Contro la Pena di Morte Viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita di Fabrizio Panizzolo (ergastolano) Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2016 L’ergastolo è un male incurabile per cui non ci sono neppure cure compassionevoli. Che cos’è l’ergastolo per me? L’ergastolo per me è la fine di tutto, dire ergastolo sembra una cosa normale per chi non lo conosce, ma é un male incurabile per chi lo prova e ci vive ogni giorno, non ci sono medicine o cure compassionevoli che ti possano guarire e alleviare la durezza della vita che ti resta da vivere, i giorni che affronti sono di grande impegno di sopravvivenza, perché non puoi azzardarti a mettere in piedi un progetto perché nulla è possibile e realizzabile. Penso a questo perché mi trovo con una condanna all’ergastolo da un po’ di anni, dove in primo grado mi avevano dato trenta anni, ma purtroppo per chi non sa che cosa è il carcere trenta anni sono pochi per essere soddisfatti, come se trenta anni fossero un gioco da ragazzi da scontare, ma credetemi trenta anni sono una generazione che cambia, cosi mi hanno dato il massimo, l’ergastolo, da quel giorno mi sento un morto che cammina, con i famigliari la vita è diventata sempre più spenta, ho due figli meravigliosi che sono la mia forza altrimenti non avrebbe nessun senso continuare a vederci, non c’è dialogo che possa fare, c’è un dialogo spento come quando vai al cimitero e parli con i tuoi cari, dove a volte riesci a sorridere con i ricordi, dove la differenza è che al cimitero porti i fiori, a un ergastolano porti qualcosa da mangiare, questo è il mio parere, penso che tra la pena di morte e l’ergastolo non ci sia differenza, l’unica differenza è che aspetti la morte con la speranza che non c’è, perché è la speranza che ci tiene in vita, quello che chiederei ai politici è che gli anni cambiano tutti, spero che un giorno si decidano a cambiare questa pena di tortura e senza un senso, per dare un senso anche a noi deceduti vivi. Carceri: vicinanza, lavoro e misure alternative sono le risposte a povertà e recidiva di Gigliola Alfaro agensir.it, 28 settembre 2016 Il 70% dei detenuti torna in prigione se non ha opportunità di lavoro e di formazione. Non solo: sono soprattutto i più poveri ed emarginati a stare più tempo in carcere. La denuncia di due quotidiani nazionali commentati da don Virgilio Balducchi (ispettore generale dei cappellani delle carceri), don Antonio Loi (cappellano a Opera, Milano), don Sandro Spriano (cappellano a Rebibbia, Roma), don Franco Esposito (cappellano a Poggioreale, Napoli) In Italia in prigione possono anche andarci le persone più o meno importanti o che appartengono a una certa classe sociale, ma ci restano poco, al contrario dei poveri. Non solo: sette detenuti su dieci tornano in carcere. Sono le denunce contenute in due articoli pubblicati negli ultimi giorni da due quotidiani nazionali. Il sistema carcere, dunque, nel nostro Paese proprio non funziona? Abbiamo raccolto le reazioni di alcuni cappellani. Disuguaglianze. Per don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, "è vero che in carcere è molto facile che i poveri ci restino più a lungo. Parliamo degli immigrati, che non hanno nessuno e neppure una casa, e dei tossicodipendenti più disperati, delle persone povere e malate. Chi ha le possibilità economiche può difendersi meglio nel processo e ha maggiori alternative fuori dal carcere. Questo fa credere che la giustizia sia diseguale e scoraggia chi deve intraprendere dei procedimenti, anche in campo civile, ma ha meno possibilità economiche". Rispetto alla recidiva, don Balducchi commenta: "Sono i dati ufficiali, che mostrano che chi sconta la pena solo in carcere, senza avere opportunità di professionalizzazione o di lavoro continuativo, recidiva di più. Al contrario chi usufruisce delle pene alternative e di programmi esterni, più difficilmente compie nuovi reati. Perciò, la giustizia italiana dovrebbe utilizzare di meno la pena in carcere e di più le pene sul territorio, con responsabilità, creando posti di lavoro e luoghi di accoglienza". Offrire opportunità. Concorda don Antonio Loi, cappellano nel carcere di Opera, a Milano: "Se in carcere si tengono le persone a non fare niente, continuano a non fare niente. Invece, se si offrono opportunità di lavoro il discorso cambia. Ricordo un libro molto bello del cardinale Martini, "Ma questa è giustizia?", in cui scriveva che bisogna educare le persone a riappropriarsi del valore del tempo, dei soldi, di tante piccole cose della vita, che hanno un valore grande. Vanno date più opportunità, con un po’ meno ristrettezze, e vanno sviluppate anche opportunità culturali. A Opera, ad esempio, ci sono diverse attività di lettura creativa, che aiutano le persone a rientrare in se stesse, e il laboratorio di liuteria. Sono importanti anche le attività di tipo teatrale perché permettono di mettersi in gioco fino ad arrivare alla domanda: quello che ho fatto fino adesso è vero o falso?". Per don Antonio, "l’opportunità di lavoro per uno che nella vita ha sempre lavorato e magari ha fatto una ‘fesserià può riaprire una speranza, anche se non farà più quello che faceva prima. Chi invece ha vissuto sempre di criminalità può scoprire il valore del lavoro". Non a caso, "tra chi usufruisce delle pene alternative al carcere la recidiva è del 19%. E questo dice che forse il carcere non funziona". Ma, ammette, "non so se siamo pronti a percorrere nuove strade". Porte chiuse. "Quando il detenuto esce di galera - denuncia don Sandro Spriano, cappello a Rebibbia, a Roma - è privato di ogni diritto nell’opinione della maggioranza dei cittadini. Tutte le porte vengono chiuse, a cominciare da quelle di noi cristiani. Lo dico anche perché attualmente il più grande amico dei detenuti è Papa Francesco. Mentre la realtà intorno è molto diversa: tutti abbiamo paura di chi è stato in carcere. La recidiva non è soprattutto la capacità di commettere altri reati, ma è l’uscita dal carcere di un povero, che vi era già entrato povero e torna fuori più povero di prima. E deve mangiare, non sa dove dormire, non sa dove poter fare qualcosa della sua vita. Per questo tornano in carcere. Non ci torna facilmente chi trova accoglienza e un lavoro". In carcere, poi, "non ci sono quelli che detengono un potere di qualche tipo, perché con i soldi hanno la capacità di avere avvocati abili che allungano all’infinito i processi, fino a volte alla prescrizione. La maggioranza di chi sta in carcere è effettivamente povera, ma non solo di soldi: ci sono i malati di mente, gli stranieri, le persone che non hanno una famiglia. Sono quei nuovi poveri che la nostra società non riesce ad accogliere in alcun modo". Opera-segno. "L’alto tasso di recidiva è conseguenza di un carcere dove si tengono rinchiuse le persone senza nessun programma serio di reinserimento, di rieducazione. Escono peggiori di come sono entrate. Anche perché vengono private della cosa più importante, gli affetti. Nelle nostre carceri c’è zero affetti", sottolinea don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, a Napoli. La diocesi ha voluto realizzare un’opera-segno: "Liberi di volare", una comunità di accoglienza per detenuti, che vivono lì gli ultimi due-tre anni di detenzione agli arresti domiciliari. "Al momento - ricorda don Franco - ospitiamo dieci detenuti residenziali e quaranta in affido diurno". Quest’esperienza, avviata quattro anni, dimostra che "la recidiva scende enormemente, fino a meno del 10%, se ci sono opportunità. E questo dovrebbe far interrogare i politici sulla necessità di pensare seriamente a un’alternativa al carcere. Inoltre, un carcerato in un istituto carcerario costa allo Stato oltre 200 euro al giorno, mentre comunità come la nostra non riceve nessuna sovvenzione statale". Eppure, evidenzia il cappellano, "questa è la risposta seria al problema della recidiva: far vivere ai detenuti esperienze positive per tagliare i ponti con il male, facendo prendere coscienza di quello che si è commesso e il desiderio di un futuro nella legalità". Orlando: "Riforma giustizia a rischio di trappole, pericoli senza i voti di Ala" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2016 Non è un Orlando furioso quello che atterra sull’isola di Pianosa a fine mattinata. È un Orlando stanco, tirato, molto preoccupato per il muro alzato lunedì sera da Matteo Renzi di fronte alla richiesta di fiducia sulla riforma del processo penale. Ma è ancora determinato a non farsi mettere nell’angolo. In serata lo aspetta un altro Consiglio dei ministri. Consiglio dei ministri che, a notte fonda, ha poi autorizzato l’uso della fiducia sul Ddl anche se Renzi ha dichiarato di avere ancora molte perplessità sulla blindatura del Ddl. Ministro, stavolta riuscirà a convincere il premier? "Io non devo convincere nessuno. Voglio solo concordare un percorso". L’espressione del viso tradisce "scoramento", per dirla con una parola che gli sfugge nella piazzetta tra l’antica Barriera Vittorio Emanuele e il fatiscente muro di cinta dell’ex carcere di sicurezza di Pianosa. Si parla di "reinserimento sociale dei detenuti" e quest’isola, dove "anche la bellezza del luogo può essere occasione di riscatto", diventa metafora delle difficoltà in cui naviga il ministro della Giustizia. "La situazione è complicata" ammette Orlando, seduto a un tavolino dell’unico bar dell’isola, prima di ripartire per Roma. "Ieri sera (lunedì, ndr) è prevalsa la paura di possibili scherzi nella maggioranza. Stavolta, infatti, i voti dei verdiniani, cioè di Ala, non ci sono, e quelli della maggioranza sono risicati, quindi Renzi vuole che siano verificati uno ad uno per evitare trappole. Bastano poche assenze e purtroppo il gioco è fatto. Bisogna capire se convenga andare avanti articolo per articolo e, semmai, intervenire con la fiducia sui punti critici". Questa, ribadisce, è sempre stata la sua linea. A chiedere la fiducia "è stato Alfano. E oggi la riproporrà", aggiunge, sapendo che senza fiducia il Ddl rischia il binario morto, almeno fino al referendum. "Paura", "trappole", "diffidenza": sono queste le parole chiave della ricostruzione di Orlando sul no di Renzi alla fiducia. A due mesi dal referendum costituzionale, il premier "non vuole rischiare" di far cadere il governo su una riforma che suscita "diffidenze reciproche nella maggioranza" e "malumori" trasversali. "È vero, anche nel Pd è passata l’idea che questo sia un provvedimento giustizialista ma - ragiona Orlando - solo perché c’è stato un eccessivo protagonismo di Casson e di Lumia", rispettivamente relatore e capogruppo Dem in commissione Giustizia, che hanno presentato emendamenti indigesti: il primo sullo stop della prescrizione dopo la condanna di primo grado e, il secondo, sull’allungamento da 3 a 6 mesi del tempo entro cui il Pm deve chiedere il rinvio a giudizio dopo la chiusura delle indagini. "La verità, però, è che rispetto alla Camera, il Senato ha indebolito le norme sulla prescrizione". Orlando conviene, tuttavia, che l’impasse ha motivazioni politiche, e non di merito. Esclude, però, che il premier punti a ritirare la riforma o a congelarla fino al referendum. "Se Renzi voleva fermarsi, aveva la possibilità di farlo, invece non ho avuto input in tal senso". Così come esclude che i dubbi del premier sulla fiducia fossero conseguenza dell’accelerazione impressa a luglio al Ddl, proprio su impulso di Orlando, o, addirittura, di attriti politici personali. "Non sono in grado di dare ulteriori letture" taglia corto. E insiste: "Si tratta solo di cautela. Il Pd non si fida dell’Ncd e l’Ncd non si fida della minoranza Pd". Perciò si ha "paura" della fiducia. "Personalmente, ero e sono favorevole ad andare avanti articolo per articolo. Questo è sempre stato il mio piano A, salvo però ricorrere alla fiducia sui punti cruciali. Ma i capigruppo mi hanno risposto che non erano in grado di garantire questo percorso, troppo rischioso con 170 voti segreti". Così, mentre da Roma già soffia il vento dello slittamento di una settimana, Orlando si prepara a un’altra battaglia "per costruire ponti". Come sul carcere, tra il "dentro" e il "fuori", e come Pianosa gli dimostra che è giusto fare. Andrea Orlando: "Sulla giustizia il governo può cadere" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 settembre 2016 Il ministro della Giustizia: "Indispensabile verificare se esistono le condizioni per il percorso ordinario". Numeri risicati per le diffidenze di Ncd e di un pezzo di Pd. "Il problema, come si sa, è che abbiamo numeri risicati su una materia incandescente ed escludo che ci sarà la convergenza di altri gruppi parlamentari, a partire da Ala. Per questo è indispensabile verificare se esistono le condizioni per il percorso ordinario". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è preoccupato, teso e anche un po’ stanco. Però non ha voluto rinunciare a venire a Pianosa, dove il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha organizzato una tavola rotonda sui "progetti integrati di reinserimento sociale" che cercano di prendere il largo proprio da quest’isola che ospitò il penitenziario di massima sicurezza per terroristi e mafiosi. A Roma l’aspetta la discussione al Senato sul destino della riforma del processo penale, appesa a un voto di fiducia prima negato da Renzi e autorizzato solo ieri sera dal Consiglio dei ministri. Ora si tratta di verificare che ci siano le condizioni. Avete paura che il governo possa cadere sulla riforma della giustizia? "Il Nuovo centrodestra e un pezzo di Pd non si fidano uno dell’altro, basta che qualcuno non si presenti al momento del voto e il gioco è fatto. Per questo l’altra sera Renzi ci ha chiesto opportunamente di verificare prima la situazione. Ncd ha già dimostrato grande diffidenza rispetto agli emendamenti presentati da un paio di senatori del Pd, Casson e Lumia, facendo mancare il numero legale". E il suo collega Alfano che dice? "Mi ha assicurato che avrebbe fatto un lavoro sui suoi parlamentari, è stato lui ieri (lunedì, ndr) a chiedere di mettere la fiducia, ma la situazione è rimasta incerta". Lei che cosa propone? "Io non sono un fan del voto di fiducia. Ho sempre detto, trattandosi di materia penale, che preferivo cominciare a votare sui singoli articoli e vedere come andava. La materia è molto divisiva e non sono mancate, nella discussione, posizioni differenziate anche dentro il Pd. Ma i capigruppo mi hanno detto che non erano in grado di garantire questo percorso. Perciò s’è posto il problema della fiducia, che però presenta altri rischi oggettivi. C’è grande cautela per quello che può avvenire sul piano politico generale, più che paura sul merito del provvedimento". Pensa che Renzi sia disposto a far morire la sua riforma, pur di non mettere in gioco il destino del governo alla vigilia del referendum? "No, non credo e non sono disposto nemmeno io. Del resto se avesse voluto bloccare la legge, in passato avrebbe avuto più di un’occasione. Ci ha solo invitato a monitorare bene le condizioni al Senato. Io sono d’accordo a verificare se ci sono le condizioni per il percorso ordinario che comporta la prova dei voti segreti sui singoli emendamenti, fatta salva la tenuta sui passaggi essenziali". Intanto c’è la conferma che in tema di giustizia la maggioranza traballa. Ncd non ha digerito l’allungamento dei tempi della prescrizione, così come una parte del Pd. "Non è una sorpresa. È inoltre passata l’idea che sia un provvedimento che comprime le garanzie, credo che sia l’effetto del protagonismo di alcuni senatori del Pd che hanno voluto presentare i loro emendamenti. Ma è un effetto dovuto più ai titoli di giornale che a modifiche nel merito. In realtà rispetto a quello uscito dalla Camera e dal Consiglio dei ministri il testo è stato smussato perché dopo la prima sentenza la prescrizione si blocca per soli 18 mesi, anziché 2 anni". È ciò che contestano i magistrati. Per Davigo questa legge è "inutile se non dannosa". "L’ho sentito. Peccato però poi mi abbiano presentato un dossier con le loro proposte, e ho scoperto che per metà sono già contenute nel testo in discussione al Senato. Non so se Davigo le collochi tra le inutili o le dannose. Di questa legge si parla solo in relazione a prescrizione e intercettazioni, ma contiene molte altre norme utili, fra l’altro, a sveltire i processi e modificare un ordinamento penitenziario che risale al 1975". Quindi se la situazione non si sblocca vi convincerete a chiedere la fiducia? "Non si deve convincere nessuno, insieme si deve valutare la strada migliore per approvare una riforma che considero molto importante e che attua alcuni dei dodici punti con cui annunciammo il percorso di riforma della giustizia". Giustizia, riforma a rischio "prescrizione" di Andrea Colombo Il Manifesto, 28 settembre 2016 Processo penale. Nuovo rinvio. Orlando spinge per la fiducia, Renzi vuole aspettare dicembre. La legge sul processo penale? Se ne riparla la settimana prossima. Doveva arrivare alle prime votazioni ieri pomeriggio nell’aula del Senato. Non se ne è fatto niente. La riforma che fa ballare la maggioranza ogni volta che spunta, soprattutto perché fissa nuovi e più severi termini per la prescrizione, resta in bilico. Sulla carta tutto è a posto. Il Pd, messo alle strette dai centristi che facevano mancare a ripetizione il numero legale, ha ritirato tutti gli emendamenti firmati dal capogruppo in commissione Giustizia Giuseppe Lumia, incluso quello apparentemente indiscutibile che mirava a far decorrere i termini della prescrizione, nei gravi reati ambientali, non dal momento in cui il reato viene compiuto ma da quando ne ha notizia il magistrato. Essendo evidente che le conseguenze del reato, in concreto l’insorgere delle malattie, possono essere riscontrate con forte ritardo sembrava ed era una norma dettata dal puro buon senso. Niente da fare. I centristi di Area popolare si sono dichiarati soddisfatti. Baci, abbracci e pacche sulle spalle. Dov’è allora il problema? Nel fatto che portare la legge in aula vuol dire affrontare 170 voti segreti. L’eventualità per il governo di essere battuto in alcuni di questi è quasi una certezza. Dunque bisognerebbe mettere la fiducia, ma il governo è diviso. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, inizialmente dubbioso, è ora quello che più insiste per blindare il provvedimento. Renzi invece esita ed è apertamente tentato proprio dall’idea di affrontare la raffica di voti segreti, vedersi battuto, riportare la legge in commissione e così rimandare tutto a dopo il referendum del 4 dicembre. Un voto di fiducia fatto apposta per cementare l’accordo con Angelino Alfano sul tema incandescente della giustizia non gli sembra il viatico migliore per una campagna referendaria già difficilissima. Non è l’unica considerazione che suggerisce a Matteo Renzi prudenza. La truppa di rincalzo verdiniana ha già fatto sapere che stavolta non voterebbe la fiducia. In teoria quei voti non servono, ma con l’Ncd in fase di avanzata decomposizione è impossibile avere granitiche certezza sul voto di ogni senatore. La fiducia andrebbe messa su un maxiemendamento, già messo a punto e concordato, che modifica il testo votato dalla commissione ma non sul punto nevralgico della prescrizione. Però l’accordo è solo verbale. Il testo dell’emendamento ancora non c’è. I centristi di Area popolare temono che invece qualche cosa in materia di prescrizione, opportunamente camuffata, finisca nell’emendamento comunque. Proprio perché si tratta di un argomento così lacerante non è detto che la loro sia solo paranoia. Di qui i dubbi che il governo potrebbe sciogliere già nella seduta fiume notturna in cui dovrà licenziare anche la nota aggiuntiva al Def. Non è detto però che l’ultima parola arrivi neppure in questa occasione. Il governo potrebbe infatti autorizzare il ministro a porre la fiducia riservandosi però di decidere all’ultimo momento, la settimana prossima. In ogni caso la legge, modificata a palazzo Madama portando i termini della prescrizione per i reati di corruzione dai 21 anni di Montecitorio a "solo" 18, dovrà poi tornare alla Camera. Silvio Berlusconi, il leader che per due decenni ha rappresentato l’ostacolo che impediva di mettere mano in qualsiasi modo alla giustizia, è per ora e forse definitivamente all’angolo. Ma per il Parlamento italiano parlare di giustizia continua a voler dire giocare con la dinamite. Se poi, come in questo caso, la materia esplosiva va trattata in coincidenza con un referendum che somiglia a una roulette russa tutto diventa persino più difficile. Ddl riforma penale, l’aula si ferma in attesa che il governo decida se porre la fiducia di Errico Novi Il Dubbio, 28 settembre 2016 Senato paralizzato dalla paura, la riforma del processo non parte. "In fondo gli emendamenti sui quali avevamo espresso perplessità sono stati ritirati. Timori che la riforma del processo inciampi in Aula non ce ne dovrebbero essere. Neppure noi sappiamo bene perché circola tanta preoccupazione". A parlare è un senatore di Area popolare che sta per chiudersi nell’ennesima riunione convocata dal suo gruppo sul ddl penale. Un conclave che spinge addirittura la capigruppo a stoppare in pieno pomeriggio l’esame del provvedimento. Come se nell’ansia dei parlamentari centristi si riflettesse in realtà quella di tutta la maggioranza. Così la giornata che avrebbe dovuto vedere finalmente l’esame dei primi articoli della riforma trascorre ancora una volta invano. Aspettando Godot, verrebbe da dire: la fiducia appunto. Che il Consiglio dei ministri riconsidera in tarda serata, dopo averla già esclusa nella riunione di lunedì scorso. Al momento di mandare in stampa il giornale Palazzo Chigi non ha ancora deciso. Si sa che a Renzi la blindatura del disegno di legge non piace: si offrirebbe un formidabile argomento di propaganda ai grillini, nel pieno della campagna referendaria. "Su prescrizione e carcere volete difendere i corrotti", direbbero, come Mario Giarrusso per esempio fa già da giorni. Ma appunto tutti questi rischi non si vedono, nonostante siano già prevedibili fin da ora un paio di centinaia di voti segreti. "La maggioranza è compatta", assicurano i più ottimisti. Certo il ministro della Giustizia Andrea Orlando preferirebbe avere il via libera per porre la fiducia, se necessario, su singole parti della riforma, prescrizione in primis. E lui stesso in un convegno al carcere di Piano lamenta la "banalizzazione di norme che incideranno molto sull’esecuzione della pena". Si sa, uno dei principali crucci del guardasigilli è che eventuali svarioni dell’Aula del Senato sul provvedimento impongano ulteriori correttivi alla Camera e il congelamento della delega, inserita nel testo, sulla riforma del carcere. Ma tutto pare condizionato dall’ansia dell’ultimo chilometro. Che scatena anche all’esterno un’incredibile, polifonica tempesta di proclami allarmati. L’Ugl giustizia si mette in stato di agitazione per la carenza di cancellieri. La stessa emergenza, non nuovissima, induce Piercamillo Davigo a convocare per sabato un comitato direttivo centrale dell’Anm aperto ai capi degli uffici giudiziari di tutta Italia. Una fibrillazione trasversale. Che solo Raffaele Cantone stempera un po’, notando come l’autoriforma del Csm vada "nella giusta direzione". Ma tutti gli altri, aspettando la fiducia-Godot, sono paralizzati. Csm, l’impossibile autoriforma. Opacità del nuovo regolamento, correnti sempre fortissime di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 settembre 2016 Adesso lo ammette il Consiglio superiore della magistratura (Csm) stesso, con le parole del vicepresidente Giovanni Legnini: il meccanismo spartitorio che regola la scelta dei magistrati destinati a incarichi direttivi e semi-direttivi nelle procure e nei tribunali d’Italia è un problema che ha ricadute sull’efficienza e sulla credibilità del nostro sistema giudiziario. Già ammetterlo è qualcosa. Ma individuare un guasto non basta. E non bastano nemmeno norme farraginose o millimetriche e sghembe correzioni, che hanno il sapore della fogliolina di fico, come il nuovo regolamento del Csm approvato lunedì dopo un anno di trattative, litigi, compromessi e mediazioni proprio tra le correnti della magistratura. D’altro canto come si fa a pretendere che siano le stesse correnti a cancellare il meccanismo che le rende forti e che ne giustifica l’esistenza? Il nuovo regolamento interno, ha detto Legnini, dovrebbe consentire di "abbandonare le peggiori pratiche" - cui il Csm si è evidentemente abbandonato per ammissione del suo vicepresidente - "soprattutto sulle nomine". Ma è davvero così? Probabilmente no. Il nuovo regolamento, infatti, prevede un meccanismo che complica il procedimento di selezione dei magistrati dirigenti, elimina il sistema delle cosiddette nomine "a pacchetto" (più nomine contemporanee) rendendo meno evidenti (ma non più difficili) gli accordi di spartizione. In sostanza le spartizioni continueranno, ma saranno più complicate da individuare per occhi esterni al Csm. Visto che le correnti non si autoriformano, allora forse per recuperare credibilità ed efficienza dell’ordinamento giudiziario il Parlamento dovrebbe mettere in agenda una radicale riforma delle modalità previste per le elezioni del Csm. Con il reato di omicidio stradale 28 vittime in meno dello scorso anno di Simone Gorla La Stampa, 28 settembre 2016 Il rapporto di polizia e carabinieri: il numero degli incidenti resta invariato, ma il conto dei morti cala del 2%. Un calo dello 0,1 per cento di incidenti stradali e 28 vittime in meno rispetto allo scorso anno. A sei mesi dall’introduzione del reato di omicidio stradale, arrivano i primi dati che raccontano gli effetti della nuova norma sui comportamenti a rischio di chi guida. Le rilevazioni di polizia stradale e carabinieri dicono che, dal 25 marzo al 18 settembre del 2016, il numero di incidenti è rimasto sostanzialmente invariato (da 38.022 a 37.987) rispetto allo stesso periodo del 2015. Gli incidenti mortali sono scesi di due punti percentuali (da 860 a 848), mentre salgono, seppur di poco, il bilancio delle lesioni (più 1 per cento) e quello dei feriti (più 0,5 per cento). I dati analitici del ministero dell’Interno basati sui rilievi della polizia, esposti oggi nel corso di un convegno dalla dirigente della polizia stradale di Milano Carlotta Gallo, dicono che gli incidenti mortali con denuncia per omicidio stradale sono stati finora 190. In 98 casi c’è stata più di una vittima. In 305 casi la denuncia è stata per lesioni gravi o gravissime. La polizia ha arrestato undici persone in flagranza di reato, nove di queste trovate alla guida in stato di ebbrezza, mentre 173 autisti sono stati denunciati a piede libero per omicidio. Resta da verificare l’efficacia della nuova norma nello scoraggiare i comportamenti pericolosi. È presto per fare un bilancio, ma il confronto con i mesi successivi all’entrata in vigore della patente a punti è impietoso. Allora ci fu un calo del 23 per cento di incidenti mortali, dieci volte maggiore di quello attuale. Un effetto che potrebbe dipendere dalla percezione della nuova norma: se la riforma della patente toccava da subito tutti gli autisti, l’omicidio stradale è sentito come un reato lontano dalla gente comune. "Nessuno si identifica con il criminale che attua i comportamenti pericolosi descritti dalla legge. Bisogna attendere per poter valutare l’efficacia della norma", spiega Carlotta Gallo, perché "manca ancora una giurisprudenza in merito: l’effetto deterrente sul lungo periodo potrebbe essere maggiore dopo le prime condanne". Per gli addetti ai lavori restano dubbi e criticità. Il consigliere della Corte di Cassazione Giuseppe Pavich, nel corso della sua lectio magistralis nella sala congressi del III reparto mobile della polizia a Milano, rileva un "approccio troppo basato sulla casistica" e contraddizioni come "l’aggravante prevista per sorpasso con la striscia continua o sulle strisce pedonali, ma non per quello in curva o a destra. E ce ne sono diverse altre". Tra le altre, il sospetto che la nuova norma abbia come effetto collaterale quello di incitare alla fuga in caso di incidente. Non è solo la paura di essere incriminati con le nuove aggravanti: la legge consente al "pirata della strada" di presentarsi alle forze dell’ordine entro 24 ore dall’incidente senza subire l’arresto, obbligatorio invece verso chi si ferma e viene colto in flagranza. Una stortura, secondo gli esperti, bilanciata solo in parte dall’aggravamento della pena prevista. I nonni scambiati per sciacalli perché sono rom. E ora la burocrazia blocca il ragazzino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2016 Nella tarda mattina del 29 agosto due pacifici signori romeni, di origine rom - Ion e Letizia, di 45 anni - sono stati fermati, vicino ad Amatrice, dai carabinieri mentre erano su un auto assieme al nipotino - si chiama Mario Jonut Marcelaru - di sei anni e mezzo. Ne ha parlato su questo giornale, qualche giorno fa, Paolo Persichetti. Sono stati arrestati, perché considerati "sciacalli". Secondo la versione delle forze dell’ordine - ripresa prontamente da tutte le agenzie stampa - la coppia di rom sarebbe gravata da numerosi precedenti penali, furti e altri reati contro il patrimonio. Ed è accusata di vari furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto. Inoltre, all’interno della macchina, sarebbero stati rinvenuti degli oggetti utilizzati per effettuare gli scassi. L’accusa contro di loro però si è sgretolata durante il rito per direttissima: arnesi da scasso si sono rivelati dei kit di soccorso presenti in ogni autovettura (diciamo che servivano a riparare le gomme). I precedenti penali non esistevano. Non solo. Nel corso dell’udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell’interprete, ha dichiarato di non sapere niente del terremoto. Passavano di lì per caso, diretti a Roma. E dentro la loro auto c’era tutto il necessario per potersi vestire, dormire, cucinare e i giocattoli per far passare il tempo al bambino. Tra i quali una pericolosissima pistola giocattolo di plastica. Ma nonostante la loro evidente innocenza, la notizia del loro fermo ha scatenato indignazioni a non finire. Primo tra tutti il leader della Lega Matteo Salvini che con un post su Facebook aveva deciso di mettere alla gogna la coppia di rom, utilizzando toni durissimi: "Ecco il video con i due sciacalli - scrive Salvini -, pregiudicati rumeni (con figlioletto al seguito...), trovati ad Amatrice con l’auto piena di refurtiva, denaro, attrezzi da scasso. Pare si fingessero turisti sfollati". Il suo post finisce con una chiosa: "Vergognatevi, fate schifo!". Un post che ha scatenato commenti razzisti anche molto violenti. Ma il calvario dei due poveri romeni, non è finito con la scarcerazione. Quando sono stati scarcerati, l’amara sorpresa: non hanno più ritrovato il nipotino perché era stato affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Sono due nonni, Ion e Letizia, che erano giunti in Italia in vacanza e durante il viaggio avevano programmato di andare a visitare una parente a Roma. Hanno portato con sé il nipotino e avevano anche una procura dei genitori. Quindi tutto regolare. Nel momento dell’arresto dei nonni, il bambino è stato sistemato in una comunità a Rieti, dopodiché la procura ha passato tutto al tribunale per i minorenni di Roma e il bambino è stato trasferito in una casa famiglia di Acilia, vicino a Ostia. I genitori naturali sono intervenuti personalmente con istanza per poter riavere il figlio. La mamma è una giovane donna di 24 anni con un viso da adolescente, di nome Claudia Costantin, lavora come donna di pulizie e ha avuto il bimbo a 18 anni. Il papà si chiama Gabriel, anche lui ventiquattrenne, lavorava in una fabbrica per il legno ma ora ha perso il lavoro per venire in Italia a recuperare il figlio. Giunti in Italia sono ospiti dei parenti che risiedono nel campo rom attrezzato di Ponte Galeria. C’è poco spazio e, assieme ai nonni del piccolo Mario, dormono nella Passat da settimane. Per tutto questo tempo, ovvero dal 29 agosto, hanno avuto la possibilità di vedere il loro figlio una sola volta. Soltanto venerdì 23 settembre. Tutto dovuto a lungaggini burocratiche: dopo aver letto la relazione dei servizi sociali, il magistrato aveva autorizzato ma con infinite lentezze determinate dall’assenza dell’assistente sociale e dalla necessità di una traduzione del certificato di nascita. I genitori hanno così potuto abbracciare una sola volta il loro figlio e hanno espresso molta preoccupazione circa lo stato psichico del bambino: era definito vivace anche dagli assistenti che l’avevano perso in incarico, ma ai genitori è apparso "spento". La prima udienza era stata programmata per giovedì 22 settembre, ma per mancanza dell’interprete è stata rinviata a domani. L’udienza è stata istruita dal giudice per l’affidamento provvisorio mettendo in discussione la capacità genitoriale del papà e della mamma perché non avrebbero dovuto mandare in vacanza il figlio con i nonni. E perché mai, visto che i nonni sono risultati essere due bravissime persone vittime di calunnia? Caso Uva, la procura generale impugna l’assoluzione di 6 agenti e di 2 carabinieri Corriere della Sera, 28 settembre 2016 Si riapre la vicenda dell’operaio morto dopo il fermo in caserma. I giudici della Corte d’assise di Varese avevano escluso il pestaggio da parte di due militari e sei poliziotti. La Procura generale di Milano ha impugnato la sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Varese avevano assolto assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti due carabinieri e sei poliziotti accusati di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva perché morto nel giugno del 2008 all’ospedale di Varese dopo essere stato nella caserma dei carabinieri di Varese. I giudici, assolvendo i componenti delle forze dell’ordine avevano concluso per "l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere". I giudici avevano scritto che le percosse erano la condizione perché si configurasse il reato, mentre "la perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva". La notizia dell’impugnazione è stata confermata dai legali degli imputati. Giuseppe Uva, operaio gruista era stato portato in caserma perché con un amico, entrambi ubriachi, stavano spostando delle transenne per strada. Travagliato l’iter del processo e dura la battaglia della famiglia, soprattutto della sorella di Uva, Lucia, assolta dall’ accusa di diffamazione nei confronti degli imputati, cui era arrivata anche la solidarietà di Ilaria Cucchi. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Le motivazioni delle assoluzioni - I giudici della Corte d’assise di Varese hanno ritenuto "l’insussistenza di atti diretti a percuotere o a ledere" Giuseppe Uva da parte delle forze dell’ordine. È un passaggio delle motivazioni, in possesso dell’agenzia Ansa, della sentenza con la quale sei poliziotti e due carabinieri sono stati assolti dall’accusa di omicidio preterintenzionale e altri reati nei confronti dell’operaio, morto nel giugno del 2008 dopo essere stato portato in caserma a Varese. "La perizia medico-legale e l’audizione dei consulenti tecnici di ufficio e delle parti - scrivono i giudici in relazione all’accusa di omicidio preterintenzionale - consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso di Giuseppe Uva". Per i giudici, "il fattore stressogeno, da taluni dei consulenti ritenuto causale o concausale di uno stress psicofisico, non può essere attribuito alla condotta degli imputati", che "non avevano la coscienza e la volontà di percuotere o di ledere Giuseppe Uva". Il reato di abbandono - In riferimento al reato di abbandono di incapace, i giudici spiegano che "non risulta sufficientemente provata la sussistenza del delitto" perché "l’abbandono della persona incapace deve determinare uno stato di pericolo sia pure potenziale per l’incolumità del soggetto" mentre "Giuseppe Uva non versava in un pregresso stato di incapacità di provvedere a se stesso per malattia di mente o di corpo (tale non potendosi considerare lo stato di ubriachezza)" e "non è ravvisabile una posizione di garanzia degli imputati (non avevano questi ultimi obblighi di cura o di custodia) nel confronti di Giuseppe Uva". Riguardo l’ipotesi di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, gli imputati vanno assolti perché "ai fini dell’integrazione del delitto è necessario che le restrizioni abusive vengano adottate quali modalità della custodia, cagionando così una lesione ulteriore della libertà intesa in senso stretto", mentre Giuseppe Uva non si trovava in stato di arresto, di fermo o di detenzione e, conseguentemente, non si ravvisano gli elementi oggettivo e soggettivo del delitto contestato". Alcoltest regolare? Si alla consegna al Paese d’origine col mandato di arresto europeo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 settembre 2016 n. 40254. Via libera alla consegna del cittadino rumeno trovato positivo all’alcoltest, nell’ambito di regolari controlli effettuati nel suo paese d’origine. La Corte di cassazione, con la sentenza 40254 depositata ieri, respinge il ricorso del cittadino rumeno, secondo il quale c’erano una serie di motivi che impedivano l’esecuzione del mandato di arresto europeo. Lungo l’elenco di errori contestati alla Corte d’Appello, a cominciare dall’impossibilità di valutare sia il tasso alcolemico riscontrato sia le modalità di rilevamento. Inoltre i giudici di merito, nel dare il loro assenso allo stato richiedente non avevano valutato il radicamento del ricorrente nel territorio italiano, che andava considerato anche nell’ipotesi di attività lavorativa "in nero". Infine la Corte di merito non avevano analizzato la situazione nello stato di emissione rispetto ai rischi di trattamenti inumani e degradanti in sede di esecuzione della pena ai quali andava incontro il consegnato a causa della grave situazione delle carceri rumene. Nessun motivo viene però accolto dalla Suprema corte. Per quanto riguarda i valori di alcool riscontrati, questi erano stati indicati dagli atti trasmessi dall’autorità rumena ed erano su livelli tali da far scattare la fattispecie più grave prevista dal codice della strada italiano. Nessuna irregolarità neppure negli accertamenti eseguiti in due tempi: prima l’alcol test e, ad un giorno di distanza, l’esame tossicologico verificato dall’istituto di medicina legale rumeno. Non passa neppure la censura secondo la quale lo svolgimento di un’attività lavorativa "in nero" non può pregiudicare l’esito della decisione di consegna. Nel caso esaminato però il lavoro non era solo nero, ma decisamente saltuario. In più la moglie e i figli del ricorrente si trovavano in Romania, dove lui certamente si era trattenuto almeno due anni, come provato dalle sentenza di condanna che aveva "totalizzato" per i fatti commessi sul territorio. Non è utile allo scopo della difesa neppure eccepire la mancata acquisizione della sentenza di condanna, senza la quale non sarebbe possibile la consegna. La Cassazione precisa, infatti, che il Mae può essere eseguito anche se manca la copia della sentenza di condanna alla pena detentiva che ha dato il via alla richiesta, quando dal mandato d’arresto europeo e dagli altri atti è possibile conoscere gli elementi necessari per decidere. L’unico motivo che avrebbe potuto bloccare la consegna, relativo al rischio di trattamenti inumani e degradanti non può essere considerato perché sollevato per la prima volta in Cassazione. La Cassazione è infatti, ormai orientata (sentenza 23277/16) a bloccare l’esecuzione del mandato d’arresto verso la Romania a causa delle condizioni inumane delle carceri. Responsabilità per colpa del 118 se sottovaluta la situazione e l’ambulanza arriva tardi di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 settembre 2016 n. 40036. Responsabilità per colpa nei confronti dell’operatore del 118 che - a seguito di una telefonata con cui veniva chiesto un urgente intervento dell’ambulanza per una grave crisi epilettica - abbia preso tempo sottovalutando quanto riferito dal congiunto. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 40036/2016. Ed è stata la Corte stessa a ripercorrere minuziosamente l’intera vicenda così da evidenziare la responsabilità dell’operatore sanitario. I fatti si sono svolti nel seguente modo. La vicenda - Un uomo è stato colto da grave crisi epilettica così da far precipitare la madre al telefono per chiamare il 118. La donna nella circostanza ha spiegato quali fossero i sintomi in maniera piuttosto dettagliata. Ma dall’altra parte si è sentita rispondere di non preoccuparsi perché la crisi sarebbe passata da sola ( testuali parole "Allora ascolti la crisi fra qualche minuto passa da sola…Capito? Quindi…se vedete che non passa lo portate in ospedale eventualmente, sicuramente ne ha avute altre… sicuramente passerà adesso da sola…comunque voi…valutate. Eventualmente ci richiamate"). A fronte di questa risposta il sanitario ha omesso totalmente di prendere informazioni. Ma a stretto giro la madre ha richiamato in funzione del peggioramento delle condizioni di salute del ragazzo. E all’ennesima chiamata la donna si è sentita rispondere testualmente ("Ancora! Mi dà l’indirizzo per favore?"). Il sanitario così con grave ritardo ha inviato un’ambulanza peraltro priva di un medico che con ragionevole probabilità avrebbe potuto salvare la vita dell’uomo. La Cassazione ha puntato il dito sul comportamento dell’operatore evidenziando come quest’ultimo non solo non si fosse curato di assumere informazioni sulle funzioni vitali del paziente (coscienza, respiro, circolazione e altro), ma aveva fornito valutazioni mediche assolutamente fuorvianti ed elusive rispetto a quello che era l’oggetto della richiesta. E come se non bastasse - si legge nella sentenza - cosa ancora molto grave il sanitario aveva indirizzato il richiedente verso il trasporto familiare, se ne avesse ravvisato la convenienza rispetto ai tempi di verosimile intervento e previa la constatazione di pratica realizzabilità. Era il parente a doversi muovere - Era, quindi, il parente che si sarebbe dovuto accorgere se le condizioni richiedessero l’immediata ospedalizzazione. In sostanza scrivono i Supremi giudici la donna "è stata dirottata verso un nulla di fatto che significava la mancata presa in carico del paziente, al contempo demandando al congiunto le successive opzioni di assistenza sul presupposto (peraltro ignoto) che non era la prima crisi epilettica e che sarebbe passata come le altre precedenti". Pesante quindi la condanna dei Supremi giudici che per l’appunto hanno respinto la difesa del sanitario e confermato la sentenza dei giudici di merito. Calunnia per chi denuncia il furto dell’assegno dopo averlo consegnato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 26 settembre 2016 n. 40021. Risponde del reato di calunnia chi denuncia il furto o lo smarrimento di un assegno dopo averlo consegnato al prenditore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 26 settembre 2016 n. 40021, confermando il giudizio della Corte di appello e dichiarando inammissibile il ricorso dell’imputato. Il giudice di secondo grado di Genova ha ritenuto provata la responsabilità del ricorrente per il reato previsto dall’articolo 368 del codice penale per aver falsamente denunciato alle forze di Polizia lo smarrimento ed il furto di un assegno tratto sul conto corrente acceso presso l’istituto bancario Unicredit. I giudici hanno ritenuto che "il prevenuto abbia incolpato di ricettazione o appropriazione di cose smarrite il prenditore del titolo che aveva ricevuto l’assegno dal primo a garanzia della restituzione del deposito, ricevuto in conto vendita, di taluni orologi di antiquariato". Per l’imputato, invece, la sentenza aveva, da una parte, illegittimamente disatteso la richiesta di perizia grafologica sostenendo "l’inidoneità del mezzo ad individuare la mano dell’autore della sigla apposta sull’assegno". Dall’altra, non aveva considerato, ai fini della calunnia, la mancanza di un rapporto debitorio a cui sarebbe stata collegata la consegna del titolo e l’esclusione della negoziabilità dell’assegno al momento della consegna perché già denunciato smarrito. Per i giudici di Piazza Cavour, invece, sotto il primo profilo, la Corte di appello ha valorizzato altri elementi, come la prova per testi e la presenza di una stampigliatura, in corrispondenza della sigla, che richiama la persona del prevenuto, indicato come "restauratore". Per cui, "l’improprietà della valutazione" riguardante la perizia, pure se espressa in sentenza, non esauriva la motivazione, prosegue la Cassazione, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità: "integra il reato di calunnia la condotta del privato che denunci lo smarrimento di assegni bancari dopo averli consegnati in pagamento ad altro soggetto, simulando, così, il primo ai danni del prenditore del titolo, le tracce del reato di furto o di ricettazione (n. 12810/2012)". Inoltre, prosegue la Corte, "resta comunque certa l’integrazione del delitto di calunnia anche ove, pur non formulata una diretta accusa di uno specifico reato nella natura di pericolo della calunnia, sia prevedibile l’apertura di un procedimento penale per un fatto procedibile d’ufficio a carico di persona determinata (n. 8045/2016)". Alla luce di questi principi il giudice di merito ha "segnatamente devalutato, in modo congruo rispetto alla raggiunta all’affermazione di responsabilità, la dedotta anteriorità della denuncia rispetto alla negoziazione del titolo". Infatti, "il rapporto temporale - e quindi anche l’eventuale anteriorità del prima rispetto alla seconda - tra denuncia di smarrimento e consegna del titolo non assume rilevanza quanto all’integrazione del reato di calunnia indiretta o reale ove sussista uno stretto e funzionale collegamento, oggettivo e soggettivo, tra la prima e la negoziazione, risultando altrimenti integrata la meno grave figura della simulazione di reato (n. 3910/2008)". La continuazione del reato va accertata in concreto Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2016 Esecuzione penale - Giudice dell’esecuzione - Reato continuato - Elementi ed indici di valutazione della continuazione ex art. 671 c.p.p. - Provvedimento di diniego - Motivazione. La decisione del giudice dell’esecuzione in ordine all’eventuale applicazione della continuazioneex articolo 671 c.p.p.(con la relativa rideterminazione delle pene comminate per i reati giudicati separatamente in maniera definitiva), se congruamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità. Il provvedimento del giudice a quo che rigetti l’istanza di applicazione della continuazione deve ritenersi assolutamente ben motivato se individua correttamente una serie di elementi sintomatici dell’inesistenza del medesimo disegno criminoso, quali la diversa identità dei complici del condannato, la svariate serie dei luoghi di commissione dei delitti e la distanza temporale tra i fatti. Peraltro, l’istanza di applicazione della continuazione avanzata dal condannato non deve essere generica, come ad esempio accade qualora il richiedente si limiti ad elencare le sentenze di condanna intervenute a proprio carico. Infatti, colui che intenda beneficiare della disciplina del reato continuato ha l’onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno della propria domanda, non essendo sufficiente il semplice riferimento alla contiguità temporale degli addebiti o alla identità e/o analogia dei reati commessi, indici, questi ultimi, sintomatici non dell’attuazione di un disegno criminoso unitario quanto, al contrario, di un’abitualità criminale e di ripetute scelte di vita del condannato sistematicamente ispirate alla violazione delle norme vigenti. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 13 settembre 2016 n. 37995. Esecuzione - Istanza di applicazione della disciplina della continuazione - Reati di omesso versamento iva - Diniego - Esclusa sussistenza di medesimo disegno criminoso - Implicito riconoscimento di distinte e separate decisioni. Ai fini della determinazione della continuità, di per sè l’omogeneità delle violazioni e la contiguità temporale di alcune di esse, seppure indicative di una scelta delinquenziale, non consentono, da sole, di ritenere che i reati siano frutto di determinazioni volitive risalenti a un’unica deliberazione di fondo, con la conseguenza che l’identità del disegno criminoso deve essere negata qualora la successione degli episodi sia tale da escludere, malgrado la contiguità spazio-temporale e il nesso funzionale tra le diverse fattispecie incriminatrici, la preventiva programmazione dei reati, ed emerga, invece, l’occasionalità di quelli compiuti successivamente rispetto a quello cronologicamente anteriore. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 3 settembre 2015 n. 35912. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Indici rivelatori dell’unicità del disegno criminoso - Nozione - Sufficienza anche di uno soltanto di essi ai fini del riconoscimento della continuazione - Fattispecie. In tema di reato continuato, l’identità del disegno criminoso è apprezzabile sulla base degli elementi costituiti dalla distanza cronologica tra i fatti, dalle modalità della condotta, dalla tipologia dei reati, dal bene tutelato, dalla omogeneità delle violazioni, dalla causale, dalle condizioni di tempo e di luogo, essendo a tal fine sufficiente la sola constatazione di alcuni soltanto di essi, purché significativi. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione aveva escluso la configurabilità della continuazione per fatti di partecipazione a due associazioni per delinquere finalizzate a traffico degli stupefacenti, sebbene vi fosse contiguità temporale tra i due sodalizi ed una parziale coincidenza spaziale delle condotte). • Corte cassazione, sezione I, sentenza 12 marzo 2013, n. 11564. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Accertamento della "continuazione" - Indici rivelatori dell’unicità del disegno criminoso - Nozione - Sussistenza di alcuni soltanto degli indici ai fini del riconoscimento della continuazione - Sufficienza. In tema di applicazione della continuazione in sede esecutiva il giudice, ponendo a raffronto le sentenze deve verificare la ricorrenza di almeno alcuni degli indici rivelatori dell’identità del disegno criminoso - tra cui la distanza cronologica tra i fatti, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, la tipologia dei reati, il bene protetto, l’omogeneità delle violazioni, la causale, le condizioni di tempo e di luogo - onde accertare se sussista o meno la preordinazione di fondo che cementa le singole violazioni. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 9 gennaio 2013, n. 8513. Il business nascosto del sopravvitto nel carcere di Voghera da Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2016 Circa un mese fa i detenuti di Voghera hanno inviato un reclamo alla direzione, al magistrato di sorveglianza, al garante nazionale, alla garante provinciale e alla Federconsumatori, inerente diverse problematiche strutturali che da anni, ormai, si trascinano senza essere risolte, nonostante le leggi e le ripetute ordinanze del Magistrato di Sorveglianza. Si va dai bagni alla turca "aperti" dei passeggi alle luci delle celle che non si spengono mai, dai generi alimentari in vendita presso il sopravvitto a prezzi raddoppiati ai canali televisivi limitati e tanto altro ancora. Tra le tante questioni segnalate nel reclamo vorremmo evidenziare quella relativa ai prezzi esorbitanti dei generi alimentari in vendita presso il cd "sopravvitto" dell’amministrazione penitenziaria, la mancanza di controlli sull’origine del prodotto in vendita e la mancata apertura dei canali televisivi pure prevista dal regolamento penitenziario. Molto spesso, infatti, questi aspetti vengono sottovalutati perché si ritengono problemi minori tra quelli che investono il pianeta carcere eppure, in molti casi, avere la possibilità di acquistare alcuni prodotti può essere vitale ma, al tempo stesso, diventa una sorta di privilegio, riservato a pochi, a causa dei prezzi quasi duplicati rispetto ai normali prezzi di mercato così come la possibilità di scegliere un canale televisivo che viene preclusa perché a Voghera, nell’era della comunicazione, si possono vedere solo pochi canali, contravvenendo al regolamento penitenziario e alle ordinanze del Magistrato di Sorveglianza che ha richiamato più volte la direzione in tal senso senza alcun risultato. È dal 1 settembre che i detenuti della casa circondariale di Voghera hanno intrapreso uno sciopero pacifico, rifiutandosi di acquistare qualsiasi genere dal sopravvitto con la speranza di riuscire a trovare ascolto. Nelle scorse settimane la garante provinciale ha effettuato una visita nell’istituto proprio per verificare le segnalazioni dei detenuti e sollecitare la direzione ad intervenire tempestivamente dove possibile e di competenza (come ad esempio i prezzi e i canali televisivi) ma, ad oggi, risulta tutto fermo. Invitiamo, pertanto, chi di competenza a voler porre fine ad una situazione di illegalità che sicuramente non favorisce il recupero dei detenuti come da dettato costituzionale. Perché non estendiamo le idee di Violante anche al rapporto tra procure e giornali? di Francesco Damato Il Dubbio, 28 settembre 2016 Luciano Violante - nella sua intervista a Il Dubbio su quella che egli stesso ha efficacemente chiamato "un’invasione assolutamente ingiustificata del diritto penale nelle nostre vite", e sull’abitudine dei grillini, ma non solo loro, di "essere subalterni a un atto giudiziario", per cui reclamano dimissioni ad ogni annuncio di avviso di garanzia, o solo di iscrizione nel registro degli indagati - ha compiuto un altro passo importante sul felice percorso del suo ripensamento sui temi della giustizia. Un percorso che gli ha già procurato il sarcasmo dei soliti giustizialisti, che gli hanno dato del traditore, contribuendo anche a boicottarne a suo tempo, fuori e dentro il suo partito, il Pd, la candidatura a giudice della Corte Costituzionale. Dove invece meritava di essere eletto dal Parlamento per la sua competenza, e proprio per la capacità dimostrata di sapere guardare in faccia la realtà. Anche quando questa smentisce la fiducia riposta in qualcuno o qualcosa. Di tolleranza credo francamente che Violante ne avesse avuta troppa quando la magistratura non seppe resistere alla tentazione di riempire i vuoti che le lasciava una politica debole o addirittura imbelle, tutta presa dalle lotte fra i partiti o all’interno di essi e incapace di risolvere da sé i problemi che le poneva l’eterna lotta alla corruzione o, più in generale, alla illegalità. Una lotta eterna, perché i nostri ultimi anni o decenni non sono stati gli unici, e purtroppo non potranno neppure essere gli ultimi in cui si scontrano il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Violante ebbe tanta fiducia nella categoria dei magistrati, da cui d’altronde proveniva, da apparirne il punto di riferimento nella politica per le posizioni apicali che egli via via occupava sul piano istituzionale e politico: il capo - si disse addirittura - del "partito dei giudici". Accadde quando fu il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, o presidente della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, o capogruppo o presidente della Camera. E quando la politica annaspava tra le sue già ricordate debolezze, molte delle quali purtroppo perduranti, le picconate - ricordate? - di un presidente della Repubblica come Francesco Cossiga e le forzature - sul versante opposto - di un successore come Oscar Luigi Scalfaro. Che in una crisi di governo, nel 1992, arrivò ad estendere la pratica delle consultazioni ad un capo in carica della Procura della Repubblica più esposta nelle indagini sul finanziamento illegale della politica e sulla corruzione che poteva averlo accompagnato e aggravato. Ora Violante sa ed ha il coraggio di denunciare, coi tempi che corrono, e i tanti mozza orecchi e manettari in servizio permanente effettivo, che la misura è colma. E che occorrono interventi davvero correttivi. Fra i quali egli è tornato a proporre, di fronte al "meccanismo troppo cristallizzato delle correnti" delle toghe, quella che ha chiamato "una Corte unica e separata dal Consiglio Superiore della Magistratura": un organismo davvero "terzo", che si occupi della "responsabilità disciplinare di tutti i magistrati", ordinari, amministrativi o contabili che siano. Sarebbe una riforma ben più vasta e incisiva di quella maturata per il regolamento interno del Csm. Ebbene, con l’esperienza di più di cinquant’anni di mestiere giornalistico, e con le occasioni capitatemi direttamente di avere a che fare col mondo delle Procure e, più in generale, della giustizia, chiedo a Violante se non sia il caso di proporre fra le competenze della sua provvidenziale "Corte Unica" anche le cause che purtroppo sempre più di frequente promuovono i magistrati contro chi scrive criticamente delle loro iniziative o sentenze. Cause che sono risolte da altri magistrati, sia pure di distretti giudiziari diversi. Dove ho sperimentato, per esempio, che può persino accadere che ad uno stesso magistrato capitino tutte le cause intentate contro decine di giornalisti di testate diverse da uno stesso attore giudiziario, e per le critiche alla stessa sentenza o iniziativa. Si tratta di cause prevalentemente civili per almeno due motivi. Il primo è perché con le cause penali bisogna dimostrare anche l’intenzione diffamatoria del giornalista che ha avuto la disavventura di non condividere e quindi di criticare un atto o una sentenza, mentre con le cause civili la buona o cattiva fede non c’entra. Il secondo motivo è perché le cause civili producono sentenze eseguibili già in primo grado, per cui il giornalista condannato deve pagare anche se fa ricorso. Ma prima ancora dei danni materiali procurati da simili procedure, per quanto legittime, conformi cioè alle disposizioni in vigore, i giornalisti subiscono in queste condizioni anche un altro tipo di inconvenienti. Subiscono, in particolare, la paura - letteralmente - di esercitare il loro diritto di critica per i guai ai quali possono andare incontro scrivendo o parlando. Il nostro è un Paese in cui può capitare a chiunque -com’è successo alla mia carissima amica Stefania Craxi- di dare dello "stronzo, anzi grandissimo stronzo" ad un politico, nella fattispecie all’allora sindaco o candidato sindaco a Roma Francesco Rutelli, potendo pagare una multa in comode rate mensili delle vecchie cinquantamila lire. Rate da lei usate per ribadire più o meno simpaticamente in ogni versamento, come motivazione, la qualifica di stronzo, grandissimo stronzo dato al denunciante per avere auspicato l’arresto di Craxi. E può invece capitare ad un giornalista di doversi vendere la casa per pagare, dopo una sentenza di primo grado in sede civile, i danni reclamati da un giudice, o una giudice, per le critiche ricevute condannando penalmente, sempre in primo grado, un imputato poi assolto in appello e in Cassazione. Non faccio nomi perché non è questione, appunto, di nomi. È questione di competenze, sotto tutti i profili. È un nodo, questo dei rapporti fra giustizia e giornalismo, che va risolto non meno urgentemente di quello fra giustizia e politica. Un nodo, quest’ultimo, che proprio Violante una volta disse spiritosamente, ma non troppo, che si poteva cominciare a sciogliere "separando le carriere dei magistrati e dei giornalisti", che ne raccontano il lavoro in modo tale da avvelenare il dibattito politico. "Voi non lo immaginate, ma questa è la vita che fanno gli orfani di femminicidio" di Agnese Allasia e Giovanni Paolo Cornaglia La Stampa, 28 settembre 2016 Il racconto di due zii affidatari: terrore, tremori, fragilità. Poi arriva la burocrazia. Un incubo che investe non solo le piccole vittime, ma anche chi li accoglie in famiglia. Gentile Direttore, siamo Agnese e Giovanni Paolo, zii affidatari di due orfani di femminicidio, abbiamo partecipato al Convegno Switch-off sugli "orfani speciali" del 21 settembre alla Camera dei Deputati. Esprimiamo profonda gratitudine alla dottoressa Anna Costanza Baldry e ai suoi collaboratori che, con il loro studio scientifico serio, approfondito, umano, hanno fatto luce su questa grave piaga sociale. Nessuno può lontanamente immaginare cosa vivono questi bambini, solo chi sta al loro fianco comprende e condivide il dolore e la tragedia, ogni istante del giorno e della notte, incessante, devastante. Questi bambini, in un attimo, vivono tre drammi: il dramma degli orfani, il dramma della guerra, il dramma del terremoto. 1) Il dramma degli orfani perché perdono entrambi i genitori, ma in modo unico, terribile: in un momento di quotidianità, nella sicurezza della loro casa, la loro madre viene uccisa dal padre, che diventa l’assassino, l’incubo, l’imprevedibilità più terrificante. 2) Il dramma della guerra perché vedono la guerra a casa loro: spari, urla, sangue e morte. 3) Il dramma dei terremotati perché perdono la loro casa, le loro cose, i loro giochi per sempre, nulla esiste più, solo distruzione… Come si sentono i bambini - I nostri due nipotini di 8 e 10 anni, accolti nei primi giorni dai nonni materni anziani e poi da noi zii e dai nostri due figli, sono travolti da realtà pesantissime: il funerale, il dolore del lutto loro e dei familiari, la mancanza di tutti i riferimenti, i giochi, gli effetti personali, la casa. Sono catapultati in una nuova realtà familiare dalle abitudini pressoché sconosciute, esposti ai commenti degli adulti, alle domande dei bambini, alle notizie e alle foto di mamma e papà sui giornali e su internet. Poi inizia la fase del processo, la condanna. Rivivono ogni istante "il fatto", così come lo chiamano loro, e lo raccontano minuziosamente ai familiari, alle insegnanti, alla psicologa e si chiedono: "Perché non possiamo raccontarlo al giudice?". Quei pochi minuti durano per ore, prima narrati con fatica immane, poi scritti, con calligrafia alterata dalla mano rigida. Tante domande e sensi di colpa, per essersi salvati e non aver potuto salvare, per non essere stati sentiti: "Zia, come faccio a dire al giudice ciò che veramente è successo?". Dopo la tragedia, il terrore vissuto si concretizza anche fisicamente, di giorno hanno tremori forti e inarrestabili, pallore, occhi sbarrati, rannicchiamento, isolamento e dondolio del corpo… di sera sono assaliti da paure, si fanno accompagnare in tutte le stanze, anche in bagno non riescono a stare da soli. Le notti sono sempre con la luce accesa, insonni, non basta tenerli per mano, con i letti tutti accostati, si svegliano di soprassalto per gli incubi, con urla, tremori ed enuresi. Anche quando dormono si contorcono e il loro volto è deformato dal terrore. I disturbi fisici di giorno sono imbarazzanti: balbuzie, tic, psoriasi, nausea, inappetenza, quello più mortificante è l’enuresi… I disturbi psichici sono: grandi difficoltà di concentrazione e di memoria, isolamento, irritabilità, instabilità, aggressività, distacco emotivo, forte conflittualità tra fratelli, sensi di colpa e di ingiustizia, vergogna di sentirsi diversi, trattati con compatimento, guardati con pietà o curiosità. Sopra ogni cosa, anche di giorno, tanta, tanta paura: innanzitutto che il padre fugga dal carcere e uccida anche loro, paura della confusione, dei rumori, del sangue, degli odori di quel giorno, paura delle ombre, dell’imprevedibilità. Frequentare la scuola diventa una fatica immane, non si è più abili come prima, ci si sente incapaci, sfortunati a vita, si vuole essere invisibili e lasciati in pace. Tutti i luoghi frequentati precedentemente, scuola, sport, parco giochi, luoghi di svago, il mare non danno più sollievo, destano in loro fortissimi ricordi e sprofondano in frequenti, dolorosi flash back. Non c’è più un posto, a loro conosciuto, che dia un po’ di sollievo e pace, bisogna portarli in ambienti nuovi e ricercarli accuratamente, che siano tranquilli e poco frequentati. Sono di una fragilità assoluta: qualsiasi piccolo episodio di tensione o di aggressività nella vita sociale, manda questi bambini completamente in tilt per intere settimane, si sentono perseguitati e riaffiora in loro il forte senso di colpa, di impotenza. Durante il giorno se ne escono, all’improvviso, coi loro racconti agghiaccianti e tante, profonde domande. È fondamentale un immediato e valido supporto psicologico per questi bambini e un lavoro di squadra costante tra psicoterapeuta, famiglia e scuola. Come si sente la famiglia affidataria parentale - Per i parenti affidatari e i loro figli, noi abbiamo già due figli, tutto cambia, si stravolge. Oltre a vivere i drammi dei bambini, si affronta un percorso a ostacoli: il sequestro dell’abitazione, l’autopsia, le deposizioni dai carabinieri, gli incontri con l’avvocato, il processo, il Tribunale dei Minori, l’Asl, gli enti assistenziali e anche le istituzioni comunali e regionali per chiedere un aiuto. In un istante sono spazzati via serenità, abitudini, comodità, tempo libero, progetti, clima allegro, vacanze, relazioni, vita sociale e possibilità economiche. Anche la propria amata casa viene stravolta, per creare nuovi spazi, i ritmi e lo stile di vita sono completamente modificati, totalmente rivolti alla gestione dell’emergenza più stravolgente e coinvolgente che possa esistere: curare e salvare questi bambini, non si riesce a pensare ad altro. Si devono prendere decisioni immediate, complicate, delicate per il futuro di questi bimbi, sia dal punto di vista delle azioni legali, burocratiche, amministrative, che dal punto di vista della salute, delle terapie psicologiche, delle scelte scolastiche, doposcuola, assistenza allo studio e tempo libero. Tutto senza trascurare nulla, pensando ad ogni risvolto psicologico, scegliendo per loro ambienti contenuti, rassicuranti. Nell’immane impresa di prendersi cura di loro, si lavora a costruire una nuova famiglia senza smantellare l’equilibrio di quella preesistente, continuando a svolgere la propria attività lavorativa. La carenza di riposo e le notti insonni per gli incubi dei nipoti, che perdurano per anni, rendono tutto estremamente faticoso, sempre più pesante. Si sopporta tutto, con amore, tenacia, forza, unione, dedizione, entusiasmo. Ciò che veramente è insopportabile, che causa una fatica disumana, compromettendo il difficile equilibrio psicofisico ed economico dell’intero nuovo nucleo familiare, sono gli ostacoli inaspettati per quanto riguarda la tutela e il sostegno ai minori e a tutto il nuovo nucleo familiare; ostacoli che si incontrano, assurdamente, proprio con gli enti che sono preposti per supportare i minori in difficoltà e le loro famiglie affidatarie. Sono gli innumerevoli paradossi del malfunzionamento del sistema, dovuto anche, ma non solo, a carenze legislative, che vittimizzano ulteriormente questi orfani speciali. Nella nostra storia, purtroppo, sono affiorate tutte queste assurdità, fortemente discriminanti nei confronti di queste vittime, è emerso il non rispetto di diritti garantiti anche dalla Convenzione di Istanbul: articolo 5 risarcimento alle vittime, articolo 26 protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza, articolo 46 circostanze aggravanti. Facciamo appello a tutte le autorità politiche affinché si lavori in coralità e si legiferi al più presto per tutelare anche questi deboli e indifesi, un esercito di orfani invisibili a cui dobbiamo un futuro migliore. Sardegna: detenuti stranieri in aumento nelle carceri della Regione sardegnaoggi.it, 28 settembre 2016 "Sono in costante aumento i detenuti stranieri, prevalentemente extracomunitari, nelle carceri della Sardegna. Negli ultimi tre mesi sono passati da 409 a 476 presenze (quasi 1 su quattro), facendo lievitare il numero complessivo delle persone private della libertà nelle strutture penitenziarie isolane. Al 31 maggio scorso infatti vi erano 2.070 ristretti, mentre il 31 di agosto sono diventati 2.110". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che fotografano la realtà isolana nei dieci istituti di pena. "La percentuale più significativa - osserva - è come sempre quella delle Case di Reclusione all’aperto. Nella Colonia Penale di Mamone-Lodé gli stranieri costituiscono il 72,95% dei ristretti mentre a Is Arenas raggiungono la ragguardevole percentuale del 67,85. Non manca qualche sorpresa come Alghero che ne annovera il 32,30% e Sassari-Bancali con il 29,81%. Seguono Isili (28,31%) e Cagliari-Uta (14,94). Le presenze meno significative sono a Nuoro (8,8%), Oristano-Massama (8,15%) e Tempio (2,9%). Un solo straniero su 41 detenuti si trova invece a Lanusei". "Nel complesso - aggiunge la presidente di Sdr - le colonie penali continuano a essere sottodimensionate rispetto ai posti disponibili mentre soffre notevolmente la Casa Circondariale di Cagliari-Uta che negli stessi tre mesi è passata da 562 a 607 detenuti (567 posti) e rischia di vedere aumentare ulteriormente i reclusi. Analoga considerazione deve essere fatta per Oristano-Massama che con 260 posti per detenuti in regime di alta sicurezza adesso ne ospita 282 (erano 275 a maggio) e il "San Daniele" di Lanusei con 33 posti per 41 protetti. Sono invece leggermente diminuiti i ristretti del "Paolo Pittalis" di Tempio Pausania. Erano 182 per 167 posti a maggio, adesso sono 170". "Non si può però tacere sul fatto che a un aumento dei reclusi non corrisponde un incremento del personale. A parte la grave carenza di direttori, vice direttori, educatori e amministrativi, salta agli occhi quella degli Agenti della Polizia Penitenziaria. Tra Cagliari (-55), Tempio (-90), Sassari (-70) e Oristano (- 33) mancano complessivamente all’appello, secondo quanto indicato nel sito del Ministero della Giustizia, addirittura 248 Agenti. Trarre le conclusioni è fin troppo semplice. Con questo genere di organizzazione - conclude Caligaris - il carcere non può recuperare chi ha commesso dei reati. Il suo ruolo principale appare quello di un grande contenitore sociale di disagio. La realtà sarda lo conferma". Toscana: malato psichiatrico attende da 1 anno di uscire dalla Rems di Volterra di Massimo Mugnaini La Repubblica, 28 settembre 2016 I termini sono scaduti ma una querelle legale tra procura, ufficio di sorveglianza e tribunale blocca la sua liberazione. Un malato psichiatrico attende di uscire da oltre un anno e mezzo dalla Rems di Volterra, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza che ha sostituito gli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari. "I termini di legge sono scaduti da 18 mesi ma gli uffici giudiziari di Pisa continuano a tenerlo in ostaggio con un rimpallo di competenze. Non si capisce perché siano state istituite le Rems se agli internati si prospettano ancora le morti bianche dei vecchi manicomi", attacca il suo avvocato Michele Passione. "Non credo esistano altri casi come questo", sostiene il garante dei detenuti Franco Corleone. Il suo assistito, racconta Passione, ha un lungo passato di internamenti in Opg, a causa tra l’altro di due tentati omicidi. "Fermato a inizio 2007 per ricettazione e armi, lo portano a Reggio Emilia. La misura di sicurezza scatta nel febbraio dello stesso anno". Il 31 marzo 2015 entra in vigore la legge che rottama gli Opg e istituisce le Rems. L’uomo viene trasferito a Volterra. "Le nuove norme sanciscono che la misura di sicurezza abbia un limite edittale massimo pari alla durata della pena - spiega Corleone - l’internato non può restare nella Rems oltre il periodo di pena". L’uomo doveva quindi uscire nel febbraio 2015. Eppure è soltanto nel luglio 2016 che un pm della procura di Pisa chiede all’Ufficio di sorveglianza "la cessazione della misura di sicurezza del ricovero nella Rems per decorrenza dei termini". Ma la richiesta è giudicata inammissibile: "Basandosi su una sentenza della Cassazione divergente da tutte le altre - sottolinea Corleone - secondo cui la norma sul limite edittale massimo non è retroattiva". "La nuova norma opera con efficacia ex nunc", ribatte l’Ufficio. L’avvocato resta di stucco: "In base a questa lettura delle norme, al mio assistito si potrà prorogare la misura di sicurezza per molti altri anni". E ricorre in appello. Pochi giorni fa, l’istanza di scarcerazione viene di nuovo respinta dal Tribunale di Pisa. "Lo stesso pm che aveva chiesto la scarcerazione a luglio, sostiene a settembre che i termini non siano scaduti, in palese contraddizione con se stesso" conclude l’avvocato, annunciando un ulteriore ricorso in Cassazione. Cagliari: sisma, raccolta fondi detenuti. Iniziativa di solidarietà dei carcerati di Uta Ansa, 28 settembre 2016 "Un piccolo gesto di solidarietà per rappresentare alle popolazioni del Lazio colpite dal terremoto la vicinanza umana dei detenuti della Casa Circondariale di Cagliari". Sono le parole con cui Antonello Solinas, uno dei promotori dell’iniziativa, ha motivato la volontà di attivare una raccolta fondi a sostegno dei cittadini duramente colpiti un mese fa dal terremoto che ha distrutto i paesi provocando quasi 300 vittime. L’iniziativa è stata resa nota da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che ha incontrato il recluso dell’istituto di Cagliari-Uta "Ettore Scalas" in occasione dei colloqui. "Le immagini che abbiamo visto attraverso i mezzi di informazione non potevano lasciarci indifferenti. Assieme ai ristretti della sezione ‘Gallurà - ha sottolineato Solinas - abbiamo iniziato la raccolta fondi. Attualmente hanno aderito 45 detenuti ma siamo convinti che anche quelli delle altre sezioni si uniranno non appena saranno informati adeguatamente"." Abbiamo anche chiesto il sostegno del diacono Mario Marini e del cappellano. Nella nostra struttura detentiva - precisa Solinas - la parola solidarietà non è una parola vuota. Anche se le disponibilità sono limitate intendiamo contribuire a dare un sollievo a chi soffre per un evento straordinariamente violento. Chi vive l’esperienza della perdita della libertà non può dimenticare quanti nella vita si sono trovati all’improvviso in una condizione di disperazione". "Un’iniziativa ammirevole - evidenzia Caligaris - che testimonia la sensibilità di persone che nella maggior parte dei casi per le condizioni sociali dovranno rinunciare a soddisfare un proprio bisogno per poter partecipare alla gara di solidarietà. Aldilà dell’esito della raccolta, è un segnale importante che mostra un tratto umano, spesso ignorato, di chi sta scontando una pena detentiva". Sondrio: sciopero della fame, clima teso in carcere di Antonia Marsetti La Provincia di Sondrio, 28 settembre 2016 Venticinque su 38 "ospiti" hanno aderito alla protesta e si sono rivolti al mondo esterno. "Dal luglio del 2015 la vita qui è impossibile. Chiediamo di parlare con il garante nazionale dei detenuti". Dopo il braccio di ferro, lo strappo. Anzi, un divario incolmabile a giudicare dai toni e dalle espressioni che i detenuti hanno messo nero su bianco, in un documento inviato al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e al presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. Due paginette ben scritte che terminano con l’annuncio di aver intrapreso lo sciopero della fame a oltranza, in attesa che il garante nazionale dei detenuti faccia loro visita e soprattutto "finché non verranno presi provvedimenti correttivi ed effettivi dalle autorità preposte". A innescare una simile decisione, il rapporto ormai deteriorato con la direttrice del carcere, Stefania Mussio, che dal suo insediamento a Sondrio - luglio dello scorso anno - si è trovata in più occasioni sotto i riflettori della cronaca: dalle dimissioni nel marzo scorso del garante dei detenuti Francesco Racchetti (sostenuto da una petizione che ha raccolto più di 1.300 firme), sino al dissidio di pochi giorni fa con il medico della struttura carceraria Ali El Hazaymeh, che ha dichiarato di non aver potuto varcare la soglia perché gli sarebbe stato impedito di compiere le visite nel carcere ("Il servizio sanitario all’interno del carcere - la replica della direttrice - è garantito puntualmente e quotidianamente"). Protesta senza precedenti - Ora la protesta eclatante che coinvolge 25 dei 38 detenuti presenti e che non ha precedenti in via Caimi. Pesantissime le accuse lanciate dai detenuti: dal divieto di "effettuare telefonate ai difensori", al "mancato rispetto delle graduatorie relative alle attività di lavoro" svolte dagli ospiti, sino alle "minacce di possibili ritorsioni a sfavore del trattamento rieducativo e del reinserimento" dei detenuti se questi ultimi "non si comportano come marionette generando un clima di invidia, paranoia e paura che sfocia a volte in aggressività e tutte le più ovvie conseguenze tra tutta la popolazione dei detenuti e non". Da ultimo, ma solo in ordine cronologico, vi è un episodio vissuto da un detenuto che avrebbe rischiato la vita se non fosse stato "per il pronto intervento del personale infermieristico coordinato dal dirigente sanitario dottor Ali El Azaymeh che da molti anni si è impegnato a salvaguardare la salute dei numerosi detenuti-pazienti entrati in carcere anche in condizioni già critiche di per sé". Insomma, ce n’è abbastanza per far sì che la direzione regionale convochi la direttrice per avere la sua versione dei fatti (noi non ci siamo riusciti perché al telefono non risponde). Bisognerà però attendere che rientri dalle ferie. In carcere in questi giorni pare sia difficile trovare un punto di riferimento: manca Mussio, non c’è l’educatrice e anche (l’ennesimo) nuovo comandante non è in città, in quanto opera a scavalco con Brescia. Comunicazioni difficili - Certo, non è colpa della direttrice se il carcere di Sondrio è sovraffollato, e magari non è nemmeno sua la decisione di non utilizzare tutte le celle disponibili, ma che in carcere ci siano problemi di comunicazione non lo dicono solo i detenuti. "I colloqui con il direttore - scrivono nel documento - si risolvono sempre con dei monologhi della dirigente". Anche con la stampa i rapporti sono difficili, nonostante i puntuali e reiterati tentativi di ascoltare (da parte nostra) tutte le "campane". Scorrendo il lungo elenco delle firme - venticinque, come detto - in calce al duro documento, ci sono nomi di perfetti sconosciuti, per lo più stranieri, ma anche vecchie conoscenze della cronaca locale, che in via Caimi non si sono mai trovate così male, tanto che uno di loro era arrivato perfino a ipotizzare, prima del processo, di voler scontare dietro le sbarre (e non a casa sua), l’intera pena. La scelta non si pose perché fu duramente condannato, ma di certo, alla luce del clima pesante che oggi si respira in cella, difficilmente gli verrebbe in mente di formulare di nuovo un simile pensiero. Vicenza: i detenuti salvano l’archivio del tribunale, in digitale 12mila fascicoli di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 settembre 2016 Gli atti delle cause civili scannerizzati nel carcere: risparmiati 700mila euro. Era la primavera del 2014 quando Fabio Mantovani, presidente dell’Ordine degli avvocati di Vicenza, dopo averle provate tutte, giocò la sua ultima carta per sensibilizzare l’opinione pubblica nazionale sulla disastrosa situazione del locale Palazzo di giustizia. Presentare "domanda di fallimento per insolvenza" del Tribunale berico in quanto non più in grado di adempiere alla sua basilare funzione giudiziaria. Un gesto sicuramente eclatante che, però, alla luce di quanto è accaduto in questi giorni ha sortito l’effetto desiderato. Un passo indietro. La provincia di Vicenza, uno dei distretti economici più importanti del Paese, per anni non ha avuto un ufficio giudiziario all’altezza. Una sede fatiscente, scoperture d’organico sia fra i magistrati che fra il personale amministrativo, per lungo tempo, addirittura, senza un presidente titolare. Come spesso capita in Italia, purtroppo, è necessario arrivare un momento prima del punto di non ritorno per poi invertire la rotta. Grazie alla sponda del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, il primo passo è stato quello di far nominare in tempi rapidi il presidente del Tribunale. La scelta è ricaduta l’anno scorso su Antonio Rizzo, un magistrato concreto che, una volta insediatosi, si è immediatamente rimboccato le maniche per risolvere gli atavici problemi. Uno dei primi era costituito dall’arretrato nel settore civile, schiacciato da oltre 12.000 fascicoli che, ironia della sorte, rischiavano di non trovare spazio nella nuova sede del Palazzo di giustizia, destinata per altro ad accogliere anche il disciolto Tribunale di Bassano. Con tutti i disagi del caso, fra cui quello di spendere subito 700mila euro per l’acquisto degli archivi rotanti destinati a contenere questa valanga di carta. Visto che in tempi di spending review non è cosi facile reperire al ministero della Giustizia somme simili, l’uovo di Colombo fu la creazione di una task force di detenuti che provvedesse alla digitalizzazione dei fascicoli cartacei, evitando che, per tale scopo, fosse sottratto personale amministrativo dalle altre incombenze di servizio. E cosi, 11 detenuti del locale carcere San Pio X, dopo un corso di alfabetizzazione informatica presso il Coespu, il Centro di alta formazione dell’Arma dei Carabinieri che ha sede proprio a Vicenza, in sei mesi di lavoro senza soste sono riusciti a digitalizzare l’intero, impressionante carico dei 12.000 fascicoli disponibili solo su carta. Un risultato a cui in pochi all’inizio confidavano. "È stato raggiunto un obiettivo importante non solo nell’ottica di una maggiore efficienza e riduzione dei costi, ma anche per quanto riguarda il processo rieducativo di alcune persone che proprio dal tribunale erano state condannate a scontare la loro pena in carcere", ha detto la scorsa settimana Rizzo commentando la fine del lavoro di digitalizzazione. A cui, per la cronaca, hanno collaborato anche dei volontari il cui costo per la copertura assicurativa è stato affrontato dall’Ordine degli avvocati di Vicenza. Una best practice, questa messa in atto al Tribunale di Vicenza, che potrà certamente essere replicata in altre parti d’Italia. Una sinergia fra vari soggetti istituzionali - Tribunale, Ordine degli avvocati, casa di reclusione, Arma dei Carabinieri - che in pochi mesi ha risolto un problema che rischiava di generare anche una valanga di ricorsi per richieste di indennizzo in base alla legge Pinto sulla eccessiva durata dei processi. Con l’aspetto importante, poi, di aver ridato dignità ai detenuti. I quali, invece di essere lasciati tutto il giorno senza far nulla in cella, hanno acquisito una professionalità che potranno spendersi una volta terminata l’espiazione della pena. Trani: "Puliamo il mondo", in piazza anche detenuti ed extracomunitari di Benvenuta Pasqualone puntosport.net, 28 settembre 2016 Puliamo il Mondo 2016: oltre 600mila volontari in 1.700 comuni e 4.000 località hanno partecipato alla grande iniziativa di volontariato ambientale organizzata in Italia da Legambiente in collaborazione con la Rai. Pertanto, l’invito alla partecipazione è rivolto a tutta la cittadinanza, compresi i bambini e i minorenni in generale, in quanto Puliamo il Mondo rientra tra le manifestazioni riconosciute dal Miur in qualità attività educativa a tutti gli effetti. La Croce rossa Italiana, che da sempre si occupa dell’eliminazione di qualunque forma di discriminazione e pregiudizio e che da molti anni è impegnata anche in attività di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici sull’uomo, l’Associazione dei Comuni virtuosi e l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, che monitora le carceri italiane da un decennio. "Soprattutto alle amministrazioni, in testa quella della capitale, chiediamo di rimettere al centro delle politiche una sana gestione del ciclo dei rifiuti e che contribuisca al ritorno alla bellezza dei territori". Un’occasione per iniziare un percorso di tutela ambientale in collaborazione con il circolo Legambiente di Ronciglione e Caprarola nell’ambito dei Monti Cimini e del Lago di Vico. "Il degrado e le difficoltà si sconfiggono anche abbattendo i muri della paura e del razzismo e rimboccandosi le maniche insieme". Puliamo il Mondo si svolge a Roma con il supporto di Ama Spa e nei Parchi di Roma con il sostegno dell’Ente Regionale Roma Natura. "Sarà dedicata quest’anno al tema dell’accoglienza, dell’integrazione e dell’abbattimento delle barriere, con l’obiettivo di "pulire il mondo anche da tutti quei muri" che frenano lo sviluppo dei diritti e la diffusione del benessere per tutti, di ridisegnare insieme nuovi spazi urbani più sostenibili, innovativi e inclusivi e promuovere il dialogo e lo scambio interculturale per creare reti territoriali tra cittadini di ogni età e provenienza" - così Manuela Cardarelli, presidente Legambiente Molise - Per questo Puliamo il Mondo coinvolgerà, oltre a tante associazioni presenti sul territorio, anche le comunità dei migranti, i rifugiati politici, le associazioni dedite all’integrazione sociale. Livorno: agricoltura, lavoro e restauri per evitare lo sfacelo di Pianosa di Luca Centini Il Tirreno, 28 settembre 2016 Una task force tra ministeri, Parco, amministrazione penitenziaria e istituzioni locali per salvare l’isola gioiello. Produzione agricola di qualità, servizi per il turismo e per l’accoglienza grazie al lavoro dei detenuti. E poi progetti mirati sul recupero del patrimonio edilizio esistente, a partire dalla casa dell’agronomo, fino alla realizzazione di un hotel nei locali abbandonati della caserma Bombardi, realizzata per il personale della polizia di Stato. Inaugurata senza mai essere usata e abbandonata nel 1997, quando il carcere di massima sicurezza chiuse i battenti. La sfida per il recupero dell’isola di Pianosa è aperta, ma è tutt’altro che semplice da portare a termine. L’obiettivo del Parco e dei ministeri coinvolti è mettere in piedi una cabina di regia efficace, in modo da sfruttare nel miglior modo possibile le risorse e il lavoro dei detenuti in semilibertà, al momento il contingente attivo sull’isola è di circa trenta unità. Nuovo di pacco, eppure reso vecchio dall’abbandono e dal degrado degli anni. Stiamo parlando dell’ex caserma Bombardi, inaugurata solo pochi giorni prima dalla chiusura del carcere di massima sicurezza. Il grosso immobile non è mai stato utilizzato. La polizia fece in tempo a recuperare e portare via gli arredi. Lo stabile oggi è svuotato e abbandonato. Varcata la porta di ingresso si apre un ampio salone - reception, con tanto di bancone per l’accoglienza. Dislocati su due piani ci sono una ventina di appartamenti, con bagni compresi, alcuni con ancora lo scaldabagno montato. Gli spazi sono particolarmente estesi, ci sono condizionatori mai usati, un’ampia sala mensa, cucine e celle frigorifere mai usate. Dall’ampia terrazza si scorge il mare che lambisce la costa sud dell’isola e, intorno, il muro impattante, tirato su quando Pianosa era adibita al 51 bis. Una struttura che, per essere utilizzata, ha bisogno di un investimento importante ma che, sia chiaro, conserva delle potenzialità notevoli nonostante gli anni di abbandono. Quello che è uno dei simboli dell’isola fantasma potrebbe essere una chiave per il suo rilancio ricettivo. Non a caso il presidente del Parco Giampiero Sammuri ha, nei giorni scorsi, ventilato l’ipotesi di un uso turistico ricettivo dell’immobile. L’idea è usare l’ex caserma da hotel da 50 posti letto, trasformando l’attuale hotel Milena, nella cittadella di Pianosa, in una foresteria a disposizione degli studenti. La casa dell’Agronomo - È l’immobile che, sulla base del lavoro del Parco e del ministero dell’Ambiente, sarà riqualificato per primo. Il ministero ha stanziato le risorse per l’intervento, per il quale esiste già un progetto di massima del Parco. Ora si tratta di accelerare le procedure con il Demanio che dovrà mettere a disposizione l’immobile, uno degli stabili più di pregio dell’isola. Situato a poche decine di metri dalla Casa del Parco, la casa versa in pessime condizioni e ha bisogno di un corposo intervento di restauro conservativo. Il progetto prevede inoltre il recupero degli orti esterni. Nell’idea del Parco la casa dell’Agronomo diventerà una sorta di museo, dedicato alle coltivazioni dell’isola. L’intervento fa parte di un più ampio piano di rilancio museale di Pianosa, che prevede anche l’utilizzo degli spazi dell’ex casa del direttore del carcere per uso espositivo. La seconda vita degli orti - Il primo risultato tangibile del lavoro dei detenuti è la seconda vita degli orti, situati all’interno del compendio ex carcerario. Dopo anni di abbandono, con gli spazi esterni ridotti a campi incolti invasi dalle erbacce, i detenuti in semi libertà del carcere di Porto Azzurro hanno ripreso il lavoro di una volta. E i terreni dell’area carceraria sono tornati a vivere. Ampi appezzamenti di terra sono stati adibiti alla coltivazione di ortaggi e frutta locale. La produzione ha avuto nell’ultimo anno una crescita costante, tanto che i detenuti, seguiti dall’amministrazione penitenziaria e dal direttore del carcere Francesco D’Anselmo, hanno aperto in via sperimentale un punto vendita, in un fondo situato a pochi metri dal vecchio porticciolo. Dietro il bancone due detenuti in semi libertà vendono a prezzi calmierati gli ortaggi raccolti nei campi ai turisti che, ogni giorno, arrivano sull’isola. Quest’anno la verdura prodotta a Pianosa è stata servita anche all’hotel Hermitage della Biodola. Il centro abitato in rovina - Se i primi risultati del lavoro dei detenuti in semi libertà inizia a vedersi, è innegabile che questo non possa bastare per rispondere a tutte le emergenze dell’isola. In questo contesto la linea dettata dall’assessore regionale Stefania Saccardi è quella giusta: "È inutile inseguire chimere o pensare a grandi progetti, quello che serve è migliorare i servizi sull’isola, passo dopo passo". Ma il tempo, è inutile nasconderlo, stringe. Basta dare un’occhiata alle condizioni in cui versano gli immobili del vecchio centro abitato, abbandonato dagli anni della chiusura del carcere. Il porticciolo è un gioiello il cui splendore, giorno dopo giorno, viene eroso dal degrado. Ci sono palazzi che rischiano seriamente di crollare. Vedremo se la sinergia tra gli enti sarà in grado, in tempi ragionevoli, di non dissipare questo tesoro. Aversa (Ce): Md, il gruppo casertano in campo a sostegno del reinserimento dei detenuti ildenaro.it, 28 settembre 2016 Il Gruppo Md, una delle più solide realtà della distribuzione organizzata, con sede a Gricignano di Aversa (Caserta) e presente in tutto il territorio nazionale con oltre 730 punti vendita, sostiene il progetto: "Il lavoro volontario e gratuito di utilità sociale sul territorio, da parte dei detenuti" in collaborazione con la Reggia di Caserta, la Casa di Reclusione di Carinola e l’Associazione Amici della Reggia di Caserta, in una iniziativa di impegno sociale che considera esemplare. "La possibilità di contribuire a un progetto che da un lato offre ai detenuti a fine pena una possibilità di reintegro nella società civile con la nobiltà del lavoro socialmente utile, e dall’altro offre una soluzione a uno dei principali problemi con cui un meraviglioso complesso monumentale come la Reggia di Caserta deve fare i conti quotidianamente, ci è sembrata un’iniziativa ammirevole e un momento di ragionevole e illuminata concretezza a favore di tutti" afferma il Cavalier Patrizio Podini, presidente e fondatore del Gruppo. "Un plauso quindi ai promotori e un in bocca al lupo per il loro futuro a tutti i detenuti che parteciperanno a questa bella operazione". Caserta e la Campania restano strategiche nel programma di sviluppo del Gruppo MD e non solo perché sedi di numerosi e importanti punti vendita, ma anche perché a questo territorio sono destinate continue attenzioni insieme a un grande impegno sociale per la sua crescita, anche per questo MD ha scelto di finanziare l’iniziativa mettendo a disposizione i mezzi per la movimentazione quotidiana dei detenuti partecipanti al progetto tra il Carcere di Carinola e la Reggia di Caserta per tutto il periodo previsto. Venezia: carcerato cala le lenzuola dal muro di cinta, agenti beffati di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 28 settembre 2016 Venezia. Giallo sul contenuto del sacchetto recapitato a un detenuto attraverso questo stratagemma: armi, cellulare o stupefacenti. Potrebbe essere la storia di un tempo, quando non c’erano le carceri di massima sicurezza costruite fuori dalle città, erano ancora in pieno centro e mogli e figli andavano sotto i finestroni a parlare con i propri cari detenuti, bastava alzare la voce per farsi sentire. Invece, è accaduto alla fine della scorsa settimana, in pieno 2016. E Santa Maria Maggiore ha più di un piede nel passato: è un vecchio convento, di fronte, a neppure venti metri, ci sono le case abitate dai veneziani e spesso i detenuti affacciandosi dalle inferriate possono fischiare alle ragazze che passano in Rio Terà dei Pensieri. Del resto non è passato che qualche anno da quando tre detenuti stranieri hanno scavato un tunnel per uscire nel cortile e hanno cercato di superare l’alto muro di cinta con una corda artigianale, ma sono stati bloccati, sistemi, appunto, di altri tempi. E nei giorni scorsi hanno utilizzato lo stesso stratagemma uno o più detenuti per far entrare un oggetto in cella, che sicuramente non sarebbe passato al controllo dei normali pacchi viveri. A differenza di un tempo, però, adesso ci sono le telecamere che hanno registrato tutto l’andirivieni. Peccato però che il personale della Polizia penitenziaria in servizio sia sotto organico e gli agenti non hanno potuto intervenire immediatamente per bloccare l’"operazione recupero". Intorno alle 17 di un giorno dello scorso fine settimana una corda fatta di stracci, probabilmente lenzuola e coperte strappate, è stata lanciata dalle finestre con inferriate del terzo piano. Si tratta di balconi di un corridoio del braccio che si affacciano all’esterno, di mezzo c’è il muro di cinta, che però è più basso. La corda è stata lanciata oltre il muro, là è arrivato un uomo vestito di scuro, indossava un passamontagna che gli copriva completamente il volto. Ha legato un oggetto ben avvolto in un sacchetto alla corda improvvisata ed è sparito in pochi attimo da dove era arrivato. Dall’interno, il detenuto che aveva lanciato ha tirato su la corda e ha fatto sparire in un baleno l’oggetto. Gli agenti in servizio alla centrale hanno avvisato quello (capita spesso che vi sia soltanto un agente di turno per ogni piano) che stava al terzo, che ha raggiunto le finestre aperte nel corridoio, dove ormai non c’era più nessuno. Poco dopo sono scattate le perquisizioni in tutte le celle del piano, ma gli agenti della Polizia penitenziaria non hanno trovato alcun oggetto proibito. Che cosa c’era in quel sacchetto: una pistola o comunque un’arma? Un cellulare per comunicare con l’esterno senza passare attraverso il telefono del carcere dal quale i detenuti possono chiamare una volta al mese i parenti? Oppure sostanze stupefacenti? L’ipotesi peggiore, naturalmente, è la prima, visto che in carcere un’arma può servire per organizzare un’evasione in grande stile, minacciando gli agenti di custodia, o può essere utilizzata per una vendetta tra detenuti. A quanto è dato sapere ancora non è stato aperto un fascicolo in Procura, ma il ministero della Giustizia è stato informato. All’interno del carcere veneziano i controlli sono ancora più attenti e severi di prima, per ora comunque nulla di anormale. Roma: al Maxxi la mostra sui detenuti siriani vittime di tortura romasette.it, 28 settembre 2016 Dal 5 al 9 ottobre, "Nome in codice: Caesar" propone le foto di un ex ufficiale della polizia militare siriana che ha portato all’estero 55mila scatti. Dopo essere stata esposta al Palazzo di Vetro di New York, al museo dell’Olocausto di Washington e al Parlamento Europeo, arriva in Italia la mostra fotografica "Nome in codice: Caesar. Detenuti siriani vittime di tortura", al Maxxi di Roma dal 5 al 9 ottobre. Un’iniziativa promossa da Federazione nazionale stampa italiana, Amnesty International, Focsiv, Unimed, Un ponte per e Articolo 21 che porta per la prima volta in Italia una selezione rigorosa di immagini scelte tra i 55mila scatti fotografici prodotti da Caeser, pseudonimo attribuito a un ex-ufficiale della Polizia militare siriana incaricato di fotografare la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar al Assad tra il 2011 e il 2013, che nel 2014 ha scelto la defezione. Quella proposta è una documentazione dei crimini contro l’umanità commessi nelle carceri siriane dal 2011: immagini "certificate e dichiarate ammissibili in caso di processo al regime siriano per i crimini di guerra da un’autorevole Commissione Internazionale di esperti forensi e giudici", spiegano gli organizzatori. Se ne parlerà martedì 4 ottobre nella conferenza stampa di presentazione in programma alle 11 nella sede della Fnsi, in corso Vittorio Emanuele II 349. Nel corso della conferenza saranno messe in evidenza le principali novità politico-giudiziarie internazionali emerse dall’ultimo Rapporto di Amnesty International e "saranno illustrate le iniziative politico-culturali che avranno luogo in occasione dell’inaugurazione, il 5 ottobre alle 18, e della chiusura dell’esposizione, sabato 8 ottobre, sempre alle 18". Prevista la lettura di un messaggio di Caesar. La mostra, con ingresso gratuito, sarà visitabile mercoledì 5 ottobre dalle 18 alle 20, giovedì 6 e venerdì 7 dalle 11 alle 19, sabato 8 dalle 11 alle 22 e domenica 9 dalle 11 alle 19. Torino: Mussida, dalla Pfm alle carceri "la musica aiuta a dare un nome ai sentimenti" di Marinella Venegoni La Stampa, 28 settembre 2016 L’ex chitarrista sorprende al Mao alle 18 racconta il suo progetto per i detenuti. Alla riscoperta - sorprendente - di Franco Mussida. Cofondatore della gloriosa Pfm (attualmente in tour in Europa con un nuovo chitarrista), e autore (tanto per dirne una sola) di "Impressioni di settembre", il musicista ha abbandonato il gruppo l’anno scorso per inseguire un sogno articolato, e lungo ormai anni: primo, l’insegnamento della musica attraverso il Cpm Institute; e secondo un progetto affascinante che si chiama Co2, nel quale ha coinvolto prima 4 e ora 12 carceri italiane. Une tecnica sulla possibilità umana di scoprire attraverso alcuni suoni i propri sentimenti più intimi e primitivi. Oggi alle 18 Franco Mussida sarà al Mao, nell’ambito della mostra "Nothing is real" sul periodo indiano dei Beatles, e offrirà ai presenti l’occasione di essere protagonisti dei suoi esperimenti. "L’evento di oggi - spiega il chitarrista - è una conversazione particolare chiesta dal Mao, sul fatto che nel 2012 ho preso una sessantina di studenti del Cpm e abbiamo fatto un viaggio in India assai particolare. A Jaipur abbiamo incontrato maestri di tabla e sitar, girando i quartieri più poveri alla ricerca della radici della loro struttura melodica e ritmica: i "raga" sono l’esempio concreto di come poche note possano generare immagini ed emozioni in chi ascolta, i "rasa" sono invece le disposizione d’animo e i sentimenti. L’India è depositaria di questo sistema". Introduzione in verità complessa, della quale Mussida ha scritto nel libro "Le chiavi nascoste della musica" appena uscito con Skira. Ne parlerà oggi, per far capire come dalle teorie sviluppate dopo la visita in India sia poi nato il progetto Co2: "Controllare l’odio nasce da una metafora: l’uomo emette di giorno, come le piante di notte, un suo invisibile veleno, fatto dei peggiori umori e sentimenti spesso repressi. Noi vogliamo limitare questi veleni emozionali". Dopo un breve successione di flauto e sitar, i presenti sono invitati a raccontare che cosa hanno provato. Si crea un flusso che ha già provocato notevoli risultati: "È la base del lavoro creativo delle audioteche nelle carceri, aiuta le persone semplici a dare un nome ai propri sentimenti". Se al Mao si sperimenterà la forza della musica come autentico linguaggio universale, a novembre in accordo con il Ministero di Grazia e Giustizia ci sarà l’inaugurazione di Co2 alla Casa Circondariale delle Vallette: "L’esperienza è uguale per detenuti e spettatori. Fa capire i legami fra struttura affettiva e organizzazione sonora". Migranti. "Orbán attacca i diritti dei rifugiati" di Massimo Congiu Il Manifesto, 28 settembre 2016 L’attacco di Amnesty: "Ha sostituito lo stato di diritto con lo stato di paura per tenere i migranti lontani dal paese". Un dossier di Amnesty International dal titolo "Speranze abbandonate: l’attacco dell’Ungheria ai diritti dei rifugiati e dei migranti" accusa il paese di dar luogo a maltrattamenti nei confronti dei migranti a scopo deterrente. Il testo parla di complicate procedure burocratiche e di violenze delle forze dell’ordine per scoraggiare i migranti a richiedere il diritto d’asilo alle autorità di Budapest. John Dalhuisen, direttore di Amnesty per l’Europa sostiene che l’Ungheria di Orbán "ha sostituito lo Stato di diritto con uno Stato di paura" basato su un sistema che, oltre ai reticolati posti ai confini con la Serbia e la Croazia, comprende tutta una serie di pratiche per tenere i migranti lontani dal paese e far capir loro che l’Ungheria non li vuole. Dalhuisen, però, non punta il dito solo contro Budapest ma contro i leader europei che non stati in grado di "contrastare con determinazione le violazioni delle leggi dell’Ue da parte dell’Ungheria". Eppure Orbán e i suoi collaboratori e sostenitori affermano che il loro è l’unico paese dell’Ue ad essersi posto il problema della difesa dei confini di Schengen, l’unico ad aver veramente applicato le norme dell’Ue in questo campo. Le accuse dell’organizzazione al governo ungherese si aggiungono a quelle lanciate di recente da più parti, in modo particolare da Human Rights Watch. È facile prevedere, però, che queste stigmatizzazioni non scoraggeranno Orbán dal portare avanti una politica che è criticata apertamente anche in territorio danubiano dall’opposizione di centro-sinistra e dai gruppi progressisti della società civile. Intanto si avvicina sempre più la data del 2 ottobre, giorno del referendum sulle "odiate" quote di accoglienza dei migranti. La campagna del governo è alle ultime battute ma sempre insistente e pervasiva: grandi manifesti propagandistici affissi in tutto il paese, messaggi televisivi e comizi che si sono svolti soprattutto nelle zone di provincia. I sondaggi danno il "No" in vantaggio schiacciante rispetto all’opzione contraria: 73% contro appena il 4%, secondo l’ultima rilevazione dell’Istituto Republikon. La vittoria di Orbán sembrerebbe quindi scontata, ma gli esperti giudicano a rischio il raggiungimento del quorum. Il voto è valido solo se si reca alle urne almeno il 50 per cento degli aventi diritto e, sempre stando a Republikon, il 48% di questi ultimi si dice certo di andare a votare. C’è però da dire che non mancano coloro i quali sostengono che la cifra è superiore al dato reale. Il governo continua a invitare gli elettori a prendere parte alla consultazione e a votare "No" per non mettere a rischio il futuro del paese, l’opposizione di centro-sinistra è divisa tra boicottaggio, invalidazione del voto e ragioni del "Sì" opzione, quest’ultima, tutt’altro che maggioritaria. Chi è per la diserzione delle urne invita la gente a decidere di stare a casa il 2 ottobre per restare in Europa. Orbán invece intende portare avanti la sua sfida a un’Unione europea che a suo avviso si è mostrata incapace di affrontare in modo efficace e realistico il problema migranti, e spera che altri stati membri decidano di seguire l’esempio della sua Ungheria e dando luogo ad analoghe consultazioni popolari. Secondo gli ultimi sondaggi la percentuale di chi ha deciso di non andare è votare è salita dal 17% al 21%, ma capita di incontrare persone che non sanno cosa sia meglio fare: temono che se anche non andassero alle urne i promotori del voto saprebbero come ottenere il raggiungimento del quorum. Il riferimento a possibili brogli è chiaro. Il dubbio attanaglia diversi avversari del governo e intanto l’esplosione verificatasi nel centro di Budapest, la notte di sabato scorso, ha fatto crescere la tensione. Secondo la ricostruzione dei fatti si sarebbe trattato di un attentato di ignoti contro la polizia. Due agenti sarebbero rimasti feriti e verserebbero in condizioni stabili. L’accaduto ha comunque fatto aumentare la paura degli attentati terroristici che secondo il governo sono strettamente connessi al fenomeno dell’immigrazione. Migranti. 20 profughi e 31 abitanti; prove di convivenza a Costa, frazione di Morbello di Vittorio De Benedictis La Stampa, 28 settembre 2016 Dall’hotel che una volta ospitava la vecchia locanda del paese, escono alla spicciolata: infradito ai piedi e sorriso bello aperto quando incontrano qualcuno dei 31 abitanti di Costa, frazione di Morbello. "Glielo ho detto io di salutare, buongiorno e buonasera, di sorridere. Erano così smarriti quando sono arrivati" racconta Renato Cugola, 81 anni, che abita proprio a fianco dell’hotel. Riaperto nove giorni fa - dopo tanti anni di inattività - per ospitare un Centro di accoglienza temporaneo per profughi, Per fortuna l’estate sta concedendo un bel po’ di proroghe e anche l’uso delle infradito, ma proprio ieri sono arrivate le scarpe, insieme ad altri vestiti. Destinati a venti profughi. Hanno tra i 20 e i 25 anni, con l’eccezione di un quasi quarantenne. Tutti maschi, con la variante di una coppia di senegalesi, Landing e la moglie. Arrivano da Senegal, Gambia, Nigeria, Eritrea, Camerun, Sierra Leone. Venti in una frazione che conta d’inverno 31 abitanti. Venti giovani scaraventati dal loro mondo in questo, un paesino bello e accogliente, incastonato nelle colline dell’Acquese. Ma dove sono rimasti quasi soltanto anziani. Ed è così isolato. I servizi? Un tabacchino, la pasticceria, il bar della Pro loco, il medico che viene tre volte la settimana per un’ora, tre anche le corse giornaliere della corriera che collega ad Acqui, tre i giorni di apertura delle Poste, tre giorni in cui al Comune si distribuiscono i medicinali. "È bellissimo qui, si sta bene, l’albergo è in ordine e molto pulito" taglia corto Ismael, 20 anni, parla l’inglese ma sembra un’eccezione, altri compagni di avventura si esprimono solo nella loro lingua, un paio pare non sappiano né leggere né scrivere. "Voglio restare qui e voglio rimanere in Italia". Ci starà "qui" per un bel po’. Dai dodici ai diciotto mesi. Il tempo che ci vuole per ottenere (in media) lo status di rifugiato politico con annessa protezione internazionale, con la variante della protezione sussidiaria o di un permesso di lavoro. Potrebbero restarci altri sei mesi se la loro domanda fosse respinta. A gestire l’operazione la cooperativa di Vercelli "Versoprobo", il cui referente a Costa di Morbello è Carlo Tortarolo, avvocato che si è preso l’anno sabbatico per intraprendere un nuovo lavoro. Il loro arrivo non è stato indolore. Il sindaco Alessandro Vacca, eletto la scorsa primavera, si è trovato di fronte al fatto compiuto: "La prefettura ci ha comunicato l’arrivo dei migranti dieci giorni prima. Io ero contrario: come si fa a mandare venti giovani in una frazione con 31 abitanti? Ci hanno completamente scavalcato". Morbello in totale conta 410 residenti, sparsi in tante frazioni e frazioncine. Il 7 settembre si è tenuta un’assemblea alla Pro loco. Accesissima. E durante il dibattito sono schizzate fuori ansie e paure di fronte a una novità enorme per i ritmi di una comunità anziana, scanditi dal tran tran e dalla mancanza di novità. Ma ora, nove giorni dopo, i sorrisi e l’educazione dei nuovi ospiti hanno calmato le acque. Nessuno straparla più di "violenze" o minaccia di tirare fuori il fucile. "Questi ragazzi non solo non danno fastidio ma cercano di aiutare chiunque. Hanno portato la vita in un paese che sta morendo" osserva Cugola. E il sindaco ora pensa solo a come far convivere i suoi abitanti con i venti nuovi residenti, sia pure temporanei: "La popolazione ha dimostrato una grande civiltà anche se c’è chi continua a mantenere le proprie idee". Ma la domanda che tutti si fanno qui, è quella espressa da Giancarlo Campazzo: "Ma che tipo di integrazione possono avere in questo paesino di anziani?". Dunque, che faranno venti giovani durante la giornata? E tutti i giorni per quasi due anni? Intanto partiranno immediatamente corsi di italiano. Poi i lavori socialmente utili. Tipo tenere in ordine i sentieri e le strade. Il sindaco Vacca ne sta già parlando con il direttore della cooperativa Claudio Berlini d’intesa con la Prefettura. Intanto c’è già stato spazio per una bella iniziativa: nella partita tra Grognardo e Morbello hanno giocato anche Ismael e Landing. Uno di qua e uno di là. Siria. I pacifisti a tripla mandata di Adriano Sofri Il Foglio, 28 settembre 2016 Abbiamo avuto cinque anni per vedere. E duecentomila morti dopo, amate così a occhi chiusi la "pace" da non volere l’uso della forza per fermare il massacro. Ieri ho ascoltato una puntata di "Tutta la città ne parla" su Radio 3 in cui si discuteva di Aleppo, della nostra indifferenza, del nostro amore per la pace. È vero, amiamo a occhi chiusi la nostra pace. Non è vero, non siamo indifferenti. Esattamente nelle ore in cui il mattatoio di Aleppo culmina nei crimini di guerra di Putin e Assad contro inermi ostaggi del fanatismo jihadista "noi" barrichiamo le nostre frontiere mentali e fisiche, rispondiamo ai sondaggi che non vogliamo più saperne di Schengen, votiamo per tenere alla larga i fratelli e le sorelle dei bambini dissepolti dalle macerie. Altro che indifferenti, siamo impressionati da quelle cifre - ancora due milioni di sopravvissuti nella città massacrata, e le bombe e i gas e il cibo e le medicine e l’acqua sporca non li ammazzeranno tutti, e gli scampati vorranno venire da noi! Cinque anni: ci siamo presi tutto il tempo per vedere e ragionare, e ora sappiamo come arginare la risacca che ce li fa arrivare addosso, i vivi e i morti. Ci chiudiamo a tripla mandata. Altro che indifferenza. Sdegnato, Flavio Lotti - la Tavola della Pace, la Marcia della Pace, il mestiere della pace, tutto ciò che volete sentirvi dire della pace - deplorava la nostra cinica impassibilità di fronte ai nostri simili che agonizzano e invocano invano l’aiuto del mondo. "No alle bombe", è scritto sui suoi cartelli. Nell’agosto 2014, quando gli sgherri dell’Isis da Mosul conquistata col gesso salivano sul monte Sinjar per completare l’opera dello sterminio degli yazidi e dei cristiani e degli altri fuggiaschi e arrivavano fino alle soglie della curda Erbil, finalmente gli americani e la loro pletorica coalizione decisero che fosse troppo e bombardarono le postazioni dell’Isis e salvarono quell’avanzo di popolo disperso di orfani e vedove. Qualcuno di noi, quelli che hanno rinunciato a proclamare dai balconi che amano la pace e aborrono la guerra, aveva invocato sempre più disperatamente quell’intervento, qualunque intervento interrompesse la strage, il genocidio. Flavio Lotti, Emergency, e tanti altri che hanno il petto grave di medaglie non di rado meritate, chiamavano a mobilitarsi e manifestare per sventare quell’intervento. "No ai bombardamenti!". I bombardamenti erano quelli implorati dalle prede inermi del califfato, gli uomini sfuggiti fortunosamente alle esecuzioni di massa del giugno di Mosul, quelle di cui sono piene le fosse oggi riscoperte, le donne e le bambine sfuggite alla schiavitù allo stupro alla compravendita dei miliziani jihadisti, le vecchie e i vecchi che piangevano di essere rimasti vivi. I bombardamenti erano il soccorso, benché tardivo e misurato - non di Adriano Sofri si voleva vincere, solo limare un po’ le unghie ai tagliagole. I nobili pacifisti - nobili davvero, ci credono davvero, quando si mobilitano per lasciare indisturbato il genocidio di Ninive e quando si mobilitavano per lasciare indisturbato il genocidio di Srebrenica - chiamano guerra il soccorso, e credono sinceramente di opporsi alla guerra quando si oppongono al soccorso. Noi agiamo, dice Lotti, noi rivendichiamo che il mondo smetta di fabbricare e spacciare armi, è questa la nostra risposta al martirio di Aleppo. Formidabile risposta. Speriamo che arrivi fin là. "Io non sono pacifista, sono contro la guerra", dichiara Gino Strada - che, lui e i suoi, va ammirevolmente a curare le ferite del mondo - con una tale sincerità che si crederebbe che sia il solo a essere contro la guerra e gli altri, noi, in favore della guerra, delle guerre. Trova scandaloso che le Nazioni Unite non abbiano ancora votato la proibizione universale della guerra. In realtà qualcosa del genere c’è, c’era già nella povera Società delle Nazioni: lui vuole che sia tassativa. "Vietata la guerra". E se qualcuno la fa, che cosa facciamo? Gli fischiamo dietro, lo multiamo? Galli della Loggia, che, benché spaesato sul contesto mediorientale, ieri avvertiva che non è il mercato delle armi a provocare le guerre, ma (almeno) viceversa, figurava come un guerrafondaio. Bene, votiamo il disarmo universale: riusciremo a farlo simultaneo o avremo cura di cominciare, una mezz’ora prima, da Kim Jong Un? Che i curdi si battano e valorosamente e dalla parte giusta sono disposti più o meno volentieri ad ammetterlo tutti: ma anche i più incantati sostenitori del valore delle curde e dei curdi del Rojava parlano più volentieri del confederalismo democratico sperimentato colà che della combinazione fra il loro valore militare e l’apporto aereo degli americani e dei francesi. Senza il quale Kobane sarebbe ancora in mano all’Isis, più o meno come le città italiane di settant’anni fa in cui pure si battevano arditamente e immaginavano un mondo giusto i partigiani. Quei centellinati interventi della coalizione hanno arginato e poi lentamente ricacciato l’Isis, intanto lasciandolo infuriare e usare il proprio tracotante trionfo abbastanza a lungo per stendere i propri tentacoli sul pianeta intero. L’interventismo catastrofico dell’esportazione della democrazia con le armi ha fatto immaginare a Obama che il ritiro, come una moviola, valesse a rimediare. La Siria è l’esempio più perverso e colossale nella storia contemporanea dei disastri dell’omissione di soccorso. Cinque anni fa Assad scatenò una violenza ottusa e spietata contro i ragazzi delle sue scuole e i suoi sudditi che volevano farsi cittadini. Tre anni fa Assad violò provocatoriamente la solenne Linea Rossa fissata da un Obama renitente e illuso che non l’avrebbe mai davvero superata. Assad è un criminale all’ingrosso ma non è stupido: aveva capito bene Putin e aveva capito bene Obama. Forse aveva capito bene anche il pacifismo e il Papa. Tre anni fa in Siria era già troppo tardi. (Dunque, tragicamente, non è mai troppo tardi). Tre anni dopo i morti ammazzati sono 200 mila, forse 300 mila più di allora, i profughi milioni più di allora, l’Europa disfatta e sull’orlo di un creativo fascismo (l’avete visto, spero, l’incomparabile filo spinato del giorno d’oggi), la guerra per delega fra le potenze mutata nel ricatto del confronto diretto fra Russia e America. Che generosa, accorata mobilitazione unì papi e pacifisti e benefattori del genere umano per sventare misure parzialissime e svogliatamente ventilate contro i depositi di armi chimiche e le basi di partenza degli elicotteri coi barili bomba di Assad. Spiegando perché il Movimento nonviolento non aderisce alla Marcia del prossimo 9 ottobre, pur apprezzando e sollecitando la partecipazione di tanti, soprattutto giovani, che cercano davvero di rompere l’indifferenza e stare dalla parte giusta, Mao Valpiana ha segnalato che la novità di quest’anno è il cambiamento del nome, da Marcia della Pace a Marcia della Pace e della Fraternità, e che in compenso nella sua promozione non una parola viene dedicata alla Siria. So che cosa mi direbbero, indignati, i tre pacifisti che fossero arrivati a leggere fin qui queste mie del resto ennesime righe: Vorresti forse che persone che aspirano alla pace e hanno orrore delle guerre e della violenza marciassero nella notte con la loro fiaccola e con uno striscione che rivendichi l’impiego della forza per metter fine ai massacri e alle persecuzioni? Sì, vorrei. Anche delle bombe? Sì, anche delle bombe, sepolcri imbiancati. E sappiano i miei amici, compresi i bravi autori di Radio 3, che sono respinti da quello che penso e dico, che io a mia volta non so darmi ragione di che pensano e dicono loro, quelli del Vietnam. Allora avevamo ancora il modello delle brigate internazionali, della guerra di Spagna: siamo molto vecchi, infatti. Poi siamo cambiati, per fortuna. Loro sono così cambiati che riescono a tirare avanti senza invocare una polizia internazionale a protezione di chi soccombe, nel momento in cui soccombe. Che cosa sono diventati i miei amici… Era già angoscioso vedere che cosa erano diventati, tanti miei amici, negli anni di Sarajevo assediata. Vent’anni dopo, Aleppo, Mosul… Gli amici se li porta il vento, e ha soffiato alla nostra porta, ci ha portati via. Turchia. Almeno 121 giornalisti ingiustamente detenuti globalist.it, 28 settembre 2016 La maggior parte sono accusati di sospetti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen o con l’accusa di propaganda terroristica per il Pkk. Sono almeno 121 i giornalisti attualmente detenuti in Turchia, arrestati in maggioranza durante lo stato di emergenza dichiarato dopo il fallito golpe del 15 luglio. A dirlo è l’ultimo aggiornamento dell’ osservatorio per la libertà di stampa P24, secondo cui "il numero effettivo di quelli in stato d’arresto potrebbe essere molto più alto" visto che "si ha notizia di dozzine di altri giornalisti detenuti durante l’indagine sul colpo di stato senza avere successivi aggiornamenti sul loro status legale". La maggior parte dei giornalisti sono finiti in manette per sospetti legami con la presunta rete golpista di Fethullah Gulen o con l’accusa di "propaganda terroristica" a favore del Pkk. Diversi reporter per cui è stato emesso un mandato d’arresto, inoltre, si trovano fortunatamente all’estero. Egitto. Human Rights Watch denuncia "abusi nel carcere Scorpion del Cairo" Askanews, 28 settembre 2016 I prigionieri del carcere di massima sicurezza egiziano Scorpion, al Cairo, subiscono "regolarmente abusi che potrebbero aver contribuito alla morte di alcuni di loro". È quanto si legge in un rapporto diffuso oggi da Human Rights Watch (Hrw), redatto sulla base delle testimonianze di 20 familiari di detenuti, due avvocati e un ex prigioniero, così come dalle cartelle mediche e dalle fotografie di detenuti malati e deceduti. Stando al rapporto, il personale della prigione Scorpion, dove si trovano molti prigionieri politici, picchia duramente i detenuti, li mette in isolamento in anguste celle "!disciplinari", vieta l’accesso ai familiari e ai legali e interferisce con le cure mediche. Secondo Hrw, tale "trattamento crudele e inumano da parte di funzionari del ministero dell’Interno egiziano potrebbe equivalere a tortura in alcuni casi e violare le leggi internazionali sul trattamento dei prigionieri". Secondo i familiari sentiti dall’organizzazione per i diritti umani, le condizioni sono peggiorate nel carcere a partire dal marzo 2015, quando il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha nominato Magdy Abd al-Ghaffar ministro dell’Interno. "La prigione Scorpion si colloca al termine della linea repressiva dello Stato, per assicurare che gli oppositori politici siano lasciati senza voce e senza speranza", ha dichiarato Joe Stork, vicedirettore di Hrw per il Medio Oriente e il Nord Africa. Tra i mesi di maggio e ottobre del 2015 almeno sei detenuti sono morti nel carcere: a due di loro era stato diagnosticato il cancro, il terzo soffriva di diabete. Secondo i parenti le autorità hanno impedito cure tempestive o la consegna di medicinali, si sono rifiutate di prendere in considerazione un loro rilascio per motivi sanitari e non hanno approfondito le cause del decesso.