Contro la Pena di Morte Viva Per il diritto a un fine pena che non ammazzi la speranza Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2016 In un film di successo, "Via col vento", la protagonista diceva spesso: "Domani è un altro giorno e si vedrà". No! Per gli ergastolani domani non sarà un altro giorno. Sarà un giorno come quello appena trascorso. E così sarà per il giorno dopo e quello dopo ancora fino l’ultimo dei loro giorni. Per gli ergastolani la speranza non è un rimedio alla sofferenza, ma un prolungamento indefinito della sofferenza. Imprigionare una persona per sempre è come toglierle tutto e non lasciarle niente, neppure la sofferenza, la disperazione, il dolore. Con l’ergastolo la vita diventa una malattia, e gli ergastolani non vengono uccisi, peggio, sono lasciati morire. Questa terribile condanna supera i limiti della ragione e fa diventare le persone che la subiscono esclusivamente corpi parlanti. Ristretti Orizzonti ha deciso di organizzare nel carcere di Padova, il 20 gennaio prossimo, un convegno per l’abolizione dell’ergastolo. Abbiamo pensato di coinvolgere, come organizzatori o aderenti, parlamentari (che si facciano promotori di un disegno di legge e che si attivino per farlo calendarizzare), uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati, e naturalmente ergastolani, uomini e donne condannati a lunghe pene e loro famigliari. Cosa chiediamo a tutti quelli che leggono questo messaggio? se possibile, un’adesione alla proposta di abrogazione dell’ergastolo, l’impegno a farla girare tra i propri contatti per coinvolgere la società civile. Se fate parte di un’associazione, di una comunità, di un circolo, aderite anche con questo soggetto collettivo tramite la Segreteria del convegno Contro la Pena di Morte Viva all’indirizzo mail ornif@iol.it. Ricordiamo a tutti di visitare il nostro sito internet www.ristretti.org per avere maggiori notizie sulla campagna e le adesioni che arriveranno, anche perché verranno pubblicati altri comunicati con i lavori preparatori del convegno. Inoltre invitiamo a seguire la Rassegna Stampa di Ristretti perché di volta in volta saranno inserite alcune testimonianze degli ergastolani. Eccovi la prima. Carmelo Musumeci È come il gioco dell’oca, ma la sofferenza è eterna Sono trascorse diverse primavere e ogni mattina all’alba, quando apro gli occhi, mi accorgo che sono sempre un prigioniero, circondato dal solito cemento armato e dal ferro delle sbarre. Ogni giorno penso sempre che prima o poi ci sarà un periodo migliore, in modo da tenere viva quella poca speranza che mi è rimasta. Scrivo "quella poca speranza che mi è rimasta", perché anni addietro sono stato condannato al massimo della pena, e per essere più chiaro, alla pena perpetua, l’ergastolo. Ho scritto che sono sempre un prigioniero, come confermato sul mio certificato di detenzione: "fine pena 31.12.9999", dunque in un certo senso non sono un detenuto, perché se lo fossi avrei un fine pena certo. Negli ultimi anni di questa mia prigionia, per ammazzare questo infinito tempo di sofferenza, ho cominciato a leggere e a scrivere, partecipando al corso di "lettura, ascolto e scrittura", che si svolge all’interno del carcere, grazie all’enorme umanità di un professore in pensione che fa volontariato in carcere. So che il resto della mia vita è senza futuro, sono destinato a morire da prigioniero, a meno che non cambino la legge e venga abolita la pena dell’ergastolo. Anche se continuo a vivere sperando che ci sarà un periodo migliore, è solamente per dare la speranza ai miei famigliari che, prima o poi, mi vedranno varcare la porta di casa solamente per qualche giorno, in modo che la loro sofferenza non sia eterna come la mia. Quando i miei famigliari vengono in carcere a farmi visita, per vedermi e portarmi quel poco di necessario per vestirmi, mi chiedono sempre se ho qualche novità da riferirgli e ovviamente come il mio solito gli dico sempre che è la solita minestra. Ugualmente li rassicuro che se non mi vedranno a casa, sicuramente vedranno mio fratello Fabiano varcare la porta di casa, per qualche giorno. Anche mio fratello è stato condannato alla pena perpetua, anche lui è un prigioniero e si trova nel carcere di Fossombrone. Sia io che mio fratello non abbiamo il coraggio di dire a nostra madre che siamo destinati a morire dentro a un carcere di questo Paese. Ovviamente la mia anziana madre è anche lei imbevuta un po’ della mala-informazione come il resto delle persone della nostra società esterna, e in tanti pensano che nel nostro Paese nessun detenuto sconti la pena fino all’ultimo giorno, perché sono subito fuori. Non sanno che esiste una categoria di persone condannate (colpevoli o innocenti che siano), gli ergastolani, che sono destinate a morire all’interno di un carcere. Fino a oggi ho oltrepassato la soglia dei venti anni di carcere, è da diverso tempo che potrei usufruire dei cosiddetti benefici per continuare a scontare la mia prigionia in modo diverso (come è scritto nell’Ordinamento penitenziario). Sinceramente, anche se scrivono che il mio percorso all’interno del carcere è positivo e potrei usufruire di un percorso extra-murario, tutto ciò non mi è concesso. Chi dovrebbe decidere se potrei usufruire di qualche ora al di là del muro di cinta, o darmi l’opportunità di varcare la porta di casa di mia madre per qualche ora, scrive che ho bisogno di un nuovo aggiornamento sulla mia situazione ‘inframurarià, come se gli oltre venti anni che ho vissuto in galera non contassero. A volte penso proprio che chi ha la competenza per decidere della mia vita, mi stia facendo partecipare "al gioco dell’oca": dopo un lungo periodo in cui tutto è positivo per intraprendere e continuare il percorso, arrivo nella casella di tale gioco dove c’è scritto: "ricomincia da capo". Capisco solo che faccio parte di quella categoria che è condannata alla pena perpetua, e destinata a morire all’interno di un carcere. Per questo la mia sofferenza è eterna. Angelo Meneghetti In carcere, dove l’estate è stata solo sofferenza Il Mattino di Padova, 26 settembre 2016 L’estate che si avvicina alla fine è quasi per tutti un motivo di tristezza: si chiude la stagione della libertà, quella in cui ci si sente più aperti a nuove esperienze, più pieni di aspettative. In carcere invece la realtà è rovesciata, i detenuti aspettano con ansia che l’estate finisca, perché l’estate è simbolo di chiusura, di un deserto di relazioni, molte attività cessano nel momento in cui sarebbe più importante che continuassero, i corridoi sono semideserti, i volontari sono sempre meno, la solitudine è ogni giorno più pesante. E anche le famiglie possono venire meno a colloquio, i figli hanno le loro vite, e i padri detenuti si sentono di peso e vivono una condizione di maggior fragilità. Nel racconto di due persone detenute, emerge in modo chiaro quanto l’estate sia stata pesante per loro, una specie di supplemento di pena che per fortuna sta per finire. L’estate è il periodo più critico per i suicidi in carcere Dopo un inverno rigido non si aspetta altro che arrivi l’estate, si sente il bisogno di sdraiarsi al sole, magari in una tranquilla spiaggia, in riva al mare, e dimenticarsi i ritmi frenetici che la vita ci impone, gli orari lavorativi, e scrollarsi di dosso quel freddo rigido che piano piano nell’inverno è entrato nelle ossa. A volte, con tanta nostalgia qui in carcere ci immedesimiamo in quelle circostanze che un tempo abbiamo vissuto, ma adesso è tutta un’altra cosa, siamo in stato di detenzione ed è comprensibile che, con l’estate, i ricordi, i rimpianti si fanno sentire con più forza. Molti pensano che dentro un carcere la vita detentiva continua a scorrere come sempre, con i suoi ritmi e i suoi orari, invece quando si avvicina l’estate, nel carcere si inceppa qualcosa, tutto si ferma. Lo si vede già da quando finiscono le scuole, che si ha quel senso di vuoto che non si sa come riempire. A partire da luglio, la temperatura comincia a salire e i muri di cemento armato cominciano a rilasciare calore fino a farti percepire una sensazione di soffocamento, e un po’ alla volta si fermano tutte le attività. Anche gli operatori hanno diritto alle vacanze, hanno famiglia, chi li può biasimare, ma per quelle persone che vivono costantemente in questi posti, il tempo sembra bloccarsi, dapprima cominciano a mancare i volontari, che sono il motore principale di tutte le iniziative che si svolgono in carcere, poi si comincia a chiudere il campo sportivo e la palestra "per mancanza di personale", e alla fine, anche tutti i movimenti interni si interrompono e in agosto cessano quasi tutte le attività. Una persona costretta a vivere in questi posti percepisce una sensazione di abbandono, di solitudine che non è umana: inganni il tempo passeggiando avanti e indietro in questi lunghi corridoi senza poterti impegnare in qualcosa di utile, parlando di cose futili, ripetitive, che hanno dell’infantile e molto spesso ti isoli in cella, la noia ti impedisce anche di restare ad ascoltare, nel frattempo, il caldo continua a soffocarti. L’unica opportunità che ti viene data è quella di scendere all’aria, ai passeggi, ringraziando Dio, questa non possono togliertela, solo che puoi accedere dalle 13 alle 15, quando il sole cocente brucia le pietre e non hai neanche un posto dove poterti riparare in quelle quattro mura senza tetto, una vasca di cemento con l’aria afosa, pesante, soffocante. Proprio per questo l’estate è il periodo più critico per i suicidi in carcere, le statistiche degli ultimi decenni l’hanno dimostrato, ma, malgrado ciò, il carcere continua a non offrire niente, non c’è quasi mai un’organizzazione per promuovere delle attività, delle iniziative per movimentare la vita detentiva, niente, solo desolazione, e solitudine, l’unico strumento che ti proietta verso il mondo esterno è la televisione che giustamente ti bombarda di informazioni sull’afflusso turistico e sulle spiagge più belle, che però per un carcerato sono del tutto inutili! Sono convinto, malgrado ogni essere umano ritenga che il carcere sia lontano da ognuno di noi, che il carcere fa parte della società civile, e se penso a quella parte di società più bisognosa, e intendo anziani, associazioni che ospitano ragazzi in difficoltà, o persone che non hanno la possibilità di andare in vacanza e che nutrono il desiderio di socializzare, di fare un’esperienza di vita diversa, immagino che in questo periodo di solitudine gli si potrebbe dare la possibilità di entrare in carcere, e sono convinto che sarebbe utile, sia per la società che si confronterebbe con quel mondo così lontano, che per il percorso rieducativo intrapreso dai detenuti. Agostino Lentini D’estate, in carcere c’è tanta solitudine Con la chiusura delle attività scolastiche e dei diversi corsi per le vacanze estive sono tornato indietro ai primi anni di detenzione. Tempi molto tristi e di grande sofferenza. Erano anni in cui il mio animo straripava di rabbia e di dolore incontenibili. Non conoscevo neppure l’esistenza di attività culturali, scolastiche o di formazione. Questi tre mesi estivi sono dei lunghi giorni tutti uguali, di solitudine, inutili. Il mercoledì non ho più neppure la compagnia del corso di scrittura, che per me è un appuntamento importante che mi fa vivere in maniera costruttiva questa realtà. Mi aiuta a sentirmi utile. La mente reagisce e produce scambi di pensiero, e tiene lontani i pensieri tristi. Durante questi incontri arricchisco il mio bagaglio di esperienze, è una forma di allenamento all’educazione e alla conoscenza di questo Paese dove sto vivendo, che non è il mio. A scuola, l’ultimo giorno del corso di italiano il nostro professore ci ha chiesto di scrivere un tema sull’amore. Amore, un tema delicato che mi fa andare subito in crisi per la solita ragione, che ci troviamo in questo posto triste, lontani dalle nostre famiglie, in un altro paese, in cui spesso ci fanno pesare di essere stranieri. E d’estate, la lontananza degli affetti nelle nostre vite è anche più pesante che negli altri momenti dell’anno. Sono in carcere da nove anni e ne ho ancora molti da scontare, tuttavia, penso di essere fortunato, per prima cosa sono vivo, e questo con la vita che ho fatto è un miracolo, e poi riesco a trovare la forza che è in me per andare avanti. Ed è proprio l’amore per i miei cari che mi fa vivere. Qui dentro vedi persone disperate con cui oggi parli e domani si tolgono la vita. Qui vivi solo di speranza, se riesci a trovarla dove si nasconde, e per me, lo ripeto, è solo l’amore che ti fa sperare. L’amore, è una parola magica che io non cambierei con nessuna cosa al mondo, in carcere senza amore non si può vivere. Una persona senza amore è come un albero privo delle sue radici. L’amore è fondamentale, e parlo soprattutto dell’amore di una madre, che per suo figlio raggiunge anche la fine del mondo e per vederlo è pronta anche a morire, non guarda al suo reato o al male che ha fatto. ma lo ama come la volta che lo ha messo al mondo e non lo abbandona mai. Il suo amore non conosce limiti, anche in questo posto, e non si può fermare, ti fa vivere e prendere la vita in modo positivo e ti sostiene e aiuta ad essere ottimista anche nelle peggiori situazioni in cui puoi trovarti. E ti salva anche dalla solitudine e dalla tristezza dell’estate. Elton Xhoxhi In cella non c’è salute. Cinquemila Hiv positivi, 6.500 con epatite di Marzia Paolucci Italia Oggi, 26 settembre 2016 Circa 5 mila Hiv positivi, circa 6.500 portatori attivi del virus dell’epatite B e circa 25 mila positivi al virus dell’epatite C in un totale di 99.446 individui transitati nel 2015 nei 195 istituti penitenziari italiani. Ma sono dati di stima perché uno dei problemi principali è che circa la metà di questi sono ignari della propria malattia, ovvero non si sono dichiarati tali ai servizi sanitari penitenziari. Un quadro allarmante fotografato in tre giorni dalla Simspe-Onlus durante il congresso nazionale tenutosi a Roma presso l’Istituto superiore di sanità dal 14 al 16 settembre. "L’abbiamo chiamato "Agorà penitenziaria" perché intendiamo ricreare una piazza virtuale in cui dibattere su tutte le tematiche del complesso mondo della sanità penitenziaria", ha spiegato Luciano Lucania, presidente Simspe-Società italiana di medicina e sanità penitenziaria. Tra i tanti argomenti trattati, la gestione e la terapia delle epatiti virali croniche, la tutela della salute nei minori ristretti, le condizioni nelle carceri europee, il virus dell’Hiv e co-infezioni con virus epatici. "L’obiettivo specifico di quest’anno", ha spiegato Lucania, "è quello di avviare una riflessione sul nuovo modo di vivere in carcere dopo la riforma. È un argomento su cui di discute tanto, ma rimane ancora qualcosa da definire, da approfondire, da comprendere appieno". È scientificamente dimostrato che la trasmissione di queste infezioni (Hiv-Hbv-Hcv) è sei volte più frequente da pazienti inconsapevoli rispetto a quelli che ne sono a conoscenza. L’incidenza delle malattie - Da stime di studi condotti in Italia, dal 60 all’80% delle persone in stato di detenzione ha presentato almeno una malattia. Di queste una su due è di tipo infettivo (48% dei casi); a seguire disturbi psichiatrici nel 32%, malattie osteoarticolari 17%, malattie cardiovascolari 16%, problemi metabolici 11%, malattie dermatologiche 10%. Tra le malattie infettive emergono i seguenti dati sulla prevalenza delle infezioni di seguito riportate, ben superiori rispetto a quelle osservate nella popolazione non detenuta: l’infezione da Hiv riguarda il 7%, la positività per l’antigene dell’epatite B il 6%, quella per epatite C il 40%. Nelle donne la prevalenza di tali infezioni sopra citate, è stata riscontrata sempre superiore rispetto a quella osservata negli uomini detenuti, sebbene queste rappresentino solo il 4% circa della popolazione detenuta totale. Un aspetto particolare hanno le co-infezioni Hiv/Hcv, ha spiegato durante l’ultima giornata congressuale Sergio Babudieri, Associato di Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Sassari: "Le persone detenute con doppia infezione Hiv/Hcv sono nella quasi totalità tossicodipendenti endovena da eroina/cocaina, di età intermedia tra i 40-50 anni nei quali il buon controllo con i farmaci dell’infezione da Hiv, ha lasciato lo spazio a più rapide progressioni della malattia epatica verso la cirrosi epatica, l’insufficienza d’organo spesso associata anche a quella renale, ed all’epatocarcinoma. Tali situazioni di malattia epatica avanzata nei detenuti co-infetti, sono scarsamente controllabili anche con i nuovi farmaci anti- Hcv Interferon-Free e l’esito è sempre più spesso la morte". Salute mentale - Tra i disturbi della psiche, la psicosi si colloca in una forbice che oscilla tra il 3,6% (nei maschi) e il 3,9% (nelle femmine), la depressione maggiore tra il 10.2% nei maschi e il 14,1% nelle femmine, il disturbo di personalità antisociale è la diagnosi più frequente in assoluto: 47% nei maschi e 21% nelle femmine e l’abuso e la dipendenza da alcool oscilla tra il 17-30% (nei maschi) e il 10-24% nelle femmine. L’abuso e la dipendenza da sostanze possono poi arrivare a coprire fi no al 48% dei detenuti maschi e fi no al 60% le donne. Il disturbo da deficit di attenzione è intorno al 40% e quello post-traumatico da stress intorno al 20%, per quanto riguarda, invece, i comportamenti autolesivi la forbice oscilla tra il 7-15% tra i maschi e tra il 17-27% tra le femmine. L’infiltrato nelle carceri: "Così gli imam invitano i detenuti alla guerra santa" di Antonio Crispino Corriere della Sera, 26 settembre 2016 Il racconto di un ex detenuto musulmano che ha collaborato con la magistratura: "Dopo il Bataclan si è festeggiato". L’appuntamento è nel Sud della Francia, Lione. Mohamed (nome di fantasia) sceglie un posto lontano da occhi indiscreti e soprattutto lontano da dove abita e lavora. È marocchino, musulmano, conosce bene l’Italia perché ci ha lavorato. Nel 2015 è stato arrestato mentre era in vacanza, reati finanziari, nessun collegamento con il terrorismo. Lo trasferiscono in un istituto del nord Italia. È uno dei pochi testimoni musulmani (se non l’unico) del proselitismo islamico nelle carceri. "Non quello che si ottiene ragionando con le persone - tiene a precisare - ma quello violento, fatto di armi e omicidi". Ecco perché chiede il più stretto anonimato. "Questa è gente che non scherza - dice. Monitorano costantemente il web, sanno individuarti facilmente e devo tutelare la mia famiglia". Quando lo arrestano è il periodo dei sanguinosi attentati in Francia. Dopo le stragi di Charlie Hebdo e nel centro ebraico a Nizza è la volta del massacro al Bataclan, l’attentato più grave nella storia francese. In carcere si plaude ai massacri. "Il commento prevalente era che avevano fatto bene, che gli occidentali se l’erano cercata", ricostruisce Mohamed. Ma è all’ora della preghiera in moschea che viene invitato a celebrare la guerra santa, il jihad. Questa volta a parlare non sono i detenuti ma l’imam che guida la preghiera del venerdì. "Diceva che se la religione islamica veniva attaccata, se gli islamici venivano toccati era lecito difendersi con le armi. Poi aggiungeva che il jihad era consentito non solo come mezzo di difesa ma anche per affermare i valori musulmani". "Affermare i valori musulmani" per quell’imam voleva dire imbracciare le armi e convertire con la violenza gli infedeli. E poi quasi sempre arrivava un invito implicito ad arruolarsi come jihadisti. "Lui non reclutava jihadisti però diceva che se uno lo faceva era lecito, era in linea con i principi musulmani". Secondo i dati diffusi da Antigone, l’associazione che da anni monitora "i diritti e le garanzie nel sistema penale", in Italia i detenuti stranieri sono 17.526. Quelli di fede musulmana sono più di cinquemila di cui 2.912 provenienti dal Marocco, la nazione più rappresentata. I detenuti già radicalizzati sarebbero diciannove e circa duecento quelli monitorati. A dispetto di numeri così consistenti, però, solo 52 istituti detentivi ospitano quelle che possono essere definite "moschee" mentre gli imam "certificati" sono solo nove. Questo significa che chi guida la preghiera molto spesso è un detenuto e non è chiaro in che modo avvenga la sua selezione. Una circostanza che conferma anche Mohamed: "L’imam era una persona che a stento sapeva leggere e scrivere arabo, aveva una cultura molto basica ed è molto probabile che venisse da una formazione radicalizzata già fuori dal carcere. Però bisogna fare attenzione anche a chi proviene dalle scuole coraniche perché sono molte quelle salafite, con un’interpretazione radicale del corano e quasi tutte sono finanziate dal Qatar o dall’Arabia Saudita". Durante la detenzione Mohamed fa gruppo con altri musulmani che disapprovano quel modo di predicare ma restano una minoranza, tengono per sé il loro disappunto, è rischioso soltanto parlarne. "La predicazione avviene in arabo, è difficile che un dipendente penitenziario lo conosca e capisca che cosa si dice. D’altro canto questi imam in cella trovano terreno fertile perché canalizzano la frustrazione dei detenuti, soprattutto se sono extracomunitari. Il penitenziario diventa un incubatore dove prendere contatti, poi si completa l’iter del jihadismo fuori dal carcere. Chi guidava la preghiera, ad esempio, faceva leva sulle diversità di trattamento per i musulmani, sul fatto che accedono molto più raramente alle misure alternative, che i giudici con loro sono molto più severi". Infatti, anche durante la preghiera non erano rare le invettive contro i giudici italiani. "Tra i detenuti c’erano due o tre condannati con pene molto lunghe - ricorda Mohamed. Ripetevano che era meglio farsi esplodere in modo da procurare un profitto alle famiglie. Spiegavano che a chi diventa martire lo stato islamico garantisce una paga e un’assistenza ai familiari". Durante l’ora di preghiera non si danno solo indicazioni per il jihad ma anche su come trattare le donne. "Si diceva che la donna è affidata alla custodia dell’uomo, marito o fratello che fosse, e in quanto tale l’uomo aveva il diritto di picchiarla se disobbediva". Mohamed assiste alle prediche, ne registra le reazioni e le adesioni. A quel punto decide di creare un contatto con la direzione del carcere. Segnala tutti gli episodi. Dopo qualche settimana iniziano i controlli, si prendono i nomi di chi partecipa alla preghiera. Alle sedute assiste un mediatore religioso che conosce l’arabo. Il numero dei fedeli si dimezza. L’imam che fino a quel momento aveva predicato non si presenta più in moschea. Giustizia, ci sarà la fiducia. No delle toghe di Valentina Errante Il Messaggero, 26 settembre 2016 Processo penale e prescrizione, forse già domani la mossa di Orlando al Senato. Il Ministro della giustizia Orlando: non è stato deciso, ma con 400 emendamenti non c’è margine di manovra. L’Anm: una legge inutile e dannosa. Il Csm dà il via libera all’autoriforma che limita il potere delle correnti. Questa mattina il plenum con Mattarella. La strada della fiducia per il ddl sulla riforma del processo penale è oramai segnata. Il governo, dopo tensioni e mediazioni che vanno avanti da mesi, potrebbe ricorrere già domani al voto per il pacchetto che contiene, tra l’altro, gli interventi sulla prescrizione e la delega sulle intercettazioni. Temi caldi. Ieri è arrivata la prima ammissione da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Non è ancora deciso, ma è una possibilità di fronte al passaggio stretto del Senato", dove 400 emendamenti, i numeri e la mancanza di un accordo definito, anche all’interno della maggioranza, non consentono grandi margini di manovra. Una decisione che non convince affatto Ncd-Ap, intenzionata a rivedere le misure, mentre sulle nuove norme tornano le pesanti critiche delle toghe. E intanto oggi un plenum straordinario del Csm, alla presenza del capo dello Stato, varerà la riforma del Consiglio superiore della magistratura. È il Guardasigilli a confermare quella che sembrava soltanto un’ipotesi: "Se dovessimo discutere e votare uno a uno tutti gli emendamenti, la riforma non la approveremmo mai". Sebbene Orlando si dica favorevole a "percorrere tutte le strade per evitare la fiducia", quasi certamente dal consiglio dei ministri, convocato questa sera per decidere anche la data del referendum, arriverà l’autorizzazione alla richiesta di fiducia. E domani, quando riprenderà la discussione nell’aula di palazzo Madama, sarebbe il primo giorno utile per il primo varo della riforma, dal momento che non si prevede un clima più disteso dell’ultimo esame, durante il quale Ncd-Ap ha fatto mancare più volte il numero legale. Non è un caso che proprio da un esponente di quest’area, il deputato Gianni Sammarco, arrivi un invito a "guardare con attenzione" alle critiche mosse al provvedimento dalnumero uno dell’Anni, Piercamillo Davigo. Ieri il confronto pubblico tra il Guardasigilli e le toghe è avvenuto per la prima volta a una tavola rotonda organizzata dalla nuova corrente Autonomia e Indipendenza, a cui hanno preso parte anche il presidente dell’Anni Piercamillo Davigo e il vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Il numero uno dell’Associazione ha apertamente La riforma II ministro della Giustizia Andrea Orlando apre alla fiducia sul ddl stroncato le misure contenute nella riforma definendole "inutili se non dannose". In cima alla lista la prescrizione, perché "acquisita la prova, dopo la sentenza di primo grado, non ha senso che decorra" e si deve fermare; e la norma in base alla quale i procuratori generali devono avocare a sé i procedimenti se entro tre mesi dalla chiusura indagini non viene fatta richiesta di archiviazione o rinvio a giudizio. Nelle procure generali, magistrati per prendere in carico questa mole di lavoro, non ce n’è, ha spiegato Davigo. Oggi, intanto, sarà approvata in via de finitiva m un plenum straordinario del Csm presieduto dal capo dello Stato, la riforma del regolamento di funzionamento del Csm, che limiterà il potere delle correnti. Una misura che sarà resa esecutiva entro due anni. Davigo contro il governo: "Riforma della giustizia inutile se non dannosa" di Francesco Grignetti La Stampa, 26 settembre 2016 Rieccolo, Piercamillo Davigo. Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati torna a sparare le sue bordate. Il Parlamento - gli chiedono - sta ripartendo con la legge sul processo penale (dove è scontato un voto di fiducia al Senato). Preferirebbe forse riforme condivise sulla giustizia? "No. Nell’ipotesi migliore sono inutili, se non dannose". Davigo è il padrone di casa ad un convegno organizzato dalla sua corrente, "Autonomia e indipendenza". L’occasione per una bocciatura totale di quello che stanno predisponendo il governo e la maggioranza. "Il problema serio che contesto alla politica - dice - non è quello che fanno, ma quello che non fanno. Ovvero la visione strategica che è sbagliata. Il problema della giustizia in Italia è che è sommersa da una domanda patologica". Una critica a tutto tondo, la sua. Sulla prescrizione: "Una volta che le prove sono state acquisite, dopo la sentenza di primo grado, non c’è ragione che decorra". Sul pensionamento a 70 anni per alcuni e non per tutti: "Il governo ha agito su questa materia per decreto legge e mi chiedo se sia conforme al diritto costituzionale e comunitario. Sarà battaglia". Sulle avocazioni: "Un numero enorme di procedimenti verrà trasferito dalle procure alle procure generali, le quali non hanno affatto i magistrati per farlo e quindi finiranno per dover applicare magistrati di primo grado. Quelli che non sono riusciti a fare i processi in procura, dovranno andare a non farli alla procura generale". Se Davigo mantiene un minimo di cortesie istituzionali con il Guardasigilli, è con Renzi che il presidente dell’Anm vuole litigare: "Il ministro Orlando non ha mai provocato o insultato, però il suo presidente del Consiglio sì. Quando Renzi dice "L’Anm... brr che paura", è una provocazione gratuita. Come la questione delle ferie". Andrea Orlando al convegno ha risposto di fioretto. "È stucchevole qualunque discussione in cui si parli di guerra con la magistratura. Una disposizione può essere giusta o sbagliata, ma non trovo che sia il capitolo di una guerra". Maliziosamente ha ricordato le tensioni sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, che "si diceva avrebbe portato a un’esplosione dell’utilizzo di questo strumento, ma non c’è stata". E peraltro "tutti i provvedimenti arrivati in Parlamento nascono da commissioni che sono presiedute da magistrati e composte in modo prioritario da magistrati". Né è mancata una frecciata al correntismo esasperato. "Io tifo perché la rappresentanza della magistratura ci sia su basi nuove. Non auspico la fine del correntismo ma la nascita di una nuova stagione". Nei suoi colloqui, intanto, Orlando s’è detto "sorpreso e preoccupato" per alcune pratiche inoltrate dal ministero della Giustizia e arrivate al Consiglio superiore della magistratura fin dal 2014, e non ancora chiuse. Alcune anche per procedure di "dispensa" che non soltanto non si sono concluse ma neppure calendarizzate. E la cosa è seria: "Se per qualsiasi infermità, giudicata permanente, o per sopravvenuta inettitudine, un magistrato non può adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, è dispensato dal servizio, previo parere conforme del Consiglio superiore della magistratura". Così la legge sulle Guarentigie della magistratura, anno 1946. Se il Csm scopre la trasparenza e manda in diretta le scelte sui giudici di Liana Milella La Repubblica, 26 settembre 2016 Tempi di glasnost al Csm. Per buttarsi alle spalle la nomea di un’istituzione dove le correnti della magistratura fanno il buono e il cattivo tempo. Si spartiscono le nomine, promuovono non la toga migliore ma quella più sponsorizzata, subiscono gli spifferi della politica. Un caso per tutti? Quello di Giovanni Falcone che, nell’88, anziché essere promosso a capo dell’ufficio istruzione di Palermo per i suoi evidenti meriti nella lotta alla mafia fu bocciato e il Csm gli preferì, per anzianità, Antonino Meli. Un Csm dove, da sempre, tutto avviene nel chiuso delle commissioni, dove le notizie filtrano a fatica, dove una pratica disciplinare può restare per mesi in frigorifero. Per provare a cambiare le regole, un cocciuto vice presidente del Csm come Giovanni Legnini ha stretto un’alleanza forte con il Quirinale, il cui inquilino, Sergio Mattarella, è anche al vertice del Csm, e raccontano che abbia seguito il caso nei minimi dettagli. Legnini ha sfidato la politica, pur essendo egli stesso da anni un politico. Il premier Renzi, due anni fa, aveva annunciato una riforma del Csm. Il Guardasigilli Orlando ha messo al lavoro la commissione Scotti, che una bozza l’ha pure presentata. Ma c’è da scommettere, con i tempi del Parlamento, che resterà sulla carta. La sfida di Legnini invece è stata cambiare il Csm da "dentro", farne come dice lui una "casa di vetro", riscrivere un regolamento vecchio di 56 anni, manomesso più volte, ormai datato. 52 articoli sono diventati 90, ci sono volute sette sedute di plenum per approvarli. Non c’è stato bisogno di un Cantone per tentare la via della trasparenza, laddove essere trasparenti significa non solo rendere pubblici gli atti, ma addirittura rendere pubbliche pure le sedute delle commissioni, perfino quelle più delicate e più riservate, quando c’è da scegliere il capo di un ufficio importante. Ancora un esempio? Il vertice della procura di Milano, dove dopo otto mesi di passione, si è insediato Francesco Greco, l’erede naturale di Borrelli, D’Ambrosio, Bruti Liberati. Ma quanti pettegolezzi si sono inseguiti per mesi. Tutto si è svolto nel chiuso di una commissione, la famosa "quinta". Ora le regole cambiano, sarà sufficiente che due dei sei componenti chiedano un confronto pubblico e anche la stampa potrà seguire i lavori e capire le ragioni per cui si opta per una toga o per l’altra. Certo, le correnti potranno sempre trattare dietro le quinte, ma la pubblicità delle sedute lavorerà sicuramente contro inciuci e strategici rinvii. Nella logica della "casa di vetro" la maggioranza di una commissione potrà sempre chiedere una seduta pubblica. Una novità epocale, soprattutto se pubbliche potranno essere anche quelle in cui si affronta il comportamento anomalo di un magistrato. Ricordate il caso Bruti-Robledo, il durissimo scontro tra l’ex capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati e il suo aggiunto Alfredo Robledo? Ci volle più di un anno per venirne a capo, con discussioni volutamente ammantate di mistero. Sedute pubbliche avrebbero cambiato la storia. Saranno i prossimi mesi a dire se il regolamento di Legnini è solo un pezzo di carta o l’inizio di una pagina nuova per la magistratura. Il banco di prova saranno sempre le nomine, visto che il regolamento vieta quelle cosiddette "a pacchetto", venti o trenta toghe scelte in blocco con accordi e favori trasversali. Un colpo alle correnti non da poco. Ma la scommessa sarà sempre sugli uffici importanti, a cominciare dalla procura di Napoli dove si sfidano di nuovo Gianni Melillo, il capo di gabinetto del Guardasigilli Orlando, e Federico Cafiero De Raho, il procuratore di Reggio Calabria, col sospetto che una norma messa nel decreto di agosto sull’età pensionabile blocchi il secondo "costretto" a restare quattro e non tre anni nel suo incarico favorendo così il primo. Saranno proprio quelle sedute le prime in diretta streaming. Criminalità. Perché la rapina spaventa più dell’omicidio di Maurizio Barbagli lavoce.info, 26 settembre 2016 Dal 1991 gli omicidi nel nostro paese sono diminuiti in maniera costante. Diverso l’andamento dei reati contro il patrimonio. Con le rapine nelle abitazioni più che raddoppiate nell’ultimo decennio. La paura dei cittadini dipende dalla gravità, ma anche dalla probabilità che un reato si verifichi. È successo più volte che, in determinati periodi, l’andamento di alcuni reati sia stato divergente: talvolta perché la loro frequenza è variata con diversa velocità, talvolta perché è cresciuta per alcuni e diminuita per altri. In molti casi gli studiosi hanno fatto questa constatazione mettendo a confronto omicidi (in declino) e furti (in ascesa). Così, ad esempio, alla fine dell’Ottocento, analizzando le statistiche di alcuni paesi, uno dei maggiori esperti europei, Enrico Ferri, pensava di scorgere i segni di una profonda trasformazione dell’attività criminale, con il sostituirsi "alla violenza la frode, alla criminalità medievale contro le persone la criminalità borghese contro la proprietà". Ottanta anni dopo, un grande storico, Lawrence Stone, analizzando i cambiamenti di lunghissimo periodo del tasso di omicidi dell’Inghilterra, osservava che la continua diminuzione di questo delitto e la crescita dei furti era riconducibile al passaggio dai valori della società feudale a quelli della società borghese. Nella prima, dominavano i reati violenti contro le persone, perché era caratterizzata dall’ascrizione, dalla gerarchia e da un forte senso dell’onore. Nella seconda sono più frequenti quelli contro la proprietà perché la società è basata sul denaro e sulle relazioni di mercato. dati sul tasso di omicidi (in questo caso, per ragioni di comparabilità, sia consumati che tentati) e quelli sui furti in Italia, dal 1881 al 1941, fanno pensare che queste analisi non fossero prive di fondamento. Pur subendo alcune oscillazioni (la più forte delle quali, con un deciso aumento, nel primo dopoguerra) la frequenza degli omicidi ha continuato a diminuire in tutto il periodo. Quella dei furti ha avuto invece un andamento opposto e ha conosciuto un continuo aumento, pur passando anch’essa attraverso delle oscillazioni. Purtroppo, però, mentre siamo certi che i dati sui primi siano completamente affidabili (non vi è alcuna differenza significativa fra gli omicidi commessi e quelli registrati), non siamo in grado di dire lo stesso dei secondi, per il buon motivo che, fino alla metà degli anni Sessanta, non riusciamo a stimare la quota del numero oscuro dei reati contro il patrimonio e non sappiamo se sia variata nel corso del tempo. È bene dunque concentrare la nostra attenzione sull’ultimo mezzo secolo. Anche in Italia, come negli altri paesi occidentali, in questo periodo si è avuta prima una crescita e poi una diminuzione della frequenza di molti reati. La crescita, da noi, è iniziata nel 1969, otto anni dopo rispetto agli Stati Uniti, ed è stata impetuosa fino al 1991. Curiosamente, anche in Italia, come in altri paesi occidentali, questo è stato l’anno del picco. L’aumento, nella fase 1969- 1991, è stato più forte per le rapine, un po’ meno per gli omicidi e ancora meno per i furti. Dal 1992 è partita la diminuzione, ma ha avuto una diversa velocità a seconda dei reati. È stata forte e continua per gli omicidi, più debole e discontinua per gli altri due. Il tasso di rapine, in particolare, è sceso solo per quattro anni, ha ripreso poi a salire, per toccare un nuovo picco nel 2007, mentre oggi gli italiani hanno un livello di sicurezza maggiore che nel 1991 riguardo a tutti e tre i delitti considerati. Rispetto agli anni Sessanta, però, sono più sicuri solo rispetto agli omicidi, mentre corrono molti più rischi di essere derubati e rapinati di allora. La differenza fra la situazione di oggi e quella di mezzo secolo fa è fortissima (molto più forte che negli Stati Uniti o in altri paesi occidentali) per le rapine, la cui frequenza è oggi dieci volte maggiore di quella di un tempo. Come se non bastasse, uno dei delitti che provoca maggior paura nella popolazione - le rapine in abitazione (per le quali disponiamo di dati a partire dal 2004) - è più che raddoppiato nell’ultimo decennio. Dunque, nonostante non abbia mai avuto un tasso di omicidi così basso, l’Italia è oggi un paese più insicuro di mezzo secolo fa. E la paura che milioni di italiani provano a camminare da soli la sera per le strade della zona in cui vivono non è eccessiva, sproporzionata e ingiustificata rispetto ai rischi obiettivi. Come molte ricerche hanno mostrato, oggi la popolazione dei paesi occidentali teme più i furti in appartamento e le rapine degli omicidi, perché la paura dei reati dipende non solo dalla loro gravità, ma anche dalla probabilità che si verifichino. E nell’ultimo anno, anche se ci limitiamo a quelli denunciati, i furti e le rapine sono stati 3.350 volte più numerosi degli omicidi. Oltre 600 mila processi civili arretrati a "rischio Pinto" di Claudia Morelli Italia Oggi, 26 settembre 2016 Che potrebbero costare al Ministero della giustizia dai 240 milioni euro ai 480 milioni euro, a seconda che siano moltiplicati per la soglia minima o quella massima di indennizzo per eccessiva durata, fissate rispettivamente in 400 o 800 euro dalla legge Stabilità 2016. Somme consistenti, che vanno ad aggiungersi al debito pregresso di 400 milioni euro e che costituiscono quel "debito giudiziario" che assorbe risorse (il relativo capitolo di bilancio è finanziato ogni anno con 180 milioni euro) che potrebbe essere destinate invece alla migliore efficienza. A via Arenula la preoccupazione per questo debito monstre rimane alta, tanto che si sta valutando come intervenire nuovamente per "calmierare" gli indennizzi o introdurre nuovi paletti, dopo il giro di vite approvato con la legge n. 208/2015 (la legge Stabilità 2016, appunto). Si tratterebbe di una soluzione necessitata dalle ristrettezze di bilancio, nella speranza che la leva della buona organizzazione degli uffici, per garantire una più efficace e tempestiva risposta di giustizia, produca gli effetti sperati. D’altra parte, il ministro Andrea Orlando ha fatto della organizzazione e della copertura degli organici un punto politico del suo programma di azione. E lo ha ribadito mercoledì durante il question time alla Camera, rispondendo ad una interrogazioni parlamentare che collegava proprio le altissime percentuali di scopertura del personale di magistratura ordinaria (11%), di magistratura onoraria (28%) e di giudici di pace (60%) al debito finanziario per irragionevole durata dei processi. I dati aggiornati al II trimestre 2016 dei processi civili che hanno accumulato ritardi oltre le soglie di durata massima fissate per legge (tre anni per i procedimenti in primo grado; due anni per i procedimenti in appello; un anno per i procedimenti in Cassazione) sono pubblicati proprio dal Ministero. Si tratta di 612 mila procedimenti, di cui 77.270 ultra annuali in Cassazione (con una incidenza del 49% di quelli tributari), 155.330 ultra-biennali in Corte d’appello e 447.375 ultra-trienniali in Tribunale. In Corte d’appello e in Tribunale il "peso" dell’arretrato "irragionevole" è costantemente diminuito negli anni (per esempio in I grado era di 646 mila nel 2013); non così in Corte di cassazione dove cresce con andamento "regolare" di mille processi ogni anno. La doppia strategia di via Arenula è dunque quella di arginare l’esborso finanziario e nel contempo agire sulla copertura degli organici. In cantiere vi è anche la riforma del processo civile, che però è ferma alla Camera dei deputati. Anche se la commissione Giustizia valuterà queste settimana alcuni emendamenti del relatore David Ermini al dl "pensioni magistrati", volti a introdurre misure per velocizzare il processo di Cassazione. Sul primo punto, via Arenula pensa ad una nuovo intervento restrittivo, ancora da definire, con la nuova legge di Stabilità, dopo quello del 2015 che ha ridotto le soglie di indennizzo, previsto margini di flessibilità per la determinazione finale della somma, introdotto una serie di condizioni di ammissibilità della richiesta di risarcimento, ipotesi di esclusione, la presunzione fino a prova contraria della insussistenza del danno. Sul versante organico del personale amministrativo, Orlando ha riferito che "gli sforzi compiuti hanno portato ad assicurare copertura finanziaria per il reclutamento, con varie modalità, di circa 4 mila unità", di cui 1.300 già in servizio. Quanto ai magistrati: tra il gennaio 2017 e il gennaio 2018 è prevista l’immissione in servizio di circa 700 nuovi magistrati, grazie alla riduzione del tirocinio operata dal decreto-legge n. 168 del 2016, attualmente all’esame della commissione giustizia della Camera, oltre la procedura concorsuale per 350 posti. Con una avvertenza che suona come un avvertimento ai capi degli uffici: "Ho visitato i dieci tribunali con maggiori difficoltà in Italia: sette erano a pieno organico amministrativo e di personale giudiziario. È vero che ci sono dei vuoti di organico, ma il tema di come si utilizza l’organico e di come si dirigono gli uffici è un tema dal quale non possiamo assolutamente prescindere per evitare il rischio di dover pagare soldi per risarcire i cittadini che hanno subito un danno". Traduzioni? Solo se servono. Il rigetto illegittimo può però integrare causa di nullità di Mario Pellegrino Italia Oggi, 26 settembre 2016 L’illegittima decisione di rigetto della richiesta di colloqui difensivi con assistenza linguistica gratuita potrebbe integrare causa di nullità. Questo il problema interpretativo rilevato dall’ufficio del massimario della Cassazione riguardo all’art. 51-bis, comma 1, del codice di procedura penale introdotto dal decreto legislativo n. 129 del 2016 (nota su "Prima lettura delle disposizioni integrative e correttive al decreto n. 32 del 2014 in materia di interpretazione e traduzione nei procedimenti penali" del 15/9/2016). Per la Corte si tratterebbe di una nullità di ordine generale a regime intermedio per inosservanza delle disposizioni sull’intervento e l’assistenza dell’imputato (art. 178, comma 1, lett. c, cpp). Seguendo questo orientamento sorge un’ulteriore questione: capire se l’invalidità processuale consegua alla mera inosservanza normativa o alla violazione in concreto del diritto di difesa. La distinzione è importante, poiché, se l’imputato ha comunque sostenuto il colloquio difensivo alla presenza dell’interprete, l’illegittimità della decisione di rigetto rileva solo ai fini della responsabilità personale del magistrato (art. 124 cpp). La Cassazione argomenta a favore della violazione concreta del diritto di difesa assimilando il rigetto dell’assistenza linguistica gratuita al caso dell’interdizione del colloquio difensivo. La giurisprudenza di legittimità sul punto è chiara: la nullità per dilazione o interdizione dell’incontro con il difensore è sanata se il colloquio avviene prima dell’interrogatorio o, più in generale, prima dell’atto consecutivo (Sez. 2, n. 44902 del 30/9/2014; Sez. 6, n. 44932 del 5/10/2012). Mentre il comma 1 dell’art.51-bis cpp ha il fi ne di limitare le spese derivanti dall’esercizio pretestuoso del diritto all’interprete, i due commi successivi intendono deflazionare il ricorso alla traduzione scritta degli atti prevista dall’art. 143 cpp. In particolare l’art. 51-bis, comma 2, cpp riguarda le situazioni di urgenza in cui non si può ottenere subito la traduzione scritta prevista obbligatoriamente dall’art. 143, comma 2, cpp. In questi casi l’autorità giudiziaria può disporre la traduzione orale degli atti anche in forma riassuntiva se ciò non pregiudica il diritto di difesa dell’imputato. L’art. 51-bis, comma 3, dispone invece che la traduzione orale può sempre sostituire quella scritta quando l’imputato, consapevole delle conseguenze, acconsenta espressamente. In tale evenienza, il contenuto degli atti viene tradotto a vista anche in forma riassuntiva. La Cassazione precisa come le condizioni di legittimità della traduzione orale previste dall’art. 51-bis ai commi 2 e 3, siano poste a garanzia non solo del diritto di difesa dell’imputato, ma anche della correttezza dell’operato dell’autorità procedente. Infatti, nei casi di traduzione obbligatoria di cui al comma 2, il giudice deve motivare le ragioni dell’urgenza, l’impossibilità di ottenere tempestivamente una traduzione scritta e il mancato pregiudizio al diritto di difesa dell’imputato. Riguardo al comma 3, sottolinea invece come la rinuncia dell’imputato alla traduzione scritta debba formalizzarsi con una dichiarazione espressa. La Corte inoltre rimarca la conformità della traduzione orale degli atti al diritto nazionale e dell’Unione europea: la Costituzione prevede come necessaria la sola assistenza dell’interprete (art. 111, comma 3); la Carta europea dei diritti dell’uomo contiene una previsione simile all’art.6, par. 3, e al riguardo la Corte Edu ha ripetutamente confermato che l’assistenza linguistica orale rispetta le esigenze del giusto processo (ricorso n. 17494/07 Kajolli c. Italia; ricorso n. 18913/03 Husain c. Italia). Infine la direttiva 2010/64/Ue, cui si riferiscono i decreti legislativi sul diritto all’interpretazione e traduzione nei procedimenti penali, dispone espressamente la possibilità della traduzione orale (art. 3, parr. 7 e 8). La Cassazione critica invece l’art 51-bis, comma 4, per cui le traduzioni orali devono essere registrate. Al riguardo osserva che questa disposizione rischia di vanificare l’intento di risparmio economico e snellimento procedimentale che il legislatore delegato voleva realizzare, poiché obbliga alla predisposizione della registrazione in ogni udienza. Il quinto e ultimo comma dell’art. 51-bis cpp, permette l’utilizzo di strumenti di comunicazione a distanza per garantire l’assistenza dell’interprete più velocemente e anche nel caso di lingue o dialetti rari. La Corte sottolinea che il ricorso a videoconferenze, telefoni e simili è possibile solo se non pregiudica il diritto di difesa dell’imputato. Puglia: Osapp; carceri sovraffollate, tensioni e personale di polizia insufficiente corrieresalentino.it, 26 settembre 2016 Non c’è pace nelle carceri pugliesi. Nella giornata di ieri, verso le ore 13.00 a Taranto, momenti di tensione all’atto dell’ammissione al passeggio, tre detenuti sono stati protagonisti di una rissa che avrebbe potuto determinare ben più gravi conseguenze e solo grazie all’intervento della Polizia Penitenziaria, che opera da tempo in gravissime difficoltà, tutto è stato riportato nei canali della normalità. I recenti fatti di violenza e eventi critici tra gli istituti di Taranto Foggia e Lecce e di tutta la regione Puglia, assume particolare rilievo, nell’ambito dei quadri sindacali Osapp ai problemi della gestione- organizzazione delle carceri pugliesi con particolare riguardo al fatto che la Puglia risulta essere la regione più sovraffollata d’Italia per quanto attiene la popolazione detenuta, con un eccedenza del 36,6% pari a 859 detenuti in più sui 2347 posti disponibili, ( Friuli Venezia Giulia 39,8% in più; Molise 28,5% in più Liguria 26,8% in più e Basilicata 21,6% in più). Sempre rispetto alla regione Puglia, risulterebbe sussistere nell’organico della polizia penitenziaria una carenza di non meno di 250 unità pari al 10,12% in meno, con punte di diamante riferibili agli istituti di Taranto (meno 16,4% e di Lecce meno 11,4%). È assai significativo - afferma il Segretario Generale Aggiunto dell’Osapp Pasquale Montesano come vadano a braccetto negli istituti penitenziari della regione Puglia i dati della carenza di organico nel personale di polizia penitenziaria riferibili agli istituti di Taranto, Lecce ed anche Foggia con quelli del sovraffollamento nella popolazione detenuta (Lecce più 47,11%, Taranto più 49,3% Foggia più 42,9%) che sinergicamente agiscono in termini di maggiori aggressioni e rischi per il personale del corpo, come di recente dimostrato dai gravi fatti di Taranto Foggia e Lecce. Altrettanto significativa - prosegue Montesano - è l’impotenza degli organi dell’ Amministrazione centrale e periferica, interessati pressoché esclusivamente al benessere della popolazione detenuta, a porre in essere qualsiasi significativo correttivo inteso a migliorare condizioni al limite di ogni umana sopportazione e che si verificano negli istituti pugliesi. "L’analisi e i dati a cui si è fatto cenno - conclude Pasquale Montesano, segretario regionale Osapp, oltre a rendere l’idea di un disastro annunciato in un sistema penitenziario che non rieduca ne reinserisce nella società civile cittadini pienamente recuperati dovrebbero rendere palese e pienamente giustificabile la richiesta che l’Osapp si prepara a formulare in ogni sede istituzionale e politica per il passaggio della polizia penitenziaria alle dipendenze di un dicastero pienamente compatibile alle esigenze di legalità sicurezza ed organizzazione di un corpo di polizia dello Stati qual è il Ministero dell’Interno. Per tutto questo già da domani la protesta a partire dalla C.C. Foggia astensione mensa e auto consegna nei giorni a seguire fino a quando in Puglia e in particolare a Taranto e Foggia non saranno ripristinate migliori condizioni lavorative che in puglia stanno penalizzando oltremodo gli uomini e donne della Polizia Penitenziaria". Torino: quelle dolci evasioni che nascono dietro le sbarre di Fabrizio Vespa La Stampa, 26 settembre 2016 A Torino, il primo negozio di prodotti nati nelle carceri dove detenuti e agenti di polizia penitenziaria lavorano insieme. In via Milano, a pochi metri dal Municipio, stanno terminando i lavori di un cantiere molto particolare. I fogli di carta che schermano le vetrine, lasciano intravedere pochissimo, al massimo qualche bagliore di luce al neon e sbuffi di polvere bianca a eccezione del logo che spicca all’ingresso "FreedHome - Creativi Dentro". Si chiama così il negozio, inserito nel complesso monumentale di piazza Palazzo di Città, opera di Lanfranchi e Juvarra, che inaugurerà ai primi di ottobre. All’interno, detenuti e agenti di polizia penitenziaria stanno lavorando insieme grazie a un progetto sposato dal Carcere di Torino cui il Comune ha dato il locale in comodato d’uso. Brutti e Buoni, Banda Biscotti, Dolci Evasioni, Sprigioniamo Sapori, Cibo Agricolo Libero e Dolci Libertà: sono solo alcuni dei nomi fantasiosi delle 13 realtà d’impresa, tra cooperative e associazioni, raccolte intorno al nuovo marchio e che lavorano con 45 carceri italiane. "Si tratta di prodotti di alta qualità - dice Gianluca Boggia, presidente di Extraliberi e coordinatore del progetto - dal pane, ai biscotti, ai formaggi, al vino fino ai prodotti siciliani a base di mandorle. FreedHome è il primo negozio in Italia che nasce in maniera permanente e non estemporanea come attività commerciale e luogo di visibilità delle produzioni carcerarie. Non sarà quindi la solita iniziativa natalizia, ma saranno messi in vendita prodotti provenienti sia da Torino sia da tutti gli altri istituti di pena italiani, molti dei quali sono già fornitori di Eataly o delle botteghe di Altro Mercato". Nel negozio di cui potranno occuparsi anche i detenuti, sarà presente tanto cibo, ma anche articoli fashion come i cosmetici prodotti nel carcere femminile di Venezia e le borse griffate "Malefatte", ricavate da banner pubblicitari dai detenuti dell’istituto maschile della Laguna oltre alle magliette stampate con frasi celebri di canzoni che arrivano dal carcere genovese di Marassi e alle serigrafie di Extraliberi. "La scommessa - prosegue Boggia - è di fare impresa in carcere, applicando semplicemente ciò che la legge prevede già da tempo perché il lavoro tra le sbarre aiuta innanzitutto le persone a non tornarci e ad avere un reddito, di cui una parte finisce al carcere per pagare il loro sostentamento, e aiutando infine tutti noi come collettività". Nel cantiere, seguito dall’architetto Marina Massimello, sono impiegati al momento quattro detenuti e due agenti con funzione di sorveglianza. Per l’assistente Donato Narciso, addetto alla manutenzione, non indossare la divisa è la norma. È lui che segue tra i vari blocchi le persone in grado di affrontare psicologicamente l’avventura all’esterno oltre a svolgere la funzione fondamentale di provvedere a tutti gli interventi tecnici necessari per il funzionamento del carcere. "Sono in servizio alle Vallette dal ‘98 e mi occupo già lì di questo tipo di lavoro - spiega l’agente - vivo con i detenuti per un minimo di 6 ore al giorno se non 7 o 8 e stando sempre chiusi all’interno della Casa Circondariale poter partecipare a un progetto del genere è molto gratificante". Tutti coloro che lavorano al cantiere di FreedHome sono persone che si sono già affiatate prima di uscire e rappresentano di fatto una piccola comunità, non solo una squadra di operai. Carmelo Sole, originario di Ragusa detenuto da 3 anni, sposato da 10 e con 2 figli piccoli, racconta bene lo scarto tra il dentro e fuori e quanto questo non sia altro che la linea di confine personale tra passato e futuro. "Muratura e piastrelle sono il mio mestiere esattamente come accadeva durante la libertà, ma per me è tutta una "prima" esperienza perché sono entrato in carcere per la prima volta e sono uscito per lavorare per la prima volta. Ho fatto un sacco di lavori, poi purtroppo a 37 anni ho fatto una sciocchezza. Adesso sono a metà pena, quando sono in cantiere non penso più niente perché assaporo un po’ di libertà tra virgolette. Anche se tutte le sere torniamo a "pagare" la nostra galera, sono contento perché sono tutte possibilità che ci vengono date per reinserirsi nella società. Per noi è una bella chance". Frosinone: detenuti al lavoro per la città, via libera dalla giunta comunale di Marco Barzelli ciociariaoggi.it, 26 settembre 2016 Ceccano (Fr). Della messa alla prova di adulti sottoposti a procedimenti penali per reati minori e della possibilità della sospensione dei processi in cambio di lavori di pubblica utilità ne aveva già parlato agli inizi del mese il consigliere Filippo Misserville. E il 2 settembre l’esponente di minoranza aveva indirizzato al presidente dell’assise Marco Corsi la proposta di delibera consiliare per l’approvazione della relativa convenzione con il Tribunale di Frosinone, un provvedimento da porre all’esame del Consiglio alla prima sessione utile, che ci sarà martedì prossimo. Si vede, però, che l’istituto introdotto dalla Legge 67/2014 per il reinserimento sociale dei detenuti era già nelle corde dell’amministrazione del sindaco Roberto Caligiore che con un’apposita delibera di Giunta del 9 settembre ha dato il via al suo svolgimento in via sperimentale affidandone il coordinamento al Settore dei Servizi sociali. Con l’approvazione degli schemi di convenzione da stipulare con il Ministero della Giustizia, infatti, il Comune ha compiuto il primo passo per avere dai detenuti ammessi al programma di reinserimento prestazioni non retribuite rivolte alla collettività, a seconda della professionalità e delle attitudini lavorative degli individui in questione. Il programma di trattamento sarà elaborato d’intesa con l’Ufficio di esecuzione penale esterna e comprenderà tutte le prescrizioni previste, che oltre a quelle relative alla stessa attività lavorativa riguardano la libertà di movimento, le condotte riparatorie e risarcitorie e l’eventuale mediazione con la persona offesa. La convenzione sarà annuale e il Comune consentirà a un massimo di quattro condannati ai lavori di pubblica utilità di eliminare le conseguenze derivanti dal proprio reato con attività che saranno svolte alla villa comunale e per la manutenzione del verde pubblico, oltre che con servizi di custodia a Castel Sindici e nel complesso sportivo di via Passo del Cardinale. Le prestazioni dei diretti interessati, ai quali la messa alla prova è concessa una sola volta, avranno una durata minima di dieci giorni (anche non continuativi) e non superiore alle otto ore giornaliere; inoltre le modalità di esecuzione non dovranno pregiudicare le loro esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute. Così l’amministrazione Caligiore sfrutta l’importante novità introdotta nell’ordinamento penale con quello che già qualcuno addita come un paradosso tutto ceccanese: il sindaco-carabiniere che "assume" detenuti. Magari dopo averli arrestati. Siracusa: nuovo reparto Cavadonna. Uil: "non è possibile senza aumentare l’organico" siracusanews.it, 26 settembre 2016 "Il piano carceri, che sicuramente è andato molto piano, ha previsto l’aumento della capienza delle carceri, ma di contro, come al solito, i nostri politici non hanno avvertito la necessità dell’ovvio aumento dell’organico di Polizia penitenziaria che deve espletare le funzioni all’interno della carceri". A dichiararlo è il segretario generale della Uil Polizia Penitenziaria della Sicilia, Gioacchino Veneziano. A breve, infatti, ci sarà la consegna del reparto alla Casa circondariale Cavadonna di Siracusa, che accrescerà la capienza dei detenuti, passando da 500 a oltre 750, con un organico di poliziotti che, però, resterà fermo a 220 unità, che già adesso sono pochi. "In pianta organica - spiega Veneziano - ne sono previsti 279, quindi, a oggi, senza il nuovo reparto la carenza è pari a 60 unità, immaginiamo a quanto arriverà con l’aumento della ricettività detentiva! È impensabile aprire un altro reparto con un paio di dozzine di nuove assegnazioni, considerato che a Siracusa i poliziotti attualmente in servizio operano con una turnazione di 8 ore, quindi con 2 ore di straordinario rispetto alle 6 previste". E poi il timore che le procedure di assegnazione del personale andranno a favore di altri istituti penitenziari "così da depauperare le già poche risorse regionali - ammete il sindacalista - per questo stiamo predisponendo una durissima nota al capo del dipartimento Amministrazione Penitenziaria, per sollecitarne un intervento e al provveditore regionale e chiedere un incontro, perché vogliamo capire se la movimentazione verso Siracusa di nuovi agenti in mobilità determinerà carenze nelle altre carceri siciliane". Opera (Mi): "Prova a sollevarti dal suolo", spettacoli teatrali in carcere e non voceditalia.it, 26 settembre 2016 Il 27 settembre "Opera Liquida" inaugura, grazie al sostegno di Fondazione Cariplo, le sue attività che si svolgeranno, oltre che nello Stabile in Opera, il teatro della I Casa di Reclusione Milano Opera, presso il Parco Idroscalo e nel nuovo spazio "In Opera Liquida", in collaborazione con "Bambinisenzasbarre". Uno spazio che accoglierà le attività sia organizzative che artistiche dell’Associazione, in collaborazione con detenuti ed ex detenuti. Insieme a Bambinisenzasbarre verranno poi avviati laboratori per i figli delle persone recluse, affinché possano, attraverso la prassi teatrale, elaborare le loro difficoltà e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro particolare realtà. Alle ore 18.00 una performance di Silence Teatro, "Come angeli del cielo", guiderà il pubblico lungo il Parco dell’Arte, uno dei luoghi più suggestivi del Parco. A seguire presentazione delle attività, del Festival e rinfresco. Dal 29 settembre al 24 novembre ha luogo la 5 Edizione del Festival di Teatro e Carcere "Prova a sollevarti dal suolo". Si svolgerà in parte presso il Parco Idroscalo e in parte presso lo Stabile in Opera, per un pubblico misto di detenuti e civili. Quest’anno abbiamo voluto investigare il tema della donna. Siamo partiti dalla nostra produzione "Undicesimo comandamento - uccidi chi non ti ama", dove gli uomini reclusi ed ex reclusi di Opera Liquida interpretano le donne violate, affinché si difendano attraverso la legge, una sorta di cortocircuito emotivo. Dalla nostra lente d’ingrandimento emotiva, abbiamo dato voce al branco di lupi, nella rilettura del Cappuccetto Rosso dei detenuti del Carcere di Saluzzo dell’Associazione Voci Erranti. "Come l’acqua da un bicchiere rotto" di Piera Mungiguerra, con Marco Ripoldi e Libero Stelluti affronta l’amore per una donna che non c’è più in modo così delicato e struggente, dal punto di vista maschile. E infine, voce alle donne la darà Alessandra Faiella, con il suo esilarante e autoironico "La versione di Barbie". Il nostro modo per affermare che troviamo obsoleto suddividere l’umanità in maschi e femmine. Eventi e sentimenti ci attraversano, nello strenuo tentativo di restare umani. Il Festival vuole essere una finestra aperta sul profondo sentire dell’uomo, nelle sue debolezze e più grandi fragilità, attraverso l’arte teatrale che spazia dall’ironia alla più intima corrispondenza. Opera Liquida, che incontra ogni giorno gli uomini reclusi e agisce, attraverso la prassi teatrale, in assenza di giudizio, vuole con questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’essere umano, anche se ristretto. Finiti i soldi per i migranti: servono 600 milioni di euro per evitare il caos di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 settembre 2016 Le Ong al Viminale: centri al collasso, i conti sono in rosso dallo scorso aprile, quando lo stanziamento si è esaurito. E il termine concesso da molte associazioni scade il 30 settembre: in migliaia rischiano lo "sfratto". L’ultimo sollecito per il ministero del Tesoro è stato inviato quindici giorni fa. L’oggetto era fin troppo esplicito: i soldi per l’accoglienza dei migranti sono finiti, servono 600 milioni di euro per evitare che il sistema vada in tilt. Entro la fine dell’anno la cifra totale deve arrivare a un miliardo di euro, tenendo conto che le spese medie sono di circa 100 milioni di euro al mese. I conti sono in "rosso" da aprile scorso, quando lo stanziamento si è esaurito e il Viminale è stato costretto a sospendere i pagamenti di chi gestisce i servizi all’interno dei centri di accoglienza governativi, ma anche delle organizzazioni che si occupano della cosiddetta "assistenza diffusa". E dunque Onlus, organizzazioni umanitarie, strutture private che hanno siglato convenzioni con Comuni e Regioni. Compresa la Croce Rossa. Il termine concesso da molte associazioni scade il 30 settembre. Dopo quella data c’è il rischio che vengano sospese le forniture e gli stranieri in attesa di sapere se la loro richiesta di asilo sarà accolta, vengano "sfrattati". Un ulteriore problema che si aggiunge alle "resistenze" degli amministratori locali rispetto alla possibilità di mettere posti a disposizione. E anche per questo Palazzo Chigi pensa a un commissario. Il nome che circola insistentemente è quello di Piero Fassino. Posti per 160 mila - Sono 131 mila gli stranieri sbarcati sulle nostre coste nel 2016, che sommati a quelli dello scorso anno fanno arrivare a 159.763 le persone ospitate nelle strutture, alle quali vanno aggiunti circa 15 mila minori non accompagnati. Stranieri che chiedono lo status di rifugiato e dunque devono essere assistiti sino al termine della procedura. Oltre 13 mila sono nei centri di prima accoglienza, poco più di 22 mila nel sistema Sprar. Gli altri sono sistemati nelle strutture temporanee dove vengono forniti vitto, alloggio, assistenza sanitaria. I servizi sono assicurati dai gestori che hanno vinto le gare d’appalto, oppure da chi ha dimostrato di avere i requisiti ed è stato inserito nelle liste delle prefetture che - a ogni sbarco - devono provvedere allo smistamento dei migranti. Ma sono sei mesi che i pagamenti sono bloccati e la maggior parte ha già fatto sapere di non essere più in grado di sostenere le spese. Lo stanziamento - Nella primavera scorsa era stato il ministro Angelino Alfano a chiedere lo stanziamento di almeno 100 milioni di euro al mese, tenendo conto che nel 2015 la spesa totale era stata di un miliardo e 162 milioni di euro. Dopo una lunga trattativa si era deciso di inserire almeno una parte dei fondi nella legge di Stabilità, ma poi tutto è tornato in discussione. Da allora più volte si è evidenziato quali fossero le difficoltà per far funzionare il sistema. E quindici giorni fa il Dipartimento guidato dal prefetto Mario Morcone ha fatto nuovamente presente le criticità da risolvere con urgenza per scongiurare il rischio concreto che migliaia di persone si ritrovino senza assistenza. Il commissario - Proprio per coordinare gli interventi dei vari ministeri, ma anche per impiegare gli uomini dell’intelligence nella trattativa bilaterale con gli Stati africani da cui partono i migranti, Matteo Renzi pensa alla creazione di una struttura all’interno di Palazzo Chigi. Il modello di funzionamento potrebbe essere quello applicato all’emergenza legata al terremoto dell’agosto scorso e affidato a Vasco Errani. Nel caso dei migranti il coordinamento degli interventi dovrebbe riguardare sia l’Italia, sia l’estero. In queste ultime ore uno dei nomi più accreditati per la guida è quello dell’ex sindaco di Torino Piero Fassino, anche tenendo conto che la sua presidenza dell’Anci - l’associazione dei sindaci - lo ha impegnato spesso proprio nella soluzione dei problemi legati all’accoglienza degli stranieri e a lui si deve l’accordo tra Comuni e Viminale per la distribuzione "pro quota". Migranti e direttorio. I bersagli sbagliati del premier di Franco Venturini Corriere della Sera, 26 settembre 2016 L’Italia può fare da sola. Non è così. Piuttosto, è vero che quello dell’immigrazione potrebbe diventare il primo e più importante terreno di collaudo delle integrazioni differenziate di cui tanto si parla. L’impatto dei flussi migratori sta disegnando l’Europa del futuro molto più delle vaghezze di Bratislava. Con quattro cruciali campagne elettorali di fatto già in corso in Italia, Olanda, Francia e Germania, e con Eurostat che conferma come la questione dei migranti sia al primo posto nelle preoccupazioni dei cittadini della Ue, prima del terrorismo, prima della disoccupazione, diventa inevitabile che i politici europei, governi in testa, rincorrano le paure dei loro elettori. Ecco allora che si moltiplicano muri e reticolati o almeno severi controlli alle frontiere, ecco le caute inversioni di marcia dove prima veniva issata la bandiera dell’accoglienza, ecco il silenzio complice che accompagna il blocco di questo o quel confine nazionale. E soprattutto ecco riunioni scandalose come quella di sabato a Vienna, dove i "Paesi interessati" hanno dichiarato, nelle parole di Tusk, chiusa per sempre la rotta dei Balcani. Come se le rotte dei migranti non fossero interdipendenti, come se il problema non fosse di tutti a cominciare dall’Italia (ma da Roma non sono venute proteste o polemiche). Quello che appena un anno fa era un durissimo braccio di ferro tra Angela Merkel che apriva la Germania ai siriani, la Svezia che accoglieva, l’Italia e la Grecia che salvavano i migranti da morte certa, e dall’altra parte le fortezze della razza e della religione arroccate nell’Europa dell’Est, oggi è diventato un consenso strisciante a favore del "basta migranti". Non sorprende più che il sistema delle quote sia miseramente fallito e che dei 160 mila migranti che dovevano essere "ricollocati" per alleviare il fardello di Italia e Grecia soltanto 5 mila lo siano stati davvero. Ora la Merkel promette di rimediare proprio con i rifugiati bloccati in Italia e in Grecia, la speranza è lecita. Ma non suscita più animati dibattiti nemmeno il fatto che la Turchia tenga in ostaggio la Germania e altri soci europei perché una mancata abolizione dei visti nei prossimi mesi potrebbe indurre Erdogan a "liberare" i circa tre milioni di rifugiati oggi ancora bloccati sul suolo turco. Tanto, pensa forse qualcuno, la rotta dei Balcani è bloccata. Basta guardarsi intorno per capire fino a che punto l’atteggiamento verso i migranti sia diventato quasi uniforme. La signora Merkel rifiuta di fare autocritica per evitare un suicidio elettorale, ma i dissidi nel suo stesso partito e le batoste già incassate a livello regionale la inducono a ripiegare su una linea più dura pur ribadendo, come ha fatto a Vienna, che il problema è di tutti e va risolto con accordi con i Paesi di provenienza. La Cancelliera può ancora permettersi un accenno di doppio gioco, forte del fatto che gli arrivi sono più che dimezzati rispetto al milione del 2015 e che le espulsioni di chi non ha diritto al titolo di rifugiato vengono attuate con puntualità teutonica. La Francia di Hollande accetta che gli inglesi paghino la costruzione di un muro sul loro territorio, attorno alla "giungla" di Calais. E quanto alle presidenziali di maggio la competizione si svolge tra la destra estrema di Marine Le Pen e gli esponenti del centro-destra che la rincorrono. In Olanda si vota a marzo, e in testa ai sondaggi c’è l’estrema destra anti-migranti e anti-Europa di Geert Wilders. In Austria il ballottaggio per eleggere il presidente avrà luogo ai primi di dicembre, favorita l’estrema destra di Norbert Hofer. La Svezia ha fatto sapere di essere giunta al tetto della sua capacità di accoglienza. La Spagna si protegge dietro reti altissime nell’enclave di Ceuta e Melilla, e aspetta di sapere se dovrà tornare alle urne per la terza volta quest’anno. E poi c’è il gruppo di Visegrad. L’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia che prima di ogni riunione europea si coordinano tra loro e poi parlano da blocco a se stante, che rifiutano l’accoglienza di migranti islamici ma vogliono che i loro cittadini possano andare liberamente nella Gran Bretagna della Brexit, che ricevono lauti sostegni finanziari da Bruxelles ma vedono nella Ue una "nuova Mosca". E L’Italia? L’Italia, come la Grecia, ha le mani legate dietro la schiena. Perché le sue coste sono bagnate da un mare caldo e spesso tranquillo chiamato Mediterraneo. Dall’altra parte c’è l’Africa delle mille tragedie, delle guerre, delle dittature, ma anche delle siccità e della miseria endemica. E ci sono anche quei siriani o afghani che hanno rinunciato alla rotta balcanica ripiegando su quella libica. O egiziana, come dimostra la strage dei giorni scorsi per un barcone sovraccarico. La geografia ci impone un dilemma tra il soccorso ai migranti e il loro abbandono a una sicura morte. La scelta è obbligata per un Paese civile, e dobbiamo essere fieri che l’Italia l’abbia fatta senza tentennamenti. Ma l’etica non risolve i problemi. Basta dare una occhiata alle strategie alternative, tanto diverse da quelle di chi deve pensare soltanto a confini terrestri. Il modello australiano (confinare i migranti su un’isola fortificata) non si adatta alle isole italiane, se non altro per le diverse distanze dalla terraferma. Un blocco navale davanti alla Libia per impedire la partenza dei barconi sarebbe per il diritto internazionale un atto di guerra, e per renderlo efficace evitando il dilemma salvezza-abbandono bisognerebbe occupare militarmente, nel mezzo di una guerra civile, gran parte della costa e dei porti. Impensabile, a meno che lo faccia l’Europa con il placet dell’Onu. Aiuti all’Africa, ai Paesi di provenienza? Sì, se si tratta di ottenere il placet al rimpatrio dei migranti economici. Ma se si volessero modificare le condizioni economiche locali nel migliore dei casi ci vorrebbero parecchi anni. Matteo Renzi ha ragione, quando si scandalizza perché l’Europa che pensa molto ai Balcani pensa pochissimo al Mediterraneo. E ha ragione anche quando spiega (semmai troppo di rado) che nessuno farebbe diversamente al posto suo, perché per fortuna l’Italia non è ancora pronta a uccidere voltandosi dall’altra parte. E chi pensa che lo sia, dovrebbe avere il coraggio di dirlo. Ma il presidente del Consiglio sbaglia bersaglio quando dà l’impressione di confondere diritti sacrosanti dell’Italia sul tema dei migranti e richieste di flessibilità contabile o, peggio, scontate delusioni da "direttorio" che ora saranno forse alleviate dai segnali di pace di Angela Merkel sull’accoglienza dei rifugiati. E sbaglia, Renzi, anche quando afferma che l’Italia può fare da sola. Non è così. Piuttosto, è vero che quello dell’immigrazione potrebbe diventare il primo e più importante terreno di collaudo delle integrazioni differenziate di cui tanto si parla. Il pericolo è che per fare sul serio si debba attendere la fine del 2017. E che per allora non si possa più fare sul serio. Migranti. La nostalgia dei muri e la sfiducia nell’Europa: l’83% vuole più controlli di Ilvo Diamanti La Repubblica, 26 settembre 2016 Atlante politico. Rilevazione Demos-Repubblica: favorevole alla linea dura la maggioranza di chi vota Lega e Forza Italia. Ma sono d’accordo anche il 49% di quelli dell’M5s e il 38% di quelli del centrosinistra. Matteo Renzi ha avviato un conflitto permanente, in Europa. In particolare con gli azionisti di riferimento dell’Unione. Germania e Francia. Con i quali ha polemizzato per il mancato invito al prossimo vertice di Berlino. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento sperimentato dal premier, in diverse occasioni. Più che euro-scettico: euro-tattico. A fini esterni e ancor più interni. All’esterno, nei confronti dei governi forti della Ue, Renzi mira a ottenere più flessibilità nei conti. E maggiore sostegno di fronte al problema dell’immigrazione. Verso l’interno: cerca di allargare i propri consensi. Oltre la cerchia del Pd. Perché gli italiani sono anch’essi euro-tattici, come il premier. Hanno bisogno degli aiuti della Ue, ma la guardano con diffidenza. E temono gli immigrati. Si sentono esposti e vulnerabili ai flussi migratori. Così Matteo Renzi parla a Bruxelles e a Berlino. Ma si rivolge al proprio Paese. Agli elettori che lo sostengono, ma anche - ancor più - a quelli più tiepidi e distaccati. Tanto più in questo periodo di campagna elettorale in vista del prossimo referendum costituzionale. D’altronde, come abbiamo osservato altre volte, l’atteggiamento degli italiani verso l’Unione si è sensibilmente raffreddato, dopo l’ingresso nell’euro, nei primi anni 2000. Allora eravamo i più eu(ro)forici in Europa. Quasi il 60% esprimeva, infatti, fiducia verso le istituzioni comunitarie. Ma il clima d’opinione è cambiato in fretta. Fino a scendere sotto il 30%, negli ultimi anni. Oggi è al 27%. E i più delusi sono gli elettori incerti, che Renzi contende ai partiti decisamente euro-scettici. In primo luogo: Lega e M5s. Tuttavia, non bisogna pensare che gli italiani se ne vogliano andare dalla Ue, seguendo Salvini e la Lega. Né che intendano abbandonare l’euro, come vorrebbero Grillo e il M5s. La maggioranza, anche se largamente insoddisfatta, preferisce, comunque, restare. Perché la Ue e l’euro non ci piacciono. Però non si sa mai... Fuori potrebbe andarci molto peggio. Tuttavia, il percorso verso l’unificazione lascia gli italiani sempre più insoddisfatti. Non solo sotto il profilo economico, monetario. E, naturalmente, politico. Ma, ancor più, territoriale. Perché, per esistere, uno Stato deve avere un territorio de-finito. Cioè, de-limitato. Uno Stato - federale - europeo deve avere confini esterni precisi. E confini interni, cioè, fra gli Stati nazionali, aperti. Comunque: sempre più aperti. Invece, i confini esterni appaiono sempre più incerti, mentre quelli interni si ripropongono, sempre più evidenti. Marcati, talora, da muri (come in Austria e Ungheria). Mentre le frontiere diventano barriere. Come ha previsto il Regno Unito. D’altronde, la minaccia terroristica ha spinto a rafforzare i controlli. In Francia, anzitutto. Ma questa domanda è cresciuta anche altrove. In Italia, ad esempio. Dove le paure "globali" si diffondono in misura crescente, come ha sottolineato il Rapporto dell’Osservatorio sulla sicurezza dei cittadini (curato da Demos con l’Osservatorio di Pavia e la Fond. Unipolis). Oggi, infatti, nel nostro Paese la richiesta di marcare e sorvegliare i confini appare largamente condivisa. Solo il 15% degli italiani (del campione rappresentativo intervistato da Demos nei giorni scorsi) pensa che il trattato di Schengen vada mantenuto. Garantendo la libera circolazione dei cittadini europei fra gli Stati (membri). Mentre una quota molto più ampia, prossima alla maggioranza assoluta, (48%) ritiene che occorra sorvegliare le frontiere. Sempre. E una componente anch’essa estesa, oltre un terzo della popolazione, vorrebbe che i confini nazionali venissero controllati "in alcune circostanze particolari". Il sogno europeo, immaginato e perseguito da "visionari", come Altiero Spinelli, Jean Monnet, Robert Schuman e Konrad Adenauer, rischia, dunque, di fare i conti con un brusco risveglio. Almeno in Italia. Dove una larga maggioranza dei cittadini pensa di rientrare dentro alle mura, o almeno, alle frontiere, degli Stati nazionali. Questo sentimento si associa a orientamenti politici precisi. Raggiunge, infatti, livelli elevatissimi fra gli elettori della Lega (oltre 70%) e di Centro-destra (due terzi, nella base di Forza Italia). Ma incontra un sostegno ampio (quasi 50%) anche tra chi vota M5s. Mentre si riduce sensibilmente (sotto il 40%) nella base del Centro-sinistra. La richiesta di frontiere, peraltro, declina in modo particolare fra i giovani e gli studenti. Abituati a frequentare le Università europee, grazie al programma Erasmus. Tuttavia, se valutiamo le principali ragioni che concorrono ad alimentare questo orientamento, una, fra le altre, assume particolare rilievo. Il timore suscitato dagli immigrati. L’arrivo e la presenza degli stranieri. Più della sfiducia nell’Unione europea e nelle sue istituzioni di governo, infatti, è la "paura degli altri" che alimenta la domanda di rafforzare il controllo delle frontiere. E contribuisce, in qualche misura, a far crescere la nostalgia dei muri. Come se le frontiere e gli stessi muri potessero "chiudere" (e proteggere) un Paese "aperto" come il nostro. Verso Est, l’Africa e il Medio Oriente. Circondato, in larga misura, dal mare. In tempi di globalizzazione. Dove tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, può avere effetto immediato sulla nostra vita. Sulla nostra condizione. Sul nostro contesto. Per questo il dibattito politico sulle frontiere, in Europa ma anche in Italia, appare dettato da ragioni politiche e ideologiche. Perché le frontiere servono a riconoscere gli altri e de-finire noi stessi. E, in quanto tali, come ha scritto Régis Debray, possono costituire "un rimedio contro l’epidemia dei muri". Ma quando diventano muri ci impediscono di guardare lontano. Alimentano solo la nostra in-sicurezza. Non alleviano le nostre paure. Ma rafforzano solo gli imprenditori politici delle paure. Nota metodologica. Il sondaggio è stato realizzato da Demos&Pi per la Repubblica. La relevazione è stata condotta nei giorni 6-8 settembre 2016 da Demetra (metodo mixed-mode Cati-Cami). Il campione nazionale intervistato (N=1.023, rifiuti/sostituzioni 7.092) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3,1%). Migranti. Ora Renzi punta su Fassino "commissario" per i profughi di Alberto Gentili Il Messaggero, 26 settembre 2016 "L’idea è quella di un coordinamento più efficace tra i ministeri che hanno competenze sui migranti, ma non lo faremo subito. Ci tariamo per il 2017". Lunedì scorso, a New York, Matteo Renzi è rimasto sul vago. Ha detto di diffidare di "espressioni come cabina di regia". Eppure, giorno dopo giorno, a palazzo Chigi fa sempre più strada l’idea di un coordinamento sotto la diretta supervisione della Presidenza del Consiglio per fronteggiare l’emergenza-migranti. Tant’è, che già circola il nome del probabile commissario all’immigrazione: l’ex sindaco di Torino, Piero Fassino. Nella stanze del governo non è ancora stato messo nero su bianco il testo del decreto. Renzi però ha individuato in Fassino, in scadenza il prossimo mese dalla presidenza dell’Anci (l’associazione dei Comuni), l’uomo giusto per guidare la nuova struttura di missione. Il lavoro sui migranti attualmente è diviso tra diversi ministeri: in prima linea Interni, Esteri, Difesa, poi i dicasteri dell’Economia (per i fondi) e perfino della Scuola (per i minori non accompagnati). Ebbene, la nuova cabina di regia guidata da Fassino coordinerà il lavoro dei vari ministeri con un ruolo di supervisione. I soldi da spendere sono infatti tanti: circa 1 miliardo l’anno. E le cose da fare sono decisamente numerose: dai controlli alle frontiere ai centri di accoglienza, dagli accordi bilaterali con i Paesi d’origine dei flussi migratori alla vigilanza su possibili infiltrazioni terroristiche. In più come ha ammesso lo stesso Renzi, "c’è da ripensare il sistema Sprar", il servizio di protezione centrale per i richiedenti asilo. Più controlli - Il piano prevede anche un’intensificazione dei controlli nei centri di accoglienza per i richiedenti asilo, sia nei Cie che ospitano i migranti economici in attesa di essere rimpatriati. A questo scopo sarà creata una task force, in cui il Viminale avrà un ruolo primario, con il compito di svolgere controlli periodici in tutte le strutture di accoglienza. Il commissario all’immigrazione dovrà provvedere anche a una razionalizzazione della distribuzione sul territorio dei migranti. "Attualmente solo il 10 per cento dei comuni li accoglie", si è lamentato la settimana scorsa Renzi. L’idea è quella di stringere accordi stabili e capillari con gli Enti locali, in modo da impedire la "diserzione" dei sindaci. Ma anche con la Difesa, l’Economia, gli Interni e il Demanio per ottenere, attraverso l’uso degli immobili ormai inutilizzati, una razionalizzazione e un ampliamento delle strutture destinate all’accoglienza. Sul fronte degli accordi bilaterali con i Paesi d’origine dei migranti economici, Fassino dovrà coordinarsi con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni e con Bruxelles. A dispetto delle tensioni esplose al vertice di Bratislava quando nel passaggio del documento finale in cui si parlava di intese con i Paesi d’origine non è stata inserita la parola "Africa", l’Europa difatti si sta muovendo. Sotto la regia dell’Alto commissario Federica Mogherini sono già cominciati i negoziati con Niger, Nigeria, Senegal, Etiopia e Mali. Obiettivo: creare sviluppo e condizioni di vita migliori per evitare nuove ondate migratorie. A questo scopo il presidente della Commissione, Juncker, ha annunciato un Piano straordinario per gli investimenti esterni da 3,5 miliardi che puntando sull’effetto-leva (un miliardo di fondi pubblici attira in media 11 miliardi di fondi privati) dovrebbe arrivare a 44 miliardi. Migranti. Contro l’incubo dell’invasione l’Europa alza nuove barriere di Marco Bresolin La Stampa, 26 settembre 2016 Inghilterra, Olanda e Ungheria: alle urne vince la paura. Paura fa sempre rima con chiusura. E nell’Europa intimorita dalle incertezze della crisi economica e dalla minaccia del terrorismo, c’è sempre meno spazio per le porte aperte. Che si tratti di muri eretti ai confini, di maggiori controlli a frontiere che non dovrebbero esistere oppure di limiti fissati per legge all’ingresso di lavoratori stranieri, in ogni Paese si sta alzando il livello di protezionismo del capitale umano. Molto spesso succede dopo che sono stati i cittadini a esprimersi in modo diretto sulla questione, attraverso referendum. Questo perché, su certi temi, chi ha la responsabilità di governare preferisce fare un passo indietro. È successo a giugno in Gran Bretagna, prima ancora ad aprile in Olanda. Succederà domenica prossima in Ungheria, con la consultazione popolare sul piano di ripartizione dei rifugiati. Dare la parola direttamente al popolo, nel nome della democrazia diretta, in linea di principio è un atteggiamento positivo. Ma non è detto che lo siano sempre anche i risultati ottenuti. "Prima i nostri" è uno slogan che, tradotto nelle diverse lingue, riecheggia in molte campagne elettorali e che trova terreno fertile in un’epoca contrassegnata da paure e incertezze. Il tema dei lavoratori stranieri, provenienti dagli altri Paesi dell’Unione Europea, è stato centrale nella campagna per la Brexit. Pur di porre un freno alla libera circolazione delle persone, con il voto nelle urne i britannici si sono detti pronti a rinunciare anche a quella di beni, servizi e capitali. Ora però chi governa si sta interrogando sul costo dell’uscita dal mercato unico ed è facile immaginare che, durante le trattative con Bruxelles per il divorzio, Londra cercherà in qualche modo di mantenere un piede all’interno. Ma dall’altra parte del tavolo l’orientamento è chiaro: non si può stare nel mercato unico senza la libera circolazione delle persone. Lavoratori, beni e servizi devono essere trattati allo stesso modo. Un timore simile aveva accompagnato l’altro importante referendum tenutosi quest’anno. Ad aprile l’Olanda ha dato la parola ai suoi elettori per chiedere loro un parere sulla ratifica dell’accordo di associazione tra l’Ue e l’Ucraina. Un voto che è stato letto, giustamente, come un "no" all’Europa. Ma che è stato mosso principalmente dal timore di una "invasione" di lavoratori ucraini in Olanda. Lo stesso timore che si era diffuso in molti Paesi, Italia in testa, quando la Romania stava per fare il suo ingresso nell’Unione Europea "Una pura follia" la definirono esponenti della Lega Nord, gli stessi che ora lanciano l’allarme sul processo di adesione della Bosnia-Erzegovina, iniziato martedì scorso dopo il primo ok del Consiglio dell’Ue. In questo caso a sollevare le paure non è tanto il rischio che "vengano qui a portarci via il lavoro", ma piuttosto che l’entrata in Europa sia "un cavallo di Troia islamico calato sul Vecchio Continente", come ha detto nei giorni scorso l’eurodeputato del Carroccio Lorenzo Fontana. Sul fronte economico, i partiti che più spingono sulla necessità di mettere una sbarra ai cancelli d’ingresso ritengono che l’arrivo di lavoratori stranieri abbia effetti negativi sia sul sistema del welfare, sia sul livello degli stipendi. "Loro accettano paghe più basse e così le imprese abbasseranno anche le nostre" è un discorso che si fa per esempio nelle zone dell’Inghilterra a più alta concentrazione di immigrati provenienti dall’Europa dell’Est, ma anche nella Svizzera dei transfrontalieri. Dove il divario tra i salari da una parte e dall’altra del confine rischia di diventare il classico granello di sabbia che fa inceppare il meccanismo. Emblematico il caso dei polacchi nella contea inglese dell’Essex, dove la cronaca degli ultimi due mesi ha registrato una serie di violente aggressioni. Una sfociata addirittura in omicidio. Gli episodi - citati anche da Jean-Claude Juncker nel suo discorso sullo Stato dell’Unione - hanno creato qualche frizione diplomatica: i ministri polacchi dell’Interno e degli Esteri sono volati a Londra per discutere della questione e hanno denunciato un crescente clima di odio verso i loro connazionali dopo il voto sulla Brexit. Poi, una volta tornati in patria, si sono dedicati alla loro politica interna. Che prevede la totale chiusura delle frontiere e il netto rifiuto di partecipare alla redistribuzione dei richiedenti asilo avviata dall’Europa. Dieci secondi al buio per mandare un sms. "L’effetto smartphone dietro 3 incidenti su 4" di Cristina Nadotti La Repubblica, 26 settembre 2016 L’anno scorso, per la prima volta dopo 15 anni di calo, è di nuovo aumentato il numero delle vittime della strada. E nei primi 8 mesi del 2016 le contravvenzioni per chi guida usando il cellulare sono cresciute del 26%. "Ma contro la distrazione fare multe non basta". Così fan tutti, senza sentirsi troppo in colpa, ma mettendo in grave pericolo se stessi e gli altri. Forze dell’ordine ed esperti di sicurezza stradale non hanno dubbi che il nemico numero uno per chi guida sono gli smartphone e i social network, una vera droga per chi è al volante, distratto da sms, selfie ed email. E per una volta noi italiani siamo in linea con la media europea: "Non è un fenomeno limitato al nostro Paese - spiega Enrico Pagliari dell’area professionale tecnica dell’Aci - in Italia non facciamo né meglio né peggio che in altri Paesi europei. Di sicuro è indispensabile però mobilitarsi per arginare il fenomeno". E fare le multe non è sufficiente. Nel 2015 gli incidenti mortali, dopo 15 anni di diminuzione, erano aumentati del 2 per cento. Nei primi 8 mesi del 2016 le vittime della strada sono scese di nuovo (-3 per cento), ma questo non ha tranquillizzato la Stradale: "Sono cifre ancora troppo alte - osserva Santo Puccia, primo dirigente della Polizia di Stato - e impongono una riflessione sulle cause che rendono le nostre strade così pericolose. È indubbio che condotte di guida rischiose o distratte, soprattutto per l’utilizzo di smartphone, sono tra le principali colpevoli degli incidenti". Da gennaio ad agosto 2016 polizia stradale e carabinieri hanno fatto 30.094 multe a chi guidava usando il cellulare, il 26,6 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Il dato è già significativo, ma fotografa soltanto in parte la realtà. Gli esperti dell’Aci sono concordi nel ritenere che 3 incidenti su 4 sono causati da distrazione, e ad abbassare il nostro livello di attenzione mentre guidiamo è soprattutto l’uso dello smartphone, che implica molto più di una già pericolosa telefonata senza auricolare. Nei verbali che vengono compilati in seguito a un incidente c’è soltanto la voce "distrazione", per cui nei dati di Istat, Aci o Polizia stradale sotto questa definizione rientra una gamma spaventosa di comportamenti a rischio, determinati dai nostri nuovi stili di vita. "Un tempo era la sintonizzazione della stazione radio - osserva Pagliari - adesso è tutta la gamma delle attività di chi è sempre connesso. Mentre si guida si mandano sms, si controlla la posta, si fanno selfie e si chatta sui social network. Ognuna di queste attività equivale a guidare alla cieca, come fossimo bendati, per almeno 10 secondi. In quel lasso di tempo, a 40 chilometri all’ora, si percorrono almeno 110 metri, in cui può succedere di tutto". Rincara la dose Puccia: "Oltre a distrarsi e distogliere lo sguardo dalla strada, quando si usa il cellulare si leva una mano dal volante limitando così anche la mobilità dell’altra, per la posizione scomoda della spalla. Inoltre il guidatore che usa il cellulare tende spesso a rallentare, in modo eccessivo e repentino, valuta approssimativamente le distanze di sicurezza, reagisce meno prontamente ai cambiamenti di velocità dell’eventuale veicolo che precede, tende ad usare di meno gli specchietti retrovisori". Una menomazione grave di cui quasi nessuno sembra rendersi conto, dai 18 ai 64 anni, visto che nelle indagini fatte da vari istituti di ricerca la percentuale di chi ammette di aver guidato con il cellulare in mano è del 51 per cento, ma gli esperti di sicurezza stradale ritengono sia molto più alta. E contro gli indisciplinati le multe servono poco o niente. "È necessario incrementare ancora i controlli - dice Puccia - e adeguare le sanzioni alla pericolosità della condotta, ma non basta, è indispensabile un cambiamento di mentalità". "Così come esiste una modalità aereo - propone Pagliari - i telefoni dovrebbero avere una modalità guida, per cui a ogni messaggio o chiamata si avvia la risposta automatica "sto guidando". In ogni caso anche gli esempi europei ci dimostrano che le campagne terroristiche non hanno effetto, serve un lavoro di informazione capillare". Conosci il nemico per batterlo, la vecchia regola vale sempre, così sia la Polizia Stradale che l’Aci hanno varato campagne di sensibilizzazione sui social network per raggiungere soprattutto i maggiori utenti di internet nella fascia di età dai 18 ai 26 anni. "Insieme all’Anas abbiamo avviato un’iniziativa diffusa su web, social network e radio con lo slogan "Se non rispondi non muore nessuno. Quando guidi #guidaebasta" - dice Puccia - L’intento è di parlare in modo diretto agli automobilisti per renderli consapevoli del pericolo di distrarsi". L’Aci ha puntato solo sui social network e coinvolto l’attore Francesco Mandelli per video e messaggi che hanno come fulcro una domanda: "Quando guidate a 100 all’ora chiudete gli occhi?". La risposta sono due hashtag: #guardalastrada e #mollastotelefono. Mandelli-guidatore nel video alla fine spegne il cellulare, ma il peggio è già successo. Come spesso accade. Canton Ticino, voto anti-italiani: posti di lavoro prima agli svizzeri di Simona Verrazzo Il Messaggero, 26 settembre 2016 Con il 58% di sì, passa il referendum per limitare l’ingresso di mano d’opera straniera. Gentiloni: "In pericolo i rapporti con la Ue". In Ticino vince il sì contro i frontalieri, che in questo cantone svizzero sono quasi tutti italiani. L’iniziativa popolare "Prima i nostri!" ha ottenuto il 58 per cento di voti a favore, mentre il 39,7 per cento si è espresso in maniera contraria e il 2,3 per cento ha preferito astenersi. Su oltre 130 comuni del cantone di lingua italiana soltanto 12 hanno deciso di bocciare il quesito promosso dal partito conservatore dell’Unione Democratica di Centro (Udc) con il sostegno della Lega dei Ticinesi: Quinto, Dalpe, Lavizzara, Linescio, Bosco Gurin, Onsernone, Orselina e Gorduno, Morcote, Vico Morcote, Novaggio e Astano. Bocciato invece il controprogetto proposto dal Gran Consiglio ticinese, respinto dal 57,4 per cento degli elettori, mentre i favorevoli sono stati il 36,6 per cento e gli astenuti il 6 per cento. La consultazione ha riguardato la modifica della Costituzione cantonale, valida esclusivamente nel Canton Ticino, partendo dall’iniziativa federale "Contro l’immigrazione di massa": si tratta della votazione popolare del 9 febbraio 2014, in cui vinse di misura il sì con il 50,3 per cento dei voti, ma che in Ticino raggiunse il 68,2 per cento. Finora il risultato del referendum di due anni fa, in cui si chiedeva di fissare un tetto all’immigrazione, è rimasto lettera morta. Le modifiche costituzionali ticinesi puntano, in particolare, a introdurre il principio della "preferenza indigena". È il caso dell’articolo 14, dedicato agli "Obiettivi sociali", e che tra le modifiche prevede anche che "sul mercato del lavoro venga privilegiato a pari qualifiche professionali chi vive sul suo territorio per rapporto a chi proviene dall’estero". Le conseguenze pratiche - Soddisfazione è stata espressa dai promotori della consultazione. "Ci troviamo di fronte a una vittoria incredibile" ha dichiarato a caldo Piero Marchesi, presidente Udc Ticino, commentando il risultato. "Si tratta di un chiaro segnale: i ticinesi sono stufi che a Berna le decisioni popolari vengano tranquillamente ignorate". La consultazione popolare non avrà effetti vincolanti sulle leggi che regolano il mercato del lavoro, che spettano alle autorità federali, ma senza dubbio è un chiaro indicatore della volontà dei cittadini. E a pagarne le conseguenze saranno gli oltre 62.000 frontalieri (la quasi totalità italiani), perché è a loro e all’Unione europea, e non agli stranieri residenti in Svizzera, che punta la consultazione popolare di ieri. "I ticinesi non si fanno spaventare dalle politiche europeiste e di chi mette davanti gli interessi europei a quelli svizzeri", ha sottolineato Marchesi. La mossa del Ticino arriva dopo che all’inizio di settembre la Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio federale, con 9 voti su 16, ha sancito il diritto di precedenza alla cosiddetta "manodopera indigena". Un voto, come sottolineano i media elvetici, più politico che pratico. E dall’Italia le reazioni politiche non si sono fatte attendere. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, avverte la Svizzera che "il voto non ha per ora effetti pratici. Ma senza libera circolazione delle persone i rapporti tra Svizzera e Ue sono a rischio". Anche la Lombardia, la regione maggiormente interessata ai diritti dei frontalieri, ha espresso la sua preoccupazione. "Accettiamo l’esito del referendum, naturalmente, ma vigileremo perché ciò non si traduca in una lesione dei diritti dei nostri concittadini lombardi o (peggio) nella introduzione di discriminazioni o violazioni delle norme che tutelano i nostri lavoratori. A partire da domani (oggi, ndr), dunque, la Regione Lombardia predisporrà le adeguate contromisure per difendere i diritti dei nostri concittadini lavoratori", così ha scritto su Facebook il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni. Le altre consultazioni - Ieri per il Ticino e per tutta la Svizzera è stata una giornata di consultazioni popolari al livello nazionale e cantonale, in quello che è il paese al mondo che fa maggiormente ricorso di questo strumento democratico. Sempre in Ticino è stata bocciata l’iniziativa popolare promossa dal Movimento per il socialismo (Mps) sul dumping salariale (52,4 per cento i no) e invece accettato il controprogetto del Gran Consiglio ticinese. Tutta la confederazione è stata chiamata a esprimersi su tre quesiti a carattere nazionale: bocciate le iniziative popolari sull’aumento del 10 per cento delle rendite di vecchiaia e sull’economia verde, approvato il referendum per il rafforzamento dei Servizi informativi. Tra i voti più interessanti quello del Cantone Neuchàtel, in cui è stata bocciata, con il 54 per cento dei no, l’iniziativa popolare per l’eleggibilità degli stranieri, residenti da almeno 5 anni, alle cariche cantonali. Carcere, frustate e taglio delle mani, nei paesi musulmani satira sotto tiro di Azzurra Meringolo Il Messaggero, 26 settembre 2016 Gli tagliarono le mani perché erano il mezzo che utilizzava per fare satira contro il regime del presidente siriano Bashar al Assad. Fu questa la tragica sorte che spettò, nel 2011, al celebre disegnatore Ali Ferzat. Da allora sono trascorsi sei anni in cui la repressione dell’espressione artistica mediorientale non ha avuto confini. In molte occasioni quanti si sono visti negati un loro diritto universale sono stati accusati di aver offeso l’Islam, commettendo reati di blasfemia. Condanne pesanti - A finire dietro le sbarre per aver disegnato una caricatura del profeta Maometto è stato ad esempio il giovane tunisino Jabeur Mejri, condannato a sette anni e mezzo di carcere. Era il 2012 e per salvare l’artista è nata una campagna globale arrivata a coinvolgere dieci vignettisti internazionali, tra i quali il francese Plantu, che hanno raccolto disegni per Mejri, facendo conoscere la sua causa ai leader di mezzo mondo. Ancora più severa la pena inflitta ad Ashraf Fayadh, poeta palestinese nato in Arabia Saudita dove è stato condannato a morte con l’accusa di aver rinunciato all’Islam e di aver fatto alcune cose contrarie alla legge islamica, come portare i capelli lunghi e avere immagini di donne sul suo cellulare. Grazie anche alla campagna #FreeAshraf la giustizia wahabita ha eliminato la pena capitale, ma il poeta, che si è dichiarato un musulmano fedele, sta scontando otto anni di prigione ai quali si sommano 800 frustate. Le accuse di blasfemia non risparmiano neanche le donne. Neanche quelle che indossano il velo come Doaa El-Adl, vignettista egiziana che nel 2013 si è aggiudicata il premio del Museo della Satira di Forte dei Marmi. Ad accusarla, nel 2012, era stato un avvocato salafita che non aveva sopportato la vignetta nella quale Doaa aveva rappresentato il profeta Adamo. La religione c’entrava però poco. Adamo, come Doaa, si era schierato per il "no" alla nuova costituzione islamista, cosa che aveva fatto infuriare l’avvocato vicino alle posizioni dell’allora presidente Mohammed Morsi. Il visto della Svizzera - La situazione lungo il Nilo non è cambiata neanche dopo l’uscita di scena - manu militari - degli islamisti. Nonostante la lunga storia secolare dell’esercito, ci sono state più incarcerazioni su base religiosa durante il presente mandato del presidente Abdel Fattah al Sisi che sotto quello di Morsi. A mostrarlo è il caso della scrittrice Fatima Naoot, accusata di aver insultato l’Islam in un suo post Facebook nel quale ha criticato la pratica musulmana di immolare agnelli, vitelli e montoni nella festa del sacrificio. Oltre a una multa, Fatima dovrà scontare 3 anni di carcere. Ancora più lungo (5 anni) il periodo che avrebbero dovuto passare in cella quattro studenti copti egiziani accusati di oltraggio all’Islam a causa di un video in cui hanno mimato la scena dello sgozzamento di un fedele musulmano in atteggiamento orante, a imitazione delle esecuzioni dell’autoproclamatosi "Stato islamico". A salvarli però ci ha pensato la Svizzera che a settembre gli ha concesso un visto umanitario accogliendoli nel suo territorio. Libia. Non chiedetevi chi sono i buoni e i cattivi, ma chi è con noi e chi contro di noi di Domenico Quirico La Stampa, 26 settembre 2016 Perché erano lì? Come è possibile che qualcuno li abbia mandati a far manutenzione in un aeroporto del Fezzan come se fosse un normale appalto in Calabria o in Svizzera, mentre erano in uno dei posti al mondo in cui il caos ha sostituito qualsiasi forma di ordine e la guerra è diventata la normalità quotidiana; in cui centinaia di formazioni armate sbandierando pretestuose bandiere politiche in realtà si scannano per il possesso di un pozzo petrolifero, per un frammento di oleodotto, per la gestione lucrosa di qualche attività parassitaria o criminale? E dove gli unici che hanno, purtroppo, uno scopo politico definito sono proprio i jihadisti che sognano la palingenesi sanguinaria del califfato sirtico. E gli altri, i cosiddetti "governi"? I sedicenti governi di Tripoli di Bengasi di Misurata con cui fingiamo di avere fitti e normali rapporti diplomatici come con la Svizzera o la Bolivia altro non sono che formazioni banditesche di dimensioni maggiori di quelle tribali e con appetiti più smisurati. Sapevano, le due vittime del sequestro, tutto questo? E i loro datori di lavoro? C’è purtroppo quando si parla della Libia, soprattutto a livello di governi compreso quello italiano, una evidente stonatura: per paura di ammettere il fallimento colossale delle politiche applicate in quel paese dalla caduta di Gheddafi si fa finta di credere che siamo di fronte a un Paese più o meno "normale", in cui la diplomazia fa passi avanti, ci sono interlocutori affidabili, si finirà prima o poi per mettere attorno a un tavolo come scolari po’ renitenti tutti i protagonisti della tragedia. Una volta che da Sirte verranno eliminati i feroci sgherri del Califfato. Purtroppo non è così e governi e cancellerie tra cui anche il nostro lo sanno benissimo. La Libia è una di quelle zone del mondo dove sono definitivamente scomparse cose come la diplomazia e la politica, e la guerra alimenta la guerra in un infernale gorgo di loschi interessi, fanatismi e bugie. Ammettiamolo: ci sono luoghi al mondo in cui gli occidentali non possono più andare. Sono loro vietati. L’unico loro valore è di essere ostaggi da riscattare a caro prezzo o soggetti da sacrificare a feroci strategie comunicative. L’altra domanda è: chi sono in Libia coloro che sono con noi e contro di noi? Non i buoni o i cattivi che sarebbe domanda ingenua, e urterebbe contro al costatazione realistica che forse non ci sono buoni. Semplicemente bisogna definire chi potrebbe essere per noi un alleato affidabile e utile: il governo di Tripoli che non controlla nulla? Quello di Bengasi con il suo aspirante napoleone? La banda di Misurata? E ancora: chi ha il compito e il potere di definire questa lista, chi sceglie? Il governo italiano? Il Parlamento? L’Unione europea? L’Eni? Gli interessi petroliferi sono un elemento importante, di cui bisogna tenere conto. Ma costituiscono davvero una buona strada per scegliere una politica in questo luogo del mondo e delegarla? Perché in Libia ci sono duecento paracadutisti che difendono un ospedale da campo? E i due sequestrati nel Fezzan chi li difendeva? Giordania. Scrittore ucciso ad Amman per una vignetta sull’Islam di Rolla Scolari La Stampa, 26 settembre 2016 Nahed Hattar, giornalista giordano, cristiano, controverso per il suo sostegno al regime di Assad, è stato ucciso con tre colpi di pistola alla nuca mentre si recava in tribunale. È stato ucciso da tre colpi di pistola alla nuca davanti a un tribunale di Amman per una vignetta ritenuta offensiva nei confronti dell’Islam. Nahed Hattar, 56 anni, cristiano, controverso giornalista e scrittore per il suo appoggio incondizionato al regime siriano di Bashar el-Assad, si stava recando questa mattina davanti ai giudici. Il 13 agosto era stato arrestato per aver condiviso una caricatura - di cui lui non è l’autore - sul suo account Facebook. A inizio settembre è stato rilasciato su cauzione, ma accusato di vilipendio alla religione. Il suo avvocato, Faisal al-Batayneh, ha rifiutato di seguire il caso, per motivi religiosi. Nella vignetta, un uomo con la barba - che ricorda un jihadista e si chiama Abu Saleh, come l’ex "ministro delle Finanze" dello Stato Islamico ucciso in un attacco aereo della coalizione a guida americana a dicembre - è a letto con due donne. Fuma. Attorno, bicchieri di vino rovesciati, un piatto di pollo, le ossa rosicchiate per terra. Siamo in paradiso, è scritto. Da una tenda, spunta Dio, che gli chiede se vuole qualcosa. "Portami del vino rosso e chiedi a Gabriele un piatto di noccioline", dice l’uomo con la barba facendo riferimento all’Arcangelo. Dopo la pubblicazione della vignetta su Facebook, la reazione dei social giordani contro Hattar è stata immediata, e sono scoppiate le polemiche online. Lo scrittore dopo aver cancellato la caricatura si è scusato: non è un attacco alla religione, ma una satira contro lo Stato Islamico. "Non intendevo offendere i credenti - ha detto Hattar - Cercavo invece di rivelare come i terroristi miliziani dello Stato Islamico e i Fratelli musulmani concepiscano Dio e il paradiso". Secondo al-Jazeera, la Fratellanza musulmana giordana ha pubblicato una risposta, chiedendo al governo di prendere misure contro coloro che condividono materiale capace di minare l’unità nazionale. I Fratelli musulmani sono in Giordania un movimento - reso illegale dalla monarchia di Abdullah II - ma anche un partito, il Fronte Islamico di Azione, che dopo nove anni di boicottaggio delle urne si è presentato il 20 settembre al voto parlamentare e, secondo i risultati preliminari, avrebbe ottenuto quasi 20 dei 130 seggi in Parlamento. Nella loro lista, erano presenti anche candidati cristiani e di alcuni minoranze giordane. Dall’uscita di scena nel 2013 al Cairo del presidente Mohammed Morsi, leader dei Fratelli musulmani locali, l’Islam politico nella regione è stato indebolito. Il voto giordano nei giorni scorsi apre quindi a nuovi scenari. L’assassinio di Hattar arriva a meno di una settimana da quelle elezioni, che si sono tenute nella calma in Giordania, alleato occidentale e parte di quella coalizione militare a guida americana impegnata a bombardare le postazioni di ISIS in Iraq e Siria. L’assalitore, descritto da testimoni come un uomo sulla cinquantina con la barba lunga e una tunica bianca, è stato immediatamente arrestato. Giordania. Morire per una vignetta, uccisi dal fanatismo di Massimo Nava Corriere della Sera, 26 settembre 2016 L’omicidio del giornalista giordano Nahid Hattar si inserisce nella scia di caduti per la libertà di espressione, dall’olandese Theo Van Gogh, dodici anni fa, alla strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi. Collochiamo l’omicidio del giornalista giordano Nahid Hattar, ucciso ieri ad Amman, mentre si recava in tribunale per rispondere dell’accusa di blasfemia, nella scia di caduti per la libertà di espressione, dall’olandese Theo Van Gogh, dodici anni fa, alla strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi. "Colpevoli" di avere offeso l’Islam, quindi "vendicati" in nome dell’Islam. Per quanto non sia fuori luogo riflettere anche sul senso di provocazioni estreme e della satira religiosa, considerandone le tragiche conseguenze, la condanna non può che essere senza riserve. È in gioco un principio fondamentale di democrazia, che non può fare sconti, nemmeno quando, come nel caso dell’ultima polemica Charlie Hebdo-Amatrice, diventa anche diritto al cattivo gusto. L’assassinio di Hattar suggerisce tuttavia altre considerazioni che ne delineano una sua specificità, oltre all’estrema gravità. In primo luogo, avviene in Giordania, uno dei Paesi arabi più tolleranti, la cui stabilità è appesa a delicati equilibri religiosi e alla sua ancor più delicata posizione centrale nel Medio Oriente in fiamme. Proprio il re di Giordania aveva partecipato a Parigi alle manifestazioni di solidarietà con le vittime di Charlie Hebdo. Tuttavia, i principi di tolleranza non hanno impedito a un ministro e a un tribunale di perseguire Hattar per una vignetta, peraltro nemmeno firmata da lui, bensì semplicemente condivisa su Facebook. In secondo luogo, va considerata la figura di Hattar, intellettuale laico, origini cristiane, noto per posizioni controverse, di critica a re e governo, di sostegno al presidente siriano Assad. È un ritratto che potrebbe innescare provocazioni e sospetti dentro e fuori la Giordania, al punto che non si esclude una matrice politica. Infine la mano assassina, un predicatore radicale, cioè un "esecutore" lucido, di sicuro più consapevole dei tanti giovani terroristi radicalizzati in circolazione. Il passaggio all’atto di un imam è un problema in più : sotto il profilo della prevenzione, delle relazioni fra comunità religiose, di tensioni di cui la Giordania di oggi non ha certamente bisogno. Medio Oriente. Oltre 1000 minorenni palestinesi detenuti da Israele nel 2016 infopal.it, 26 settembre 2016 Secondo quanto dichiarato sabato dal Comitato palestinese per gli affari dei prigionieri, oltre mille minorenni palestinesi, di età compresa fra gli 11 e i 18 anni, sono stati arrestati dalle forze israeliane dall’inizio dell’anno, compresi 70 bambini della Gerusalemme Est occupata posti agli arresti domiciliari. Hiba Masalha, un avvocato del Comitato, ha citato numerosi casi in cui i minorenni hanno subito abusi e torture durante la detenzione. Uno dei giovani, il 17enne Nidal del quartiere Issawiya di Gerusalemme Est, è stato arrestato a giugno e tenuto per 20 giorni nella famigerata struttura russa prima di essere trasferito nella prigione di Megiddo. Secondo Masalha, Nidal ha riferito di essere stato regolarmente e brutalmente picchiato prima del trasferimento. In un caso, circa 10 guardie l’hanno trascinato fuori dalla sua cella, l’hanno portato in una stanza senza telecamere di sorveglianza e l’hanno picchiato selvaggiamente per un’ora mentre lui era ammanettato. Anche Ahmad, un 16enne di Issawiya arrestato ad aprile, è stato portato nella struttura russa, dove è stato costretto a rimanere inginocchiato con la testa giù per tre ore. Prima dell’interrogatorio, un poliziotto ha tagliato la fascetta usata per ammanettarlo con un coltello, ferendo il giovane. Ahmad ha riferito che il profondo taglio alla mano è stato lasciato sanguinante durante un interrogatorio di tre ore da parte di cinque israeliani, mentre questi gli gridavano contro e lo colpivano ripetutamente alla testa, dicendogli che era "fastidioso". Masalha ha inoltre citato il caso del 17enne Umran, del distretto cisgiordano di Tulkarem, arrestato a maggio mentre camminava per strada. A quanto riferito, Umran è stato picchiato ripetutamente durante la detenzione. I soldati l’hanno portato da un luogo all’altro nel corso del pomeriggio e della sera, persino davanti al muro di separazione israeliano, dove hanno scattato ridendo delle foto del giovane che mostrava la propria carta d’identità. Al mattino Umran è stato infine portato in una struttura di sicurezza israeliana, dopodiché è stato trasferito in prigione.