Contro la "Pena di Morte Viva". Per il diritto a un fine pena che non ammazzi la vita di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2016 Per il convegno per l’abolizione dell’ergastolo, che sta organizzando "Ristretti Orizzonti", che si svolgerà nel carcere di Padova il 20 gennaio 2017, ho pensato di dare questa mia personale testimonianza. L’ergastolano è l’amico ideale dei detenuti perché non rompe, è sempre disponibile, ascolta i sogni e i progetti degli altri prigionieri senza mai raccontare i suoi. Ieri un compagno che ha il fine pena e che mi viene spesso a trovare in cella per raccontarmi cosa farà quando uscirà, mi ha fatto amaramente sorridere quando mi ha chiesto perché non gli racconto mai nulla di me e dei miei progetti di quando uscirò. Per un attimo ho provato l’istinto di dargli un calcio negli stinchi, invece gli ho fatto il caffè. E gli ho spiegato che chi non aspetta nessun fine pena è inutile che fa progetti e che molti ergastolani vivono la vita degli altri senza più pensare alla loro. Poi gli ho confidato che io vivo solo per le persone che fuori mi vogliono bene. Vivo la vita della mia compagna, dei miei figli e ora anche la vita dei miei due nipotini, perché la vita è un sogno, ma agli ergastolani è vietato sognare perché per noi non ci sono stelle nel cielo. Gli ho confidato che gli ergastolani sono le uniche persone che nell’universo riescono a vivere senza speranza e senza futuro. L’amico mi ha ascoltato scrollando diverse volte la testa. Poi ha finito di bere il caffè e se ne è andato con gli occhi bassi e la coda fra le gambe. Spero che per un pò non mi parli più di cosa farà quando uscirà. Quando sono rimasto solo guardando le foto dei miei nipotini attaccate alla parete ho pensato che per scontare l’ergastolo bisogna avere tanto coraggio o forse tanta incoscienza. Ho riflettuto che forse la cosa peggiore per un ergastolano è quella di abituarsi a vivere in carcere come se ci avesse sempre vissuto, dimenticando che dall’altra parte del muro di cinta ci sono un sole, un vento, un cielo diversi. Ho pensato che forse c’è un’altra vera prigione che è nella nostra mente ed è una prigione dalla quale rischiamo di non uscire mai più. E che molti di noi sono ciechi di fronte a ciò che possono vedere e sordi di fronte a quello che possono sentire. Alla fine ho pensato che forse i nostri sogni sono liberi e vivi ma noi no. Poi ho smesso di pensare. Il carcere è carcere. Se è "duro" è fuori-legge di Luigi Manconi Il Dubbio, 27 settembre 2016 Gentile direttore, sono incondizionatamente d’accordo con il suo editoriale di venerdì scorso, tranne che per ciò che può apparire un dettaglio. Ma si tratta di un dettaglio in realtà cosi significativo da esigere un approfondimento, che finirà per trovare d’accordo anche lei. Nel suo articolo, a un certo punto, si parla "del famoso 41 bis (e cioè del carcere duro per persone condannate o anche solo sospettate di appartenere alla mafia o anche a organizzazioni terroristiche)". Sembra proprio un assioma: il regime di 41bis, ovvero (cioè, in altri termini, vale a dire) il carcere duro. Ma non è affatto così, e le conseguenze di questo errore sono rilevantissime. La disciplina dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario va sotto la rubrica "situazioni di emergenza", e già questo stesso fatto ci ricorda che ciò che in esso è previsto non può essere considerato come una forma di pena, essendo qualsiasi pena predeterminata per legge e non potendo essere arbitrariamente comminata in ragione di qualsivoglia emergenza. Figuriamoci, poi, se una pena possa essere comminata da un’autorità politica, in questo caso il Ministro della giustizia: torneremmo a una barbarie pre-moderna, come quando il sovrano o i suoi delegati decidevano discrezionalmente le punizioni da infliggere a chi avesse infranto la legge, o urtato i suoi sentimenti. Basterebbe quella rubrica, dunque, a spiegare perché l’uso di chiamare l’applicazione dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario "carcere duro" sia fuorviante e illegittimo. Il secondo comma di quell’articolo, che stabilisce la sospensione non di qualsiasi norma dell’ordinamento penitenziario, ma solo "delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza", infatti ha una precisa finalità: solo "quando ricorrano gravi motivi" (e non, dunque, ordinariamente), ai condannati per reati legati alle organizzazioni criminali, "in relazione ai quali vi siano elementi tali da ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale", quelle regole possono essere sospese. La finalità del 41bis è tutta in quei "collegamenti": con la sua applicazione si vuole evitare che capi e membri delle organizzazioni criminali continuino a esercitare il loro potere dal carcere. Dunque, il 41bis non è una pena di specie diversa, il "carcere duro per i mafiosi", che sarebbe illegittimo, non conoscendo il nostro ordinamento pena più dura della reclusione (ovviamente più o meno lunga a seconda della gravità del reato), ma semplicemente una sospensione provvisoria delle sole regole penitenziarie che possano consentire a capi e membri delle organizzazioni criminali di continuare a essere attivamente tali. Ogni ulteriore intenzione, ogni altra finalità e ogni superflua applicazione sono illegittime e in contrasto con i principi costituzionali (come si è evidenziato nell’indagine sul regime di 41bis, realizzata dalla Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, consultabile sul sito internet del Senato alla pagina della stessa Commissione) che stabiliscono che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Di conseguenza, l’espressione "carcere duro per i mafiosi" sottintende e fa intendere che i mafiosi debbano essere sottoposti a una forma di pena diversa dagli autori di altri reati. Come se esistesse un carcere normale e un carcere particolare, "duro" appunto, fatto apposta per loro. Al contrario, il nostro ordinamento, come già detto, prescrive una sola forma di pena detentiva, la reclusione, per un determinato periodo di tempo. Ovviamente, più grave è il reato, più lunga è la reclusione. Il che vale anche per i "mafiosi". È questo il risultato di una storia secolare di limitazione dell’arbitrio punitivo, che dal divieto delle pene corporali è arrivata fino al diffuso divieto della pena capitale e al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone detenute compatibili con la privazione della libertà. Per queste ragioni, una pena di specie diversa, un "carcere duro per i mafiosi" sarebbe illegittimo nel nostro ordinamento. Sulla riforma del processo penale maggioranza divisa, il governo rinuncia al voto di fiducia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2016 Orlando faceva affidamento sulla fiducia, seppure dopo aver votato i primissimi articoli, contenenti misure popolari e condivise. Il no di Matteo Renzi alla fiducia sulla riforma del processo penale arriva come un fulmine a ciel sereno durante il Consiglio dei ministri. E ha il sapore di un’implicita "sfiducia" verso il ministro della Giustizia se è vero, come spiegano a Palazzo Chigi, che il governo avrebbe verificato che "non c’è accordo politico sul testo", sebbene fino a ieri mattina sembrava invece raggiunto e l’artefice (nonché il garante) era proprio Andrea Orlando. Tanto che gli uffici del Senato erano stati avvertiti da via Arenula dell’arrivo di un maxiemendamento, su cui chiedere il voto di fiducia, tra oggi e domani: un testo che, salvo due modifiche (su Opg e conversione della pena detentiva in pecuniaria), riproduceva esattamente quello licenziato a luglio dalla commissione Giustizia e calendarizzato in Aula subito dopo la pausa estiva. "Accelerazione" non gradita al premier Renzi, preoccupato di sgombrare il campo, fino al referendum, da provvedimenti divisivi. Come la riforma del processo penale, che continua a mietere malumori trasversali nella maggioranza, in particolare nel Centrodestra, ma anche tra avvocati e magistrati: è di domenica la bordata del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo contro"una riforma inutile e dannosa". Il no alla fiducia lo ha ufficializzato, in conferenza stampa, il sottosegretario alla Presidenza Claudio De Vincenti. "Al momento no", ha risposto a chi chiedeva se il governo avesse deciso di ricorrere al voto di fiducia. Risposta diplomatica, che lascia ancora aperta la questione, ma che rende evidenti le tensioni nel governo. Spiazzando Orlando, che sulla fiducia faceva affidamento, seppure dopo aver votato i primissimi articoli, contenenti misure "popolari" e condivise dalla maggioranza, come l’aumento delle pene per furti, scippi e rapine. Una sorta di compensazione politica rispetto alla forzatura della fiducia sulle norme più contestate - come quelle sulla prescrizione - e per evitare l’incognita di 170 voti segreti. In teoria, il piano di Orlando non è ancora del tutto compromesso: stasera tardi c’è un altro Consiglio dei ministri e Renzi potrebbe fare marcia indietro (ma a 24 ore di distanza sembra improbabile); inoltre, oggi riparte l’esame del Ddl ma solo nel tardo pomeriggio e con le repliche dei relatori, che già avevano chiesto una pausa di riflessione. Dunque, non è detto che si cominci a votare. Come cambia il processo penale, la riforma spiegata in 15 punti today.it, 27 settembre 2016 Il provvedimento contiene tante importanti novità: dai tempi certi per l’esercizio dell’azione penale alla stretta sui "reati di strada", dai limiti alla pubblicabilità delle intercettazioni al riordino dell’ordinamento penitenziario. Ecco le principali misure, spiegate in 15 punti: Intercettazioni. Il governo dovrà predisporre norme per evitare la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e comunque riguardanti persone completamente estranee attraverso una selezione del materiale relativo alle intercettazioni. Nessuna restrizione quanto ai reati intercettabili, ma si semplifica il ricorso alle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione. Nella delega non c’è alcuna previsione di pene carcerarie a carico dei giornalisti ma nel corso dell’esame in aula è stato bocciato un emendamento M5S che escludeva chiaramente le sanzioni per i cronisti. Registrazioni fraudolente. È prevista la delega per punire (fino a 4 anni) la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati diffuse al solo fine di recare a taluno danno alla reputazione e all’immagine. La punibilità è esclusa quando le riprese o registrazioni costituiscono prova di un processo o sono utilizzate per l’esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Estinzione del reato per condotte riparatorie. Nei reati procedibili a querela il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ripara interamente il danno mediante restituzione o risarcimento ed elimina le conseguenze del reato. Ampliamento diritti parte offesa. A 6 mesi dalla denuncia la persona offesa ha diritto di conoscere lo stato del procedimento, attribuendole così un potere di controllo e stimolo all’attività del pm. Alla persona offesa inoltre si dà anche più tempo per opporsi alla richiesta d’archiviazione, che nel caso di furto in abitazione dovrà in ogni caso esserle comunicata. Furti e rapine. Aumenta la pena minima per furto in abitazione (ora sarà da 3 a 6 anni), per furto aggravato (da 2 a 6 anni) e rapina semplice (da 4 a 10 anni) e aggravata. Voto scambio politico-mafioso. Pene in aumento anche per il voto di scambio politico-mafioso, che dagli attuali 4-10 anni passeranno a 6-12. Tempi certi indagine. Il rinvio a giudizio o l’archiviazione dovranno essere chiesti dal pm entro 3 mesi, prorogabili di altri 3 dal pg presso la corte d’appello se si tratta di casi complessi, dalla scadenza di tutti gli avvisi e notifiche di conclusa indagine. Per i delitti di mafia e terrorismo il termine però sale automaticamente a 12 mesi. In caso di inerzia del pm c’è l’avocazione d’ufficio del fascicolo disposta dal pg. È poi previsto uno specifico potere di vigilanza del pg sulla tempestiva e regolare iscrizione nel registro degli indagati. Una norma transitoria riserva comunque i nuovi termini alle notizie di reato iscritte dopo l’entrata in vigore della riforma. Limiti a poteri Gup/Gip. Nell’udienza preliminare è soppresso il potere del giudice di esercitare la supplenza dei poteri-doveri di indagine del pm. Rimane invece salva la facoltà del giudice di disporre l’acquisizione di prove decisive ai fini del proscioglimento dell’imputato. Se dopo le ulteriori indagini ordinate dal gip (a seguito di una prima richiesta di archiviazione), il pm richiede nuovamente l’archiviazione e non vi è opposizione della persona offesa, il gip non può ordinare imputazione coatta. Colloqui con difensore. Nel corso delle indagini preliminari per i reati di mafia e terrorismo il giudice può differire il colloquio dell’arrestato con il proprio avvocato per un massimo di 5 giorni. Motivi di appello più rigorosi. Si rendono più rigorosi e specifici a pena di inammissibilità i motivi di appello, così come sono scanditi con maggiore puntualità i requisiti della sentenza in modo da rendere più agevole e al tempo stesso semplificare le impugnazioni. Deflazione ricorsi in Cassazione. Il ricorso per cassazione subisce un incisivo restyling. Da un lato aumentano le sanzioni pecuniarie in caso di inammissibilità dei ricorsi, dall’altro si introduce una disciplina semplificata per l’inammissibilità per vizi formali nei casi in cui non sia già stata dichiarata dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. È poi previsto che in caso di "doppia conforme" di assoluzione il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per violazione di legge. Si allargano inoltre le ipotesi di annullamento senza rinvio. Il ricorso, deciso dalla Corte in forma semplificata, è limitata ai vizi della espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e sentenza o all’illegalità della pena o delle misure di sicurezza. Il potere di correggere l’errore materiale è attribuito allo stesso giudice che ha emesso la sentenza. Decreto penale di condanna. Per incentivarne l’utilizzo si consente al giudice, nel determinare la pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva, di tener conto anche della condizione economica dell’imputato e si abbassa da 250 a 75 euro il valore di conversione di un giorno di reclusione. Abbreviato. Una volta che il giudizio abbreviato è stato chiesto e accettato dal giudice non potranno più essere riproposte questioni di competenza territoriale e le nullità, se non assolute, saranno sanate. Quando l’imputato fa richiesta di abbreviato condizionato a una integrazione probatoria contestualmente può fare domande subordinate di "abbreviato secco" o patteggiamento. È stato introdotto uno sconto di pena maggiorato (della metà) per le contravvenzioni. Processi a distanza. Viene ampliato il ricorso ai collegamenti in video nei processi di mafia e terrorismo precisando che la partecipazione al dibattimento a distanza diviene la regola per chi si trova in carcere (anche in caso di udienze civili) e per i "pentiti" sotto protezione. L’eccezione (ossia la presenza fisica in aula) può essere prevista dal giudice con decreto motivato ma non vale mai per i detenuti sottoposti al 41 bis. Riforma ordinamento penitenziario. Il governo è delegato a risistemare l’ordinamento penitenziario facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività. Dai benefici restano comunque esclusi i condannati all’ergastolo per mafia e terrorismo e i casi di eccezionale gravità e pericolosità. Intervista a Sebastiano Ardita. "Permessi e benefici ai mafiosi, la nuova legge non va" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2016 Il procuratore aggiunto di Messina, già direttore delle carceri, critica la riforma penale: "Testo ambiguo, il governo corregga". Sebastiano Ardita è procuratore aggiunto a Messina. Sempre in prima fila nella lotta alla mafia, è stato anche direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ha letto il testo della riforma penale in discussione al Senato ed è preoccupato perché si prospetterebbero maglie larghe per i mafiosi detenuti che non sono all’ergastolo: "I mafiosi esenti dal 41 bis, e non ergastolani, avranno diritto a chiedere permessi premio (uscita temporanea dal carcere per chi si comporta bene, ndr) e di poter lavorare all’esterno". Ora non è consentito? Secondo l’attuale ordinamento penitenziario per i mafiosi è possibile soltanto se collaborano con la giustizia (cioè se diventano pentiti, ndr). Invece, questa nuova legge esclude per i mafiosi e per i terroristi solo le misure alternative (arresti domiciliari e affido ai servizi sociali, ndr) ma non esclude esplicitamente gli altri benefici. Anzi, sembrerebbe disporre il contrario quando afferma che devono essere "eliminati gli automatismi e le preclusioni" che impediscono il trattamento rieducativo per "soggetti che sono autori di determinati reati", cioè i mafiosi. Questi sbarramenti, che secondo la nuova normativa devono cadere, valgono anche per il superamento del circuito penitenziario che fa sì, ad oggi, che i detenuti mafiosi non sottoposti al 41 bis, siano comunque separati dai detenuti comuni. La norma da lei criticata fa riferimento al principio costituzionale del fine rieducativo della pena, si potrebbe obiettare che anche un mafioso "semplice", che vuole redimersi, dovrebbe poter accedere a tutti i benefici di legge... La storia ci ha insegnato che la rieducazione di un mafioso è difficile da valutare e che i vincoli con Cosa Nostra o con le altre organizzazioni sono inscindibili. Per questa ragione la legge finora ha ritenuto che l’unica prova di rottura con l’ambiente criminale sia la scelta della collaborazione con la giustizia. Altre conseguenze? Da qualche tempo è stato introdotto un sistema di detenzione che prevede per i detenuti la giornata fuori dalla cella, si tratterebbe di un principio giusto se fosse la polizia penitenziaria a scegliere chi possa essere ammesso in base ai principi che stanno dietro ai percorsi rieducativi. Invece, almeno inizialmente, questa sperimentazione è stata applicata in modo generalizzato. Il risultato? Si sono raddoppiati i reati commessi in carcere e il costo della maggiore libertà interna l’hanno pagato sulla loro pelle i poliziotti penitenziari perché si sono moltiplicate le aggressioni nei loro confronti. In qualunque Paese questa esperienza sarebbe stata considerata fallimentare, invece da noi è ritenuta meritevole di essere inserita in una legge. E se salta il circuito di alta sicurezza che separa i detenuti mafiosi dagli altri, anche loro potranno usufruire del regime aperto. Il problema si pone perché i sacrosanti percorsi rieducativi vengono concessi a tutti, anche a soggetti pericolosi, e non solo a chi, davvero, ha intrapreso la via del reinserimento. Il ministro Andrea Orlando nega che la nuova riforma farà ai mafiosi le concessioni che lei denuncia, ma le ha anche risposto che è pronto a migliorare il testo. Ha dei suggerimenti? Il testo è ambiguo e si presta a questo tipo di lettura. Se il ministro lo ritiene opportuno può chiedere al suo ufficio legislativo di precisare la norma in modo che sia inequivocabile che i mafiosi saranno esclusi da questi benefici. Come magistrato ha altre obiezioni alla riforma che sta per essere votata? Ne avrei diverse. Una delle novità che considero più pericolose per il funzionamento della giustizia è la norma che introduce l’obbligo per i pubblici ministeri di formulare entro tre mesi la richiesta di rinvio a giudizio o archiviazione dopo aver concluso un’inchiesta. Porterà alla paralisi degli uffici giudiziari e in particolare delle Procure generali a cui si chiede, con un quarto di magistrati rispetto alle Procure, di avocare e definire i procedimenti che proprio le Procure non hanno potuto concludere. Una vera assurdità. Pertanto, i pm dovranno dedicare molto tempo a procedimenti minori, anche se destinati a prescrizione certa, o banali, come le liti condominiali, perché avranno questo obbligo, pena anche sanzioni disciplinari. Con questa norma verrebbero a cadere le circolari organizzative interne alle Procure che danno priorità a determinate inchieste, per esempio sulla corruzione, che riguardano reati di maggiore emergenza per i cittadini. Il Csm contro le nomine lottizzate "Basta con le peggiori pratiche" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 settembre 2016 Il nuovo corso delle toghe: riforma giustizia e Renzi frena sulla fiducia. Ancora in bilico l’accordo raggiunto da Orlando sulla prescrizione. Che si potesse fare di più lo dicono tutti, ma alla fine la maggioranza si accontenta del risultato raggiunto giudicandolo un traguardo importante, con l’imprimatur del capo dello Stato che presiede la seduta e si mostra soddisfatto dell’approvazione. Il Consiglio superiore della magistratura ha un nuovo regolamento che, nelle intenzioni del vicepresidente Giovanni Legnini, dovrebbe trasformarlo in una "casa di vetro". L’organo di autogoverno dei giudici, troppe volte accusato di essere espressione e vittima del "correntismo" che condiziona l’assegnazione dei posti e le altre decisioni che coinvolgono le toghe, prova a cambiare registro. Per non tornare più indietro. "L’autoriforma che abbiamo realizzato verrà a determinare un cambiamento irreversibile nel concreto esercizio delle competenze assegnate al Csm", aggiunge Legnini, e le parole pronunciate subito dopo da Mattarella ne rafforzano l’importanza: il regolamento approvato ieri "è uno strumento complesso", che detta "linee di efficienza" per un organismo che ricopre "una funzione difficile e spesso poco compresa, ma fondamentale per la democrazia costituzionale". Cioè quella di "tutelare al meglio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura". Le norme interne che riscrivono gran parte di quelle vecchie di quasi trent’anni comprendono, ad esempio, l’abolizione delle "nomine a pacchetto" di più magistrati destinati allo stesso ufficio. In passato è accaduto spesso (come nella recente scelta di cinque procuratori aggiunti a Roma) che si procedesse a una votazione contestuale o quasi, dopo l’avvenuta spartizione dei posti tra le diverse correnti rappresentate in Consiglio. D’ora in avanti, invece, si dovrà votare separatamente su ciascun nome, il che dovrebbe rendere gli accordi preventivi almeno più complicati. Si dovranno "abbandonare le peggiori pratiche", ammonisce ancora Legnini, e con lui sono d’accordo quelli che votano a favore della riforma: 18 consiglieri dei gruppi del centro e della sinistra giudiziaria (Unità per la costituzione e Area), i "laici" che per lo più fanno capo alla maggioranza di governo, oltre ai membri di diritto (primo presidente e pg della Cassazione); astenuti i sette "laici" e togati della destra, che - invocando interventi più severi e drastici, almeno sulla carta - non hanno votato contro per rispetto alla presenza del capo dello Stato. Il nuovo statuto prevede anche regole che dovrebbero assicurare maggiore trasparenza ai lavori del Csm. Per esempio introducendo il principio della "pubblicità rafforzata" sulle attività della commissione incarichi direttivi, attraverso un resoconto sommario delle sedute, più la facoltà di aprire i lavori alla stampa in casi eccezionali. Altre modifiche riguardano l’efficienza e la collegialità, compresa la possibilità di intervenire dopo le decisioni del comitato di presidenza. È un passo avanti per evitare che il Consiglio diventi "terreno di conquista dell’associazione magistrati", assicura il presidente della Cassazione Giovanni Canzio. Con il nuovo regolamento l’organo di autogoverno si è data una nuova veste che dovrebbe accrescerne l’autorevolezza anche nell’interlocuzione "esterna", con le altre istituzioni. Come quando fornisce i propri pareri sulle riforme in tema di giustizia. Sulle nuove norme del processo penale e il posticipo della pensione per alcuni magistrati, attualmente in discussione in Parlamento, sono stati in gran parte critici, come quelli dell’Anm. Sulle modifiche che cambiano, tra l’altro, i tempi della prescrizione e il trattamento delle intercettazioni, il ministro della Giustizia Orlando sta faticosamente cercando di incassare il "sì" del Senato, e per evitare rischi ieri era pronto ad accogliere la decisione del Consiglio dei ministri di mettere la fiducia. Che però non è arrivata, almeno "al momento". Da Palazzo Chigi non sono convinti che l’accordo raggiunto da Orlando sia a prova di sorprese, per i malumori del Nuovo centrodestra di Alfano e non solo. Per adesso quindi si va avanti senza fiducia. Poi si vedrà. Csm: più trasparenza e stop al correntismo. Mattarella: ruolo-chiave per la democrazia di Mario Stanganelli Il Messaggero, 27 settembre 2016 In una seduta straordinaria e dopo un percorso durato più di un anno, il plenum del Csm, alla presenza del capo dello Stato Mattarella, ha approvato il nuovo regolamento interno dell’organo di autogoverno della magistratura. 90 articoli che ne ridisegnano il funzionamento, con l’obiettivo di assicurare più trasparenza, efficienza, collegialità e meno correntismo. Lo stesso Mattarella, che di palazzo dei Marescialli è il presidente, ha sottolineato, assieme al risultato di ieri, il ruolo "difficile, spesso poco compreso, ma invece fondamentale per la nostra democrazia costituzionale" del Csm. Un organo, ha aggiunto il capo dello Stato, "chiamato a tutelare al meglio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura attraverso gli obiettivi della funzionalità e della qualità della giurisdizione". Da parte sua, il vicepresidente del Consiglio superiore, Giovanni Legnini, ha affermato che il nuovo regolamento porterà un "cambiamento irreversibile" nell’esercizio delle competenze dell’organismo, trasformandolo in una "casa di vetro". Un’autoriforma - ha osservato Legnini - che offrirà alle correnti della magistratura "uno strumento che consentirà loro di esprimere il meglio di sé, abbandonando le peggiori pratiche, soprattutto sulle nomine". Le nuove norme, infatti, pongono fine, in primo luogo, alle "nomine a pacchetto" che hanno finora favoritogli accordi a tavolino tra le correnti e introducono per la prima volta la pubblicità, a certe condizioni, nei lavori delle commissioni. Non saranno, dunque, più votate in blocco le nomine che riguardano magistrati dello stesso ufficio e che erano il terreno preferenziale per le manovre correntizie. Il plenum, d’ora in poi si pronuncerà sui singoli nomi e, in caso di necessità, si ricorrerà al ballottaggio. La pubblicità delle sedute riguarderà poi quelle destinate alla nomina dei capi degli uffici giudiziari, che potranno essere seguite in streaming dalla stampa e dal pubblico in locali collegati audiovisivamente, sempre su richiesta di un terzo dei componenti della Commissione Direttivi. Per le altre Commissioni, la pubblicità delle sedute potrà essere decisa a maggioranza dei componenti. Liberalizzato anche il rapporto tra il Comitato di presidenza e i consiglieri. Ciascuno di essi potrà infatti chiedere all’organo di vertice di palazzo dei Marescialli la motivazione delle singole decisioni e con un quarto dei componenti eletti si potrà sollecitare il riesame di una o più deliberazioni, ferma restando la decisione finale in capo al Comitato di presidenza. Favorita anche la speditezza dei lavori attraverso il contingentamento degli interventi limitati a 10 minuti, estensibili a un massimo di 20 su decisione del presidente della commissione. La riforma del regolamento è passata con 18 voti a favore e 7 astenuti, tra questi i togati di magistratura indipendente e i tre laici di centrodestra. Hanno invece votato "convintamente a favore" il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, e il procuratore generale della Suprema Corte, Pasquale Ciccolo. Lo stesso Canzio ha quindi invitato il Consiglio superiore della magistratura a "non considerare il Csm come il terreno privilegiato di conquista o la scena sempre aperta di una perenne competizione elettorale tra le varie correnti". Claudio Galoppi, uno dei membri di MI astenutisi nel voto, ha affermato che "la riforma poteva e doveva mostrarsi più coraggiosa e incisiva". Ha replicato Renato Balduzzi, uno dei relatori del regolamento approvato, osservando che "da 40 anni ogni consiliatura tentava la riscrittura del regolamento senza riuscirci, risalendo l’ultima ampia revisione al 1976". Magistrati, il Csm che cambia per non cambiare di Luigi Labruna Il Mattino, 27 settembre 2016 Si sa. Anche le montagne partoriscono. I topolini. Spiace dirlo ma è quello che si è verificato ieri con la solenne seduta straordinaria del Csm, presieduta personalmente dal Capo dello Stato con all’ordine del giorno l’approvazione del nuovo "regolamento interno" dell’organo di autogoverno della magistratura. Con l’adozione, cioè, dell’insieme delle nonne che regolano lo svolgimento dell’attività (delicatissima) di un organo che giustamente Mattarella ha definito "fondamentale per la democrazia nel nostro Paese", e i cui compiti impegnativi - vòlti "a tutelare al meglio" autonomia e indipendenza dei magistrati - "richiedono (è sempre il presidente della Repubblica a dirlo) lucidità nella scelta degli obbiettivi, assiduità di impegno, determinazione nel lavoro quotidiano". Qualità tutte che evidentemente sino ad oggi non sono state impiegate dai suoi componenti, se lo stesso vicepresidente Legnini, nel festeggiare l’approvazione (a maggioranza) del testo, che per essere redatto ha richiesto oltre un anno di trattative, mediazioni, compromessi tra i rappresentanti nell’organo delle famigerate "correnti", ne ha parlato come di uno strumento che consentirà ai membri del Csm di "abbandonare le peggiori pratiche" (evidentemente anche per lui sinora da loro esercitate) "soprattutto sulle nomine" degli uffici direttivi della magistratura. Uno strumento che addirittura farà "mutare volto" al Csm stesso. Determinerà infatti (a suo giudizio) un "cambiamento irreversibile" nel modo in cui il Csm esercita le proprie competenze trasformando lo storico palazzo dei Marescialli in cui il Consiglio ha sede "in una casa di vetro", quale evidentemente sinora non è stata. Sarebbe bello se l’ottimismo trovasse corrispondenza nella realtà. E le correnti e coloro che le rappresentano nel Csm si dessero veramente una regolata. Mettendo finalmente fine alla scandalosa pratica sinora seguita di nominare "a pacchetto" i magistrati da destinare (dopo lunghissimi periodi di "vacanza" impiegati per trattare) ai vari uffici, dosando con il bilancino le quote in base alle appartenenze, con evidente, grave e sperimentato danno per il prestigio degli stessi nominati, di chi li nomina, della magistratura e delle altre istituzioni democratiche Per evitare, ciò, è inutile illudersi. "Spacchettare" le nomine servirà a ben poco. Niente impedirà che per "le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari dei magistrati" - questi sono i compiti che l’art. 105 della Costituzione affida al Csm - gli accordi stretti tra i suoi componenti in base all’appartenenza correntizia si perpetuino, solo diluiti nel tempo. In attesa delle straordinarie novità annunciate si potrebbe almeno far sì che le vacanze dei posti liberi fossero bandite "automaticamente" con termini brevissimi. Già prima che si verifichino, quando si tratta di scoperture prevedibili come quelle relative a magistrati che vanno in pensione per limiti di età. In questi casi esse potrebbero essere bandite sei mesi prima, in modo che ci sia un passaggio delle consegne immediato tra l’uscente e l’entrante (si tratta spesso di magistrati che coprono uffici direttivi di grande rilievo: capi delle Procure, presidenti di Tribunali o di Corte d’Appello di grandi sedi eccetera). Tutti i posti vuoti, comunque, dovrebbero esser colmati entro termini cogenti stabiliti, senza lasciare marcire le situazioni e abbandonare per mesi e mesi scoperti i posti, come in più occasioni e successo. Perché qualcosa davvero cambi non basta certo la "pubblicità" (che "può" essere richiesta da un terzo dei loro componenti) delle sedute delle Commissioni del Csm quando si discute della scelta dei capi degli uffici giudiziari. Né la possibilità finalmente concessa ai consiglieri di chiedere al Comitato di presidenza di "riesaminare" le proprie decisioni sul rigetto delle richieste di aperture di pratiche con il vicepresidente che, in caso di conferma, ne dovrà spiegare le ragioni al plenum. No. Ci vuole ben altro perché i vetri della casa rinnovata cessino di essere appannati. Innanzitutto un mutamento "verace" dei rapporti etici esistenti tra i magistrati e tra la magistratura (che dovrebbe cessare di comportarsi spesso, nel suo complesso, come una corporazione) e la politica. E una riforma radicale delle modalità previste per le elezioni del Csm. Quelle in vigore consentono (e continueranno a consentire anche con il nuovo Regolamento) l’esistenza di cordate, correnti, fazioni in lotta feroce tra loro. Un tempo soprattutto per ragioni ideologiche. Ora è difficile dire. Tribunali in affitto dagli Enti locali, via Arenula deve dare 690 milioni ai Comuni di Lodovica Bullian Il Giornale, 27 settembre 2016 Il comune di Bologna, guidato dal molto poco renziano sindaco dem Virginio Merola, ha deciso che la pazienza è finita. E che con lo Stato se la vedranno in tribunale. Determinato com’è a recuperare quei 40 milioni di euro di spese sostenute per mandare avanti in questi anni aule e uffici giudiziari della città, che Roma non ha ancora rimborsato a Palazzo D’Accursio. Soldi che basterebbero al primo cittadino per mettere in sicurezza il bilancio "fino al 2021". Dopo la sfilza di richieste al governo cadute nel vuoto, a ottobre si terrà l’udienza che trascina il ministero della Giustizia davanti al giudice, sebbene la querelle sui rimborsi investa di striscio anche il dicastero dell’Economia. "Che lo Stato sia inadempiente, che i cittadini abbiano pagato le spese giudiziarie e debbano fare causa allo Stato - accusa Merola - al ministero, non va affatto bene". Ma il paradosso bolognese non è un unicum. Il problema dei costi anticipati dagli enti locali dal 2011 al 2015 - quando la gestione economica è passata al ministero - riguarda parecchie amministrazioni. E pesa sui conti pubblici per 690 milioni di euro. A tanto, ha calcolato l’Anci, ammonta infatti il gigantesco credito vantato nei confronti di via Arenula, "il più rilevante verso il ministero della Giustizia della storia repubblicana". La cifra complessiva si riferisce agli anni 2012, 2013, 2014 e 2015 (8 mesi su 12), cui vanno aggiunti anche i 30 milioni utili a coprire la quota del 30% di rimborso della annualità 2011 e i 60 milioni per il 2012, per un totale di circa 690 milioni di euro, spiega l’Anci. Risorse che dovrebbero rientrare in cassa e che invece mettono in crisi i bilanci. La centralizzazione della gestione degli uffici giudiziari avviata dal primo settembre del 2015, infatti, non ha risolto il guaio degli arretrati. "Apprezzabile è lo sforzo che ha fatto il governo, riportando in capo ad esso le spese, ma ora l’impegno deve essere totale risarcendo i comuni". Che hanno provveduto a mandare avanti i tribunali certi di ricevere il contributo "che era sempre stato pari a circa 80% della spesa totale", ricorda l’associazione. Le anticipazioni che il ministero della Giustizia ha erogato "non sono assolutamente congrue". In alcuni casi la patata bollente è finita tutta nelle mani della giustizia amministrativa e civile, che ha riconosciuto le ragioni del risarcimento. L’Anci ricorda di aver già avanzato "a più riprese una proposta graduale e di importo ragionevole, pari a 30 milioni annui, per chiudere definitivamente la questione". Non è reato coltivare una piantina di marijuana sul balcone di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2016 Non è reato coltivare una piantina di marijuana sul balcone. Così ha deciso la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza 40030 pubblicata oggi. La vicenda. Il tribunale di Siracusa il 16 febbraio scorso aveva deciso il "non luogo a procedere" per un signore di Siracusa trovato con una piantina di canapa indiana sul terrazzo. Per il tribunale, la concentrazione del principio attivo (il Thc era parti all’1,8%) e la presenza di un’unica pianta permettevano di escludere la diffusione della droga leggera, sufficiente per uso personale. Una decisione contro cui si è opposto il procuratore della repubblica per violazione della legge penale, in particolare degli articoli 425-428 del Codice di procedura penale. Secondo il procuratore la condotta andava sanzionata in base alla tipologia di pianta, alla quantità di principio attivo sopra i minimi di legge, al peso della piantina pari a 312 mg contro il limite dei 25 mg previsto dalla legge e al fatto che era già alta un metro pur non essendo arrivata a completa maturazione. La sentenza - La Cassazione rigetta il ricorso ritenendo una sola piantina coltivata su un terrazzo in un contesto urbano non è in grado di incrementare il mercato delle sostanze stupefacenti. La Cassazione rigetta il ricorso perché esclude "… che da questa coltivazione possa derivare quell’aumento della disponibilità della sostanza e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi della offensività e punibilità della condotta ascritta". Sardegna: dalle celle ai campi, detenuti-agricoltori a Is Arenas, Mamone e Isili sardegnaoggi.it, 27 settembre 2016 Il progetto sperimentale "Colonie penali agricole" in svolgimento anche in varie carceri dell’Isola. A organizzarlo Regione e ministero della Giustizia. Obiettivo finale? "Il reinserimento sociale e lavorativo". L’assessore regionale degli Affari Generali, Gianmario Demuro, interviene all’interno del carcere di Pianosa, alla tavola rotonda sul reinserimento sociale dei detenuti. Sarà presente il ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’incontro è organizzato dal ministero della Giustizia e dall’Ente Parco Nazionale Arcipelago toscano. Sono previsti inoltre gli interventi del sottosegretario del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Luigi Bobba, e del sottosegretario del ministero dell’Ambiente, Silvia Velo. Demuro, in rappresentanza del presidente Francesco Pigliaru, deve illustrare il progetto "Colonie penali agricole" avviato in via sperimentale, in Sardegna, nelle strutture di Is Arenas, Mamone e Isili. L’intervento viene promosso dalla Rete rurale nazionale in collaborazione con la Regione (attraverso l’Agenzia Laore), il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e il ministero della Giustizia. "Il programma", sottolinea Demuro, "costituisce una prima sperimentazione finalizzata al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Viene previsto un percorso formativo per lo sviluppo di concreti progetti di agricoltura sociale nelle colonie penali agricole di Isili, Mamone e Is Arenas, con l’attiva partecipazione degli ospiti delle strutture detentive". Abruzzo: ennesimo rinvio per la nomina del Garante dei detenuti notiziedabruzzo.it, 27 settembre 2016 Il Garante dei detenuti, punto all’ordine del giorno da mesi e mesi, non sarà eletto neanche nella seduta di domani del Consiglio regionale abruzzese che, almeno a leggere la nota ufficiale sui lavori, si annuncia senza progetti di legge, prevedendo solo interpellanze. Il fatto ha indotto l’opposizione del Movimento Cinque Stelle, con la capogruppo, Sara Marcozzi, a parlare di "preoccupante stasi dei lavori". A dare sostanza alla giornata poteva essere proprio la nomina del garante, attesa da più di un anno, per la quale serve la maggioranza qualificata di 21 voti con il centrosinistra al governo costretto quindi a cercare i tre voti mancanti nelle file delle opposizioni. A tale proposito, si è registrata una fumata nera nell’incontro tra una delegazione dell’opposizione di centrodestra guidata dall’ex presidente della Regione, il forzista Gianni Chiodi di Forza Italia, e la radicale Rita Bernardini, candidata caldeggiata in particolare dal presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, e osteggiata dal centrodestra e anche dai pentastellati. A seguito di una fitta serie di incontri, a margine del Consiglio regionale della settimana scorsa, l’opposizione di centrodestra, che conta i voti determinanti, era detta infatti disposta a votare Bernardini, ma a una condizione: la radicale avrebbe dovuto prima ritirare la sua candidatura e per poi riproporla ed essere votata dal Consiglio regionale. Una condizione posta dal centrodestra per non far apparire il loro voto alla Bernardini come un piegarsi ai desiderata di D’Alfonso, ma piuttosto come espressione della volontà sovrana dell’Assemblea. Evidentemente qualcosa è andato storto: "Non ci sono le condizioni - ha spiegato Chiodi - il che significa che noi restiamo fermi nella nostra posizione". Varese: Mantovani (Regione) "Carceri? Situazione sconcertante" La Provincia, 27 settembre 2016 Mario Mantovani, componente regionale di Forza Italia e componente della Commissione Speciale Situazione Carceraria in Lombardia, sui problemi della Casa circondariale della Città Giardino. "È sconfortante apprendere come, ancora una volta, la situazione del complesso carcerario di Varese sembra non trovare una soluzione definitiva". Così afferma Mario Mantovani, consigliere regionale di Forza Italia e componente della Commissione Speciale Situazione Carceraria in Lombardia in merito alle notizie apparse sulla stampa locale relativamente a ritardi e problemi nel percorso di ristrutturazione della Casa Circondariale di Varese. "La risoluzione approvata all’unanimità dal Consiglio Regionale ha contribuito certamente a riproporre con urgenza il tema sul tavolo delle Istituzioni locali e nazionali. Purtroppo però -continua Mantovani- le notizie che arrivano non sembrano essere positive, con interventi assolutamente minimi e parziali sulla struttura e la necessità di approfondimenti in ordine alle risorse ad oggi investite ed impiegate. Ricordo poi, come da me richiesto nella risoluzione, che si dava tempo 180 giorni per sbloccare la situazione di inerzia rispetto al vincolo di dismissione della struttura al fine di trovare soluzioni alternative". "I futuri tavoli istituzionali che dovranno decidere come procedere sulla ristrutturazione della struttura - conclude Mantovani - dovranno anche tenere conto delle esigenze del personale della polizia penitenziaria. A loro deve essere garantita la possibilità di lavorare in condizioni dignitose e nel rispetto dell’individuo perché il loro compito ha un forte impatto psicologico che si può ripercuotere sulla gestione dei detenuti". Cosenza: delegazione Radicale visita il carcere di Paola Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2016 Chiesta la "sorveglianza dinamica". Parere favorevole del Capo del Dap. Dopo la pausa agostana, gli esponenti del Movimento dei Radicali Italiani, hanno riavviato l’attività ispettiva in tutti gli Istituti Penitenziari della Regione Calabria. Dopo le visite effettuate presso le Case Circondariali di Cosenza e di Castrovillari, una Delegazione guidata da Emilio Quintieri, già membro del Comitato Nazionale dei Radicali e composta da Valentina Moretti, Shyama Bokkory, Maria Ferraro, Roberto Blasi Nevone e dall’Avv. Aldo Cicero del Foro di Paola, ha effettuato una visita presso lo stabilimento penitenziario di Paola. In particolare, la Delegazione, accolta dall’Ispettore Capo Antonio Nilo Russo, Vice Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria e dall’Ispettore Capo Ercole Vanzillotta, si è soffermata a riscontrare se le condizioni strutturali e detentive fossero in linea con il dettato normativo, tenuto conto anche delle criticità rilevate nella visita del 16 luglio scorso. Al momento della visita i detenuti, tutti appartenenti al Circuito della Media Sicurezza, erano 205 a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti (23 in esubero), dei quali 129 italiani e 77 stranieri. Di questi solo 152 avevano una condanna definitiva. Gli altri reclusi nell’Istituto (53) erano imputati (14), appellanti (14) o ricorrenti (25) cioè non definitivi. C’erano anche 4 detenuti tossicodipendenti, 9 lavoranti all’esterno, 55 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Numerosi i casi psichiatrici. Un altro detenuto, da tempo ristretto a Paola, finalmente è riuscito ad ottenere dal Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro il beneficio della semilibertà ed è stato subito trasferito presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia. C’era anche un detenuto straniero sottoposto al regime della sorveglianza particolare prevista dall’Art. 14 bis poiché ritenuto pericoloso per la sicurezza penitenziaria. Quest’ultimo, proveniente dal Carcere di Livorno, è stato trovato nella prima sezione detentiva, in una camera individuale, sprovvista di televisore e fornello. Per la Delegazione tali restrizioni, imposte dal decreto applicativo, sono illegittime poiché non strettamente necessarie per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza per cui chiederà l’intervento del Magistrato di Sorveglianza di Cosenza per farle annullare. Altra criticità riscontrata è rappresentata dalla carenza di personale di Polizia Penitenziaria (2 Commissari, 7 Ispettori e 10 Sovrintendenti) e dell’Area Educativa (2 Funzionari della professionalità giuridico - pedagogica). A tal proposito la Delegazione ha raccolto l’unanime lamentela dei detenuti del Padiglione a custodia attenuata i quali hanno inteso evidenziare che da circa 2 mesi non vedono un Educatore con tutte le conseguenze che ne derivano, anche dal punto di vista trattamentale. È stato accertato che, come promesso, sono stati conclusi i lavori di ristrutturazione della Palestra, resisi necessari al fine di apportare gli adeguamenti utili per il suo corretto funzionamento. Sono circa 30 i detenuti che ogni giorno ne fruiscono sia la mattina che il pomeriggio. Permangono, invece, le problematiche afferenti il Servizio Sanitario Penitenziario. Ci sono vari detenuti che attendono, ormai da circa un anno, di essere sottoposti a visite specialistiche nei presidi sanitari esterni territoriali. Così come restano ancora le proteste per la mancata ricezione dei canali televisivi. In merito la Direzione del Carcere ha assicurato di aver già interpellato una ditta specializzata affidandole l’incarico dei lavori per apportare delle modifiche tecniche alle linee di derivazione e dei punti presa tv all’interno delle celle. Gli stranieri hanno infine rappresentato la mancanza di un mediatore linguistico e interculturale. La Delegazione Radicale ha ritenuto opportuno proporre che anche nella Casa Circondariale di Paola venga attuata la "sorveglianza dinamica" come ormai avviene in tantissimi altri Penitenziari d’Italia. Sul punto il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo ha riferito che "In merito all’attuazione della sorveglianza dinamica, posto che l’attuazione della stessa richiede interventi, anche di tipo tecnologico, che non possono essere risolti direttamente dal plesso penitenziario ma che necessitano del coinvolgimento del Provveditorato Regionale e delle competenti Direzioni Generali, saranno effettuate le opportune verifiche al fine di favorire il modello operativo de quo". Nei prossimi giorni i Radicali visiteranno la Casa di Reclusione di Rossano, le Case Circondariali di Reggio Calabria "Giuseppe Panzera" e di Locri nonché la Casa di Reclusione di Laureana di Borrello "Luigi Daga". Emilio Enzo Quintieri Esponente del Movimento Radicali Italiani Aosta: i biscotti dei detenuti pasticceri di Brissogne in vendita a FreedHome a Torino valledaostaglocal.it, 27 settembre 2016 Quello della panetteria-pasticceria valdostana "Brutti e Buoni" è il primo marchio che compare nell’elenco dei prodotti in vendita a "FreedHome - Creativi Dentro", negozio torinese che aprirà i battenti tra pochi giorni in via Milano, vicino al Municipio. L’azienda "Brutti e Buoni" ha una sede piuttosto insolita: la Casa circondariale di Brissogne. In verità, anche gli altri dodici marchi di "FreedHome" sono stati pensati e avviati in altrettante carceri italiane. Quello di Torino è il primo negozio italiano di prodotti alimentari realizzati in carceri dove detenuti e agenti di Polizia penitenziaria lavorano insieme, e per i quattro detenuti del carcere di Brissogne rappresenta il traguardo importante di un cammino iniziato poco meno di quattro anni fa. La collaborazione tra la Direzione della Casa circondariale e la cooperativa sociale valdostana Enaip ha portato all’assunzione dei carcerati-lavoratori al termine di un corso di formazione professionale per panettieri durato circa un anno. "Oggi i "Brutti e Buoni" sfornano nella panetteria-pasticceria del carcere pane, grissini, pizze, focacce, torcetti e biscotti della tradizione valdostana "rivisitati" - spiega Sabina Vuillermoz, coordinatrice del progetto per l’Enaip - che sono venduti ad alberghi, negozi, privati cittadini e ora anche all’esercizio commerciale torinese che del recupero sociale e lavorativo dei detenuti ha fatto impresa economica; si tratta di un "esperienza unica alla quale "Brutti e Buoni" ha aderito con entusiasmo". I quattro panettieri detenuti di Brissogne lavorano in un laboratorio di circa 80 metri quadri, ricavati nell’ex area sanitaria in disuso da anni. L’abilitazione professionale conseguita dal corso, cofinanziato da ministero della Giustizia e Regione, permetterà ai detenuti, una volta ritornati liberi, di aprire una panetteria in conto proprio o di lavorare da dipendenti con qualifica riconosciuta. Roma: per il Giubileo della Misericordia al lavoro anche sei detenuti in articolo 21 primapaginanews.it, 27 settembre 2016 Sei detenuti in articolo 21 O.P. hanno iniziato ieri, domenica 25 settembre, a svolgere attività di collaborazione con i volontari del Vaticano per i servizi di accoglienza e assistenza ai fedeli che, fino al 6 novembre, in occasione del Giubileo della Misericordia, accedono in Piazza San Pietro per gli eventi giubilari. L’attività è frutto degli accordi intercorsi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione. I volontari opereranno nelle aree comprese tra i Giardini di Castel Sant’Angelo, Via della Conciliazione fino a Piazza Pio XII, per favorire l’ingresso dei visitatori e agevolare il passaggio sotto il colonnato, fino a giungere sul sagrato e all’interno della Basilica. Complessivamente saranno 12 i detenuti impegnati nell’attività di volontariato, infatti ai primi sei (5 dalla casa di reclusione e 1 dalla Terza casa di Roma) si aggiungeranno altri tre provenienti dalla CR di Roma, due dalla III Casa di Roma e una detenuta proveniente dal femminile di Roma. Sabato 24 settembre, in occasione della giornata formativa, i detenuti e i volontari del Vaticano sono stati accolti per saluto da Mons. Fisichella. Augusta (Sr): dal carcere al caseificio, opportunità di inserimento per i detenuti augustaonline.it, 27 settembre 2016 Il direttore della casa di reclusione di Augusta, Antonio Gelardi, ci ha abituati alle sue continue iniziative che hanno come obiettivo il reinserimento dei detenuti a fine pena. Nei giorni scorsi è stato organizzato un evento che aveva il duplice scopo di consegnare tredici attestati ai detenuti che hanno partecipato al corso di caseificazione, il procedimento artigianale che trasforma il latte in formaggi. L’esperimento era già riuscito lo scorso hanno con i corsi per pizzaiolo che ha permesso a un gruppo di detenuti di imparare il mestiere. Il secondo scopo una raccolta fondi a favore delle popolazione terremotate. Il corso è stato tenuto grazie alla collaborazione dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia di cui è direttore sanitario Santo Caracappa presente alla serata. Il corso è stato promosso dal Rotary Augusta e dal Distretto Rotary 2110. La consegna degli attestati apre la strada a una possibile collocazione lavorativa a fine pena per i partecipanti. Ne hanno usufruito un gruppo di detenuti che presto lasceranno il carcere. Durante la serata denominata "Apericella" è stato possibile degustare i formaggi prodotti. La serata è stata inframezzata con esibizioni teatrali e musicali dei gruppo "Temporaneamente stabile", "Le petiti band" e "Brucoli swing band". Questi ultimi diretti da Maria Grazia Morello. Alla serata, che aveva anche uno scopo benefico a favore delle popolazioni terremotate del Centro Italia, hanno partecipato oltre cento persone, tra cittadini, club service, autorità. Alba (Cn): "ValeLaPena", programma incentrato sulle tematiche carcerarie Ristretti Orizzonti , 27 settembre 2016 Il 2 ottobre ad Alba torna l’ormai tradizionale manifestazione "ValeLaPena" un intenso programma di avvenimenti incentrato sulle tematiche carcerarie. Come è ormai consuetudine si parte la prima domenica di ottobre con la presentazione e l’esposizione di esperienze di lavoro maturare negli istituti penitenziari: gli shopper e gli accessori di moda prodotti nel Carcere femminile di Genova Pontedecimo, le magliette e le ceramiche del Ferrante Aporti di Torino, la frutta e la verdura dei carceri di Asti e Biella, i prodotti dolciari e da forno dei Carceri di Busto Arsizio e Genova Marassi, le borse del Carcere di Saluzzo, oltre ovviamente al padrone di casa il vino Vale la Pena prodotto nella Casa di reclusione Giuseppe Montaldo di Alba. Saranno presenti anche i prodotti delle terre sequestrate alle mafie di Libera. L’evento è ospitato presso il Mercato della Terra in Piazza Pertinace dalle ore 9 fino alle 19. "ValeLaPena" è promossa dall’Associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno con il patrocinio della Città di Alba e in collaborazione con il Garante Comunale delle Persone sottoposte a misure restrittive della Libertà Personale di Alba, il Consorzio di Cooperative Sociali CIS, l’associazione Mercato della Terra di Alba "Italo Seletto", il Garante Regionale delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, la Casa di Reclusione "G. Montalto" di Alba, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo d’Alba e la Caritas Diocesana di Alba. Il progetto è realizzato con il sostegno del Centro Servizi Volontariato Società Solidale di Cuneo. Radio Carcere: quando la libertà diventa una seconda prigione perché senza casa né lavoro Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2016 Il programma condotto da Riccardo Arena per Radio Radicale. Quando la libertà diventa una seconda prigione perché senza casa nè lavoro. La storia di due ex detenuti, Luciano e Giulio, che una volta liberi si sono ritrovati senza una casa o senza un lavoro. A seguire le lettere scritte dalle persone detenute Link: http://www.radioradicale.it/scheda/487121. Libri. "Le Lupe", di Flavia Perina. Una storia di ordinaria violenza poliziesca di Andrea Colombo Il Manifesto, 27 settembre 2016 Un figlio ammazzato senza ragione, più per stupidità che per crudeltà. Un genitore che decide di farsi giustizia da solo. È uno schema noto, quasi un archetipo: rappresenta quindi la sfida più rischiosa. Ricalcare il modello sembra semplice. Impadronirsene riempiendolo di un contenuto personale e inedito, capace tuttavia di reggere la forza implicita nell’archetipo stesso, è un impresa. Anche per questo Le Lupe, il primo romanzo di Flavia Perina, giornalista ed ex parlamentare (Baldini&Castoldi, pp. 194, euro 15) è un libro coraggioso. Flaminia, la protagonista, è una signora di mezza età con una vita come tante: anonima e felice. Fa l’agente immobiliare. Vive a Roma Nord, la parte ricca o ricchetta della Capitale. Ha due figli belli e contenti, il più grande diciottenne, buon giocatore di rugby, la minore ancora un’adolescente. Non sembrano aver risentito troppo del divorzio dei genitori e poi della morte del padre. Se Flaminia dovesse trarre un bilancio, sarebbe in netto attivo. Tutto va in pezzi in un attimo per una catena di coincidenze, come spesso succede nelle morti assurde. Il ragazzo, Carlo, esce nella notte per comprare le sigarette. Pesca alla cieca un casco dalla camera della sorella e il destino vuole che sia dipinto in giallo e rosso. Intorno allo stadio ci sono appena stati scontri con i tifosi, i poliziotti hanno ancora voglia di menare le mani: quando vedono il casco coi colori della Magica fanno due più due e nel gruppo in divisa ce n’è uno che va giù troppo pesante. Carlo, che non è nemmeno tifoso, muore così. Anche questo sembra una specie di archetipo letterario, ma questa non è narrativa: è cronaca. Carlo Livi muore nel romanzo di Flavia Perina esattamente come sono morte in questi anni troppe persone nelle strade, nei commissariati o nelle prigioni italiane. Senza intenzioni omicide. Per una botta troppo forte o per una presa troppo stretta. Per essersi dimenati troppo al momento del fermo o per aver disturbato strillando dalla cella. Anche l’agente omicida è un figura nota: è come se l’avessimo già visto ogni volta che si sono ripetute atrocità di questo genere. Non è un sadico né un torturatore: è solo tronfio e vanesio, incapace di comprendere le conseguenze delle proprie azioni, certo non solo di restare impunito ma di avere tutto il diritto di restarlo: non si deve forse anche a lui la sicurezza di tutti? È il male esposto nel suo versante più ottuso e quotidiano, nella sua desolante stupidità. La cronaca e la denuncia finiscono qui. Perché la tragedia non solo strazia la protagonista: la spinge a revocare in dubbio tutte le sue scelte, l’intera sua esistenza adulta. La morte del figlio apre nell’animo di Flaminia una porta segreta dalla quale rientra la se stessa del lontano passato, quella degli anni che per convenzione si dicono di piombo. Se la protagonista adulta ricorda l’autrice, in quella giovane l’aspetto autobiografico rasenta l’assoluta coincidenza. Come Flavia Perina, Flaminia è stata una militante di estrema destra. È stata in prigione per uno scontro di piazza. Ha pianto i suoi camerati uccisi e covato propositi di vendetta che nella destra di allora occupavano una postazione molto più centrale di quanto non avvenisse dall’altra parte della barricata: "La vendetta è sacra" era un atto di fede. Flaminia vuole vendetta e sa che non avrà neppure giustizia. La pulsione che riscopre e che nega in radice tutto quel che è diventata nel corso dei decenni è barbara e ancestrale, in qualche modo strettamente femminile: la furia delle madri a cui è stato strappato il figlio. Infatti non si rivolge agli antichi camerati ma alle amiche di allora, in forza di un vincolo che va oltre la politica e forse anche oltre l’amicizia, per cercare l’arma, imparare a usarla, studiare l’appostamento. Le Lupe, già dal titolo, è una storia di donne. C’è un momento preciso della propria vita, un bivio, che Flaminia rivede e sul quale si interroga: quello in cui, a differenza di una delle antiche amiche di cui cerca ora l’aiuto per la sua vendetta, aveva scelto di non prendere le armi. La politica non c’entra, su quel fronte Flaminia non ha rimpianti. Però ora vede il mondo, la sua vita, il matrimonio, la famiglia, con gli occhi di quell’intrusa riportata in superficie dalla tragedia, e ne scopre la futilità e il vuoto. È un mondo fatto a misura di Mascio, il poliziotto vanitoso e soddisfatto che le ha ammazzato il figlio. Proprio perché in ballo ci sono emozioni che vengono prima e sono più profonde della politica, la specifica appartenenza della giovane Flaminia è in realtà del tutto secondaria. Forse non è determinante neanche il pur molto marcato aspetto generazionale: però sullo sfondo della tragedia privata di Flaminia campeggia il desolato fallimento della sua generazione. Migranti. Mancano i fondi, 20 mila profughi fuori dalle strutture di accoglienza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 settembre 2016 Presto saranno liberi di circolare in Italia in attesa di una nuova sistemazione. Sono almeno 20 mila i richiedenti asilo che entro qualche settimana potrebbero rimanere fuori dalle strutture di accoglienza. Liberi di circolare in Italia, in attesa di una nuova sistemazione. L’ultimatum di organizzazioni umanitarie e cooperative che ormai da sei mesi attendono il pagamento delle spese per l’assistenza ai migranti è già stato recapitato: "Se il problema non sarà risolto saremo costretti a sospendere il servizio". Una situazione drammatica che - come sottolineano al Viminale - potrebbe creare anche "problemi di ordine pubblico per le tensioni sociali che rischiano di generarsi". Mancano oltre 600 milioni di euro. L’erogazione dei fondi è stata bloccata dal ministero del Tesoro e su questo la posizione del ministro dell’Interno Angelino Alfano è chiara: "Il problema delle risorse è vero, occorre rimpinguarle per pagare i nostri creditori. Ma io non sono un centro autonomo di spesa, quando il Mef dà i soldi pagheremo, altrimenti non posso pagare". Il buco nei conti - Secondo i dati aggiornati a ieri sono 131.974 le persone sbarcate in Italia dall’inizio dell’anno e 160.030 quelle ospitate nei centri governativi e nelle strutture private. A loro bisogna aggiungere i minori non accompagnati che sono oltre 15 mila. Ogni straniero costa tra i 25 e i 45 euro al giorno. I conti precisi sono stati fatti dal Dipartimento Immigrazione e trasmessi al dicastero dell’Economia proprio per evidenziare la necessità di pagare, soprattutto di coprire i debiti arretrati. Secondo la stima per il 2016 serve un miliardo di euro che va sommato al "buco" di 210 milioni ereditato dal 2015. Ma finora sono stati erogati soltanto 50 milioni e i gestori reclamano quanto dovuto. "Altrimenti - avvertono - dovremo chiudere". Dal Veneto alla Toscana, passando per l’Emilia Romagna, il Lazio e la Campania, le organizzazioni non governative, le cooperative e le associazioni che si occupano del vitto, dell’alloggio, dell’assistenza sanitaria e di ogni altra necessità legata all’assistenza degli stranieri lanciano l’allarme. Le cooperative - Se ne fa portavoce Giuseppe Guerini, il presidente di Confcooperative che sottolinea come "non ci sono mai stati ritardi così eclatanti e oltre al rischio altissimo di non poter più provvedere all’assistenza, c’è anche un problema legato all’occupazione. Da oltre sei mesi i dipendenti non ricevono lo stipendio, siamo al collasso". Tra i casi più eclatanti c’è quello di due cooperative emiliane che sommano debiti per ben 10 milioni di euro. Assistenza sospesa - A Treviso sono circa 2.000 gli stranieri che potrebbero rimanere senza assistenza, molti di più a Lucca e Massa Carrara. E poi ci sono svariate strutture a Modena, altre a Napoli e nelle regioni del Sud. La procedura per chi presenta richiesta di asilo prevede un’attesa di almeno sei mesi, che talvolta diventa più lunga se si tratta di un nucleo familiare. In questo periodo la legge prevede che queste persone debbano rimanere nei centri. Nessuna restrizione della libertà, ma l’obbligo di sottoporsi ai controlli proprio perché non è scontato che arrivi il riconoscimento dello status e in quel caso deve scattare il rimpatrio. In cambio l’Italia assicura la dimora, i pasti e l’assistenza giornaliera. Servizi che adesso non possono più essere garantiti con tutte le conseguenze che questo comporta perché chi lascerà i centri dovrà provvedere alla propria sopravvivenza. Il coordinamento - Un problema che il governo dovrà affrontare con urgenza, mentre si stringono i tempi per spostare a Palazzo Chigi il coordinamento tra i vari ministeri. Alfano non vuol sentire parlare di commissariamento e dice: "Parole come commissariamento o cabina di regia servono per aizzare, in questa fase di campagna elettorale, frizioni che non esistono. Con Renzi su questo argomento andiamo d’amore e d’accordo, non si litiga per competenze che fanno perdere voti". E sull’ipotesi che per l’incarico venga scelto Piero Fassino aggiunge: "È il mio interlocutore istituzionale sino a oggi come presidente Anci, una persona che stimo molto e che è stata molto leale su questi temi. Sono stato io a suggerirne la scelta, con un biglietto scritto a Renzi con il suo nome quale persona che ritengo possa svolgere un lavoro complementare a quello che ognuno di noi sta facendo". Migranti. Allarme di Orlando: "Stretta sul diritto d’asilo o monterà il populismo" di Francesco Grignetti La Stampa, 27 settembre 2016 Il governo italiano è molto preoccupato dalla deriva xenofoba che monta nell’opinione pubblica. Di qui la necessità di sveltire i processi (15 mila nei primi cinque mesi di quest’anno) per chi, tra i richiedenti, s’è visto negare l’asilo politico dalle commissione ministeriali. C’è uno schema di ddl che è stato predisposto dal ministero della Giustizia, per procedere senza contraddittorio davanti al giudice in primo grado e cancellare l’appello. "Capisco - diceva ieri il Guardasigilli, ospite del Csm - che in punta di diritto ci possano essere delle perplessità. Ma è indispensabile rivedere le procedure e soprattutto comunicarlo subito agli italiani. Dio non voglia che accada qualche brutto fatto di cronaca; sarebbe benzina che accende un incendio difficilmente domabile". Sottinteso, l’incendio inarrestabile del populismo. Orlando difende in maniera accorata il suo progetto. "Se non lo facciamo noi, che teniamo fermo il principio di accogliere chi ha diritto all’asilo, non è detto che chi verrà dopo di noi farebbe solo questo". I processi di appello contro le decisioni delle commissioni prefettizie, secondo il ministro Angelino Alfano, "sono il granello che può bloccare l’ingranaggio. E già vedo le polemiche di chi dice: "siccome i giudici non decidono, è impossibile espellere gli immigrati illegali". Ma solo chi è in malafede può dire che il fenomeno delle migrazioni occuperà i prossimi mesi. No, occuperà le generazioni future". Migranti. Diritto d’asilo, non si fa una riforma sull’onda emotiva di Vittorio Gaeta e Armando Spataro Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2016 Da tempo è diffusa la credenza che i problemi della giustizia si risolvano con la riforma delle procedure. Nata nel penale, col Codice di procedura del 1988 che avrebbe dovuto arginare la criminalità e tutelare gli innocenti dalle accuse ingiuste e non essendovi riuscito ha ricevuto infiniti "perfezionamenti" (dei quali diversi giuristi auspicano il "fermo biologico"), questa illusione ha contagiato il processo civile, la cui esigenza di attuare i diritti in modo efficiente rimane però insoddisfatta. Vero è che le riforme, che comportando forti riadattamenti non riducono né accelerano nell’immediato il lavoro di magistrati e avvocati, andrebbero fatte solo per cambiare norme ambigue o sbagliate, o per semplificare davvero le procedure. Adesso è il turno della materia palpitante della protezione internazionale dei migranti (diritto di asilo), il cui contenzioso grava pesantemente sugli uffici ed è regolato da norme processuali già tre volte modificate negli ultimi dieci anni. In un’audizione parlamentare dello scorso 21 giugno il ministro della Giustizia ha annunciato l’intenzione di ulteriori modifiche radicali, non si sa se da introdurre con disegno di legge o addirittura con decreto legge, i cui punti principali consisterebbero in: 1) videoregistrazione dei colloqui dei migranti con le Commissioni amministrative che decidono sulle domande di asilo; 2) riduzione del numero dei Tribunali competenti sulle impugnazioni dei provvedimenti delle Commissioni; 3) soppressione dell’udienza; 4) soppressione dell’appello contro le decisioni dei Tribunali. In attesa del testo delle proposte, nessuna di queste modifiche sembra idonea a tutelare l’esigenza di dare rapida protezione a chi ha diritto di asilo facilitando l’allontanamento di chi non lo ha. La videoregistrazione avrebbe costi economici elevati e sarebbe quasi sempre un doppione dei solitamente accurati verbali dei colloqui. L’accentramento in 12 Tribunali delle competenze danneggerebbe gli avvocati, spesso già oggi ostacolati dall’amministrazione nei colloqui coi loro assistiti ricoverati nei Cara, senza aumentare in modo tangibile efficienza o specializzazione dei giudici. La soppressione dell’udienza impedirebbe alle parti di esporre le proprie ragioni nel contatto con un giudice, che a quanto pare potrebbe formarsi in maniera solipsistica il suo convincimento sull’attendibilità dello straniero guardando la videoregistrazione del colloquio con la Commissione: nulla di più contrastante col diritto costituzionale di difesa. Sopprimere l’appello, infine, significa eliminare una garanzia rapida ed efficiente contro le decisioni sbagliate dei Tribunali e costringere le parti a rivolgersi senza alcun filtro alla già oberata Cassazione: e se dopo anni (anziché i mesi dell’appello) la Cassazione dovesse escludere il diritto di asilo riconosciuto dal Tribunale, o viceversa, chi rimuoverà le conseguenze dell’errore commesso? In effetti, prima di modificare le procedure occorrerebbe qualche riflessione in più. Per esempio, sul fatto che i fenomeni migratori sono così imponenti e complessi da non poter essere risolti dai Tribunali; che i dati effettivi del contenzioso sull’asilo, dati il cui studio sarebbe premessa di ogni riforma, non sono tuttora disponibili, come riconosce lo stesso ministro nell’audizione del 21 giugno; che le competenze in materia di immigrazione non dovrebbero più essere spezzettate tra giudici ordinari, Tar e giudici di pace ma concentrate presso il solo giudice ordinario, con aumento di organici e maggiore personale di cancelleria. Gioverebbe il coinvolgimento in quelle riflessioni dei magistrati (anche dei Pm, parti delle cause civili di asilo), dell’università e dell’avvocatura. Droghe. Così la marijuana diventerà legale (con la ricetta del medico) di Giovanni Vasso Il Giornale, 27 settembre 2016 Il testo della proposta di legge Pd per la legalizzazione a scopo terapeutico: "Ma non si alimentino speranze illusorie sugli effetti per i pazienti". Si potrà andare in giro con la marijuana, a patto di avere con sé la ricetta del dottore. La via italiana alla liberalizzazione della cannabis, a scopo terapeutico, passa per la collaborazione tra i ministeri della Salute e dell’Agricoltura con l’agenzia del farmaco, a patto che la proposta di legge presentata dai deputati Pd venga approvata dal Parlamento. Il disegno di legge in questione si spiega su quattro articoli che si occupano di delegare a regolamenti e attività professionali l’erogazione, il possesso, l’utilizzo e la stessa produzione della marijuana. La proposta è stata firmata dai deputati Pd Maria Amato, Paola Boldrini, Salvatore Capone, Giuditta Pini, Elena Carnevali. Ezio Casati, Vittoria D’Incecco, Filippo Fossati, Paolo Beni, Gero Grassi, Donata Lenzi, Delia Murer, Ileana Piazzoni e Margherita Miotto, stabilisce che sarà decisa d’accordo tra i ministeri della Salute e dell’Agricoltura. Non sarà consentito il fai-da-te, per la coltivazione sarà necessario ottenere - qualora passi il disegno di legge - il benestare del ministero della Salute. All’articolo due della proposta, infatti, vengono elencate le fasi e l’organizzazione delle stesse. Il dicastero della Salute "provvede con propri decreti, di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, a disciplinare le modalità di individuazione delle procedure e delle attività per il miglioramento genetico delle varietà di cannabis per uso terapeutico, attraverso la ricerca e la selezione di sementi idonee, individuando il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura quale ente preposto a svolgere tali attività". E ancora: "a individuare le aree da destinare alla coltivazione di piante di cannabis per la produzione delle relative sostanze e preparazioni di origine vegetale e la superficie dei terreni su cui la coltivazione è consentita; all’importazione, all’esportazione e alla distribuzione sul territorio nazionale, ovvero ad autorizzare l’importazione, l’esportazione, la distribuzione all’ingrosso e il mantenimento di scorte delle piante e materiale vegetale a base di cannabis, ad eccezione delle giacenze in possesso dei fabbricanti di medicinali autorizzati". Solo i medici potranno "autorizzare" il possesso di marijuana dato che, all’articolo tre: "Chiunque è autorizzato a trasportare preparazioni e sostanze vegetali a base di cannabis purché munito di certificazione medica per l’effettuazione di terapie domiciliari". Tutto ciò sarà "consentito esclusivamente su specifica prescrizione medica" (come si legge nell’articolo 1 della proposta di legge), e "nella prescrizione il medico deve indicare le generalità dell’assistito, la patologia per la quale il farmaco è prescritto, la dose prescritta, la posologia, la durata del trattamento, il domicilio professionale e il recapito del medico da cui è rilasciato. La prescrizione deve recare altresì la data di rilascio, la firma e il timbro del medico". L’uso della marijuana è legato alle terapie per specifici disturbi e malattie tra cui, oltre i casi oncologici e sclerosi multipla, anche il glaucoma (se resistente alle terapie tradizionali) e la sindrome di Tourette. Ma, come nel preambolo ribadiscono i firmatari, non ci sia illusione sugli effetti: "Ma se da una parte della comunità scientifica, in particolare da chi si occupa di terapia del dolore, arriva la sollecitazione all’estensione della prescrivibilità dei prodotti terapeutici a base di cannabis a tutti i medici del Servizio sanitario nazionale, dall’altra non si può ignorare la necessità di una maggiore informazione che eviti speranze illusorie nei pazienti, riconduca su basi scientifiche l’impiego della cannabis, non ne sottostimi l’interferenza con altre terapie e supporti i medici in un percorso formativo ad hoc. Resta molto alta la prudenza rispetto al metabolismo dei bambini, degli adolescenti e delle donne in gravidanza per le possibili interazioni della cannabis con lo sviluppo del sistema nervoso e per gli effetti sul sistema mnesico e con le possibili ripercussioni sulla maturazione psicologica". Siria. Gli Usa: ad Aleppo barbarie dei russi di Alberto Flores D’Arcais La Repubblica, 27 settembre 2016 Alle Nazioni Unite vertice straordinario del Consiglio di sicurezza sul "diluvio di bombe" contro la città siriana Ambasciatrice americana durissima per il ruolo di Mosca. Condanna anche da Gran Bretagna e Francia. Barili-bomba sull’intera area est della città, aerei siriani e russi che bombardano a tappeto i quartieri popolari della città colpendo alla cieca civili innocenti, giovani e vecchi, donne e bambini. Oltre venti morti ieri, più di duecento nell’ultima settimana, denuncia l’Onu. La mattanza ordinata da Assad (con il beneplacito di Putin) contro una città già ampiamente distrutta, dove oltre 250mila persone non hanno acqua potabile e i mezzi per sopravvivere sono ridotti ai minimi termini, è un crimine di guerra con pochi precedenti, mentre il mondo assiste impotente (e troppo spesso complice). La denuncia di quanto accaduto nelle ultime due settimane - nonostante un cessate-il-fuoco proclamato (e mai rispettato) il 9 settembre scorso - arriva dalla tribuna del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon, dal suo inviato speciale Staffan De Mistura. "L’azione della Russia in Siria è barbarie, non anti- terrorismo", è l’accusa espressa da Samantha Power, l’ambasciatrice Usa all’Onu, durante la riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza sulla situazione in Siria. Come è accaduto spesso negli ultimi anni in fatto di crimini di guerra, sono stati gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna i primi a lanciare pesanti accuse contro il dittatore di Damasco e la Russia. "Ad Aleppo continuano ad essere commessi crimini di guerra, non possono essere lasciati impuniti: in Siria l’impunità non può più essere considerata un’opzione", ha detto l’ambasciatore di Parigi François Delattre all’apertura della riunione. "La Russia è in partnership con il governo siriano nel commettere crimini, a Mosca non è rimasta più alcuna credibilità", ha ribadito il britannico Matthew Rycroft, aggiungendo che gli ordigni incendiari sganciati da aerei siriani e russi su Aleppo, così come i barili-bomba "sono una chiara violazione del diritto internazionale". Durissimo anche Staffan De Mistura. "Questi sono giorni agghiaccianti, tra i peggiori da quando è iniziato il conflitto in Siria, il deterioramento della situazione ad Aleppo sta raggiungendo nuove vette di orrore", ha detto il diplomatico italo-svedese, dicendosi "deluso" per il mancato accordo sulla ripresa del cessate- il-fuoco. Non ha però alcuna intenzione di dimettersi, "perché se mi dimettessi, vorrebbe dire che la comunità internazionale sta abbandonando la Siria, che le stesse Nazioni Unite stanno abbandonando la Siria. Non manderemo questo segnale". Le forze russe e siriane hanno bombardato anche il campo profughi palestinese di Handarat, alla periferia nord di Aleppo, dopo che i ribelli ne avevano ripreso il controllo. "Per quanto tempo ancora tutti coloro che hanno influenza in Siria permetteranno che continui tanta crudeltà? Chiedo a tutti i soggetti coinvolti di lavorare per porre fine a questo incubo, non ci sono scuse per non intraprendere una decisa azione che fermi il caos". A lanciare quest’ultimo appello è il Segretario generale delle Nazioni Unite, ma le speranza che le sue parole vengano recepite è pari quasi al nulla. In attesa che gli Stati Uniti prendano una posizione netta (la Siria rimarrà come la peggiore macchia nella duplice presidenza di Obama) e dopo le parole che suonano beffarde dell’ambasciatore russo Vitaly Churkin ("in Siria la pace è impossibile"), Assad e Putin continuano a considerare le popolazioni civili di Aleppo (e non solo) come carne da macello. Siria. Aleppo brucia, le super potenze si insultano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 settembre 2016 Violentissima escalation del conflitto nella città settentrionale, mentre al Palazzo di Vetro Mosca e Washington si accusano a vicenda di crimini. Assad vuole vincere, le opposizioni si fanno mandare altre armi. Settantuno camion di cibo e medicinali hanno fatto il loro ingresso ieri in quattro comunità siriane assediate: Zabadani e Madaya, al confine con il Libano; Fuah e Kefraya, cittadine sciite nella provincia di Idlib, controllata dall’ex al-Nusra. Gli aiuti saranno consegnati a 60mila persone dalla Croce Rossa. Mentre qualcosa finalmente arriva alle popolazioni sotto assedio di governo o opposizioni, ad Aleppo - dove si svolge una battaglia decisiva per la guerra - la violenza delle armi non aveva mai raggiunto simili livelli. Gli ospedali sono al collasso: le immagini girate sul posto mostrano corridoi strapieni di feriti, sdraiati a terra per l’assenza di posti letto, medici che corrono con in braccio bambini coperti di sangue, persone soccorse con i pochi mezzi a disposizione. "Non c’è spazio per noi - dice al microfono di al-Jazeera il corrispondente Halabi - Dobbiamo lasciare spazio ai feriti. Sembra il giorno del giudizio". Fuori, Aleppo si ripiega su se stessa: centro economico della Siria, oggi non riesce neppure a produrre pane. Il cibo sta velocemente scomparendo, così come l’acqua corrente. Per non parlare dei medicinali, una chimera. Il fallimento della tregua, ampiamente previsto, ha aperto ad un’escalation che colpisce la popolazione senza quartiere. Ad est, nelle zone controllate dalle opposizioni per lo più islamiste (sarebbero 3.500 solo i miliziani dell’ex al-Nusra, oggi Jabhat Fatah al-Sham), 300mila persone restano tagliate fuori dal resto della Siria, costantemente bombardate dal cielo e da terra: i jet siriani dall’alto, i missili delle milizie armate dal basso. Mentre Aleppo viene massacrata (secondo fonti locali sono 237 i morti da lunedì 19, quando la tregua è stata definitivamente archiviata, e 101 da giovedì quando Damasco ha lanciato la controffensiva), al Palazzo di Vetro andava in scena l’ultimo degli scontri tra i due fronti della guerra, in aperto conflitto seppur fingano di essere i fautori della soluzione politica. Da una parte la Russia e la Siria, responsabili dell’intensificarsi della battaglia; dall’altra l’Onu, gli Stati Uniti e la pletora di governi occidentali da anni incendiari della crisi sotto forma di armi e diplomazia spicciola. Domenica la riunione di emergenza indetta dal Consiglio di Sicurezza si è chiusa con un nulla di fatto e i nervi tesi: Washington, Londra e Parigi hanno accusato i presidenti siriano e russo del massacro di Aleppo. E se il ministro degli Esteri di Damasco al-Moallem rispondeva ieri attraverso la tv al-Mayadeen che la tregua non è del tutto morta (nonostante sia stato il suo governo a dichiararla ufficialmente finita), al Palazzo di Vetro il rappresentante di Mosca Churkin attaccava le opposizioni, responsabili di aver costantemente violato il cessate il fuoco, e il fronte occidentale, incapace - volontariamente o no - di distinguere tra qaedisti e non. I primi, ha aggiunto, usano la popolazione ad est come scudi umani e ciò significa che "portare la pace è una missione quasi impossibile". Le parole più dure sono state pronunciate da Samantha Power, ambasciatrice Usa all’Onu: "La Russia fa l’esatto contrario di quello che dice, quello che sponsorizza non è contro-terrorismo, ma barbarie". Lo stesso, però, fa anche il suo paese che si ostina a non voler scaricare le opposizioni affiliate all’ex al-Nusra perché sono le sole a impedire ad Assad di riprendersi Aleppo. Allo stesso tempo insieme a Gran Bretagna e Francia, che domenica promettevano di non lasciare "impuniti" i crimini del presidente siriano, la Casa Bianca è la responsabile dell’arrivo in Siria di armi dalla tecnologia avanzata e in quantità incalcolabili tramite Arabia Saudita e Turchia. Non è un caso che sabato il colonnello al-Bayou, capo della Divisione Nord, unità dell’Esercito Libero Siriano, abbia annunciato "l’arrivo a breve di nuove armi pesanti" da parte dei sponsor esterni, lanciamissili e pezzi di artiglieria. Il livello dello scontro verbale ha raggiunto livelli pari a quello militare, svelando l’incapacità di trovare un accordo per l’assenza di basi comuni e propensione al compromesso. Le due super potenze sono lo specchio dei soggetti sponsorizzati, altrettanto disinteressati a sgonfiare le tensioni: Assad aveva accettato il cessate il fuoco di due settimane fa controvoglia e, pur rispettandolo, ha colto al volo l’occasione di calpestarla quando gli Stati Uniti hanno bombardato i suoi uomini a Deir Ezzor (ieri l’intelligence siriana ha detto di aver registrato una presunta conversazione tra il comando Usa e l’Isis in città durante il raid); le opposizioni si sono dette scettiche fin dal primo minuto, accettandolo ma continuando a organizzare - lo hanno detto i leader di numerosi gruppi armati, considerati legittimi dall’Occidente - azioni congiunte con Jabhat Fatah al-Sham. Egitto. Giro di vite di Al Sisi contro i migranti di Leo Lancari Il Manifesto, 27 settembre 2016 Più controlli e nuove norme per fermare le partenze. Il generale si prepara a soddisfare le richieste dell’Europa. L’Europa chiama e l’Egitto risponde. Sono passati solo tre giorni dal vertice di Vienna di sabato scorso, quando la Germania e i paesi della rotta balcanica hanno sollecitato l’Unione europea a realizzare anche con il Cairo un accordo per fermare i migranti uguale a quello siglato con la Turchia e ieri il generale Al Sisi ha risposto all’appello rivoltogli dalla cancelliera Merkel. E il presidente egiziano lo ha fatto in due modi: invitando i giovani egiziani a non lasciare il paese per cercare futuro all’estero, ma anche facendo sapere che i lavori per l’approvazione della nuova legge contro l’immigrazione illegale procedono spediti, al punto che il testo potrebbe essere licenziato già oggi dalle commissioni Affari costituzionali, Bilancio ed Esteri del parlamento. Annuncio che segue l’ordine di rafforzare i controlli ai confini impartito mercoledì scorso da Al Sisi dopo il naufragio al largo delle coste egiziane di un barcone con a bordo 500 migranti, una tragedia che ha provocato finora 160 vittime. Negli ultimi mesi l’Egitto è diventato il secondo punto di partenza dopo la Libia per quanti vogliono raggiungere l’Europa. Nella maggioranza dei casi si tratta di africani ai quali - dopo la chiusura della rotta balcanica - si sono aggiunti anche molti profughi siriani. Da tempo, però, sui barconi che attraversano il Mediterraneo salgono anche molti egiziani, soprattutto giovani, che non hanno altra alternativa che provare a crearsi una nuova vita in Europa. È a loro che ieri si è rivolto Al Sisi. "Perché dovete lasciare il vostro Paese?", ha chiesto il generale in occasione della consegna di alcune unità abitative a Gheit el Enab. Domanda retorica, la cui risposta è nella profonda crisi economica che sta attraversando il paese a causa dell’inflazione e di una disoccupazione che viaggia ormai sulle due cifre. Una realtà ulteriormente aggravata dalla crisi del turismo, al punto da spingere l’Egitto a contrattare con il Fondo monetario internazionale un prestito di 12 miliardi di dollari. Ora l’Europa è pronta a offrire ad Al Sisi un altro miliardo di euro se in cambio il generale metterà fine alle partenze dei migranti. Un accordo che ieri la Merkel, vera promotrice di questa intesa come lo fu di quella con Ankara, vorrebbe estendere anche alla Tunisia. E che, proprio come è successo a marzo con Erdogan, ignora la sistematica violazione dei diritti umani presente in Egitto. Le nuove norme anti immigrazione che potrebbero vedere la luce nei prossimi giorni sono in linea con quanto richiesto all’Europa. 43 articoli in cui, dietro il solito impegno a combattere i trafficanti di uomini, per i quali è previsto il carcere fino a 25 anni e sanzioni fino a 56.300 dollari, si colpiscono anche i migranti sorpresi nel paese senza documenti e i minori non accompagnati. E questo in un paese in cui già oggi i migranti vengono trattati con estrema durezza. Come dimostrano le fotografe di alcuni superstiti del naufragi i mercoledì scorso ammanettati nel letto dell’ospedale in cui sono ricoverati, e dalle quali non è possibile capire se si tratti o meno di presunti scafisti. Da mesi quanto avviene lungo le coste egiziani allarmale intelligence occidentali, che già dai primi mesi di quest’anno avevano lanciato l’allarme. I migranti vengono trasportati attraverso il paese con dei camion fino alla costa dove vengono nascosti in attesa dell’imbarco. Al contrario di quanto avviene in Libia, per attraversare il Mediterraneo non vengono impiegati dei gommoni ma imbarcazioni molto grandi, "navi madre" che attendono al largo i barchini con cui i trafficanti di uomini trasportano centinaia di uomini, donne e bambini. Carrette riempite ben oltre la loro capacità e che spesso, come dimostra il naufragio di mercoledì scorso, non riescono nemmeno a tenere il mare. Dopo Erdogan, Al Sisi si candida quindi ad essere il nuovo gendarme dell’Europa. Un ruolo che a quanto pare svolgerebbe anche con il consenso italiano, nonostante la scarsa collaborazione dimostrata dalle autorità del Cairo nelle indagini sull’assassinio di Giulio Regeni. Libia. La situazione nelle carceri potrebbe esplodere (e con esse il caos nel paese) di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 27 settembre 2016 Il sistema penale e detentivo della Libia è vicino al collasso, una situazione descritta come "senza precedenti" da un rapporto dello United States Institute of Peace (Usip) e che rischia di degenerare da un momento all’altro. Violenze e sovraffollamento, diritti negati e torture, le condizioni di vita dei detenuti in Libia sono ai limiti della sopportabilità umana e questo potrebbe rappresentare, nel breve-medio periodo, un ulteriore problema sociale nel dilaniato paese nordafricano. Il rapporto dell’Usip, sul quale hanno lavorato Fiona Mangan e Rebecca Murray e che è stato pubblicato il 2 settembre scorso, è un documentato atto d’accusa anche a chi continua a fare finta di non vedere: i ricercatori hanno visitato alcune strutture di detenzione nel 2012 e, successivamente, tra il 2015 e il 2016 per valutare nel complesso la qualità del sistema penitenziario libico ed evidenziando un declino verticale nelle condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione. L’esistenza di due diversi governi e innumerevoli milizie e signori della guerra, ognuno egemone - ma nemmeno troppo - sul proprio territorio, ha creato una grave frammentarietà nei diversi sistemi detentivi ed oggi, guardando la Libia nel suo complesso, questo caos rappresenta una minaccia ulteriore alla sicurezza, alla stabilità e alle sfide politiche che la Libia dovrà affrontare. Non tutte le carceri sul suolo libico sono governative e anche quelle sotto il controllo del Ministero della Giustizia di Tripoli spesso vengono "appaltate" nella gestione a guardie armate più fedeli al capo della propria milizia che ad un fantomatico, ed inesistente, stato di diritto. È capitato, non di rado, che il governo tripolitano perdesse il controllo di una struttura carceraria dopo il tradimento della milizia di turno e in questo senso la Polizia Giudiziaria sembra non poter fare nulla. Le problematiche che i ricercatori dell’Usip hanno riscontrato nella stesura del rapporto, sommate assieme, rendono un quadro piuttosto preoccupante: il personale di sicurezza deve spesso fare i conti con gli stipendi pagati in ritardo, scarso addestramento e catene di comando poco chiare mentre i loro superiori e i direttori delle carceri si battono ogni giorno per sopperire alla mancanza di risorse, umane ed economiche, con cui gestire le prigioni. In alcuni istituti membri dei gruppi armati rivoluzionari sono stati affiancati alla Polizia Penitenziaria per integrare il corpo ma questo ha impiegato tempo e risorse ed è un processo ancora non completato. Le strutture sono fatiscenti, lo erano prima della rivoluzione e oggi sono ancora peggio dopo più di 5 anni di guerra civile, due rivoluzioni e una campagna militare della Nato, e in generale il rapporto tra guardie e detenuti è pari a quello tra due nemici, cosa che aggrava non poco le difficoltà di gestione della vita quotidiana nelle carceri. Molte strutture oggi adibite a carcere fino a pochi anni fa erano scuole o ospedali, alberghi o aziende, e di conseguenza non sono in grado di fornire i servizi minimi adeguati alle esigenze attuali, come l’acqua, servizi igienici e assistenza medica. Molti detenuti non sono "criminali" nel senso penale del termine che intendiamo noi europei (ladri o assassini, truffatori o usurai, etc) ma spesso sono appartenenti a milizie rivali o persino detenuti politici: questo non fa altro che creare una società carceraria disomogenea e frammentata che, all’interno di un sistema privo di controllo e di certezza del diritto, non può che produrre altro che ulteriore criminalità. I casi di detenuti radicalizzati in carcere in Libia, spesso stranieri provenienti dall’Africa subsahariana, e arruolatisi nelle fila di Isis una volta liberati raccontano una realtà carceraria preoccupante e produttrice di morte. Inoltre le carceri sono piene di ex-gerarchi del regime di Gheddafi, i detenuti mediamente più anziani, e questi esercitano ancora oggi un forte potere persuasivo sui più giovani. Gli stranieri e le donne detenute, che vivono assieme a tutti gli altri, completano il quadro generale del sovraffollamento mostrando le tinte fosche delle sfide che il sistema penale libico si trova oggi ad affrontare. Eppure la gestione delle carceri è un elemento chiave per la stabilità di un Paese, e della Libia in particolare. A dimostrarlo è la storia recente di questo paese: il 17 febbraio del 2011, l’esatto giorno in cui gli storiografi collocano l’inizio della prima guerra civile libica che ha portato al rovesciamento del regime di Gheddafi e alla morte del Colonnello il successivo mese di ottobre, una rivolta nel carcere di Abu Salim si è espansa a macchia d’olio anche al di fuori delle mura del carcere. Abu Salim era il simbolo della repressione del regime: nel 1996 una rivolta dei carcerati fu sedata nel sangue dalle guardie armate messe a guardia di quell’inferno, che trucidarono brutalmente 1270 detenuti sparando per ore dalle torrette perimetrali sui detenuti fatti defluire nel cortile del carcere. Il massacro di Abu Salim non fu mai dimenticato dalle famiglie dei detenuti massacrati, nonostante nessuna indagine internazionale sia stata mai avviata: i rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch sulle torture e le violazioni dei diritti umani inferte ai detenuti di Abu Salim durante il regime finirono per diventare sceneggiature per documentari, senza mai diventare atti d’accusa precisi agli uomini del Colonnello e allo stesso Gheddafi. Nell’aprile 2011 moltissimi detenuti evasero da Abu Salim e molti di loro si arruolarono con i ribelli che assaltarono, da maggio ad agosto, le forze del regime asserragliate nel compound di Bab al-Aziziyya, il quartier generale di Muammar Gheddafi. I rivoltosi che il 23 agosto 2011 entrarono nella struttura dopo l’assedio erano, per la maggior parte, ex-detenuti ad Abu Salim. Tornando ai giorni nostri le problematiche relative alla gestione delle carceri in Libia possono essere esemplificate citando il caso di due figli del Colonnello, Saif al Islam, secondogenito ed ex-delfino di Muammar Gheddafi, e Saadi Gheddafi, con un trascorso nel Perugia Calcio. Il primo è stato arrestato da una milizia il 19 novembre 2011 al confine tra Libia e Niger e trasferito nel carcere di Zintan, tenuto in isolamento sotto il controllo delle milizie. La Corte Penale Internazionale ha chiesto innumerevoli volte di processarlo per crimini contro l’umanità e anche il governo di Tripoli vuole processarlo: condannato a morte da un tribunale tripolitano il 28 luglio 2015 con l’accusa di genocidio Saif al Islam resterà nelle mani delle milizie di Zintan, che si oppongono al governo di Tripoli, e consegnato al governo di Tobruk (altro rivale dei tripolitani) il 5 luglio 2016, giorno di fine del Ramadan. Oggi vive in una località segreta libica al confine con l’Egitto. Il secondo, il fratello Saadi, è stato arrestato in Niger, dove era fuggito l’11 settembre 2011, perché ricercato dall’Interpol. È stato estradato in Libia il 6 marzo 2014, condotto nel carcere di Tripoli e portato a processo nel maggio 2015. Il procedimento è ancora in corso, Saadi Gheddafi rischia la pena di morte per omicidio, ma la parte più interessante riguarda un video diffusosi su internet e poi rivelatosi autentico che mostra chiaramente le torture e le umiliazioni che l’ex-calciatore del Perugia subisce dalle milizie islamiche messe a guardia del carcere della capitale libica. Un terzo fratello Gheddafi, Moutassim (ex-Responsabile della Sicurezza Nazionale del Paese), fu catturato dai ribelli con il padre in un canale di scarico ma contrariamente al genitore, giustiziato sul posto, fu trasferito in una caserma, posto sotto arresto e liquidato a poche ore di distanza con un colpo alla testa. Non è quindi una boutade occuparsi e preoccuparsi delle carceri della Libia: è nelle carceri che si produce fondamentalismo e rancore, in Libia come in Iraq o in Siria, come tra l’altro in ogni parte del mondo, ma fino a quando il carcere rappresenterà il rimosso della coscienza collettiva occidentale, dove il diritto può essere flesso e stiracchiato e persino messo da parte, sarà difficile affrontare concretamente i problemi della società libica. Dal carcere è nato il malcontento contro un regime ultra-quarantennale, dal carcere è nata la rivoluzione che l’ha deposto e dal carcere nascono, ogni giorno, le ragioni per cui la Libia si è trasformata in un caos assoluto. Iran. L’appello di Nessuno Tocchi Caino: "liberate Narges Mohammadi" di Dimitri Buffa L’Opinione, 27 settembre 2016 È stata la più stretta collaboratrice di Shirin Ebadi, l’iraniana premiata col Nobel per la pace per il proprio impegno nei "civil and human rights". E magari anche per difenderla dall’ira degli ayatollah. Ma oggi l’avvocatessa Narges Mohammadi si trova nel carcere lager di Evin con 10 anni di carcere da scontare, accusata falsamente di tramare contro l’Iran. L’ultima condanna risale allo scorso maggio e dopo inutili pressioni internazionali su Teheran adesso è "Nessuno tocchi Caino", una delle più importati associazioni della galassia che fa capo al Partito radicale transnazionale, a lanciare un appello alle Nazioni Unite affinché la donna, che è anche malata, sia liberata. Quando fu arrestata su di lei uscì un articolo sul Corriere della Sera in cui si leggeva tra l’altro che "Mohammadi aveva difeso sei prigionieri curdi sunniti che sono stati impiccati l’anno scorso in Iran per ‘moharebeh’ (guerra contro Dio). Erano stati condannati per aver ucciso un leader religioso sunnita vicino alle autorità, ma loro negavano. Ora è lei ad essere stata condannata con l’accusa di pianificare crimini contro la sicurezza dell’Iran, diffondere propaganda contro il governo e formare e gestire un gruppo illegale. Il gruppo in questione è Legam, un movimento pacifista per l’abolizione ‘passo dopo passò della pena di morte". "Nessuno tocchi Caino" e il suo segretario Sergio D’Elia adesso chiedono al governo italiano di salvare l’avvocatessa iraniana dei diritti civili da un’ingiusta pena detentiva, che oltretutto mette a rischio la sua stessa salute. Secondo D’Elia "in realtà, è il suo impegno militante che si vuole sopprimere con la detenzione e tutta una serie di vessazioni, come l’impedimento di contattare telefonicamente i suoi due figli gemelli di nove anni che vivono a Parigi, e con tutte quelle violazioni dei diritti umani che contraddistinguono le condizioni di detenzione di tutte le prigioniere politiche con cui lei è ristretta nel carcere di Evin, come la negazione di cure mediche e ricoveri ospedalieri, le limitazioni al diritto di visita ed una nutrizione scarsa ed inadeguata". "Siamo sconvolti dalla permanenza in carcere di Narges Mohammadi", gli fa eco Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno tocchi Caino, spiegando che la donna "il 19 settembre scorso ha presentato appello contro l’ultima sentenza di condanna del maggio scorso al carcere. Consideriamo inaccettabile che l’Iran, già primatista mondiale per numero di esecuzioni rispetto alla popolazione - continua la Zamparutti - arrivi addirittura a perseguitare in forme così violente chi si impegna per la difesa dei condannati a morte. Sappiamo che il ministro Gentiloni ha fatto presente, durante la recente visita in Italia di Mohammad-Javad Larijani, segretario generale del Consiglio iraniano per i diritti umani - prosegue Elisabetta Zamparutti - la contrarietà dell’Italia all’uso della pena di morte in Iran - fatto peraltro totalmente censurato dalla stampa iraniana - e proprio per questo riteniamo che il nostro Governo debba unirsi alle voci della Comunità internazionale che chiedono la liberazione di Narges Mohammadi, e degli altri nelle sue condizioni, cogliendo anche l’occasione dei lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite". Chissà, magari qualcuno dovrebbe rammentare questa vicenda anche a Barack Obama, John Kerry ed a tutto l’entourage democratico Usa. Che con l’Iran ha voluto iniziare forse troppo presto la stagione del disgelo e dello "sdoganamento". Pakistan. Human Right Watch: impuniti ogni anno centinaia di omicidi extragiudiziali di Victor Castaldi Il Dubbio, 27 settembre 2016 "Arrestati, torturati, uccisi dalla polizia pakistana". Una strage silenziosa commessa nella totale impunità: centinaia di persone uccise ogni anno in Pakistan dalla polizia in modo extragiudiziale. Questa l’accusa formulata da Human Rights Watch (Hrw) che parla di "uccisioni durante scontri" per indicare come spesso la polizia pakistana sostiene di aver ucciso terroristi o sospetti criminali mentre tentavano di resistere alle forze di sicurezza o durante un’imboscata. Nella realtà, sostiene Hrw in un rapporto diffuso oggi, si tratta di esecuzioni durante la custodia della polizia. Il gruppo per la difesa dei diritti umani si dice preoccupato che molti, "se non la maggior parte", delle 2.108 persone uccise in scontri nel 2015 sono more in circostanze "simulate e non in situazioni nelle quali la loro vita era a rischio". Nel documento diffuso da Hrw si legge che "nella grande maggioranza dei casi, nessun poliziotto è rimasto ferito o ucciso, facendo sorgere dubbi sul fatto che ci sia stato un effettivo scontro armato che ha creato una minaccia imminente per la vita dei poliziotti o di altri". Hrw ha quindi trovato prove che la polizia pakistana, spesso poco addestrata e mal equipaggiata, faccia uso regolare della tortura per ottenere confessioni. Questi metodi hanno fatto sì che la polizia sia "una delle istituzioni più temute e meno degno di fiducia del Pakistan". Un funzionario della provincia del Punjab citato a condizione di anonimato nel rapporto di Hrw spiega che gli agenti ritengano che uccidere i criminali non danneggi la reputazione della polizia. "Gli scontri sono il modo migliore per liberarsi dei criminali incalliti - ha detto - Non considerano che si tratta di una grave violazione dei diritti umani e, anzi, lo considerano un modo efficace per applicare la giustizia". Il rapporto riferisce poi che la polizia usa questi metodi in quanto non è in grado di reperire abbastanza prove per formulare un’accusa o sotto pressione di comandanti, politici o potenti locali. "In generale la polizia uccide abitualmente solo i criminali che commettono reati efferati come lo stupro, rapina a mano armata, omicidi multipli, rapimenti", ha detto una seconda fonte citata da Hrw. Leggi antiquate, molte delle quali risalgono al colonialismo britannico, hanno dato alla polizia un alto grado di libertà e viene fatto ben poco per investigare gli omicidi. Venezuela. Così si violano i diritti dei detenuti e delle loro famiglie Associated Press, 27 settembre 2016 Sembra un conto alla rovescia senza fine quello del Venezuela, un giro di lancette che ormai da mesi non trova il proprio termine e la situazione peggiora sempre più nelle scuole, negli ospedali e persino nelle carceri dove con l’irrobustirsi della grave crisi sono venute a mancare le garanzie dei detenuti e delle loro famiglie. I vescovi del Paese, infatti, in questi mesi rimasti sempre in prima linea per la difesa dei diritti della popolazione e perché il governo Maduro trovasse una giusta risoluzione ai tanti problemi che rallentano la vita pubblica, hanno espresso grande preoccupazione per la situazione carceraria nel Paese e hanno esortato le autorità a garantire i diritti dei prigionieri, come stabilito dalla Costituzione e dal Codice penale. La denuncia arriva tramite un comunicato diffuso dalla Conferenza episcopale venezuelana pubblicato nella festa della Madonna delle Mercede, e firmato dall’arcivescovo di Coro, monsignor Roberto Luckert, presidente della Commissione Giustizia e Pace della Cev. Esortiamo "il governo, attraverso i suoi organi competenti, a rispettare e a far rispettare i diritti e le garanzie di cui godono i detenuti e le loro famiglie", scrivono i vescovi chiedendo "ai funzionari di ricercare la giustizia, il senso di equità e la tempestività nel loro lavoro", perché nelle carceri venezuelane si stanno violando i diritti fondamentali dei detenuti. A tale riguardo, inoltre, i vescovi si concentrano sul sovraffollamento delle carceri, sulla "totale mancanza" di strutture e di regole sanitarie, "sull’uso eccessivo della forza da parte delle autorità", sul ritardo nei processi giudiziari, sull’esistenza di gruppi di detenuti con il permesso di commettere attività criminali all’interno del carcere. Inoltre le famiglie dei prigionieri subiscono trattamenti "inumani e degradanti". Questa situazione è stata segnalata anche dall’opposizione politica in Parlamento, in modo particolare i prigionieri politici subiscono un trattamento duro, con l’isolamento. Il 4 settembre Tarek William Saab, Defensor del Pueblo (organismo per la difesa dei diritti dei cittadini), ha denunciato il sovraffollamento delle carceri del Paese, definendolo "inaudito", in quanto viene superata fino a dieci volte la capacità delle strutture penitenziarie, con più di 30.000 detenuti in tutto il territorio. In particolare sono coinvolti quelli in attesa di processo e quanti aspettano di essere trasferiti nei Centri di detenzione e sono ancora nelle caserme della polizia o della guardia nazionale. Palestina. Due ex prigionieri politici hanno aperto il primo fast food mobile tpi.it, 27 settembre 2016 Khaldoun Barghouti e Abdel Bibi hanno trascorso dieci anni della loro vita in un carcere israeliano, una volta usciti hanno deciso di dar vita a questo progetto. Si tratta del primo fast food mobile aperto in Palestina. Il camioncino multicolore con la scritta "Food Train" sosta su un lato del mercato centrale di frutta e verdura di Ramallah, in Cisgiordania. La prima volta che comparve parcheggiato in quel punto non passò certamente inosservato sia per i suoi colori sgargianti, sia per il suo assortimento di hot dog, hamburger e panini shawarma. Il suo proprietario si è mostrato fiero della sua creazione, la primo in assoluto in Palestina. Khaldoun Barghouti, un palestinese di 43 anni, originario d Kobar non lontano da Ramallah, ha raccontato in un’intervista rilasciata ad Al Jazeera, che quando ha aperto il suo chiosco mobile su quattro ruote nel mese di aprile tutti lo scambiavano per il furgone dei gelati. Non è stata un’impresa facilissima ottenere la licenza, operare frequenti sopralluoghi e decidere il listino dei prezzi, in una terra sotto costante minaccia. Oggi il furgoncino dai colori sgargianti è diventato un punto di riferimento per i bambini del quartiere, che non disdegnano un hot dog appena cucinato o un panino shawarma ricco di ogni ingrediente. Ad aiutare Khaldoun ogni giorno c’è il suo socio Abdel Rahman Bibi, palestinese anche lui. I due si sono conosciuti tra le anguste celle di una prigione israeliana, dove hanno trascorso rispettivamente nove e otto anni. Ex prigionieri politici, Khaldoun e Abdel una volta fuori hanno deciso di reinserirsi nella società. Khaldoun, padre di sei figli, non poteva trascorrere lungo tempo senza un’occupazione. "Volevamo anche che la gente beneficiasse del nostro lavoro, e noi nel contempo riuscissimo a reintegrarci nella società e poter fornire così un servizio a tutti", ha raccontato l’uomo. Da ex detenuti non era facile riadattarsi a uno stile di vita lontano dall’oscurità delle prigioni israeliane. "All’inizio è stata più la curiosità ad attrarre persone verso il nostro furgone. Molti ci hanno voluto aiutare in virtù del nostro passato, ma ora ritornano perché apprezzano il nostro cibo". Il progetto è nato in carcere. Costretti in spazi angusti, poco illuminati e ridotti, senza aria e senza luce, una volta scarcerati, i due hanno voluto riassaporare la normalità e per questo hanno optato per un’idea simile. E anche la scelta dei colori non è stata casuale. Ai colori scuri come il nero, il blu scuro o il marrone, Khaldoun ha voluto contrapporre colori scintillanti e toni vivaci come il rosso, l’arancione e il viola. E lo stesso è valso per le tipologie di cibo proposte ai loro clienti. Tra le loro specialità si annovera un mix di tonno e mais - lo stesso pasto che per anni i due hanno mangiato dietro le sbarre - e che ora hanno rivisitato proponendolo nei panini shawarma, negli hot dog di carne di tacchino o nelle schnitzel arricchiti di patatine fritte, verdure o sottaceti. Non è stato facile ottenere un permesso da parte delle autorità palestinesi per aprire un’attività del genere, la prima del suo genere in Cisgiordania. "Ma alla fine ci siamo riusciti", ha ricordato Khaldoun. Inoltre, con l’aiuto di una ditta locale, i due soci hanno dotato il loro furgone di due pannelli solari attraverso i quali possono ottenere energia per far funzionare il congelatore, i frigoriferi e i ventilatori. Prima di optare per questa soluzione ecologica, come ha raccontato Bibi, sono state fatte delle ricerche in merito: "Abbiamo fatto delle indagini online e abbiamo visto che sarebbe stato possibile far funzionare il nostro furgone-fast food in quel modo. Se avessimo messo un generatore, questo sarebbe stato altamente inquinante e avrebbe rilasciato fumi pericolosi per l’ambiente. Eravamo in cerca di una soluzione alternativa, e la migliore che abbiamo trovato è stata l’energia solare". Il "Food Train" si muove da un punto all’altro di Ramallah, fermandosi ogni giorno in un punto diverso della città. La mattina spesso e volentieri lo si vede parcheggiato davanti all’università al-Quds, mentre a mezzogiorno si dirige verso la zona industriale di Beitunia per offrire il suo cibo agli operai in pausa pranzo. Nel tardo pomeriggio, il furgoncino sosta al mercato centrale, vicino a cumuli di patate e zucchine. Nei fine settimana, il furgone si dirige verso i parchi, le aree turistiche e fuori dai centri culturali. "Finora abbiamo raccolto risposte positive dai nostri clienti. L’affluenza è alta e i clienti continuano a tornare. La nostra pagina Facebook è piena di messaggi di sostegno, o domande sul furgone". I guadagni iniziano a salire seppur in maniera graduale. Ma questo denaro servirà per ripagare un prestito di 37mila dollari da versare nel corso dei prossimi cinque anni - seppur con un basso tasso di interesse - finanziato dal ministero dei detenuti palestinesi. "Abbiamo dovuto affrontare alcuni ostacoli, perché si tratta del primo progetto di questo tipo in Palestina", ha spiegato Barghouti. "Non riuscivamo a trovare le apparecchiature adatte da installare all’interno del camion. Tutto doveva essere su misura. Credo che l’unico elemento che abbiamo acquistato da un negozio sia stato un set di coltelli". I due comuni di Ramallah e Bireh sotto la cui giurisdizione il furgone opera, non sapevano su quali basi e per quali scopi rilasciare l’autorizzazione. Non si trattava di un ristorante, di una bancarella ma di un furgone. "Per fortuna, il governatorato ci ha rilasciato un permesso grazie al quale potevamo parcheggiare ovunque, a patto di non ostacolare il traffico o di sostare davanti a un marciapiede o davanti a un ristorante". Anche i prezzi dei panini, degli hot dog e delle patatine fritte si sono adeguati allo stile di vita dei quartieri nei quali girano: ad esempio, il mercato dove i garzoni che vi lavorano devono aiutare anche le loro famiglie. Per questa ragione i prezzi sono bassi. "Un panino con salsiccia colmo di patatine fritte e verdure lo vendiamo a due dollari", ha raccontato Bibi, il socio di Khaldoun. Nel giro di qualche mese, il business di aprire un furgone-fast food ha conquistato anche altre città palestinesi, come Gaza. Ma questa è un’altra storia.