Renzi frena, slitta la riforma della giustizia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2016 "Il capo dei giudici, il dottor Davigo, dice che questi provvedimenti sono dannosi o inutili. Ho il dovere di ascoltarlo, è una persona assennata. Quindi ci penso due, tre, quattro, dieci volte. Non possiamo mettere la fiducia con una posizione così dura dei nostri amici magistrati". Così Matteo Renzi spiazza tutti, rimangiandosi quel che durante il lungo Consiglio dei ministri notturno aveva appena concesso, e cioè la possibilità di ricorrere al voto di fiducia per sbloccare il Ddl di riforma del processo penale. Qualche ora dopo, l’Aula del Senato approva la richiesta sottoscritta da tutte le forze della maggioranza di "inversione dell’ordine del giorno" e la riforma, su cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando si gioca la sua credibilità politica, viene scavalcata dalla riforma sul cinema e rinviata. Forse a martedì. Orlando: "Riforma giustizia a rischio di trappole" - La palla è sempre in mano a Renzi, che deve decidere se affrontare "il rischio" della fiducia senza la stampella dei verdiniani, e su un testo fortemente divisivo dentro e fuori il Parlamento, oppure imboccare la strada del "binario morto", almeno fino al referendum del 4 dicembre. Orlando ancora si aspetta la fiducia; il binario morto sarebbe uno "smacco", ammettono nel suo entourage e nella sinistra Pd. Ha dalla sua il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che assicura di aver fatto "un sondaggio" nel suo gruppo e quindi esclude rischi per il governo. Rischi che invece vede se si andasse al voto segreto, a causa dell’asse tra i "giustizialisti dei 5 Stelle e del Pd". Ma Renzi al momento rimane contrario e usa Davigo per giustificare l’ennesimo rinvio. Due anni fa, il premier liquidò con un irridente "Brrr... che paura" le critiche dell’Anm sulla decisione del governo di tagliare le ferie ai giudici. I quali non gliel’hanno mai perdonata, a cominciare da Davigo, riconoscendo invece a Orlando di aver recuperato il filo di un dialogo costruttivo. Paradossalmente, oggi Renzi si presenta come l’uomo del dialogo con "gli amici magistrati" e, per quanto strumentale venga considerata fra le toghe la sua sortita, rende Orlando più vulnerabile anche con i suoi interlocutori abituali: magistrati e avvocati. Ma è politicamente che la posizione di Orlando rischia di indebolirsi. Ieri, da una una riunione dei "Giovani turchi" (l’area Dem che fa capo a Orlando) è emerso un messaggio chiaro: "La priorità è che la riforma del processo penale vada in porto, È fondamentale per l’azione del governo e ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene. Non ci sono subordinate". Dunque, la via maestra è la fiducia. Slitta ddl penale, Renzi apre ai magistrati: "Escludo fiducia" - Eppure, l’ipotesi binario morto, che già serpeggia da tempo, da ieri circola con maggiore insistenza, perché per questa via Renzi sgombrerebbe il campo da un grosso inciampo politico con i suoi alleati interni (Ap) e esterni (i verdiniani) e potrebbe affrontare più sereno la campagna referendaria. Tra l’altro, la riforma del processo penale contiene norme di varia natura (penale, processuale, penitenziaria), molte delle quali poco popolari e perciò è destinata a scontentare molti, per motivi diversi. Dunque, non porta voti. Tecnicamente, al binario morto si potrebbe arrivare cominciando a votare i primi articoli e aspettando che governo e maggioranza inciampino in uno dei tanti voti segreti: a quel punto si porrebbe una questione politica nella maggioranza, che avrebbe buon gioco a chiedere il ritorno in commissione, in attesa di tempi migliori. Cioè dopo il referendum di dicembre. Certo è che su questo provvedimento si sta consumando una crisi di fatto della maggioranza e, forse, anche tra due leadership politiche, quella del premier e quella di Orlando, che i sondaggi danno in crescita anche quanto a popolarità e fiducia. Divisioni e imboscate, la riforma della giustizia rischia il binario morto di Liana Milella La Repubblica, 29 settembre 2016 Renzi contro Orlando. Orlando contro Renzi. Il primo teme che il governo cada sulla giustizia. Il secondo vuole salvare la sua riforma del processo penale. La prossima settimana, se vince la linea Renzi, il ddl che cambia le regole della prescrizione e delle intercettazioni potrebbe finire sul binario morto, congelato in attesa che si voti per il referendum. Se ne potrebbe addirittura parlare con l’anno nuovo. All’opposto, se la spunta il ministro della Giustizia, il testo passa con la fiducia, cui sta lavorando freneticamente il capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. Tutti i senatori in missione richiamati indietro, conti sul pallottoliere, che danno la maggioranza al sicuro con 170 voti contro i 148 degli oppositori. Da oltre 700 giorni, prima alla Camera e poi al Senato, la riforma penale attende il via libera. L’Anm di Pier Camillo Davigo la considera "inutile e dannosa". Orlando la ritiene "un buon compromesso". Ma il premier Matteo Renzi la vede adesso come una mina vagante sul destino del referendum. Per questo, gelando il Guardasigilli, ieri ha frenato le pressioni sulla fiducia con la staffilata "non la metto contro Davigo". Battuta che in via Arenula viene giudicata "soltanto un alibi". Il Guardasigilli lo nega, ma il braccio di ferro col premier sulla fiducia va avanti da giorni. Il ministro la vede così: "Non è necessario metterla subito. Cominciamo a votare, incassiamo i primi articoli. Dimostriamo che la maggioranza è con noi. Poi, semmai, mettiamo la fiducia". Tant’è che, durante il consiglio dei ministri di martedì sera, ottiene l’autorizzazione. È convinto che sia utile approvarla prima del referendum, perché "contiene dei punti di forza, come l’aumento della prescrizione". La sua corrente, i Giovani turchi, lo sostiene, e preme per il voto. Renzi, all’opposto, vede solo danni dalla riforma. Sia che la si voti senza la fiducia, perché - come gli hanno spiegato i suoi - la maggioranza rischia di andare più volte sotto al Senato per via dei quasi 200 voti segreti, sia che si metta la fiducia. La seconda ipotesi è ben peggiore della prima, perché i numeri sono molto "risicati", come ammette lo stesso Orlando, e perché risulta determinante il voto di Ala, il gruppo di Verdini. Se Ala vota, Renzi acquista nemici contro il referendum, se non vota e il governo cade, comunque Ala risulta determinante per la sopravvivenza del governo e costretto a salire sul Colle. Ma Renzi ha contro il partito della fiducia, Orlando perché vuole la "sua" riforma; il ministro dell’Interno Angelino Alfano che ha paura di un voto il libertà. La formula della prescrizione sarebbe più drastica, un’ipotesi che potrebbe dissolvere il suo gruppo al Senato. I magistrati sono in allarme, non solo sul ddl, ma anche sull’età pensionabile e sulla mancanza di cancellieri. Sabato si riuniscono nel palazzaccio di piazza Cavour, pronti ad attaccare il governo su tutto. Orlando tenta l’ennesima mediazione e nelle prossime ore incontra Davigo, ma gli spazi per cambiare il ddl al Senato sono strettissimi. Perché se cambia gli alfaniani non lo votano, quindi la partita è chiusa. Ben 40 articoli, prescrizione (sospesa dopo il primo grado, 36 mesi di bonus tra Appello e Cassazione, aumentata della metà per i reati di corruzione), intercettazioni (stretta sulle telefonate necessarie da mettere nei provvedimenti dei magistrati e quindi rendere pubbliche), uso dei captatori Trojan horse (solo per reati gravi), spada di Damocle sui pm che avranno solo tre mesi, dopo la chiusura delle indagini, per decidere le contestazioni pena l’avocazione. Ma anche pene più dure per furti e scippi. E più severe per il voto di scambio con la mafia. Su ogni punto le contestazioni dell’Anm, ma anche della sinistra del Pd. A partire dalla prescrizione, dove il relatore Felice Casson ha proposto il brusco stop dopo il primo grado. È proprio la soluzione che piace ai magistrati. Piace anche al presidente del Senato Piero Grasso che l’aveva messa nel suo ddl. La voterebbe anche M5S. Ma non la voterebbero mai gli alfaniani che, con il ministro Enrico Costa, considerano l’aumento ad hoc per la corruzione un’evidente esagerazione. Lo sa bene Orlando che ha lavorato per il compromesso. E che, senza fiducia, rischia di vedere il suo ddl sul binario morto. Niente fiducia sulla riforma del processo per rispetto verso l’Anm di Errico Novi Il Foglio, 29 settembre 2016 Renzi alza le mani: "Contro Davigo, mai!". "Prima di mettere la fiducia su atti che dovrebbero aiutare i magistrati, con i magistrati che li definiscono dannosi, ci penso dieci volte". Poche ore dopo il via libera del Consiglio dei ministri alla "blindatura" del ddl sul processo, Renzi fa un clamoroso passo indietro. Niente fiducia, dice il premier, ma il ministro dell’Interno Alfano avverte: "Se i voti segreti in Senato snaturassero la riforma, Ncd non potrebbe dare il suo sì al voto finale". Il primo effetto dell’ossequioso gesto di Renzi nei confronti dell’Anm e di Davigo ("persona assennata", dice il presidente del Consiglio) è l’inversione dell’ordine dei lavori a Palazzo Madama: rinviato l’esame della riforma penale, si passa a parlare di cinema. Le rottamazioni si fanno con le ruspe. Forse Matteo Renzi non ha mai pensato all’analogia con il metodo di Matteo Salvini, né al fatto che i modi spicci in genere scassano tutto, fatto sta che stavolta ci va di mezzo la riforma del processo penale. Ora a un passo dal finire in archivio. "Davigo è una persona assennata, dice che il disegno di legge sulla giustizia è inutile e dannoso. Ebbene", è l’incredibile retromarcia del premier, "prima di mettere la fiducia su atti che noi vorremmo andassero nella direzione di aiutare i magistrati, con i magistrati che dicono che sono dannosi, ci penso dieci volte". Non solo: se il presidente dell’Anm, nota Renzi, esprime giudizi tanto negativi "avrà le sue motivazioni". E in pochi minuti ecco la frana. Niente esame del provvedimento: la richiesta di archiviazione pronunciata da Matteo in diretta su Rtl 102,5 innesca la resa del Senato. Il dem Francesco Russo presenta una richiesta di invertire l’ordine del giorno: "Prima il cinema". Palazzo Madama dice che sì, meglio andarsi a vedere un film. La giustizia può attendere. In poche ore viene preso a botte un lavoro immane, che andava avanti da almeno due anni. A pochi minuti dalla mezzanotte di martedì in realtà il presidente del Consiglio ci ha già messo il carico da novanta: esce dal Consiglio dei ministri, entra in conferenza stampa e annuncia che sì, "la riunione mi ha autorizzato ove necessario a porre la fiducia sul processo penale, ma non sono convinto di metterla". Tutto chiaro. Il riferimento all’Anm viene anticipato nel confronto con Angelino Alfano, che in Consiglio invoca la blindatura del testo più del collega Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Renzi cede nella sede formale, ma si impone sul fronte che controlla meglio di tutti: la comunicazione. "Ho visto autorevoli esponenti della magistratura, e l’Associazione nazionale magistrati, scagliarsi contro questo testo che secondo me è alto e nobile: nel mio spirito di collaborazione e dialogo penso che forse non valga la pena mettere la fiducia su un testo così contestato", è l’altro passaggio chiave del discorso notturno di Renzi. In mattinata, mentre il presidente del Consiglio si prepara al dietrofront via radio, rimbalzano le parole affidate da Orlando al Corriere della Sera. Quando Giovanni Bianconi gli chiede se "Renzi sia disposto a far morire la sua riforma, pur di non mettere in gioco il destino del governo alla vigilia del referendum", il ministro risponde "no, non credo". E aggiunge: "Non sono disposto nemmeno io". Il guardasigilli pensa che la legge su prescrizione, intercettazioni e carcere vada approvata, con o senza fiducia. Spiega ancora al Corriere di essere "d’accordo a verificare le condizioni per il percorso ordinario" ma "fatta salva la tenuta sui passaggi essenziali". È da giorni la tesi di Via Arenula: proprio una fiducia sull’intero articolato no, ma una blindatura ad hoc sui punti più a rischio, prescrizione i primis, andrebbe valutata. C’è un altro passaggio chiave, nell’intervista: "Sulla fiducia non si deve convincere nessuno, si deve valutare la strada migliore per approvare una riforma che considero molto importante" e che attua alcuni dei dodici punti sulla giustizia". Ad annunciarli, il 30 giugno 2014, furono appunto Orlando e Renzi insieme. Di sicuro il ministro conosce da tempo i rischi nascosti dalla raffica di voti segreti in arrivo sulla riforma del processo. Nel pomeriggio si colgono a Palazzo Madama tentativi di rassicurazione: "La legge sul cinema dovrebbe essere licenziata entro metà settimana prossima, poi la riforma del processo la riprendiamo", assicura un autorevole senatore del Pd, "il problema era che in questa settimana avevamo troppi colleghi in missione...". Versione diplomatica per spiegare che dopo le parole di Renzi c’è bisogno di guardarsi un attimo negli occhi. Dietro lo spauracchio dell’Anm evocato da Renzi c’è una ragione ostativa più semplice: evitare che i cinquestelle possano dire in piena campagna referendaria che con la riforma del processo il governo fa un regalo a mafiosi e corrotti. In realtà Mario Giarrusso lo dice da giorni. Dal punto di vista di Renzi l’ideale sarebbe riuscire a tenere il testo sulla giustizia lontano da Palazzo Madama fino al 4 dicembre, data della consultazione. Dire "non vale la pena di mettersi contro Davigo" è una dichiarazione di impotenza. Verso il mainstream giustizialista, certo, più che di fronte all’Associazione magistrati, chiamata in causa per comodità. È vero che Davigo già alimenta a propria volta la campagna anti-governo: ha già convocato per sabato prossimo un comitato direttivo centrale straordinario dell’Anm allargato ai capi di tutti gli uffici d’Italia. Oggetto, appunto, "l’allarme per una riforma inutile e dannosa che non risolve la vera emergenza della giustizia: le carenze di organico". Nel comunicato i magistrati attesi da tutto lo Stivale sono elencati uno a uno con relativa città di provenienza. A dare un’idea di una forza numerica che, evidentemente, ha già dissuaso Palazzo Chigi. Carenza di personale e prescrizione, i motivi del malcontento dell’Anm di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2016 "Inutile e devastante" ha detto domenica scorsa Piercamillo Davigo a proposito della riforma del processo penale, che sta mettendo in crisi il governo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando gli ha risposto per le rime, rinfacciandogli un dossier dell’Anm nel quale "metà delle proposte sono già contenute nel testo in discussione al Senato". "Non erano quelle le richieste dell’Anm - ha controbattuto Davigo -. Un conto è l’elenco delle cose da fare, un altro conto è "come" si fanno. E quello fatto finora dal governo non basta". Le critiche di Davigo, che presiede l’Anm da sei mesi circa, non sono un fulmine a ciel sereno, anche se come un fulmine sembrano aver colpito il premier Matteo Renzi sulla via di Damasco, facendogli rimangiare la sia pur piccola apertura sulla fiducia, fatta martedì notte al Consiglio dei ministri, per far uscire dall’angolo il Ddl di riforma, frutto di un difficile, ma a quanto pare precario, accordo di maggioranza. Le obiezioni dell’Anm al Ddl (che al Senato ha inglobato quello sulla prescrizione) risalgono infatti alla prima stesura del governo e sono state rinnovate dopo il primo via libera della Camera, un anno fa. Per esempio, quelle sulla cosiddetta "indagine breve", cioè sulle norme che impongono alle Procure di chiedere, entro tre mesi dalla chiusura delle indagini, il rinvio a giudizio o l’archiviazione, pena l’avocazione dell’indagine da parte del Pg d’appello, e che sanzionano disciplinarmente il ritardo nell’iscrizione della notizia di reato. Un sistema che, a tacer d’altro, secondo l’Anm non potrà funzionare anche per l’enorme carico di lavoro delle Procure, tanto più a fronte della carenza di personale (mancano 9mila cancellieri) e di magistrati (ne mancano mille). Altro fronte, questo, aperto con il governo e destinato a surriscaldarsi: domani l’Anm ha infatti convocato a Roma tutti i capi degli uffici giudiziari per lanciare l’allarme "paralisi" degli uffici proprio a causa della carenza di personale, che ha raggiunto "livelli inaccettabili, con effetti negativi su ogni aspetto della giurisdizione", civile e penale; quindi anche sulla prescrizione dei reati, tema su cui Davigo non ha mai risparmiato critiche al governo, insistendo sulla necessità di interromperne il decorso dopo il rinvio a giudizio o, al massimo, dopo la condanna di primo grado. Soluzione esclusa dall’accordo di maggioranza. Che ha escluso anche la possibilità di estendere da tre a sei mesi la durata dell’"indagine breve". Dopo mesi di apparente tregua, negli ultimi giorni Davigo è quindi tornato all’offensiva su questi e altri aspetti della riforma "inutile e dannosa". "In Italia - ha detto venerdì scorso durante la tradizionale tre giorni di InsolvenzFest organizzata dall’Osservatorio sulle crisi di impresa (Oci) a Bologna - la giustizia non fa paura a chi viola la legge. Manca una politica fondata sul concetto di deterrenza. Basti pensare che circa il 100% delle sentenze viene appellato mentre in Francia lo è solo il 40% perché lì non c’è il divieto della reformatio in peius". Troppo timide, quindi, le modifiche della riforma in tema di appello. Inutili anche quelle in materia di corruzione, dove secondo Davigo occorrono misure più incisive per far emergere il malaffare. "Bisogna estendere la disciplina sui pentiti e prevedere, non uno sconticino di pena per chi collabora, ma l’impunità totale" ha affermato sempre a Bologna, insistendo anche sull’introduzione delle operazioni sotto copertura. L’accidentato percorso della riforma della giustizia di Alessandro Campi Il Messaggero, 29 settembre 2016 Si sapeva che il voto al Senato sul disegno di legge di modifica del Codice penale e del Codice di procedura penale sarebbe stato accidentato e difficile. Questo, visti i numeri ballerini della maggioranza che sostiene il governo e i contrasti esistenti all’interno del Partito democratico. Ma quando si è capito che quel voto era divenuto addirittura pericoloso per la vita del governo ci ha pensato lo stesso Matteo Renzi, con una mossa spregiudicata delle sue, a congelare la partita, con l’idea di rimandarla a tempi politicamente migliori. Nel timore che nemmeno la fiducia parlamentare fosse sufficiente a far passare il provvedimento, col rischio dunque di vedere gravemente indebolito l’esecutivo alla vigilia del voto referendario, il premier si è abilmente trincerato dietro le dure parole di critica rivolte ai contenuti del Ddl dal capo dei magistrati, Pier Camillo Davigo, per sostenere che non si può legiferare contro la volontà di questi ultimi sulle questioni che riguardano la Giustizia. Potrebbe sembrare un atto di rispetto istituzionale sostenuto da una buona dose di buon senso e pragmatismo. In realtà, oltre la paura di andare incontro ad una sconfitta parlamentare e quella, non meno concreta, di vedere l’ala più interventista e militante della magistratura schierarsi apertamente contro di lui nella campagna elettorale sulla riforma costituzionale, ci sono ragioni politiche molto serie che hanno probabilmente spinto Renzi a questa decisione. La prima (ovviamente inconfessabile in questa forma) è che il provvedimento che il Senato dovrebbe licenziare non è quella riforma della Giustizia - d’impianto liberale e garantista - che Renzi aveva auspicato e promesso poco dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, con l’idea di farne uno dei pilastri della sua azione riformatrice, e che aveva affidato come missione al ministro Orlando. Dal punto di vista di Renzi, dopo due anni nel corso dei quali Orlando sembra essersi arreso alle resistenze corporative dei magistrati sino ad adottare una strategia minimalista all’insegna di continui compromessi al ribasso, è come se la montagna avesse prodotto il proverbiale topolino. Non che in questo Ddl manchino norme che contrastano con quella cultura del giustizialismo nella quale Renzi, a costo di farsi dare del berlusconiano dai suoi stessi compagni di partito, non si è mai riconosciuto. Basti pensare, in particolare, a quella che prevede un limite temporale per il pubblico ministero per decidere, una volta concluse le indagini preliminari, se archiviare o procedere con l’azione penale. Una misura introdotta con l’obiettivo di limitare la durata dei procedimenti penali e di impedire, come oggi spesso accade, che la prolungata sottoposizione ad un processo penale diventi per l’imputato una sorta di pena anticipata. Altrettanto positive possono anche essere considerate quelle parti del Ddl dedicate al potenziamento degli effetti rieducativi dell’esecuzione penale. Ma è evidente che una riforma di sistema della Giustizia - così come lo stesso ministro Orlando l’aveva presentata nei suoi famosi 12 punti nell’agosto del 2014 e che tra i suoi obiettivi principali contemplava la riforma del Csm - è un’altra cosa. Il problema è che, a parte le indecisioni di Orlando, Renzi in questo momento storico non ha la forza politica necessaria per impegnarsi in uno scontro come quelli che già l’hanno visto protagonista in altri momenti, ad esempio quando si è trattato di misurarsi a muso duro col sindacato ai tempi del Jobs Act. Quella forza che potrebbe venirgli da una vittoria netta al prossimo referendum. E proprio in questa scadenza va forse ricercata l’altra ragione politica (nemmeno questa confessabile apertis verbis) che ha spinto Renzi a non condividere la fretta con cui il ministro Orlando - anche ricorrendo alla fiducia - vorrebbe concludere l’iter in Senato del suo pacchetto di riforme. Non è un mistero che la minoranza interna del Pd punta sulla vittoria del "no" al referendum per scalzare Renzi dal governo e per sostituirlo, dando vita se necessario ad una nuova maggioranza parlamentare, con un proprio esponente. A Renzi la fretta di Orlando degli ultimi giorni, così come i suoi cambi d’opinione sul tema della fiducia (prima l’ha richiesta, poi ha suggerito di votare articolo per articolo), deve essere apparsa per nulla strategica, nell’imminenza di una campagna elettorale dove basta un passo falso - come appunto sarebbe una bocciatura parlamentare del governo in materia di giustizia - per giocarsi la vittoria al referendum sulla riforma della Costituzione e con essa, probabilmente, un’intera carriera politica. La conclusione è che se la riforma della Giustizia (quella vera) può attendere, può attendere - sicuramente dopo il 4 dicembre - anche quella del Codice penale. E per chi abbia ancora a cuore le garanzie costituzionali, tutto sommato, non c’è da dolersene. Riforma della giustizia: se 8 mila magistrati contano più di 8 milioni di lavoratori di Piero Sansonetti Il Dubbio, 29 settembre 2016 Circa un anno e mezzo fa Matteo Renzi sbeffeggiò Maurizio Landini: sostenne che era talmente vecchio che cercava di far funzionare l’IPhone con il gettone. Landini è il capo degli operai metalmeccanici. Poi Renzi mandò a quel paese anche Susanna Camusso, che è il capo del più grande sindacato italiano, la Cgil, e rappresenta più o meno otto milioni di lavoratori. Perché? Renzi voleva fare una legge con nome inglese (Jobs Act), la quale limitava i diritti dei lavoratori dipendenti. E quella legge - giusta o sbagliata che fosse - era ferocemente osteggiata dai sindacati. Ma Renzi ci spiegò che non si può fare politica riformista cercando il consenso di tutti. Se ne infischiò dei sindacati, si accontentò, in quell’occasione, del consenso degli imprenditori, e siccome gran parte del suo partito si opponeva, e il governo non aveva la maggioranza in Senato, pose la fiducia sulla sua legge. Vinse. E se ne vantò molto. Non fu turbato dal sospetto di mancare di "rispetto" verso i sindacati. Né ci pensò una, due, cinque, dieci volte, come ha detto di aver fatto sulla riforma del processo, dopo aver letto gli avvisi di ostilità emanati dall’Anm. Una alzata di sopracciglia di Davigo è bastata a fermarlo. Davigo è il capo di un sindacato autonomo, (l’associazione nazionale magistrati) con qualche migliaio di iscritti. Il paragone tra la spavalderia antisindacale e il timor panico verso l’opposizione dei magistrati è impietoso. Però è proprio questo paragone che fotografa lo stato della politica italiana nell’anno 2016. Una volta la politica era il terreno sul quale si affrontavano le forze sociali, le grandi idee, e gli interessi delle classi o dei grandi gruppi. I sindacati contavano moltissimo. Oggi una piccola associazione di giudici conta molto di più dell’intera Cgil. Una volta uno sciopero dei soli metalmeccanici era in grado di far cadere un governo. Oggi uno sciopero conta zero. I lavoratori non hanno più nessuna rappresentanza politica in Parlamento, né tantomeno ai tavoli del potere. E invece un gruppo di magistrati, riuniti in un sindacato che sempre più assume i connotati d’un partito politico, è in grado di fare o disfare le leggi e di tenere in pugno il governo. Mandando all’aria tutto il disegno della Costituzione e trasformando lo stato di diritto in un fantasma. Renzi, bisogna ammetterlo, ha un pregio molto grande: parla senza giri di parole e senza diplomazie. Spesso le sue parole squarciano il velo della polita politicante. Non sappiamo se volontariamente o involontariamente. Ieri il presidente del Consiglio ha fatto proprio questo: messo fine alla finzione della separazione dei poteri e ammesso che esiste un’ipoteca del potere giudiziario sulle leggi, e quindi una vera e propria autolimitazione del potere legislativo e anche del potere esecutivo, cioè del governo. Lo Stato liberale, fondato sulla divisione dei poteri, è ormai decisamente ridimensionato. Da che cosa? I politologi direbbero: dall’emergenza. L’emergenza, a guardar bene, consiste in una cosa sola: nella perdita di autorevolezza da parte della politica. E la politica - che ormai procede e si organizza senza più strutture, perché i partiti politici, che in Costituzione sono previsti come struttura portante della democrazia, si sono liquefatti - reagisce alla sua perdita di autorevolezza cercando protezione negli altri poteri. In parte nei poteri economici, in parte ancora maggiore nel potere della magistratura. I giornali e l’intellettualità non sembrano affatto preoccupati di questo processo di vera e propria trasformazione dell’ordine costituzionale. Si azzannano magari sulla riforma-Boschi, che abolisce il Senato, e che è una cosina minuscola se messa a fronte della riforma della costituzione materiale realizzata con lo stravolgimento del rapporto tra i poteri dello Stato. Sulla riforma- Boschi ciascuno è in grado di esprimere il massimo della retorica possibile, e di mostrare passione, rigore, schiena dritta... Ma del fatto che, oggettivamente, oggi, potere legislativo ed esecutivo sono sottoposti al potere giudiziario, non importa niente a nessuno. Non si vedono cortei per le strade, né si sentono grida dell’Anpi, l’opposizione parlamentare è piuttosto silenziosa, l’intellettualità o è rintanata in casa o si schiera compatta con Davigo e i suoi. Probabilmente c’è una opposizione dentro la magistratura, ma non ha la forza di esprimersi, di scendere in campo, anche perché è impaurita dall’alleanza di ferro tra l’Anm e il mondo dell’informazione. Non trova spazio. Di fronte a questa situazione c’è spazio per essere ottimisti? Antonio Gramsci diceva che per fare politica occorre unire al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà. Come si può dare linfa all’ottimismo della volontà? Bisogna che il dissenso si manifesti. Quello dei magistrati, quello dell’avvocatura, quello del mondo del diritto. E che le "piccole" forze garantiste che ancora si "annidano" nei partiti, di sinistra e di destra, vengano allo scoperto. Ieri, in una bella intervista rilasciata al "Corriere della Sera", Carlo De Benedetti parlava di rischio regime, di possibile fine della democrazia, riferendosi da un lato ai problemi della crisi economica internazionale e dall’altro alla debolezza della politica, non solo in Italia. Non credo che avesse torto. L’Unione delle Camere Penali Italiane parteciperà alla marcia per l’amnistia e l’indulto camerepenali.it, 29 settembre 2016 Il processo - già ferito a morte - sta ricevendo il colpo di grazia con il termine di prescrizione infinito. Le carceri tornano ad affollarsi. Amnistia e indulto sono ormai l’unica strada da percorrere insieme a riforme organiche. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, aderisce alla marcia per l’amnistia e l’indulto, organizzata dal Partito Radicale per il prossimo 6 novembre. Invita i propri iscritti ad unirsi a coloro che, in tale data, marceranno da Regina Coeli a Piazza San Pietro. La manifestazione, intitolata a Marco Pannella, vuole anche ricordare le parole del Pontefice sul tema della clemenza per i detenuti. L’U.C.P.I. ritiene che perseverare nel negare tali provvedimenti rappresenta l’ulteriore incapacità dello Stato a governare la Giustizia. Dinanzi all’aumento costante di procedimenti penali, al 70% dei fascicoli che si definiscono con prescrizione nelle indagini preliminari, ai settori di giudizio incapaci di portare a termine la maggior parte dei processi, si propone di allungare il termine di prescrizione, con l’unico risultato possibile di aumentare l’agonia di un ferito a morte, il processo penale. Solo l’amnistia, accompagnata da altri necessari provvedimenti, può consentire un serio e produttivo cambiamento. Allo stesso modo, la negazione dell’indulto ha reso inutili i timidi provvedimenti che, in materia di esecuzione penale, si sono adottati e le carceri stanno tornando ad affollarsi, rendendo la detenzione drammatica e la "rieducazione", prevista dalla nostra Costituzione, un’illusione. Avv. Beniamino Migliucci Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Avv. Riccardo Polidoro Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi "Yara uccisa per le avances respinte". Ergastolo a Bossetti, le motivazioni di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 29 settembre 2016 "Un omicidio di inaudita gravità", scrivono i giudici di Bergamo nelle 158 pagine depositate dopo la condanna del 1° luglio. Sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Bergamo hanno condannato all’ergastolo, il primo luglio scorso, Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, scomparsa da Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010 e trovata uccisa a Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da casa esattamente tre mesi dopo. A quanto si è saputo, è probabile che il pm Letizia Ruggeri che ha condotto le indagini e ha rappresentato l’accusa, presenti ricorso in appello contro l’assoluzione del muratore dall’accusa di calunnia nei confronti di un ex collega di lavoro. "Omicidio di inaudita gravità" - Quello di Yara Gambirasio è stato un "omicidio di inaudita gravità", scrivono i giudici di Bergamo nelle 158 pagine di motivazioni della condanna. Per i giudici, l’omicidio della 13enne è "maturato in un contesto di avances a sfondo sessuale, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora". E poi: "L’aggravante dell’aver adoperato sevizio e agito con crudeltà impone l’irrogazione della pena dell’ergastolo". "Animo malvagio" - I giudici spiegano che l’aggravante della sevizia e crudeltà "disvela l’animo malvagio" dell’imputato. "Le sevizie in termini oggettivi e prevalentemente fisici - scrivono - la crudeltà in termini soggettivi e morali di appagamento dell’istinto di arrecare dolore e di assenza di sentimenti di compassione e pietà". "Dna assolutamente affidabile" - Il pilastro dell’accusa, il Dna, è "assolutamente affidabile" perché il profilo genetico nucleare di Ignoto 1, che le indagini hanno stabilito essere Massimo Bossetti, è "caratterizzato per un elevato numero di marcatori Str e verificato mediante una pluralità di analisi eseguite nel rispetto dei parametri elaborati dalla comunità scientifica internazionale". Così i giudici della Corte d’Assise di Bergamo, chiariscono uno dei punti contestati dalla difesa ovvero la procedura adottata per identificare il Dna di Ignoto 1, nelle motivazioni della sentenza con cui hanno condannato il muratore bergamasco all’ergastolo. "È la presenza del profilo genetico dell’imputato - scrive la Corte presieduta da Antonella Bertoja - a provare la sua colpevolezza: tale dato, privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa, non è smentito né posto in dubbio da acquisizioni probatorie di segno opposto ed anzi è indirettamente confermato da elementi ulteriori, di valore meramente indiziante, compatibili con tale dato e tra loro". Ricercatrice di giustizia. Le dimissioni dalla Camera di Ilaria Capua Il Foglio, 29 settembre 2016 Montecitorio accetta le dimissioni della virologa e parlamentare con 238 voti a favore e 179 contrari. "Se questo mio passaggio di vita come rappresentante del popolo italiano lascerà un segno, non riguarderà la scienza o la ricerca. Riguarderà la giustizia. Quello che è successo a me accade a tanti innocenti accusati ingiustamente". "Gentile presidente, cari colleghi, oggi rassegno le mie dimissioni da deputato della Repubblica italiana". Così Ilaria Capua, virologa eletta con Scelta Civica, è intervenuta in aula per comunicare il suo addio alla Camera dopo il proscioglimento dall’assurda inchiesta che insieme all’infamante campagna stampa per anni l’ha inchiodata nel ruolo di untrice con accuse infondate. "È stata una decisione sofferta e ponderata, che ho maturato nel tempo e che si è articolata intorno alla parola rispetto - ha detto la ricercatrice, ripercorrendo dall’inizio le tappe che l’hanno condotta a questa sofferta decisione. Quando sono entrata alla Camera dei deputati ero una scienziata conosciuta e stimata per gli studi che avevo svolto in virologia, ero piena di buoni propositi e assolutamente determinata a sollecitare quei cambiamenti nel mondo della ricerca di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Avevo una missione, avevo a cuore un obiettivo, uno solo". Tutto cambia quando l’Espresso, sulla base di una vecchia inchiesta della procura di Roma, impala la scienziata sul rogo dell’indignazione pubblica con una copertina dal titolo "Trafficanti di virus". "Dopo un anno dalla mia elezione sono stata travolta da un’indagine giudiziaria risalente agli anni duemila che mi accusava di reati gravissimi, uno dei quali punibile con l’ergastolo. È stato per me un incubo senza confini e una violenza che non solo mi ha segnata per sempre, ma che ha coinvolto e stravolto anche la mia famiglia. L’effetto più devastante che queste accuse hanno avuto sul mio ruolo di parlamentare, è stato quello di aver minato la mia credibilità, ed è proprio in questo particolare della vicenda che entra in gioco la parola rispetto". La gogna giustizialista ha impedito alla Capua di fare politica proprio sui temi che conosce meglio, quelli della ricerca. "Un parlamentare che non è credibile non è in grado di portare avanti con forza le istanze nelle quali crede. Nell’affrontare ogni giorno in questa Camera la mia nuova condizione di ‘persona non credibilè, e oltretutto accusata di crimini gravissimi, ho vissuto sulla mia pelle per oltre due anni, come la mancanza di credibilità non mi stesse permettendo di portare avanti quello per cui mi ero impegnata con i miei elettori". In un Parlamento in cui personaggi bizzarri parlano liberamente di scie chimiche e microchip sottopelle, fanno propaganda contro i vaccini e per pseudo-cure, il fango mediatico-giudiziario ha tolto la parola a una virologa conosciuta nel mondo per aver scoperto la sequenza genetica dell’aviaria. "La combinazione del rispetto per i miei elettori e per me stessa mi ha fatto comprendere che in quelle condizioni non stavo utilizzando al meglio il tempo che avevo a disposizione. [...] Ho sentito che fosse giunto il momento di tornare a usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano, ma in un ambiente nel quale non avessi mai perso la credibilità e nel quale fossi riconosciuta e apprezzata". Da qui la decisone di lasciare la politica e l’Italia per proseguire il suo lavoro di ricerca in America. "Ho accettato un incarico di direttore di un centro di eccellenza all’Università della Florida. Ho deciso di trasferire la mia famiglia negli Stati Uniti per proteggerla dalle accuse senza senso ma nel contempo infamanti che mi portavo sulle spalle. Perché una mamma ed una moglie deve farsi carico anche di questo: proteggere". Ma a un certo punto tutte le accuse, come era prevedibile vista la completa carenza di prove, si sono sbriciolate. "Venti giorni dopo il trasferimento negli Stati Uniti la procura di Verona in sede di udienza preliminare ha smontato il castello accusatorio pezzo per pezzo, prosciogliendomi dai molteplici capi d’accusa perché ‘il fatto non sussistè". Dopo aver subìto in silenzio gli insulti degli avversari e il linciaggio dei giornali, alla Capua è stata restituita quell’innocenza che in un paese civile e garantista non avrebbe mai dovuto perdere. "Ora che è finita, potrei tornare indietro, ma non me la sento. Devo recuperare forze, lucidità e serenità, devo lenire la sofferenza che è stata provocata a mia figlia e a mio marito. Devo recuperare soprattutto fiducia in me stessa, appunto perché voglio usare al meglio il tempo che ho a disposizione. Lo devo ai miei genitori che mi hanno fatto studiare, ai miei maestri, ai miei amici e ai miei allievi di ieri e di domani". Dopo il passaggio più personale, è arrivato quello più politico dell’intervento della ricercatrice: "Paradossalmente, penso che se questo mio passaggio di vita come rappresentante del popolo italiano lascerà un segno, non riguarderà la scienza o la ricerca. Riguarderà la giustizia. Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente, che attendono impotenti che la giustizia faccia il suo corso. Perché anche loro meritano rispetto". "Cari colleghi - ha concluso - ci sono molti cambiamenti all’orizzonte nel nostro paese, e sono certa che attraverso di voi e attraverso l’operato del governo l’Italia diventerà un paese più innovativo e più giusto. Ora, infatti, le questioni che più mi stanno a cuore sono due, e non più una sola". La ricerca e la giustizia. L’aula, con quella che appare una resa alla gogna mediatico-giudiziaria, ha accettato le dimissioni con 238 voti a favore e 179 contrari. Imputati interrogati pure senza fascicoli processuali di Francesco Barresi Italia Oggi, 29 settembre 2016 Anche senza fascicolo processuale il giudice per le indagini preliminari può interrogare l’imputato. Lo chiarisce la Corte di cassazione nella sentenza 39370/2016 pubblicata il 15 settembre, che ha rigettato il ricorso di un albanese condannato dal tribunale di Padova per il reato di rapina impropria aggravata, a cui sono state comminate le misure cautelari massime. L’uomo, la cui condanna è stata convalidata dalla Corte d’appello di Venezia, lamentava di essere stato interrogato lo stesso dal gip anche se il magistrato non aveva avuto modo di leggere il fascicolo processuale perché non trasmessogli, ritenendo quindi ingiusto l’interrogatorio subìto. Ma i porporati di piazza Cavour chiariscono che il ricorso in realtà "è manifestatamente infondato" perché il giudice può dare inizio lo stesso all’interrogatorio di garanzia "anche in assenza del fascicolo processuale", perché se quest’ultimo ha dato "una chiara contestazione dell’addebito e degli elementi di prova a carico dell’indagato, nel rispetto delle disposizioni contenute negli artt. 64 e 65 cod. proc. pen" allora può procedere all’interrogatorio di garanzia senza indugio. Anche in merito alle misure cautelari massime inflitte la Corte ha difeso l’operato del giudice per le indagini preliminari, "indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato in relazione alla contestata rapina impropria" perché esisteva una "sussistenza delle esigenze cautelari per l’applicazione della custodia in carcere". Inutilizzabilità delle email ripescate dal virus trojan di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2016 Inutilizzabilità di tutte le e-mail ripescate dalla memoria del server mediante un virus "investigativo" trojan. Il Tribunale di Modena, con l’ordinanza depositata ieri, assesta un duro colpo al versante "corruzione" dell’inchiesta Camici sporchi nel Policlinico locale, ma soprattutto rimarca il perimetro sull’utilizzo del trojan disegnato dalle Sezioni Unite nella famosa sentenza del 28 aprile scorso. A cadere sotto al censura del giudice dibattimentale è tutta l’attività di acquisizione della casella di posta elettronica di una dottoressa sospettata di corruzione. Il pubblico ministero aveva infatti utilizzato per lo scopo l’articolo 132 del Codice della privacy (dlgs 196/2003) firmando il decreto di acquisizione, poi eseguito dai Nas dei carabinieri mediante appunto un programma di intrusione informatica. Secondo la difesa, però si tratta di una procedura illegittima, considerato che la norma fa riferimento al "traffico telematico" escludendo esplicitamente "i contenuti delle comunicazioni". Di fatto, sostenevano i legali dell’indagata nell’atto di impugnazione - peraltro già respinto dal Gip in corso d’indagine preliminare - dalla memoria del server è consentito estrarre solo i dati "esterni" della comunicazione, cioè i soggetti interessati e l’orario dell’invio, ma non quelli "interni" relativi appunto al contenuto. In sostanza con quel decreto il pm, aggirando le garanzie difensive previste per le intercettazioni, avrebbe potuto acquisire solo l’equivalente del "tabulato telefonico" e non invece effettuare una ricerca a strascico della prova e, oltretutto, di ulteriori reati e di altri compartecipi nelle presunte azioni criminose. Il legale dell’indagata sottolineava infine, a margine, che la forzatura investigativa era dipesa dalla mancata collaborazione del gestore di posta (gmail), basato all’estero e poco disposto ad aprire l’archivio del cliente. Il tribunale modenese ieri, ribaltando le conclusioni sul punto del giudice preliminare, ha accolto l’eccezione della difesa, cancellando dal processo centinaia di migliaia di mail acquisite illegittimamente. Lungi dal mettere in discussione l’indirizzo delle Sezioni Unite, il giudice emiliano gli ha solo messo un corollario. Se è vero che l’utilizzo del captatore/intrusore informatico (trojan) è consentito nel nostro ordinamento, i limiti da rispettare sono la ristretta tipologia di reati (art. 51 cpp: mafia, terrorismo, associazione per delinquere e pochi altri) e il criterio di sorveglianza online, che decorre solo dal momento in cui l’intercettazione è autorizzata dal provvedimento giurisdizionale del Gip (atto peraltro diverso dal decreto "unilaterale" del pm). L’utilizzo del trojan per forzare il server di posta elettronica, in definitiva, viola il precetto costituzionale della riservatezza della corrispondenza (articolo 15). Pagare prima della sentenza cancella il reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 28 settembre 2016 n. 40314. I contribuenti che hanno procedimenti in corso al 22 ottobre 2015 per i reati di omesso versamento dell’Iva, delle ritenute e indebite compensazioni possono avvalersi della causa di non punibilità mediante il pagamento integrale dell’imposta fino al momento in cui la sentenza non sia divenuta definitiva e non sino all’apertura del dibattimento. A fornire questa interpretazione è la Cassazione con la sentenza 40314. La vicenda trae origine da un procedimento penale nei confronti di un imprenditore che aveva omesso di versare l’Iva entro il termine previsto per circa 400mila euro (importo ben superiore alla soglia di punibilità). A seguito della condanna in appello ricorreva per cassazione e, nelle more dell’udienza concludeva il pagamento rateale all’agente della riscossione dell’Iva al tempo non versata. Con memoria rappresentava così ai giudici di legittimità di aver estinto l’intero pagamento dell’imposta in contestazione. Chiedeva quindi, aldilà dei motivi di ricorso, l’annullamento della sentenza di condanna anche per la sussistenza della nuova causa di non punibilità introdotta dal Dlgs 158/2015 relativa all’estinzione del debito tributario. Infatti, secondo le nuove previsioni inserite dal Dlgs 158/2015 nell’articolo 13 Dlgs 74/2000, a decorrere dal 22 ottobre 2015, i reati di omesso versamento Iva e delle ritenute e di indebita compensazione di crediti non spettanti, non sono più punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario, comprese sanzioni e interessi, sia estinto mediante integrale pagamento del dovuto, anche attraverso conciliazione, adesione o ravvedimento operoso. Qualora, poi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di rateizzazione, è dato un termine di 3 mesi per il pagamento del residuo e il giudice ha comunque la facoltà di concedere una proroga di ulteriori 3 mesi. In passato, invece, l’integrale pagamento del debito tributario, sempre prima dell’apertura del dibattimento, costituiva una causa attenuante della pena (riduzione fino a un terzo). Non vi era dubbio sull’applicazione retroattiva della nuova norma, essendo più favorevole per il reo, tuttavia, da più parti, era stato evidenziato che la fruizione della non punibilità fosse comunque subordinata al rispetto delle regole previste anche per i fatti commessi in precedenza e quindi al pagamento estintivo prima dell’aperura del dibattimento. Ora, invece, la Corte ha rilevato che pur indicando nella dichiarazione di apertura del dibattimento il limite di rilevanza della causa estintiva, la diversa natura giuridica e la più ampia efficacia attribuita alla nuova fattispecie, rispetto alla precedente (attenuante), implica nei procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore del Dlgs 158/2015 (22 ottobre 2015), la necessità di una pianificazione degli effetti della causa di non punibilità anche nei casi in cui sia stata superata la preclusione procedimentale. Ne consegue che per tali procedimenti assume la medesima efficacia estintiva il pagamento eseguito dopo l’apertura del dibattimento purché prima del giudicato. Ciò anche in applicazione del principio di uguaglianza che vieta trattamenti differenti per situazioni uguali. A nulla rileva, poi, che in passato era prevista la medesima tempistica in quanto riferita a una causa attenuante non avente, come ora, efficacia estintiva del reato. L’interpretazione della Cassazione è importante perché può consentire la non punibilità per i procedimenti in corso al 22 ottobre 2015 per omesso versamento Iva, ritenute o indebita compensazione, se venga pagato - fino a quando non sia intervenuta sentenza definitiva - l’imposta non versata con sanzioni e interessi. No al sequestro preventivo oltre soglia a garanzia di future perdite di valore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione terza penale - Sentenza 28 settembre 2016 n. 40358. "Non è corretto ancorare la valutazione dei beni sequestrati ad un momento successivo a quello della loro apprensione". "Ancor meno lo è utilizzare i beni sequestrati quale sostanziale garanzia in caso di perdita di valore dei beni sequestrati agli altri coindagati quando il coacervo complessivo superi l’entità del profitto confiscabile". Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza 28 settembre 2016 n. 40358, qualificando come "arbitraria" e priva di "alcun fondamento logico-giuridico", la decisione del Tribunale di restituire al ricorrente solo la metà dei beni. Il Gip di Catanzaro ritenendo che vi fossero sufficienti indizi del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, aveva ordinato il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente, di beni corrispondenti al profitto quantificato nella misura di 27.672.490 euro. In particolare, il vincolo reale aveva investito beni di tutti i concorrenti nel reato. Nel 2013, sul presupposto che il valore dei cespiti nella disponibilità di un solo concorrente - pari a 42.000.000 - superava di gran lunga quello corrispondente all’intero profitto confiscabile, il Gip aveva ordinato la restituzione di un immobile del valore di 10milioni. Ciò nonostante, con l’ordinanza impugnata, il Tribunale dell’appello cautelare aveva disposto la restituzione "parziale" dei beni del ricorrente "sul rilievo che il patrimonio in sequestro (quello societario e quello personale del concorrente nel reato) è esposto a rischi di deprezzamento per effetto dell’andamento dell’economia nazionale e internazionale". Secondo l’ordinanza, infatti, "l’incertezza dei mercati economici e finanziari che interessano il Gruppo … potrebbe incidere sulla possibilità di ottenere, in sede di confisca, l’apprensione dei beni di valore corrispondente alla somma riportata nei decreti di sequestro". Sicché, non potendosi attribuire alle società "un valore certo e, soprattutto, non alterabile in negativo", la valutazione effettuata dall’amministratore giudiziario "non può essere considerata come immutabile nel corso del tempo". La Cassazione osserva che il Tribunale si è mosso lungo due direttrici: a) il pericolo della futura perdita di valore dei beni sequestrati al gruppo imprenditoriale; b) la conseguente necessità di mantenere il vincolo sui beni degli altri concorrenti al fine di scongiurare il pericolo. Tuttavia, ricordano i giudici di legittimità, "il possibile deprezzamento o diminuzione del valore del bene non rilevano perché la confisca di valore, costituendo una "forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti" di natura preminente sanzionatoria, non ha carattere risarcitorio e il sequestro ad essa funzionale non può assolvere alla funzione conservativa del valore del bene". Mentre, prosegue la sentenza, nel caso in cui vi sia una pluralità di indagati, "il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di profitto del reato a lui attribuibile, sempre che tale quota sia individuata o risulti chiaramente individuabile". Per cui invece quando "la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti". Parma: detenuti in sciopero della fame e presidio di protesta della Polizia penitenziaria parmatoday.it, 29 settembre 2016 Alcuni detenuti della Casa Circondariale all’interno del carcere di via Burla a Parma hanno intrapreso uno sciopero della fame per protestare per le condizioni del vitto all’interno dell’Istituto penitenziario cittadino che non è nuovo a forme di protesta di questo tipo. Secondo le prime informazioni i detenuti lamenterebbero la scarsità di cibo durante i pasti previsti per la giornata. Da tre giorni quindi alcuni avrebbero deciso di mettere in atto questa forma di protesta per fare pressione al fine di ottenere un miglioramento delle condizioni all’interno della struttura. Presidio della Polizia penitenziaria. "Si comunica - si legge in una nota di Sappe, Osapp, Uilpa, Cgil, Cisl Fns, Cnpp e Uspp - che le segreterie Provinciali e Regionali delle scriventi organizzazioni sindacali hanno indetto per la giornata del 30 settembre p.v., dalle ore 10,00 alle ore 12,00, un sit-in di protesta davanti agli II.PP. di Parma. Quanto sopra al fine di manifestare e denunciare il totale disinteresse dell’Amministrazione Penitenziaria, sia Centrale che Regionale, nei confronti delle forti e aumentate criticità che stanno interessando sempre più pesantemente la struttura detentiva parmense. In primis la gravissima carenza di oltre 100 unità di Poliziotti, a fronte di quanto previsto del Decreto Ministeriale del 2013, inerente la pianta organica, di cui oltre 70 unità distaccate presso altre strutture penitenziarie e/o uffici dipartimentali ed infine 23 unità di Polizia Penitenziaria in servizio presso il reparto 41 Bis della struttura Parmense e non impiegabili nei servizio d’istituto dalla Direzione perché alle dipendenze del Gruppo Operativo Mobile di Roma, che riverberano effetti in negativo l’esiguo organico attualmente in servizio presso gli II.PP. di Parma. Inoltre, l’inizio dei lavori per la costruzione del nuovo padiglione sta comportando ulteriori disagi operativi, con ulteriore aggravio di lavoro causato dalla conseguente necessità di dover provvedere a garantire la vigilanza dei cantieri interni, impiegando ulteriori unità di Polizia che, vengono ulteriormente sottratte alla già esigua aliquota presente, in ragione della predetta grave carenza. Manifestiamo per la netta contrarietà della stessa decisione di ampliare la presenza detentiva presso la sede di Parma, che non ha tenuto conto delle forti criticità già esistenti presso questa struttura, ed in assenza di qualsiasi comprensibile logica, che, a nostro parere, avrebbe dovuto consigliare, invece, di prevedere degli ampliamenti in sedi regionali ove gli ingressi di persone arrestate sia maggiore rispetto alla città di Parma, che in regione riteniamo sia quella meno interessata da tale fenomeno. Manifestiamo per il continuo ricorso a visite ospedaliere urgenti disposte, riteniamo a nostro parere, in maniera eccessiva, rispetto invece alla necessità che gli accertamenti vengano effettuati in ambito penitenziario, laddove vi sia una reale ed effettiva presa di coscienza che il ricorso a strutture sanitarie esterne, debba avvenire solo come extrema ratio e quando, soprattutto, è in pericolo effettivo la vita della persona detenuta. Non invece determinando un fenomeno di turismo sanitario presso i nosocomi cittadini. Manifestiamo per le continue assegnazioni di detenuti allontanati da altre sedi per motivi di opportunità e sicurezza, determinando inopportune concentrazioni di soggetti di difficile gestione intramuraria, che inevitabilmente incidono ulteriormente sul già gravoso carico di lavoro e responsabilità dei pochi operatori di polizia penitenziaria a disposizione. Il tutto è destinato, qualora perduri tale condizione, a ridurre ulteriormente i livelli minimi di sicurezza, con tutti i rischi che simili situazioni sono in grado di determinare, nonché la compressione dei diritti alle ferie e ai riposi dei Poliziotti Penitenziari. Si invita tutto il personale a partecipare all’iniziativa e a far sentire forte le nostre rivendicazioni". Milano: la promessa del governo "presto il nuovo direttore, rilanceremo l’Ipm Beccaria" di Zita Dazzi La Repubblica, 29 settembre 2016 Don Gino Rigoldi ha lanciato l’allarme dalle pagine di Repubblica e ieri il sottosegretario alla Giustizia è volato a Milano da Roma per verificare di persona che cosa succede al carcere minorile Beccaria. "Noi puntiamo molto su questo istituto e sul suo rilancio, risolveremo presto i problemi", promette Gennaro Migliore, inviato dal ministro Andrea Orlando. Il cappellano da 30 anni dell’istituto di via Calchi Taeggi è molto soddisfatto: "Ho avuto rassicurazioni sia sulle nomine del nuovo direttore del carcere, sia sul capo delle guardie. Ma soprattutto mi pare che il governo sia al nostro fianco per quanto riguarda il potenziamento dei corsi di formazione professionale per reinserire i detenuti nella società dopo la pena". E con l’obiettivo di "aprire il Beccaria alla città", dopo l’ispezione di ieri è stato deciso che si cercherà di rendere disponibile il teatro del carcere al quartiere, creando anche fisicamente un ingresso sulla strada, che si aggiungerà a quello esistente per il quale bisogna entrare dalla guardiola, con i controlli e le autorizzazioni del caso. "Questa è una bellissima notizia e va nella direzione che piace a me - dice don Gino - di aiutare i ragazzi a ripensarsi in termini positivi, dentro alla città, dopo aver pagato quello che devono pagare. Per tutti ci deve essere una seconda chance e il teatro è una bellissima opportunità. Chiederò alla Curia se è possibile aprire al quartiere le messe che celebrerò nella nuova cappella, appena i lavori saranno terminati". La ristrutturazione è quasi terminata: "Solleciteremo il ministero dei Lavori pubblici a consegnare in tempi brevi il nuovo padiglione", dice Migliore. E con questo i disagi dei 60 detenuti, costretti nella parte vecchia del carcere, malridotta e degradata, dovrebbero ridursi. Il sottosegretario Migliore e il capo del dipartimento della giustizia minorile, Francesco Cascini, hanno poi incontrato i ragazzi del Beccaria e le guardie, ascoltando le rispettive ragioni. Rigoldi aveva denunciato le numerose denunce a carico dei detenuti, il sindacato Sinappe aveva risposto che gli agenti lavorano "in un contesto precario sia sotto il profilo strutturale che in termini di gravosi carichi di lavoro e responsabilità, sempre pronti a fronteggiare, nonostante le difficoltà e la carenza organica, la gestione di soggetti psichiatrici autori di gesti di autolesionismo oltre alle consuete colluttazioni". Una mediazione l’hanno senz’altro tentata i dirigenti del ministero. "Ora mettiamoci al lavoro", auspica Rigoldi. Sondrio: i Radicali sostengono le rivendicazioni dei detenuti in sciopero della fame Comunicato stampa, 29 settembre 2016 A seguito della sciopero della fame in corso da parte della maggioranza dei detenuti nel carcere di Sondrio, a sostegno delle proprie richieste rivolte all’Amministrazione penitenziaria regionale ed al Tribunale di sorveglianza, Gianfranco Camero di Radicali Sondrio ha dichiarato: "I segnali di forte disagio erano chiari da diversi mesi ed era quindi prevedibile che si potesse arrivare a questa situazione apertamente conflittuale. Le dimissioni nel marzo scorso del Garante dei detenuti, Francesco Racchetti, che denunciava l’impossibilità di esercitare la sua funzione (peraltro sostenuto in questo senso dalle organizzazioni di volontariato nel carcere) rappresentava un campanello d’allarme. Sul Consiglio comunale sondriese che pure, in modo quasi unanime, ha espresso allora apprezzamento per la figura del Garante, sembra poi aver prevalso la posizione del Sindaco Molteni che, senza chiedere conto alla Direttrice della Casa circondariale di comportamenti che hanno portato all’allontanamento persino delle "Dame di S. Vincenzo", ha preferito lasciare che le acque si calmassero per bandire il concorso per la nomina di un nuovo Garante. Forse nella speranza di trovare qualcuno più "conciliante". Nel sostenere le pacifiche rivendicazioni espresse dai detenuti, ci associamo nel ribadire quale sia il nodo del problema, sollecitando le autorità competenti ad affrontare con coraggio la questione, prima che la situazione possa degenerare". Gianfranco Camero, per Radicali Sondrio Milano: a Opera i detenuti ex 41 bis disegnano i francobolli del Papa di Laura Secci La Stampa, 29 settembre 2016 Il cardinale Scola: "rivedere l’ergastolo ostativo". Ci sono momenti in cui quel divario atavicamente insanabile che separa la società tra chi la immagina al di là delle sbarre e chi la vive al di qua del muro, cede la parola alla libertà d’espressione. E per un attimo quel modo dicotomico e sbrigativo di incasellare "buoni" e "cattivi", bianco e nero, si sfalda, sotto il peso di immagini a colori, gesti e percorsi esistenziali fatti di molteplici sfumature. È quello che è accaduto mercoledì 28 tra le mura della casa di reclusione di Opera, a pochi passi da Milano. Nel pomeriggio il cardinale Angelo Scola passeggiava lentamente lungo i corridoi vicini al teatro, accompagnato dal direttore dell’istituto Giacinto Siciliano, mentre il detenuto Matteo Nicolò Boe illustrava gli oltre mille francobolli che compongono la mostra Vangelo filatelico. Un’esposizione realizzata da un gruppo di carcerati della sezione Alta sicurezza (ex 41 bis) che, coordinati dal giornalista e volontario Danilo Bogoni, hanno lavorato sui preziosi bolli donati loro da Papa Francesco. "Quello che avete fatto e continuerete a fare qui dentro sta creando nuovi attori sociali - ha commentato Scola nell’omelia - Perché è così che dovete sentirvi: attori sociali, non personali. Dovete vivere il tempo della pena, non subirlo. È per questo che mi auguro che il diritto italiano riveda e ripensi alla questione dell’ergastolo ostativo". Un tema controverso, quello scelto dal cardinale, che non manca di scaldare gli animi dei più blasonati costituzionalisti. Ma a tutt’oggi, il cosiddetto "fine pena mai", che condanna gli ergastolani al carcere a vita, escludendoli di fatto dal circuito rieducativo, continua ad essere previsto dal nostro ordinamento. In molti hanno, a buon diritto, sollevando l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, stigmatizzando che quando la pena travalica il confine che separa la forza (di cui lo Stato ha il monopolio legale) dalla violenza, è la legalità costituzionale ad essere violata. I detenuti con fine pena mai in Italia hanno superato quota 1.600, un dato che è cresciuto negli anni. Nel 2005 a dover scontare il carcere a vita erano in 1.224, nel 2007 sono passati a 1.347, nel 2009 a 1.461 e nel 2011 a 1.568 (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria). Scola ha ringraziato i detenuti del gruppo filatelico (Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio, Antonio Albanese, Nicola Mocerino, Diego Rosmini, Luigi Di Martino), "per come con pazienza, dedizione e offerta verso il prossimo affrontate questo tempo". Uno sguardo verso gli altri che non si limita ad un "mutuo aiuto" all’interno del circuito carcerario, come dimostra la raccolta fondi per le popolazioni terremotate del centro Italia. "In occasione di questo evento filatelico è stata realizzata una speciale cartolina, disegnata da un detenuto, in vendita 3 euro - ha spiegato Bogoni -. I carcerati, che non dispongono abitualmente di denaro contante, hanno compilato un’apposita "domandina", consegnata e firmata dall’amministrazione, per acquistare una o più cartoline il cui ricavato andrà ai terremotati. Fino ad oggi hanno raccolto oltre 600 euro". Contemporaneamente al taglio del nostro della mostra (resterà allestita fino al 10 ottobre) è stato presentato, una prima assoluta all’interno di un carcere - il francobollo "Visitare i carcerati" emesso dalla Città del Vaticano su illustrazione di Orietta Rossi che si è ispirata al Vangelo secondo Matteo. "Quando siamo sospinti all’incontro con l’altro - ha spiegato l’artista - per esempio facendo visita ai carcerati, non solo agiamo per pura umanità ma facciamo un atto di attenzione verso l’altro. Asti: ciclo di incontri "L’altra chiave. Un progetto innovativo per la Casa di reclusione" atnews.it, 29 settembre 2016 Il carcere di Asti è una fetta di mondo vissuto da molte persone che ricoprono ruoli diversi. La Polizia penitenziaria, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori sanitari e i volontari che lavorano con i 280 detenuti presenti in struttura. Persone che ogni giorno svolgono un lavoro educativo complesso. L’Istituto di pena è stato recentemente trasformato in Casa di reclusione per detenuti Alta Sicurezza. Questo importante cambiamento determina l’esigenza per tutto il personale che vive il carcere a stretto contatto con i detenuti, di acquisire strumenti, conoscenze, metodologie innovative che possano facilitare la convivenza. Non si tratta dunque di un mondo statico, ma in movimento che è spinto dalla voglia di migliorarsi per svolgere il proprio ruolo in modo sempre più qualificato, riducendo la dimensione conflittuale che la vita quotidiana del carcere comporta e facilitando la progressiva apertura a un dialogo costruttivo con il territorio. Ma noi che stiamo "fuori", quanto sappiamo davvero di questo mondo e delle realtà che vi convivono? "Dentro" e "fuori" hanno bisogno di chiavi di lettura per conoscersi e riconoscersi come parti organiche della società. È da questo bisogno che nasce L’altra chiave. Un progetto innovativo che prevede un ricco percorso formativo che si compone di lezioni tecniche e laboratori dedicati al personale in carcere e di seminari aperti a tutti gli interessati. L’altra chiave intende infatti condividere una parte dei percorsi di formazione e approfondimento con la cittadinanza, attraverso 4 incontri pubblici. Un’occasione formativa importante per docenti e operatori sociali, che vede protagonisti relatori d’alto profilo. Con loro si approfondiranno il radicamento e l’evoluzione della criminalità organizzata in Piemonte. Perché riconoscere e capire questi fenomeni è la base per agire sul controllo del territorio in modo preventivo ed educativo. Tutti gli incontri sono validi per i crediti formativi degli iscritti all’Ordine dei Giornalisti. Libera è ente formatore accreditato dal Miur. Al termine del corso sarà rilasciato regolare attestato di partecipazione agli insegnanti. "Trasformare i conflitti in carcere" mercoledì 5 ottobre, ore 17 Sala Pastrone, Asti Un progetto innovativo per l’Istituto di pena che è stato recentemente trasformato in Casa di reclusione per detenuti Alta Sicurezza Interverranno: Elena Lombardi Vallauri - Direttrice della Casa di Reclusione di Asti Anna Cellamaro - Garante per idiritti dei detenuti Asti Adolfo Ceretti - professore ordinario di criminologia presso l’Università di Milano Bicocca Federica Brunelli - Dike Cooperativa per la Mediazione dei Conflitti di Milano Coordina Carlo Cerrato, giornalista Prossimi incontri: 12 ottobre, Sala Pastrone ore 17 "L’evoluzione della criminalità organizzata in Piemonte" Interverrà: Marco Martino, Capo squadra mobile di Torino Coordina: Selma Chiosso, giornalista 23 novembre, Sala Pastrone h 17 "Capire e riconoscere le mafie. Radicamento ed espansione territoriale" Rocco Sciarrone Docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Torino e direttore di LARCO (Laboratorio di Analisi e Ricerca sulla Criminalità Organizzata). Coordina: Selma Chiosso, giornalista 8 febbraio 2017, Sala Pastrone h 17 "Carcere e territorio in dialogo: nuove prospettive per la giustizia riparativa" Claudia Mazzucato - docente di Diritto Penale presso l’Università del Sacro Cuore di Milano Adolfo Ceretti - professore ordinario di criminologia presso l’Università di Milano Bicocca Coordina Carlo Cerrato, giornalista Rimini: avvocatura al confronto su competenze e rappresentanza di Giusy Pascucci Italia Oggi, 29 settembre 2016 Il XXXIII Congresso Nazionale Forense. Una nuova figura dell’avvocato con una funzione più sociale che nel ramo civile risponda alla tutela dei diritti del cittadino "fuori dal processo" mentre in ambito penale garantisca maggiori competenze e qualificazione nella difesa d’ufficio. E al centro la riscrittura della rappresentanza politica dell’avvocatura. Sono queste le sfide oggetto del confronto che avrà luogo nel corso del XXXIII Congresso nazionale forense dal titolo "Giustizia senza processo? La funzione dell’Avvocatura", in programma dal 6 all’8 ottobre a Rimini, i cui contenuti sono stati presentati ieri a Roma e al quale parteciperà anche il ministro della giustizia Andrea Orlando. "Con questo congresso vogliamo cogliere l’occasione per riaffermare il ruolo dell’avvocatura e rilanciare una funzione sociale, stimolando una riflessione sul futuro e sulle risposte che possiamo dare al cittadino", ha spiegato Giovanna Ollà, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Rimini illustrando i dettagli del programma del congresso, "serve un diverso modo culturale di intendere l’avvocato che deve difendere e tutelare i diritti sempre più fuori dalle aule di giustizia civile ed essere sempre più competente nella difesa d’ufficio penale. Riproponiamo poi il tema della rappresentanza politica dell’avvocatura con un importante dibattito sia a livello istituzionale sia associativo e con una proposta di modifica strutturata che preveda anche la partecipazione dei vari consigli dell’Ordine". La debolezza della rappresentanza è stata messa in luce, poi, da Mirella Casiello, presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura che ha sottolineato come su 240 mila avvocati in Italia solo 35 mila partecipino alle elezione dei delegati. "Vogliamo spingere i nostri colleghi ad interessarsi alla rappresentanza e per farlo vogliamo capire cosa vogliono veramente", ha precisato la Casiello. "Un primo passo in tale direzione è stato fatto in commissione giustizia del senato dove l’Oua ha presentato un documento per il ripensamento del sistema elettorale dei Consigli dell’ordine, lasciando agli avvocati la libertà di scegliere i proprio consiglieri attraverso la via maggioritaria". La Casiello si è poi soffermata sulla necessità di trovare forme alternative di risoluzione delle controversie più convenienti per i cittadini a metà tra mediazione e negoziazione assistita, rimarcando di voler chiedere a ministro Orlando il riconoscimento del legittimo impedimento e dell’equo compenso per gli avvocati. Aria di cambiamento anche per la Cassa forense che, come evidenziato dal vicepresidente Valter Militi "sta cercando di cambiare la propria mission con nuove e diverse politiche previdenziali e assistenziali nei confronti degli avvocati. Il Congresso sarà un momento fondamentale per lo scambio di idee e per trovare soluzioni il più possibile condivise". Una mediazione più funzionale, la possibilità di ricorrere all’arbitrato amministrato e la prospettiva di spostare altre materie su tavoli non giudiziali sono, invece, alcuni dei cambiamenti fondamentali di cui la categoria ha bisogno secondo Andrea Pasqualin, consigliere del Cnf. Mentre per Giuseppe Picchioni, vicepresidente del Consiglio nazionale "solo facendo funzionare al meglio le misure alternative al processo civile si riuscirà a salvaguardare al meglio i diritti dei cittadini. Nel penale invece è sempre più importante evitare la spettacolarizzazione mediatica e ribadire l’importanza della difesa nel processo". Libri. "Per una madre", la Sicilia di Carmelo Sardo tra carceri, boss e mafia Ansa, 29 settembre 2016 "Una storia di espiazione e famiglie spezzate, un inno alla vita". Così Carmelo Sardo, giornalista siciliano e autore di romanzi di successo come "Vento di Tramontana" e "Malerba" (premio Sciascia, tradotto in oltre 10 Paesi, scritto a quattro mani con l’ergastolano Giuseppe Grassonelli, condannato per mafia e diventato un caso editoriale) racconta la sua ultima fatica, "Per una madre", (edito da Mondadori, pagg. 362, euro 19). Il romanzo è stato presentato alla libreria Mondadori di Palermo, insieme all’attrice Stefania Orsola Garello. Un libro nato in un contesto in cui i "codici taciti del carcere venivano rispettati da tutti pur essendo fuori da ogni regola legale" e cioè nella prigione di massima sicurezza di Favignana, a castel San Giacomo, nel 1982, durante l’esperienza del servizio di leva vissuta da Sardo tra gli agenti di custodia. "Un’esperienza durissima, ma anche uno svezzamento incredibile, avevo 20 anni - ricorda l’autore - In quelle celle scavate sette metri sotto terra, dove i reclusi boccheggiavano d’estate e gelavano d’inverno, ho affrontato il caso di un detenuto che si è dato fuoco, e una serie di violenze e privazioni subite da chi è condannato a un ‘fine pena maì cosi assurdo che persino i computer non accettano, al punto da dover scrivere nel sistema ‘31 dicembre 9999’. Ho così imparato ad andare oltre i pregiudizi e ascoltare le loro storie che poi trascrivevo in dei quaderni. Da lì è nato un rapporto che oserei definire di amicizia con un boss che aveva intrapreso un percorso di recupero e che voleva riscattare la sua esistenza generando un erede, con la complicità di noi guardie, durante l’ora dei colloqui con la moglie. Un patto che ho accettato e che mi ha tormentato per anni". Un’angoscia esorcizzata attraverso la scrittura, immaginando un destino diverso per il figlio di un boss. "Riscatta il padre diventando avvocato - spiega l’autore - ma non resiste al richiamo della Sicilia dove torna per scoprire se, come gli era stato raccontato, è stata davvero la mafia a uccidere la madre in un agguato". Un giallo che intreccia "la luce al lutto, scombussola esistenze e intreccia i destini delle persone - dice Sardo - un inno alla vita che spero faccia filtrare qualche riflessione sulla detenzione, come gli altri miei libri. Non a caso stiamo lavorando alla presentazione del romanzo in alcune carceri, come quello di Opera, a Milano". Aiutare i migranti a casa loro? Funziona, ma solo in parte di Alberto Mingardi La Stampa, 29 settembre 2016 L’Unione europea stanzierà 88 miliardi per lo sviluppo dell’Africa e del Medio Oriente. Elite di governo e piazze arrabbiate per una volta sono d’accordo: aiutiamoli, sì, ma a casa loro. L’idea ha una sua plausibilità. Se la situazione nei Paesi di provenienza fosse meno disperata, i migranti sarebbero meno propensi a mettere a repentaglio tutto quel che hanno, per il sogno di raggiungere l’Europa. Il problema è che, in Europa o in Nord Africa, la crescita è sempre più facile a dirsi che a farsi. Il dibattito sugli aiuti allo sviluppo è iniziato dopo la seconda guerra mondiale, con la decolonizzazione. La logica per cui i trasferimenti di denaro dai Paesi sviluppati dovesse "aiutare" quelli che sviluppati non erano affonda le sue radici nell’idea di "appropriazione originaria". Per Marx, la borghesia aveva "accumulato" capitale per generazioni, prima che questo potesse dare origine alle innovazioni della Rivoluzione Industriale. Il foreign aid avrebbe dovuto costituire una versione accelerata e concentrata dello stesso fenomeno. "Possedere denaro è il risultato dell’attività economica, non la sua precondizione". A notarlo fu un economista empirico della London School of Economics, Peter Bauer, che sfidò il consenso dominante. Per Bauer, "se sono presenti tutte le condizioni necessarie allo sviluppo, tranne il capitale, quest’ultimo verrà presto generato localmente, oppure le autorità o i soggetti privati potranno ottenerlo dall’estero a condizioni di mercato. Se, invece, le condizioni necessarie allo sviluppo non sono presenti, gli aiuti risulteranno necessariamente improduttivi e, pertanto, inefficaci". Gli aiuti da-governo-a-governo sono intermediati dalle istituzioni pubbliche. Ma in Paesi in cui non c’è certezza del diritto, i contratti sono carta straccia e la proprietà privata è considerata "a disposizione" del governante pro tempore, neanche la manna dal cielo riesce a innescare lo sviluppo. Al contrario, gli aiuti possono avere effetti perversi. William Easterly, economista della New York University con un passato alla Banca Mondiale, ha più volte sottolineato il problema. Il suo ultimo libro, "La tirannia degli esperti", è un j’accuse alla visione "tecnocratica" della crescita economica, esportata dalle grandi istituzioni internazionali. Per avere crescita non basta azionare le leve giuste: istituzioni e cultura sono di importanza cruciale e tendono ad evolversi lentamente. Sugli aiuti allo sviluppo ha espresso grande scetticismo anche Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia nel 2015. Nel suo ultimo libro, Deaton parla di una "aid illusion", "l’errata convinzione che la povertà del mondo potrebbe essere eliminata se solo i ricchi - o i Paesi ricchi - dessero più soldi ai poveri o ai Paesi poveri". Per Deaton, il dramma è che ogni tanto le buone intenzioni finiscono per consolidare regimi liberticidi. L’esempio più chiaro è lo Zimbabwe di Mugabe, dove ancora nel 2010 il 10% del Pil proveniva da aiuti allo sviluppo. Ma è la natura stessa del foreign aid ad essere paternalistica se non antidemocratica. "I donatori decidono questioni che dovrebbero essere lasciate ai loro beneficiari. I politici dei Paesi donatori - persino i più democratici - non hanno titolo per dire se in Africa sia il caso di dare alla lotta all’Aids una priorità più alta che all’assistenza pre-natale". L’economista "di sinistra" Deaton cita con approvazione l’economista "di destra" Bauer, ma tiene aperto uno spiraglio. Aiuti fortemente "selettivi" potrebbero funzionare meglio: "Si potrebbe esigere che, prima di chiedere sostegno, i governi assistiti dimostrino il proprio impegno ad attuare politiche che vanno a beneficio della popolazione", come fa la Millennium Challenge Corporation del governo americano. Disegnare programmi realistici e realizzabili per "aiutarli a casa loro" è dunque molto difficile. Rendere più difficile per quei Paesi raggiungere potenziali acquirenti dei loro prodotti invece è facilissimo. Proprio i populisti che più insistono sull’ "aiutarli a casa a loro" nel contempo invocano dazi e barriere per proteggere le produzioni agro-alimentari europee. Sono le stesse forze politiche che hanno protestato per la decisione di limare i dazi sull’olio tunisino, o che alzano la voce contro l’accordo col Sud Africa che agevola l’importazione di agrumi. L’"aiutiamoli a casa loro" è uno slogan che si scontra con il nazionalismo economico e la prosaica necessità di garantire specifici gruppi d’interesse. Investire in "foreign aid" può servire a ripulirci la coscienza mentre scegliamo di impegnarci in una politica di respingimenti. Può forse comprare la disponibilità dei loro governi ad impedire la libertà di movimento dei migranti. Questi sono obiettivi raggiungibili. Lo sviluppo di quei Paesi, purtroppo, lo è di meno. L’informazione on line è impacchettata "dal basso" di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 29 settembre 2016 Media digitali. Presentata ieri l’inchiesta del Censis "I media tra élite e popolo". Nessuna differenza significativa tra gli italiani e gli altri abitanti del continente europeo. E se l’azzardo vale qualcosa: gli abitanti dello stivale si comportano come i loro omologhi statunitensi nel rapporto con i media digitali. Il primo dato che emerge da un rapporto I media tra élite e popolo sulle piattaforme digitali, stilato dal Censis con la Ucsi e presentato ieri a Roma, è che i due terzi della popolazione italiana è connesso alla Rete. Lo strumento privilegiato per accedere all’informazione nel web è lo smart phone (64,8 per cento), seguito dal tablet (28,3 per cento). Il rapporto fa emergere una differenza generazionale tra gli utenti della Rete. 95 giovani al di sotto dei trent’anni è on line, mentre solo 31 uomini e donne al sopra dei 65 anni accede a Internet. I social network sono le piattaforme più usate. Facebook impazza in ogni età, mentre Istagram, You Tube seguono a ruota, anche se in questo caso a fare la parte del leone sono teenager e under 35. Si colloca in buona posizione WhatsApp. Il servizio di messaggistica è infatti usato dal 61,3 per cento degli internauti. Non pervenuti, invece, i dati di chi ha abbandonato il servizio di proprietà di Facebook: un dato segnalato da molte altre inchieste nei paesi europei. Un fattore che andrebbe studiato a fondo, visto che quelle stesse inchieste individuavano l’indisponibilità di molti teenager a cedere le proprie biografie a Facebook, preferendo altri messaggerie (Snapchat, ad esempio) più rispettose della privacy e dell’anonimato. Fin qui niente di sconvolgente. L’inchiesta del Censis conferma infatti le tendenze già evidenziate nel 2015. Più significativi sono invece i dati che riguardano l’accesso all’informazione. Confermato il ruolo centrale della televisione nel consumo di informazione di intrattenimento (il 97 per cento della popolazione possiede un televisore) e resta stabile il numero di utenti della pay tv. Il 43 per cento della popolazione ha infatti avuto almeno un contratto con una televisione satellitare, mentre è in calo la percentuale di accesso alla tv via Internet. Brutte notizie invece per la carta stampata: negli ultimi dieci anni il 45 per cento degli acquirenti dei quotidiani hanno smesso di andare in edicola. Negli stessi anni, i consumatori digitali di notizie sono diventati il 31,4 per cento della popolazione. Poco o nulla dice il Censis sul fatto che questa "migrazione" verso la Rete sembra non arrestarsi. L’unico commento che l’istituto di ricerca italiano riserva a questa tendenza è il formarsi di un digital press, perché il dato più preoccupante è la crescita degli italiani disinteressati all’informazione, sia cartacea che in formato digitale (la stima parla del 31,4 per cento della popolazione). Nulla viene detto riguardo le perdite di entrate: non sono compensate dalla crescita (+35,8 per cento) di abbonamenti di quotidiani, settimanali, mensili on line. L’assenza di un business model per il digitale è il non detto dell’inchiesta del Censis, alla luce anche del dato, emerso in altre inchieste, che chi va in rete vuol leggere e vedere contenuti informativi gratuitamente. Infine, il dato che il Censis mette in evidenza: sono le donne che privilegiano l’informazione all’entertainment in Rete. Il 74,1 per cento dei consumatori di informazione è donna. C’è infine un passaggio dell’inchiesta che risulta fuorviante e oscura. Secondo i ricercatori, gli elementi raccolti testimoniano il fatto che è forte la tendenza a personalizzare l’accesso all’informazione. L’ipotetico giornale quotidiano viene costruito assemblando articoli, saggi, video provenienti da fonti distinte e spesso espressione di punti di vista opposti. Per il Censis, questo significa che siamo di fronte a un passaggio da un modello "tele-centrico" a una concezione egocentrica dell’informazione. È una personalizzazione "dal basso", agita cioè dal singolo. Se per il Censis, questa è espressione di una non meglio precisata erosione dell’intermediazione, in Rete significa che le testate giornalistiche non riescono a catturare l’attenzione dei singoli. Cosa che invece possono fare le "firme" di giornalisti considerati autorevoli. Risulta molto chiaro il fatto che i siti internet gestiti da non professionisti attirino attenzione, mentre sono in crescita testate giornalistiche che dichiarano espressamente di essere indipendenti e di non avere editori alle spalle. Un fenomeno diffuso che viene catalogato come citizen journalism, "giornalismo narrativo", data journalism: tutte espressioni che evidenziano la corrosione della legittimità del giornalismo come unico mezzo per produrre informazione. Solo l’educazione ferma la giostra maledetta del web di Titti Marrone Il Mattino, 29 settembre 2016 Inutile illudersi, lo abbiamo imparato a spese di Tiziana Cantone, suicida per l’insopportabile gogna piovutale addosso con il video hard dilagato in rete: non c’è polizia postale né sentenza della magistratura che tenga, non c’è provvedimento legislativo o intervento statale in grado di fermare la giostra della malevolenza vigliacca inscenabile via web. Quando un video così finisce in rete, acquisisce un sinistro statuto di eternità più forte di qualsiasi diritto all’oblio e il frame, reiterato innumerevoli volte, diventa impossibile da rimuovere. Lo sappiamo, ma questa consapevolezza non blocca certo il dilagare dell’uso sommamente antisociale dei social, a base di foto e video di ragazzine o giovani donne esibiti o rubati e poi veicolati con l’effetto di dileggiare, di distruggere reputazioni, inchiodare identità sempre femminili all’immagine di un momento. Il gioco malvagio continua, non si ferma, tant’è che a Pozzuoli è stato segnalato il nuovo caso della diciannovenne apparsa in un video circolato su whatsapp con il consueto corredo d’ingiurie. Da Selvaggia Lucarelli, la giornalista e blogger che ha denunciato la storia di Pozzuoli e sta costruendo un’autentica battaglia social contro gli abusi online, è partito anche l’allarme sul possibile transito già avvenuto del video da whatsapp a una serie di siti pornografici. Ma prima che la giostra prenda a girare vorticosamente come un tritacarne distruttore, prima che la rete se ne faccia veicolo e puntando a far sì che non accada, all’allerta lanciato sulla storia di Pozzuoli si può forse aggiungere un altro segnale. Un invito a non fare della morte di Tiziana Cantone l’occasione di rammarichi ipocriti e solo declamati. Perché la sua fine ha svelato nel peggiore dei modi uno dei possibili lati oscuri del web. E allora da lì, da quella morte assurda, si deve partire tentando di dare senso e concretezza all’espressione "mai più". Ottenere che non ci siano mai più altri video in rete indicizzati con centinaia di diversi nomi, come quello che ha dato Tiziana in pasto alla gogna collettiva, può fermare il gioco crudele. Forse è un eccesso di ottimismo quello che mostra l’affiorare, adesso, di una sensibilità diversa e diffusa sulla pericolosità del lato oscuro del web, costruita purtroppo con il senno di poi, dopo il gesto di autolesionismo estremo di Tiziana. E non deve suonare assurdo, però proprio guardando alla sua storia si capisce che la gogna dei social si arresta con un argine fatto di tutela, prevenzione e in più con un’educazione a un’etica digitale che non esiste ma bisogna darsi. Vigilando sulle frequentazioni dei social da parte dei minori. Evitando di assegnare a internet la funzione di baby sitter per bambini e ragazzini lasciati liberi di navigare a piacimento. Non esagerando con la storia dei "nativi digitali" fino al punto di fornire di iPhone i propri figli ancor prima dei dieci armi. È un compendio educativo oggi indispensabile per proteggere i bambini, gli adolescenti, le tante ragazze e ragazzine giustamente consapevoli del proprio diritto di sentirsi e mostrarsi belle, ma che qualche volta, per eccesso di autocompiacimento o perché "così fan tutti" o per gratificare la vanità di un partner, possono cadere nelle maglie della rete e rimanerne invischiate. Quello che servirebbe è contrastare il lato oscuro del web con una rete virtuosa, tessuta insieme da vari attori: polizia postale, magistratura, ma anche gestori dei social e prima ancora genitori, scuola. Per veicolare insieme il messaggio che non c’è niente di "cool" nel postare immagini che cancellano ogni distinzione tra pubblico e privato, tra intimo e collettivo. E azzerando ogni confine, regalano in giro visioni di situazioni da tenere per sé a sguardi voraci, pronti a colpire nell’ oscurità della rete con il grimaldello di quelle stesse immagini trasfigurate in sberleffo cattivo e indelebile. La Repubblica europea che rischia di crollare di Paolo Lepri Corriere della Sera, 29 settembre 2016 Convincere il tempo a fermarsi non è mai stata, purtroppo, una soluzione alla portata degli uomini. Non funziona nella storia e meno che mai nella vita. È solo una eroica utopia al contrario, riservata soprattutto ai sognatori. Proprio per questo nessuno si sarebbe mai aspettato che una leader cosi poco fantasiosa come Angela Merkel, commentando dieci giorni fa la sconfitta del suo partito nelle elezioni del Land di Berlino, esprimesse il desiderio impossibile di riportare indietro le lancette dell’orologio. Si sarebbe così potuto affrontare in modo più organizzato la crisi dei rifugiati e mettere meglio a punto le politiche di accoglienza per i dannati della terra che stanno cambiando tutto quello che vediamo intorno a noi. Sentire la cancelliera ragionare come Jorge Luis Borges è l’ultimo paradosso degli anni difficili che stiamo attraversando. Pensando ancora al grande scrittore argentino, il vero pericolo è che l’ex donna più potente del globo e gli altri leader europei si ostinino ad agire come il protagonista di un suo celebre racconto, Pierre Menard, autore del Chisciotte, l’uomo che decide di riscrivere il capolavoro di Cervantes senza cambiarne una virgola. Nel mondo borgesiano si trattava di un’operazione geniale e raffinata, mentre i Don Chisciotte riscritti dai governanti che guidano le nostre sorti hanno invece l’inconfondibile sapore del plagio e del già detto. Ci attendiamo da loro nuovi libri, perché almeno una parte della nostra storia si è interrotta. La "prima repubblica europea" sta finendo. Ne dobbiamo prendere atto, lasciando da parte le nostalgie. Dobbiamo renderci conto che il grandioso sforzo di integrazione di cui siamo stati protagonisti minaccia di crollare. Forse era oggettivamente imperfetto: l’impresa di coniugare progressive cessioni di sovranità con il persistere "normale" di interessi nazionali si è rivelata quasi impossibile. Certo, mentre il Don Chisciotte veniva riscritto più volte, la rottura epocale della separazione politico-geografica con il terzo mondo e la rivoluzione permanente dell’islamismo (non solo, va detto, quella del jihadismo) avrebbero incrinato anche entità ben più solide di questa Unione europea realizzata faticosamente, un passo alla volta, dall’impulso distratto dei Paesi fondatori. Ma questa è solo un’attenuante. Gli allarmi non sono mai stati ascoltati. È lecito chiedersi che cosa altro dobbiamo attendere per sperare che a Bruxelles, o nella prossima Bratislava, ci si occupi finalmente della vita delle persone. Se tutto questo è vero, bisognerà introdurre sempre di più un concetto di "responsabilità generale" della politica al di fuori dei confini nazionali. Mentre è apparso sempre più ovvio nel corso degli anni, da Maastricht in poi, che le scelte di un Paese nel versante dell’economia influivano sugli altri (anche se questa realtà è stata interpretata talvolta con egoismo e arroganza) la politica ha fatto gioco a sé, cercando nel migliore dei casi di indirizzare alcune di quelle scelte in modo da privilegiare le ragioni del rigore o quelle della crescita. Ma bisogna ora riflettere, in un piano più generale, su una "interdipendenza" della politica nel "nocciolo duro" di una comunità di Stati che deve evitare di essere travolta dai problemi irrisolti. La sconfitta di uno è la sconfitta di tutti. Condividere le iniziative per far vivere meglio i cittadini europei e per difendere la loro sicurezza (sul doppio versante dell’immigrazione e della lotta al terrorismo) è una necessità immediata. Non può essere più il risultato lento, sempre insoddisfacente, di uno sforzo di unità elaborato. Le grandi emergenze vanno affrontate in modo bipartisan a livello politico, utilizzando le forze responsabili residue. E triste vedere un grande vecchio come il cristiano-democratico Wolfgang Schäuble dire che dai vertici socialisti "non escono mai proposte intelligenti" e i dirigenti progressisti (come per esempio il presidente della Spd Sigmar Gabriel) fare un ambiguo gioco di sponda guardando sempre alla tenuta dei più affezionati dei loro disaffezionati elettori. In ogni caso, comunque, le grandi "famiglie" politiche europee vanno rifondate. Cambiare molto, cambiare uomini, cambiare stile, magari cambiare anche nome può essere una svolta determinante, non solo in sé e per sé ma anche per gli effetti che potrebbe produrre sulla governabilità di tutti. Quello che sta avvenendo in Germania e Francia sembra essere lo schema per un manuale sulla instabilità del futuro. I cristiano-democratici e i socialdemocratici tedeschi potrebbero addirittura faticare a raggiungere la maggioranza nelle prossime elezioni, creando il precedente assoluto di una "grande coalizione" minoritaria. In Francia il tracollo della sinistra di governo produce geometrie nuove che hanno sempre al centro l’estrema destra di Marine le Pen. Arrivano in continuazione segnali inquietanti, per i valori civili,da molti Paesi che hanno scelto di entrare in un club del quale non vogliono più accettare le regole. Non vogliamo dire che lo sgonfiamento dei partiti di massa o il prevalere di formazioni dai tratti radicali provochi automaticamente il diluvio. Il popolo è sovrano, naturalmente, in un quadro di riferimento spiegato assai bene su questo giornale da Sabino Cassese. Ma la ripulsa verso l’edificio europeo che abbiamo costruito mina alla base il contratto democratico con la rappresentanza politica stabilito nel nostro mondo libero a partire dal secondo dopoguerra. La questione di fondo è sempre la stessa: le forze anti-sistema possono essere ridimensionate solo se si sciolgono veramente, con un gigantesco e disinteressato sforzo comune, tutti i nodi che le hanno fatto crescere. Non giriamo la testa dall’altra parte. La storia ci ricorda catastrofi percepite troppo tardi nella loro realtà. Per tornare all’orologio di Angela Merkel, il tempo delle democrazie europee può scadere. Brasile. Il presidente Temer sarebbe disposto a riconsegnare Cesare Battisti all’Italia di Giuseppe Bizzarri Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2016 Non è giunto del tutto inatteso, l’ennesimo tentativo dell’Italia di riavere dal Brasile l’ex membro dei Proletari armati per il comunismo (Pac), Cesare Battisti, il quale teme che il presidente Michel Temer - considerato da milioni di brasiliani golpista e reazionario, poiché ha guidato il travagliato impeachment della presidente Dilma Rousseff - apra un cammino per potere estradare l’ex terrorista italiano. Battisti, condannato in contumacia in Italia per omicidi commessi durante gli anni di Piombo, vive nel paese sudamericano grazie a una decisione dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, il quale nel 2010 - come ultimo atto della sua presidenza - annullò la sentenza d’estradizione del Tribunale supremo federale. Dopo le nuove misure adottate dal ministro della giustizia, Alexandre de Moraes - il quale in pochi giorni ha espulso a luglio, senza essere sottoposto a un processo, il franco-algerino Adléne Hicheur, professore di fisica all’Università federale di Rio de Janeiro - i legali brasiliani dell’ex leader dei Pac, hanno fatto richiesta a titolo precauzionale di habeas corpus a favore del proprio cliente. La richiesta è stata ricusata dal giudice Luiz Fux, poiché non si denota nessuna minaccia d’estradizione per l’ex terrorista. "Il governo italiano brucia fortune per mantenere la tensione sul caso Battisti. Lo fa nella speranza che la scelta di Lula possa essere rivista da una nuova amministrazione politica brasiliana, nonostante che, giuridicamente, il processo non potrà essere riaperto", afferma il professore dell’Unicamp e attivista dei diritti umani, Carlos Lungarzo. I segni del tentativo di catturare Battisti, secondo l’autore del libro Gli scenari occulti di Battisti, edito in Francia e in Brasile, sono stati chiari ad agosto, quando il primo ministro Matteo Renzi si è recato per le Olimpiadi a Rio de Janeiro. "L’unica questione aperta è Cesare Battisti. Continueremo a chiedere alle autorità brasiliane la massima cooperazione per estradarlo. Vediamo quali saranno le valutazioni del governo (Temer, ndr)" ha affermato Renzi alla Folha de São Paulo. Tecnicamente è quasi impossibile che il processo contro Battisti possa essere riaperto, le probabilità diminuiscono ancora di più se si pensa al fatto che l’italiano è sposato e ha un figlio da mantenere; ma è anche vero che la Costituzione e il voto di circa 54 milioni di brasiliani non sono stati rispettati per rimuovere Rousseff eletta democraticamente alla presidenza. Certo è raro che il Brasile estradi stranieri sposati con figli, l’ulti ma volta è stato all’epoca in cui Getúlio Vargas riconsegnò ad Adolf Hitler l’ebrea comunista tedesca, Olga Benário Prestes, la quale era incinta di Luís Carlos Prestes, il grande leader comunista brasiliano. All’epoca, e prima della rottura delle relazioni diplomatiche, Vargas comprava armamenti dalla Germania nazista, ma anche dall’Italia fascista. Durante la sua visita olimpica, Renzi ha annunciato l’arrivo di una nutrita task force d’industriali e manager italiani, che arriveranno a novembre, dove vorrebbero investire massicciamente nel paese in cui la devastante crisi economica, ma soprattutto politica non accenna a fermarsi. Israele. L’omaggio al "pacifismo" di Peres rischia di imbarazzare Netanyahu di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 settembre 2016 Obama e numerosi leader occidentali attesi a Gerusalemme per l’addio all’ex presidente israeliano. L’omaggio alla figura di Peres potrebbe mettere in difficoltà il premier di destra. I media israeliani parlano dei riti funebri per Shimon Peres, previsti domani, come i funerali di stato più imponenti dalla morte di Nelson Mandela nel 2013. L’ex presidente israeliano sarà seppellito vicino alla tomba di Yitzhak Rabin, sul Monte Herzl di Gerusalemme. L’arrivo nelle prossime ore di tanti di capi di stato e di governo paralizzerà per gran parte del giorno la città e l’autostrada per Tel Aviv. Tra i tanti nomi spiccano quelli di Barack Obama, del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, del presidente francese Hollande, della cancelliera tedesca Merkel. Non ci saranno Donald Trump e Hillary Clinton ma la candidata democratica sarà rappresentata dal marito ed ex presidente Bill Clinton, che lavorò con Peres e Rabin durante gli anni degli Accordi di Oslo. Non verrà neanche papa Francesco, contrariamente alle voci girate ieri mattina. E non è ancora confermata la presenza del presidente palestinese Abu Mazen. Quanto all’Italia la scelta sarebbe tra il presidente del Consiglio Renzi e il capo dello stato Mattarella (peraltro atteso in Israele tra circa un mese), altrimenti arriverà il presidente del Senato Grasso. L’arrivo a Gerusalemme di Barack Obama e di tanti altri leader internazionali potrebbe avere riflessi indiretti in diplomazia e creare qualche imbarazzo al premier israeliano Netanyahu. Certo, stiamo parlando di funerali ma Obama, Abu Mazen (se ci sarà) e altri presidenti e primi ministri enfatizzeranno la disponibilità di Peres a raggiungere un accordo con i palestinesi, finendo per contrapporre la linea dell’ex presidente a quella dell’attuale primo ministro di Israele. "Shimon Peres era un caro amico che non ha mai smesso di credere nella possibilità di arrivare alla pace", ha commentato ieri Obama rendendo omaggio all’ex capo di stato israeliano. "Ci sono poche persone - ha aggiunto il presidente americano - con cui condividiamo questo mondo, che cambiano il corso della storia…Shimon non ha mai smesso di credere nella pace tra israeliani, palestinesi e vicini di Israele, neanche dopo la tragica notte di Tel Aviv che portò via Yitzhak Rabin". Parole di circostanza secondo alcuni. Per altri invece inviano segnali a Netanyahu con il quale Obama continua ad avere rapporti personali difficili, anche se l’Amministrazione Usa ha regalato qualche giorno fa a Israele un piano di aiuti militari per 38 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. I funerali di domani perciò potrebbero rivelarsi, attraverso l’esaltazione del "pacifista" Peres, una sorta di raduno informale sulla situazione israelo-palestinese. Abu Mazen vuole esserci anche lui al "raduno della pace", dicono fonti di Ramallah, e ieri ha definito Peres "Un partner coraggioso per la pace…(che) ha condotto sforzi sostenuti e ininterrotti per arrivare agli accordi di Oslo e fino all’ultimo respiro". Netanyahu, che ugualmente ha avuto parole di elogio per Peres, del quale fu un accanito avversario prima e dopo la firma degli accordi di Oslo, seguirà con attenzione le dichiarazioni di Obama e degli altri leader che prenderanno parte ai funerali. Sarà cauto e non è certo un caso che il Comitato di pianificazione edilizia di Gerusalemme, che avrebbe dovuto discutere ieri del progetto di costruzione di altre 76 unità abitative nella colonia di Gilo, tra Gerusalemme e Betlemme, abbia deciso di rinviare per la seconda volta la sua riunione per non creare, spiegava l’edizione on line del quotidiano Yediot Ahronot, incidenti diplomatici. A New York, la scorsa settimana, Obama prima di incontrare Netanyahu aveva di nuovo criticato la colonizzazione dei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967. Il quotidiano Haaretz qualche giorno fa riferiva che l’ufficio di Netanyahu starebbe cercando di impedire un colpo di coda di Obama prima del cambio della guardia alla Casa Bianca, forse un ultimo discorso sul Medio Oriente con accuse dirette al premier israeliano. "È improbabile che ciò accada" ci ha detto l’analista Eytan Gilboa del centro "BeSa" di Studi Strategici di Tel Aviv, "di regola un presidente americano uscente evita questo genere di prese di posizione negli ultimi giorni del suo mandato, anche per non creare difficoltà al suo successore". Allo stesso tempo, prevede Gilboa, "i discorsi che Obama e altri leader pronunceranno (domani) in omaggio della politica pacifista di Shimon Peres potrebbero contenere messaggi rivolti a Netanyahu, non saranno pressioni ma segnali al primo ministro". Israele. In carcere i prigionieri palestinesi muoiono per assenza di cure di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 settembre 2016 Pochi giorni prima la morte di Shimon Peres in un letto dello Sheba Medical Center, Yasser Thiab Hamduna si spegneva nel carcere israeliano di Ramon. Attacco di cuore, dice l’autopsia; ucciso dalle mancate cure mediche in prigione, dice la famiglia. Durante i funerali, migliaia di persone hanno marciato sventolando bandiere della Palestina e chiedendo la liberazione di tutti i detenuti politici palestinesi, ad oggi 7mila. Hamduna aveva 41 anni e soffriva di cardiomegalia, l’anormale ingrossamento del cuore. Le autorità carcerarie israeliane erano a conoscenza della malattia ma non gli hanno fornito alcuna cura. Nel 2015 il primo infarto, a cui non sono seguite terapie; domenica il secondo infarto, letale. Non è il solo: secondo la Palestinian Prisoner’s Society, dall’occupazione militare del 1967 sono almeno 208 i prigionieri palestinesi morti a causa di negligenza medica da parte di Israele. Oggi il numero dei detenuti malati avrebbe superato i mille: tra le patologie più comuni il cancro e la disabilità dovuta spesso a torture fisiche e psicologiche. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, l’aumento continuo di prigionieri in precarie condizioni di salute è dovuto a negligenza medica, sovraffollamento e sporcizia delle celle, bassi standard igienici e umidità costante. Nel mirino anche la questione della "doppia fedeltà", denunciata dai palestinesi: i medici delle carceri sono fedeli allo Stato di Israele prima che agli obblighi etici imposti dalla professione. In alcuni casi ad aggravare le condizioni di salute, già fragili, nelle carceri israeliane sono gli scioperi della fame, estrema forma di lotta per chi è detenuto per motivi politici. Se in passato è stata la modalità di protesta usata in massa per costringere le autorità israeliane a riconoscere diritti di base, oggi è per lo più utilizzata individualmente soprattutto dai detenuti ammnistrativi, in carcere senza processo né accuse ufficiali. Gli ultimi a passarci sono stati Malik al Qadi e i fratelli Muhammad e Mahmoud Balboul: rispettivamente dopo 77, 79 e 68 giorni di digiuno hanno ottenuto da Israele una data di liberazione certa. Nel concludere lo sciopero hanno ringraziato gli altri prigionieri che li hanno sostenuti aderendo allo sciopero e la società fuori che ha organizzato manifestazioni di solidarietà. Perché dagli anni 70 il movimento dei prigionieri è considerato uno dei pilastri della lotta per la liberazione: "I prigionieri hanno sempre svolto il ruolo di accensione delle proteste e di coesione - spiega al manifesto Murad Jadallah, ex prigioniero e per anni ricercatore di Addameer, associazione per la tutela dei prigionieri politici - Il movimento dei detenuti ha sempre mobilitato la società. Per questo ne ha paura non solo Israele, ma anche l’Autorità Palestinese: i sit-in in sostegno ai prigionieri sono stati aggrediti dalla polizia, alcuni manifestanti picchiati. Il governo di Ramallah teme che siano ancora una volta la spinta ad una vera rivolta della base". Sudan. Le prove dell’uso delle armi chimiche in Darfur di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 settembre 2016 Le prime denunce le aveva fatte circolare Italians for Darfur, l’associazione che nel silenzio generale cerca da 13 anni di mantenere alta l’attenzione sui crimini di guerra del regime del presidente-latitante (ricercato dalla Corte penale internazionale) Omar al-Bashir, col quale l’Italia non disdegna di fare accordi per i rimpatri. Oggi arriva la conferma da parte di Amnesty International: da gennaio al 9 settembre 2016 sono stati condotti con ogni probabilità almeno 30 attacchi con armi chimiche nella zona del Jebel Marra. A questa sconvolgente conclusione, l’organizzazione per i diritti umani è giunta attraverso riprese satellitari, oltre 200 approfondite interviste con sopravvissuti e l’analisi da parte di esperti di decine di immagini agghiaccianti di bambini e neonati con terribili ferite. (Non mostriamo alcuna di quelle foto; questo post si apre con un’immagine di archivio sulle devastazioni dei villaggi del Darfur). Le vittime da esposizione ad agenti chimici tra i civili darfuriani sarebbero dalle 200 alle 250. Molte, se non la maggior parte di loro, erano bambini. Centinaia di altre persone sono inizialmente sopravvissute agli attacchi ma nelle ore e nei giorni successivi hanno sviluppato gravi disturbi gastrointestinali, tra cui diarrea e vomito di sangue; la loro pelle si è riempita di vesciche, hanno cambiato colorito, sono svenute, hanno perso completamente la vista e hanno sviluppato problemi respiratori che sono descritti come la principale causa di morte. Molte delle vittime hanno dichiarato ad Amnesty International di non aver potuto accedere alle medicine e di essere state curate con sale, frutti ed erbe. Un uomo che ha aiutato molte persone del suo villaggio e di quelli circostanti e che si prendeva cura delle vittime del conflitto nel Jebel Marra sin dal 2003, ha detto di non aver mai assistito a niente del genere: nel giro di un mese 19 delle persone che aveva curato, compresi dei bambini, sono morte. Tutte avevano sviluppato profondi cambiamenti sulla pelle: la metà delle ferite era diventata di colore verde e sull’altra metà si erano composte vesciche purulente. Gli agenti chimici erano contenuti in bombe aeree e in razzi. La maggior parte dei sopravvissuti ha raccontato che il fumo rilasciato a seguito dell’esplosione cambiava colore nel giro di cinque, al massimo 20 minuti. Inizialmente era scuro, poi tendeva a diventare più chiaro. Tutti i sopravvissuti hanno descritto la puzza del fumo come estremamente nociva. Amnesty International ha sottoposto le sue conclusioni a due esperti indipendenti in materia di armi chimiche. Secondo entrambi, vi è il forte sospetto che siano stati usati agenti chimici vescicanti, come mostarda solforosa, mostarda al nitrogeno o lewisite. Gli attacchi con armi chimiche sono avvenuti durante l’offensiva su vasta scala lanciata a gennaio nel Jebel Marra dalle forze armate sudanesi contro l’Esercito di liberazione del Sudan/Abdul Wahid (Sla/Aw), accusato di imboscate contro convogli militari e attacchi contro i civili. Negli otto mesi successivi al lancio dell’operazione militare Amnesty International ha documentato numerosi attacchi contro i civili e le loro proprietà. Le immagini satellitari hanno confermato che sono stati distrutti o danneggiati 171 villaggi, nella maggior parte dei quali non vi era presenza di oppositori armati al momento dell’attacco. In 250.000 hanno dovuto lasciare la zona. Terra bruciata, stupro di massa, uccisioni e bombardamenti. Sono esattamente gli stessi crimini di guerra che vengono commessi dal 2004, quando il mondo si accorse per la prima volta che esisteva un luogo sulla terra chiamato Darfur: un luogo sprofondato da 13 anni in un catastrofico ciclo di violenza. Nulla è cambiato da allora, se non che il mondo ha cessato di occuparsene. Nonostante la presenza di una missione di peacekeeping congiunta delle Nazioni Unite e dell’Unione africana, la popolazione civile del Darfur continua a vivere nel terrore.