti con la sinistra, la strage di Dacca aveva cambiato il clima interno ed attenuato lo scontro. Adesso il terremoto apre nel panorama politico, e non solo dentro il Pd, una fase nuova. La cui evoluzione è imprevedibile tanto che qualcuno addirittura ipotizza lo spostamento del referendum. In ogni caso il referendum ha perso centralità ed altri temi si stanno imponendo all’attenzione. Il manifesto ha già ospitato interessanti contributi che mettono in agenda il tema del modello di sviluppo. Questa mi sembra la strada giusta che dobbiamo seguire nell’interesse generale del paese ed in quello più specifico della sinistra. La morte della politica di cui si era già cominciato a parlare, adesso, è ancora più evidente nel contrasto clamoroso tra cittadini attivi, corpi professionali specializzati, sentimenti profondi di solidarietà umana che si sono sprigionati come se le energie naturali liberatesi dalle viscere della terra avessero sprigionato una carica di energia collettiva ed una classe politica che le sue più belle figure le ha fatte quando ha taciuto. Invece dopo una brevissimo silenzio essa ha parlato, ha riempito schermi e pagine stampate di banalità, dichiarazioni vuote e sempre uguali, paragoni vergognosi tra risorse per immigrati e risorse per terremotati. Squallide recite di parti in commedia per differenziarsi dagli altri e dai propri sodali (vedi posizioni dentro la Lega). Così alla faglia geologica si è aggiunta una vera e propria faglia democratica. Qualcuno con brutale sincerità e viscido sorrisetto ha detto che il terremoto sarà occasione per una ripresa dell’economia. Non siamo al livello di chi si fregava le mani per la gioia mentre l’Aquila crollava, ma restiamo ancora fermi all’idea di una economia che gira intorno alla produzione materiale, all’economia del Pil - anche i disastri fanno Pil - ed alle nozioncine keynesiane. Siamo dove eravamo, insomma. Non certo dove dovremmo essere. E perciò davanti ad una frattura che cresce tra coscienza collettiva e livello e qualità della politica. Dovremmo, invece, chiederci perché non abbiamo fatto passi avanti rispetto al passato (i terremoti non si possono fermare, ma le loro conseguenze si possono ridurre), pur essendo un paese in cui zone sismiche e frequenza dei fenomeni sono state studiate abbastanza da poter attuare politiche di manutenzione e messa in sicurezza efficaci. È solo un caso o una dimenticanza? No. Quanto è accaduto è la risultante di tanti fattori ben noti: abbandono delle aree interne a favore dello sviluppo costiero, subordinazione delle politiche di risanamento ai vincoli della spesa pubblica, svuotamento delle autonomie locali a favore della centralizzazione e tanti altri fattori ben analizzati negli articoli di questi giorni. Queste cose messe insieme non sono che tante facce di un unico fenomeno: il modello di sviluppo capitalistico all’italiana, la sua torsione finanziaria ed efficientista, sposata con l’intreccio tra politica, affari, clientele che nelle realtà locali trovano l’acqua in cui nuotare. Le macerie sono il crollo di questo modello. Modello di spesa pubblica sbagliato perché non è che non si sia speso, ma si è speso male e per obiettivi di breve termine ed elettoralistici. Ed è lo stesso modello adottato a livello nazionale con politiche di incentivi mirate solo a raccogliere consensi. Ma proprio in questi giorni emerge, con tragica contemporaneità, anche il crollo di questa idea di politica economica: miliardi di euro sprecati per ottenere risultati occupazionali e di crescita inferiori a quelli di paesi che non hanno speso niente e fiducia delle imprese e delle famiglie in calo. Abbiamo dato alle imprese quello che chiedevano, ma esse non hanno investito e non hanno creato lavoro. L’economia non è il libro cuore o il mercatino del baratto domenicale! Le iniezioni di fiducia a forza di dichiarazioni e spot durano poco! Insomma qui sta crollando tutto, anche la fragile costruzione renziana di una politica senza spessore culturale e visione strategica. Ma il grande comunicatore avrà gioco facile a tenere la scena con tutto quello che ci sarà da fare per recuperare così i consensi che rischiava di perdere su altri terreni, referendum compreso. Ma avrà gioco facile anche per un altro motivo: per l’assenza totale di un campo di sinistra che fornisca una lettura organica della relazione eventi ambientali-politica-affari-sistema economico e soprattutto che sia presente nei media nazionali e nei territori con proprie forze, proposte, idee. Voglio sperare che la sinistra politica sia immersa in una pausa di riflessione, che stia ragionando su come prepararsi ad una funzione attiva nei territori nella fase di ricostruzione che si apre, su come starci per edificare insieme alle persone una nuova politica fatta di partecipazione di progettazione condivisa, di controllo dal basso delle fasi e del rispetto delle regole. Insomma impegnata a discutere e ragionare su come costruire una leva di cittadini impegnati, di nuovi amministratori locali, una nuova classe politica che riparta dal basso e dai problemi. Voglio sperarlo perché questo compito non possiamo lasciarlo solo ai 5 Stelle. Terremoto. Fondi pubblici, a Rieti i conti non tornano di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 settembre 2016 Ricostruzione. Dal terremoto del 1997, nella provincia di Rieti, sono arrivati 60 milioni, ma come sono stati usati? Male, a volte mai e in alcuni casi si è deciso di cambiarne destinazione. Nel mirino l’ospedale Grifoni: per il suo restauro erano stati trovati 2,2 milioni. Tonnellate di carta, migliaia di pagine, numeri, nomi, firme. Le inchieste post terremoto delle procure di Rieti e Ascoli sono un lungo lavoro di studio sugli interventi antisismici effettuati negli ultimi anni tra Amatrice, Accumuli, Arquata del Tronto e dintorni: appalti, interventi, autorizzazioni, tagli del nastro, grandi annunci di "cose fatte a tempo di record". Come mai degli edifici dichiarati a norma si sono sgretolati sotto i colpi del terremoto del 24 agosto? La risposta è in un’ipotesi di reato (disastro colposo), anche se, assicura il pm di Rieti Giuseppe Saieva, "è ancora presto per parlare di iscrizioni nel registro degli indagati". Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzoli, sa che presto o tardi verrà chiamato dagli investigatori per dare qualche spiegazione. Lui ostenta una tranquillità ai limiti della spavalderia: "Sono sereno, potrei andare dai magistrati anche domani. Parlerei per quattro ore e sgonfierei tutto, poi mi arricchirò con le querele. Avviso di garanzia? Dovrebbero darmi un premio Oscar". Sulla scuola Capranica di Amatrice, oggetto di "lavori monumentali" e poi crollata, il sindaco prova a chiarire la propria posizione, a spiegare che la coperta è sempre corta. "Dopo il terremoto dell’Aquila ho avuto paura per la scuola - racconta. E allora che faccio? Non chiedo soldi a nessuno. Non ho un euro, c’è il patto di stabilità che blocca tutto, ma trovo lo stesso dei fondi nel bilancio per commissionare uno studio geologico. Lì c’era spiegato che la scuola può reggere a un sisma di grado X". Cosa voglia dire "grado X" non si sa con precisione. "Non posso ricordare tutto - dice ancora Pirozzi, diciamo quattro gradi, ma vado a spanne. Il fatto è che la scossa è stata molto violenta, io ne ho sentite tante in vita mia, ma una botta come questa mai. Me la sono fatta sotto". Di soldi, dal terremoto del 1997 ad oggi, ne sono arrivati non pochi, il problema è che sono stati sempre frazionati in decine di parti per cercare di accontentare ogni richiesta, talvolta si è deciso pure di cambiarne destinazione, e questo è un altro punto che desta parecchio interesse tra gli investigatori. Ad esempio, dopo il sisma dell’Aquila, la Provincia di Rieti erogò 150mila euro per la ristrutturazione del municipio di Amatrice. Pirozzi decide di spostare quei fondi sull’istituto alberghiero (il cui restauro alla fine è costato 800mila euro in totale). Risultato finale: il palazzo comunale è crollato, la scuola professionale no. E ancora: i 700mila euro tra il 2011 e il 2012 investiti sulla Capranica, i 250mila euro messi sulla Chiesa di Santa Maria Liberatrice, i 400mila per il teatro. Tutto distrutto. Lavori eseguiti male? Pirozzi tende a dire che, se c’è qualche colpevole, bisognerebbe andare a cercarlo tra i geometri e gli ingegneri coinvolti. Questi, dal canto loro, rispondono che hanno sempre fatto quello che veniva chiesto loro. Gianfranco Truffarelli, appaltatore dei lavori alla scuola Capranica, l’ha già messo nero su bianco e consegnato in procura sotto forma di memoria scritta: la sua ditta doveva fare un miglioramento, non un adeguamento, con i soldi stanziati di più non si poteva proprio fare. La guardia di finanza, che mercoledì ha effettuato una serie di blitz in tutta Italia, sta indagando soprattutto sull’ospedale Grifoni: per il suo restauro erano stati trovati 2.2 milioni di euro dal fondo per l’edilizia scolastica della Regione Lazio. Era stata fatta anche una gara d’appalto (vinta dal Consorzio Cooperative Costruzioni) ma al momento di aprire i cantieri venne fuori che i soldi non c’erano più, il fondo era vuoto e non se ne fece più nulla. Una catena di istituzioni coinvolte per una cifra totale investita per lavori sismici nella provincia di Rieti che supererebbe i 60 milioni di euro in vent’anni. Soltanto per quello che riguarda Amatrice e Accumoli sono stati contati oltre cento crolli, tra edifici pubblici e privati. Il colonnello Cosimo D’Elia, comandante della guardia di finanza di Rieti, spiega come si muoverà l’inchiesta: "Stiamo studiando come sono stati fatti i lavori e se corrispondono a quanto documentato. Inoltre vogliamo vederci chiaro su come sono stati spesi i fondi. La documentazione è copiosa, ci vorrà tempo". Al lavoro c’è anche l’Anac di Raffaele Cantone. L’interesse qui è concentrato in maniera specifica sulla regolarità degli appalti e il percorso che hanno fatto i vari finanziamenti, per capire dove siano finiti nella giungla dei lavori pubblici. Terrorismo. La propaganda dell’Isis e la vera guerra da combattere di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2016 Proviamo a immaginare, dopo l’uccisione ad Aleppo del portavoce del Califfato Al Adnani, che venga aperto un Ufficio propaganda anti-Isis. Perché sarebbe pericolosamente illusorio pensare che la morte di uno dei leader dell’organizzazione ma anche il suo arretramento territoriale e un’eventuale sconfitta possano costituire la fine di un’ideologia jihadista che si è diffusa negli ultimi decenni dall’Afghanistan all’Iraq, dal Medio Oriente all’Asia centrale, all’Africa, fino a entrare mortalmente dentro l’Europa. Gli esempi del contrario sono diversi, a partire da Al Qaida, casa madre in Iraq dell’Isis: l’uccisione di Osama Bin Laden ad Abbottabad in Pakistan nel 2011 non fu la fine del gruppo terroristico come non lo era stata la perdita dei santuari afghani dopo le Torri Gemelle e la guerra del 2001. Al Qaida non solo si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia sub-saheliana e in Siria ha dato vita al fronte Jabath al Nusra - serbatoio di combattenti per lo stesso Califfato - sostenuto da turchi e sauditi, che adesso si sta riciclando per uscire dalla lista nera dei gruppi terroristi ed essere utilizzato dagli Usa in chiave anti-iraniana e anti-russa. Quando si parla di propaganda anti-jihadista bisogna sempre ricordare che una delle origini di questa storia è stata proprio la strumentalizzazione dei militanti islamici iniziata nel 1979 quanto l’ex Urss invase l’Afghanistan. Gli eroi di ieri, i mujaheddin afghani che sconfissero allora l’"Impero del male", sono diventati i "barbari" di oggi, pronti adesso, almeno in parte, a entrare in un nuovo programma di candeggio nella lavatrice della geopolitica come qaidisti "buoni", quelli che servono e sono alleati dei nostri partner economici. Anche questo significa la battaglia di Aleppo, la "dottrina Erdogan" per far fuori l’Isis ma soprattutto i curdi, le ambigue posture americane e della Russia di Putin. Non meravigliamoci troppo se il jihadismo potrà sopravvivere alla disfatta dell’Isis. Tutto dovrebbe essere materia di comunicazione per un onesto Ufficio propaganda anti-Isis. L’Isis si è autoproclamato Stato Islamico perché afferma di imitare la prima comunità musulmana che propagò la nuova religione fondata dal Profeta Maometto con una serie di straordinari successi militari. I seguaci dell’Isis dicono di volere ricostituire quella comunità originaria così come essi la immaginano: unita nella rigorosa obbedienza a un Califfo, intollerante della diversità delle altre religioni, oppressiva nella repressione di cristiani ed ebrei, spietata nello sterminio di presunti idolatri come gli yezidi, nemica delle correnti non sunnite, dagli sciiti a gli alauiti siriani. In realtà l’Isis è ignoranza. Se si risale alle origini si comprende subito che la versione di un islam unitario contraddice gli eventi. I suoi seguaci si ingannano sulla storia dell’islam che faceva molti più compromessi con le altre religioni e stili di vita differenti di quanto non si voglia ammettere, come dimostra il recente, "Regni dimenticati" di Gerard Russell (Adelphi) sulle religioni minacciate del Medio Oriente. I militanti dell’Isis sottolineano che i primi musulmani diffusero l’islam con la forza ma si dimenticano che questa espansione fu fondata su ben altro che la violenza. Nell’epoca d’oro i sovrani musulmani fecero largo uso del sapere e delle competenze delle comunità religiose sottoposte al loro dominio. I periodi di intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza. La storia si è ripetuta ai nostri giorni. Con la crisi negli ultimi tre decenni degli stati nazione usciti dalla decolonizzazione - Iraq, Siria, Egitto, Libia, scivolati verso fallimentari autocrazie - si sono fatti strada il fanatismo religioso, il declino culturale e la barbarie. Gli interventi occidentali hanno reso questo processo di disgregazione ancora più disastroso come è avvento in Iraq dopo il 2003: nel 1987, in era pre-sanzioni, i cristiani erano l’8% della popolazione ora sono meno dell’uno per cento. L’Isis è l’apice di questa involuzione. Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi ha voluto cancellare la memoria anche dei califfi più tolleranti, oltre che del passato pre-islamico di questi popoli, si è accanito su Palmira, sulle mura di Ninive, su qualunque monumento sembrasse non ortodosso, comprese le moschee sciite, bersaglio dei kamikaze. Allo stesso tempo si è scatenato in Europa, addestrando direttamente alcuni degli attentatori, in altri casi ispirando i lupi solitari o dei veri idioti dell’orrore che nel "format" dell’Isis inventato da al-Adnani - basta agire, senza neppure rivendicare o essere militanti - ha dato un senso a vite fallimentari. Più che una versione "pura" dell’Islam, i jihadisti forniscono un franchising, che in Europa dà un etichetta al malessere individuale e di gruppo e riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento. Per utilizzare le parole di Olivier Roy, uno dei massimi studiosi del fenomeno, si tratta di un’islamizzazione dell’antagonismo piuttosto che una radicalizzazione dell’islam storico. Il jihadismo galleggia anche sui nostri vuoti di senso. Il messaggio principale dell’Ufficio propaganda anti-Isis è questo: che minoranze militanti e violente non possono prevalere sulla maggioranza dei musulmani (1,5 miliardi), le vittime principali del terrore e dell’estremismo. Questa non è una sfumatura. Molti pensano che gli estremisti rappresentino la totalità dell’islam oppure che le loro tesi sono tollerate, non condannate e quindi accettate da gran parte dei musulmani. Sappiamo bene che non è così, l’Ufficio propaganda avrà molto da fare per correggere i luoghi comuni, per dare un’interpretazione corretta della storia e non strumentale dell’islam oggi percepito, inutile nasconderlo, come una minaccia globale. Migranti. La foto sbiadita del piccolo Alan di Francesca Paci La Stampa, 2 settembre 2016 È passato esattamente un anno da quando il corpo del piccolo Alan Kurdi depositato dalle onde sulle sponde dell’isola di Bodrum svelò quello che il mondo avrebbe dovuto sapere già da almeno tre anni, che cioè da quando i fondamentalisti islamici si erano appropriati della inizialmente pacifica ribellione contro Assad a scappare dalla Siria non erano più solo i poveracci ma la classe media, famiglie dotate di iPad e bambini con lo zainetto uguale a quello dei coetanei sulle spiagge di Lesbo, un popolo in fuga con cui immedesimarsi facilmente. Cosa è rimasto di quella commozione globale, degli hastag, della magliettina rossa assurta a icona del nostro senso di colpa? C’è la foto di Alan sorridente nella casa di Vancouver della zia Tima, che martedì è volata a Erbil per accompagnare il fratello Abdullah al cimitero di Kobane, dove oltre ad Alan ha seppellito l’altro figlio Ghalib e la moglie Rehanna, tutti inghiottiti dal Mediterraneo. C’è l’urlo sordo di Abdullah, indifferente alle voci che l’avrebbero voluto complice degli scafisti assassini e irriducibile nel ripetere come la morte del suo bambino di 3 anni sia valsa solo lacrime di coccodrillo rivelandosi inutile di fronte alla tragedia senza fine del suo popolo. Ci sono migliaia di Alan e ci sono i "fortunati", i baby profughi che sono sopravvissuti al mare per sotto-vivere in un campo di transito come Noura, 5 anni, intercettata da Amnesty International nella tendopoli greca di Skaramagas, come Dilaver e Mahmoud, 4 e 2 anni, parcheggiati a Chios, come Rachel, 8 anni, precaria per mesi prima di ottenere il permesso umanitario britannico ed approdare a Bradford. Dopo l’accordo tra Ankara e l’Unione Europea la rotta balcanica tentata da Alan è sigillata, ma loro sono ancora lì, genitori e figli, tutti ad attendere la buona sorte o a sfidarla avventurandosi per altre vie verso il nord Africa. Secondo International Rescue Committee dall’inizio del 2016 almeno 85 mila minori hanno rischiato di annegare per raggiungere l’Europa, 1500 di loro non accompagnati aspettano in Grecia una qualche forma di ricollocamento, oltre 2 milioni sono bloccati in aree della Siria sotto assedio o ad altissimo rischio e 2,7 milioni non vanno a scuola da quando è iniziata la crisi nel 2011. Poi ci sono gli altri, l’afghano Ismail di 3 anni accampato all’esterno del vecchio aeroporto di Atene Elliniko, l’etiope Mary di 13 anni già profuga nel campo kenyota di Kakuma, eritrei, sudanesi, i più disgraziati tra i disgraziati. È passato esattamente un anno dalla morte di Alan Kurdi ma l’emozione di allora sembra sbiadita come l’immagine della Merkel che spalancava le braccia ai disperati. "La situazione dei fondi è andata peggiorando anche perché Bruxelles ha preferito stanziare per la Turchia 3 miliardi che dovrebbero includere una parziale copertura dei costi di ospitalità dei rifugiati, a fine giugno le stime dell’Onu suggerivano come la spesa umanitaria mondiale sia scesa ormai al 55% dei bisogni" osserva Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia. Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, conferma le difficoltà di fare fronte alla "maggiore crisi umanitaria" dei nostri tempi: "Le necessità della Siria sono state finanziate al 41% e siamo già a settembre, è un po’ meglio del 37% del 2015 ma siamo ancora in alto mare". Cosa è rimasto della foto della fine dell’innocenza (fittizia)? Poco, pare. La speranza è che non diventi un tabù. Migranti. La Svizzera respinge 7mila profughi di Ilaria Sesana Avvenire, 2 settembre 2016 Ismail ha solo 17 anni, ma si è già lasciato alle spalle un viaggio infernale attraverso il deserto e il Mar Mediterraneo. Ha sfidato la morte, pur di fuggire dall’Eritrea ed è arrivato in Italia, da solo, nell’aprile 2016. In base a quanto previsto dal programma europeo di relocation, di distribuzione, ha chiesto di essere trasferito in Svizzera dove già vive un fratello maggiore. Nel frattempo, anche i suoi fratellini (10 e 14 anni appena) sono riusciti ad arrivare in Italia. Ismail li raggiunge e decide di portarli a Como: da lì spera di poter passare la frontiera e chiedere asilo in Svizzera. Ma al valico di Chiasso, i tre fratelli vengono respinti, per ben cinque volte. Stesso destino per Mussie, 16 anni: voleva raggiungere il fratello, che in Svizzera ha ottenuto lo status di rifugiato. Dopo ben quattro tentativi andati a vuoto, il ragazzino si presenta alle guardie di frontiera con una dichiarazione di voler presentare domanda di protezione internazionale. Di nuovo, non ha potuto chiedere asilo ed è stato rimandato in Italia. Due storie di frontiere sbarrate e di diritti negati contenute nel dossier realizzato da Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e dall’associazione svizzera ‘Firdaus’ in cui si denunciano numerose violazioni della normativa vigente sul diritto d’asilo da una parte e dall’altra della frontiera che separa Como da Chiasso. "Tra luglio e agosto le autorità svizzere hanno effettuato quasi 7mila riammissioni in Italia di cittadini stranieri, di cui almeno 600 hanno riguardato minori non accompagnati", denunciano le due associazioni. Si tratta di persone che sono state fermate dalle autorità elvetiche e che sono state rimandate in Italia per ingresso o soggiorno irregolare. Tornando così ad affollare il parco davanti alla stazione ferroviaria di Como dove, da settimane, vivono diverse centinaia di migranti (400-500), prevalentemente eritrei ed etiopi. Particolarmente gravi le violazioni dei diritti dei minori non accompagnati, stigmatizzate nel rapporto: la maggior parte dei ragazzini rimandati in Italia, infatti, "non è stata collocata in strutture di accoglienza per minori, né per essi risulta essere stato nominato un tutore, secondo quanto previsto dalla legge", denuncia il rapporto. "Quasi tutti i migranti che abbiamo ascoltato riferiscono di non aver mai ricevuto adeguate informazioni riguardo a tali diritti e più in generale sulla protezione internazionale, né all’arrivo in Italia né successivamente - spiega Anna Brambilla dell’Asgi. Sia alle frontiere italiane che a quelle svizzere si riscontra una grave carenza di servizi di informazione e orientamento legale, oltre che di interpreti delle lingue maggiormente diffuse tra questi migranti". Inoltre, in base alle informazioni raccolte, molte delle persone respinte hanno un familiare a cui ricongiungersi una volta varcata la frontiera. Pertanto, in base a quanto previsto dal Regolamento Dublino, avrebbero diritto a riabbracciare i propri familiari. "Dal nostro punto di vista, il diritto di chiedere asilo non è stato e non sarà garantito se ciascuna delle persone respinte dal confine svizzero non potrà nuovamente esprimersi sulla propria volontà di chiedere protezione internazionale alla Svizzera", aggiunge Lisa Bosia Mirra, presidente dell’associazione Firdaus. Dal canto suo, la polizia di frontiera svizzera ha risposto precisando che i migranti vengono ascoltati da un agente che deve valutare le intenzioni del soggetto (se vuole chiedere asilo o meno) ma in questa fase non è prevista la presenza di mediatori. Al termine di questo colloquio è l’agente a decidere se la persona è realmente intenzionata a chiedere asilo o meno. Il respingimento - infatti - avviene sulla base di un accordo bilaterale siglato tra Roma e Berna nel 1998, che prevede anche una procedura semplificata per la riammissione dello straniero rintracciato nella zona di frontiera che non vuole chiedere asilo in Svizzera. Ancor più difficile, a questo punto, capire come mai Robiel e Ismail, che volevano raggiungere i propri familiari residenti nei cantoni elvetici, siano stati rimandati in Italia. Droghe. Spice, l’erba sintetica che trasforma i consumatori in zombie psicotici di Gabriele Martini La Stampa, 2 settembre 2016 Come zombie. Decine di persone barcollano per le strade di Brooklyn in una mattina qualunque di luglio. Alcuni inveiscono contro i passanti, altri si accasciano sui marciapiedi, una donna sembra vittima di un attacco epilettico. Il giorno dopo l’epidemia si allarga ad altri quartieri di New York. Dopo 72 ore gli ospedali della Grande Mela contano 130 persone ricoverate. La diagnosi è sempre la stessa: overdose da cannabinoidi sintetici. Spice, Black Mamba, K2. Il nome cambia, gli effetti no: aggressività, ipertensione, accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione sanguigna, visione offuscata, allucinazioni sensoriali, psicosi. La nuova droga che spaventa le autorità di mezzo mondo non ha niente a che vedere con la marijuana. Consiste invece in un miscuglio di erbe essiccate e innaffiate di sostanze chimiche. Mercoledì la Commissione europea ha proposto di velocizzare la raccolta dei dati e le procedure di valutazione da parte dell’Osservatorio europeo delle droghe e le tossicodipendenze per ottenere risposte più rapide contro le nuove sostanze psicoattive. Secondo Bruxelles l’erba chimica, spesso creata nei laboratori cinesi, "ha una tossicità elevata e può causare seri danni alla salute". A inizio 2014 lo spinello sintetico arriva in Russia. I giornali se ne accorgono quando 150 persone si presentano negli ospedali della regione di Kirov con sintomi da intossicazione. I morti per overdose sono quattro. L’epidemia dilaga: in un mese si contano 700 avvelenamenti e una ventina di vittime. Nell’estate di due anni fa la nuova droga sbarca in Europa. Il boom è immediato: nel 2015 le varianti rappresentano quasi un quarto di tutte le nuove sostanze psicoattive rilevate dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze. La Spice spopola tra i detenuti nelle carceri britanniche. In Germania, nella regione del nordest che confina con il Mar Baltico, almeno tre persone muoiono nei primi mesi del 2016 dopo aver assunto erba sintetica. Secondo i dati della Commissione Ue, in Europa a causa della Spice si sono verificati 28 decessi e 25 intossicazioni acute. L’Italia non è immune. Da un’indagine del Consiglio Nazionale delle Ricerche su un campione di 30.000 studenti emerge che uno su dieci dichiara di aver fatto uso di cannabinoidi sintetici. Si tratta di 260mila ragazzi e ragazze. Molti di loro, convinti di aver acquistato una sostanza simile alla marijuana, si rendono conto degli effetti psicotropi devastanti della Spice solo mentre la fumano. Secondo gli esperti lo spinello sintetico crea una forte dipendenza, simile a quella dell’eroina. "Si tratta di molecole la cui tossicologia è ancora sconosciuta. Sono disegnate per essere molto più potenti del Thc, fino a cento volte", spiega Vincenzo Di Marzo, direttore dell’Istituto di chimica biomolecolare del Cnr. Centinaia si presentano negli ospedali con evidenti disturbi psichiatrici. Alcuni raccontano di averla comprata via Internet, altri negli smart shop, che vendono l’erba sintetica mascherandola da concime per piante o incenso. In America le infinite varianti di Spice si trovano anche sugli scaffali di piccoli negozi. La dose costa al massimo due dollari. Talvolta è etichettata come "potpourri", talvolta come deodorante per la casa. Sono fioccati i primi divieti: inutili. Il sindaco di New York, Bill De Blasio, ha firmato un’ordinanza per mettere fuorilegge alcuni agenti chimici usati per la Spice. Un mese fa il senatore Chuck Schumer ha presentato una proposta di legge per vietare altre 22 sostanze impiegate nella produzione di erba sintetica. È una sfida continua tra guardie e ladri: quando una sostanza finisce nella lista di quelle proibite, viene sostituita con un’altra creata ad hoc nei laboratori. Il problema sta proprio qui: i chimici cinesi si muovono più velocemente dei legislatori. Turchia. Detenuti 108 giornalisti, in manette soprattutto reporter "gulenisti" e filo-curdi Ansa, 2 settembre 2016 Sono almeno 108 i giornalisti attualmente detenuti in Turchia, arrestati in maggioranza durante lo stato di emergenza dichiarato dopo il fallito golpe del 15 luglio. Lo rivela l’osservatorio locale per la libertà di stampa P24, secondo cui 66 di questi sono finiti in manette con accuse di legami con la rete di Fethullah Gulen, accusato da Ankara del tentativo di colpo di stato. In totale, nell’inchiesta sul golpe sono stati emessi mandati d’arresto per 82 reporter. La maggior parte degli altri giornalisti sono invece detenuti con l’accusa di "propaganda terroristica" a favore del Pkk. Si tratta, per lo più, di reporter dei quotidiani filo-curdi Ozgur Gundem e Azadiya Welat e dell’agenzia Dicle. Turchia. Rimossi altri 543 giudici. Erdogan: "Così ci sarà più giustizia" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 2 settembre 2016 Sono 3.390 i magistrati rimossi dopo il fallito golpe del 15 luglio. Per tutti l’accusa è di complicità con lo Stato parallelo di Gülen. Il presidente turco contestato da avvocati e opposizione si difende: "Non stiamo indebolendo il sistema giudiziario". Altri 543 giudici e procuratori, accusati di legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gülen, sono stati rimossi dai loro incarichi dalla massima autorità giudiziaria turca (Hsyk). Sale così a 3.390 il numero dei magistrati cacciati dopo il fallito putsch del 15 luglio. Una cifra risibile se comparata agli 80mila funzionari pubblici licenziati o arrestati nel tentativo di ripulire gli ingranaggi dello Stato dalla presenza dei seguaci del predicatore Fethullah Gülen ma che dà l’idea dell’immenso "repulisti" in atto. La protesta - L’ennesimo licenziamento di massa ha portato diversi esponenti dell’opposizione e dall’associazione degli avvocati turchi a contestare il presidente Recep Tayyip Erdogan in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario che si è tenuto per la prima volta nella residenza presidenziale ad Ankara. Il leader dell’Akp ha sostenuto che quanto sta avvenendo "non indebolisce il sistema giudiziario, al contrario credo che porterà un contributo significativo nell’attuazione di una vera giustizia". In passato il capo dello Stato non aveva mai tenuto un discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ed il fatto di aver scelto la sua residenza per la cerimonia ha fatto storcere il naso a molti. Legge anti-terrorismo - Ankara ha anche ribadito la sua intenzione di non modificare la legge anti-terrorismo come invece chiede la Ue per concedere la liberalizzazione dei visti in seguito all’accordo sui migranti dello scorso marzo. Il nuovo no è arrivato dal premier turco, Binali Yildirim, durante una conferenza stampa congiunta ad Ankara con il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. "L’Ue deve capire che la lotta contro il terrorismo in Turchia influenza anche la sua sicurezza", ha aggiunto Yildirim. Egitto. Due detenuti morti in quattro giorni, vittime di abusi e mancanza di cure di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 settembre 2016 Abdallah ucciso da un infarto, Ahmed dalle torture. La polizia: è caduto dalla camionetta, anzi da un palazzo. In carcere i detenuti sono vittime di abusi e mancanza di cure. Centro Al Nadeem: nel 2016 71 casi, 137 nel 2015. Secondo le associazioni per i diritti umani, sarebbero 60mila i prigionieri politici egiziani. Due morti in quattro giorni dietro le sbarre di una prigione egiziana. Il conto delle vittime della brutalità della polizia o dell’assenza di cure mediche nelle carceri va aggiornato di giorno in giorno. Ieri Abdallah M. E., 58 anni, è morto in una stazione di polizia di Alessandria. Secondo la procura, ha avuto un attacco di cuore. La polizia dice di aver subito chiamato i soccorsi, ma il detenuto è spirato prima dell’arrivo dell’ambulanza. Non certo un caso isolato: il 17 agosto a morire in una stazione di polizia a Fayoum era stato Abdel Halim Abdel Hayy, arrestato venti giorni prima con l’accusa di aver dato alle fiamme una caserma nel 2013, durante una protesta anti-golpe dei Fratelli Musulmani. Condannato a 15 anni, godeva di cattive condizioni di salute legate all’età, 71 anni. La famiglia chiedeva il ricovero in ospedale, ma le autorità carcerarie l’hanno negato. Il 13 agosto era morto Ibrahim Saleh Hashish, insegnante di arabo di 58 anni, stavolta in un ospedale di Damietta dove era stato portato qualche giorno prima dalla polizia carceraria perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate. Era affetto da tumore ai reni che in prigione, dove si trovava dal luglio 2015 (anche lui con l’accusa di aver partecipato a scontri nel 2013 accanto alla Fratellanza), nessuno ha curato. La famiglia aveva chiesto che venisse rilasciato per ragioni mediche. E se in carcere non si muore di mancanza di cure, si muore di pestaggi. L’ultima vittima accertata è uno studente di medicina di 28 anni, Ahmed Kamal. Era stato arrestato lunedì mattina. Su di lui pendeva una condanna a due anni, comminata a febbraio, per aver preso parte lo scorso anno a proteste non autorizzate. Un reato comune in Egitto dal novembre 2013 quando il generale al-Sisi, a pochi mesi dal golpe e dalla strage di manifestanti islamisti a Rabaa (tra 1.000 e 1.500 morti), emanò una legge che vieta manifestazioni che le autorità non abbiano prima avallato. La sera stessa, alle 23,30 di lunedì, Ahmed è morto. Il giorno dopo la famiglia ha identificato il corpo, mentre l’autopsia preliminare indica in una grave fattura alla testa e la conseguente emorragia le cause del decesso. Il legale della famiglia ha già chiesto l’apertura di un’inchiesta contro i poliziotti che lo avevano in custodia. La polizia, da parte sua, dà la sua versione. Anzi, due. Ahmed, dicono, è morto cadendo mentre cercava di fuggire da una camionetta. È anche morto cadendo dal secondo piano di un edificio a Nasr City, dal quale si è lanciato per sfuggire ad una retata in una casa di prostituzione. Peccato che - spiega l’avvocato Ahmed Saad Sabah - non ci siano intorno alla ferita abrasioni tipiche di una caduta. Parla anche il fratello, Mohamed: il volto di Ahmed era pieno di ematomi. Secondo il Nadeem Center, organizzazione che da vent’anni segue i casi di torture e abusi da parte delle forze di sicurezza, solo a luglio almeno 10 prigionieri sono morti per mancanza di assistenza sanitaria o torture. Fuori, in strada, le vittime di polizia e esercito sono state 99. In un mese soltanto. Da gennaio a fine luglio 2016 i morti in custodia sono stati almeno 71; nel 2015 137 (a cui vanno aggiunti 328 morti in scontri con la polizia); nel 2014 almeno 90 solo nei governatorati di Giza e del Cairo. E, calcola Al Nadeem, nei primi 100 giorni di governo al-Sisi (da luglio a settembre 2013) i deceduti in carcere sono stati per lo meno 35. Le giustificazioni che la polizia adduce a certe morti sono più o meno le stesse: le origini della morte di Regeni sarebbero da cercare in ambienti omosessuali, dissero; Khaled Said, ucciso nel 2010, era un trafficante di droga. Per molti si tratta di meri insabbiamenti, punta dell’iceberg di una macchina repressiva ben collaudata. Tra i suoi ingranaggi c’è la legge anti-terrorismo voluta da al-Sisi. Normativa controversa, che soffoca la libertà di espressione e manifestazione, ora è sul tavolo della corte costituzionale. Nel mirino c’è proprio l’articolo che vieta le proteste non autorizzate dalle autorità. Il primo ottobre l’Alta Corte dovrà rivedere (su appello di avvocati per i diritti umani) la disposizione che ha permesso in tre anni l’arresto di decine di migliaia di persone, portando a 60mila il numero - presunto - di prigionieri politici. "Noi difendiamo la terra col sangue": le uccisioni di ambientalisti in America latina di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 settembre 2016 Nel 2014, nel mondo sono stati assassinati 116 difensori dei diritti umani impegnati nella salvaguardia dell’ambiente: 88 di loro in America latina. L’anno scorso, il numero globale è tragicamente salito a 185 così come quello degli ambientalisti uccisi in America latina: 122. I due paesi più pericolosi al mondo per chi difende i diritti del territorio e delle sue popolazioni sono Honduras e Guatemala: negli ultimi due anni, si sono contati 20 omicidi in Honduras e 15 in Guatemala. Questi due paesi hanno tassi di omicidio elevatissimi, rispettivamente 58,5 e 30 ogni 100.000 abitanti. Ma nel caso degli ambientalisti, si tratta di uccisioni mirate, spesso con la complicità o quanto meno l’inerzia delle autorità. Secondo la Banca mondiale, il 62,8 per cento della popolazione honduregna e il 59,3 per cento di quella guatemalteca vivono sotto la soglia di povertà fissata a un dollaro al giorno. Si tratta per lo più di nativi o di contadini, e spesso i due gruppi coincidono, la cui sopravvivenza dipende dall’accesso alla terra o ad altre preziose risorse naturali. Terra e risorse che gli ambientalisti difendono e che, come denuncia un rapporto appena pubblicato da Amnesty International, sono bramate dalle imprese che portano avanti progetti idroelettrici e minerari. La notizia dell’omicidio di Berta Cáceres, avvenuto la notte del 2 marzo in Honduras, ha fatto il giro del mondo (nella foto, i suoi funerali). Ma, così come andava avanti prima della sua uccisione, gli attacchi agli ambientalisti sono proseguiti. Stavolta, con minore risonanza. Sempre in Honduras, neanche due settimane dopo è stato assassinato Nelson García. Faceva parte del Consiglio civico delle organizzazioni popolari e native dell’Honduras, l’organizzazione presieduta da Berta Cáceres. Il 6 luglio, in una discarica presso la frontiera col Messico, è stato ritrovato il corpo di Lesbia Urquía. Intimidazioni e agguati stanno avvenendo anche nei confronti di chi cerca verità e giustizia per Berta Cáceres. Il 2 maggio, il giornalista investigativo Félix Molina è sopravvissuto a un agguato mentre il 13 luglio è stato devastato lo studio dell’avvocato Victor Fernández, che difende i familiari di Berta Cáceres. In Guatemala, sebbene quest’anno non vi siano state (ancora) vittime, è in atto una vergognosa campagna diffamatoria nei confronti degli ambientalisti che si oppongono ai progetti di sfruttamento delle risorse naturali del paese, in particolare quelle minerarie. Uno dei principali quotidiani del paese, che ironicamente si chiama "Stampa libera", ha recentemente pubblicato a tutta pagina un’intervista a uno dei dirigenti della compagnia mineraria nazionale che ha accusato di terrorismo le organizzazioni per i diritti umani. Un modo tragicamente efficace per mettere le loro vite in pericolo.