Carceri sempre sovraffollate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2016 Rispetto ai primi sei mesi dello scorso anno aumenta di oltre 1.800 unità il numero dei detenuti nelle carceri italiane: dai 52.389 registrati al 31 agosto 2015 si è arrivati ai 54.195 del 31 agosto 2016, rispetto a una capienza di 49.600 posti. Una cifra che cresce soprattutto per effetto della custodia cautelare in carcere. Difficile dire se i nuovi ingressi nelle celle sono il risultato dell’aumento della criminalità o di una lettura restrittiva da parte della giurisprudenza delle norme sul carcere preventivo. Il dato non è sfuggito all’Associazione nazionale magistrati, intervenuta ieri alla seconda giornata del Festival del diritto di Piacenza. "L’aumento del numero dei detenuti che si è registrato negli ultimi 6 mesi desta preoccupazione - dice la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. Intanto c’è una ricaduta immediata sul sovraffollamento ma l’attenzione per il futuro è obbligata". Per il sostituto procuratore Giuseppe Cascini il legislatore agisce sull’onda del momento. Una volta si fanno provvedimenti per svuotare le carceri, e in un altro si inaspriscono le pene. Manca una risposta coerente all’interrogativo su cosa fare di chi ha commesso un reato, in un’eterna altalena tra garantismo e giustizialismo. Per il sostituto procuratore di Torino, Armando Spataro, che ha affrontato il tema del processo, la dignità sta nella coerenza, nel non fare quella marcia indietro che rende traballanti principi che dovrebbero essere saldi, come spesso avviene nelle riforme "condivise". Spataro parla anche di immigrati e richieste di asilo politico. L’iter prevede la possibilità di rivolgersi al magistrato se la richiesta per avere lo stato di rifugiato viene respinta dal prefetto. Alcuni giudici hanno chiesto di eliminare l’appello perché non ce la fanno a smaltire le richieste e l’immigrato resta anni in attesa senza sapere cosa fare. Spataro spiega, però, che sono molti di più i magistrati che la pensano diversamente. "Un folto gruppo di giudici, Pm, avvocati e professori ha preparato un testo "Malta 2013" per affermare la necessità di non allentare le garanzie". E oggi la nona edizione del Festival chiude i battenti, con 20 mila presenze all’attivo. Carceri: sovraffollamento, suicidi e Hiv. L’inferno quotidiano di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2016 Nelle ultime 48 ore in Toscana due persone si sono tolte la vita, mentre sono 18mila i tentativi sventati negli ultimi 20 anni. Nel 2015 sono passati all’interno degli istituti quasi centomila carcerati: uno su tre è tossicodipendente, 5mila hanno contratto il virus, 31.500 l’epatite e la metà sono inconsapevoli delle proprie patologie. Sappe: "Situazione allarmante". Due detenuti si sono tolti la vita nel giro di 48 ore nelle carceri della Toscana, mentre sono 18mila i tentati suicidi sventati negli ultimi 20 anni negli istituti italiani. Questi due dati descrivono solo uno scorcio di una popolazione di oltre 56mila persone, stando ai dati del ministero della Giustizia, che vive oggi dietro le sbarre. Chi sono, perché sono in carcere e perché alcuni di loro non ce la fanno ad affrontare la reclusione? Oggi nei 193 istituti disseminati in tutto il Paese, ci sono poco più di 54mila uomini e oltre 2mila donne, 18.300 gli stranieri. In base agli ultimi dati disponibili, aggiornati al 30 giugno scorso, i detenuti condannati per reati di droga sono 18.491 (di cui 6.722 stranieri). Non è un numero come un altro. Perché se è vero che rappresenta un problema che i quasi duecento istituti italiani abbiano una capienza di 49.600 persone (6.888 in meno rispetto all’attuale necessità), bisogna fare i conti anche con altri fattori che possono essere alla base di atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Solo qualche giorno fa nel corso del Congresso Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria" all’Istituto Superiore di Sanità è stato lanciato un allarme sulla salute all’interno delle carceri. Nel 2015 sono passati all’interno degli istituti quasi centomila detenuti: uno su tre è tossicodipendente, 5mila hanno contratto l’Hiv, 31.500 l’epatite e la metà sono inconsapevoli delle proprie patologie. I suicidi dietro le sbarre - Ecco il contesto nel quale nel 2006 finora sono morte in carcere 67 persone, 25 togliendosi la vita. Lo scorso anno (dati del ministero della Giustizia) a fronte di 122 morti ci sono stati 43 suicidi. L’anno nero per quanto i riguarda i decessi è stato il 2011 (186 i casi), ma il numero più alto di suicidi (72) è stato registrato nel 2009. Se dal 2013 il dato è iniziato progressivamente a diminuire, quest’anno la cronaca è tutt’altro che rassicurante. L’ultimo episodio è avvenuto la sera di giovedì 22 settembre: un detenuto di nazionalità tunisina, arrestato ad agosto scorso per tentata rapina e ristretto nella prima Sezione detentiva del carcere di Lucca, si è impiccato alle sbarre della propria cella con delle lenzuola. In mattinata era stato condannato dal tribunale a due anni per rapina. "È stato fatto di tutto per salvarlo, purtroppo senza riuscirvi" ha dichiarato Donato Capece, segretario generale del Sappe. Mercoledì notte si era suicidato impiccandosi anche un altro detenuto, a Grosseto. Il 17 settembre scorso, invece, a Vercelli un detenuto ha tentato di incendiare la propria cella, dando fuoco al materasso e al cuscino, e ha aggredito tre agenti di polizia penitenziaria con una lametta. Di fatto nei primi sei mesi del 2016 solo nelle carceri del Piemonte si sono registrati 294 atti di autolesionismo, 38 tentati suicidi sventati in tempo, un suicidio e 26 ferimenti. "La morte per suicidio di un detenuto in carcere - ha aggiunto il segretario generale del Sappe - è sempre una sconfitta per lo Stato". Secondo Capece "la situazione resta allarmante, altro che emergenza superata". Il sindacato ha anche ricordato che negli ultimi 20 anni la polizia penitenziaria ha sventato più di 18mila tentati suicidi e impedito "che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze". L’identikit dei detenuti - Secondo il dodicesimo rapporto annuale dell’associazione Antigone ‘Galere d’Italià ci sono quasi 14mila e 800 detenuti in meno rispetto al 2010 (dato che si riferisce al 31 marzo scorso), eppure il ritratto delle carceri italiane non è affatto confortante, con un tasso di sovraffollamento che raggiunge il 108%. Allora chi sono e come vivono gli oltre 56mila detenuti negli istituti del Paese? Secondo Antigone "sono quasi 4mila le persone senza un posto letto, mentre altre 9mila hanno meno di 4 metri quadri a testa". L’età media è di 40 anni e il 33,45% della popolazione carceraria è composto da stranieri, provenienti soprattutto da Marocco, Romania, Albania, Tunisia, Nigeria ed Egitto. Gli italiani, invece, sono originari soprattutto dal Sud Italia, dalla Campania (quasi uno su cinque), dalla Sicilia (12%) e dalla Puglia (7,1%). L’allarme sulla salute - Ma un aspetto non secondario è quello relativo alle condizione di salute, fisica e psicologica, dei detenuti. Il congresso Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria" di qualche giorno fa è stata l’occasione per diffondere i dati che non tutti conoscono. Dagli studi condotti in Italia emerge che tra il 60 e l’80% dei detenuti ha almeno una patologia, nel 48% dei casi di tipo infettivo. Il 32% soffre di disturbi psichiatrici. La legge italiana prevede la creazione di appositi servizi di assistenza psichiatrica in carcere e l’apertura di reparti di ‘Osservazione psichiatricà. Si tratta di sezioni specializzate (per periodi limitati di 30 giorni prorogabili) ad osservare e curare i detenuti con specifiche patologie, per poi stabilire la loro compatibilità con il regime penitenziario. Si tratta di una questione non secondaria dato che oltre il 50% dei detenuti assume terapie farmacologiche per problemi psichiatrici. Antigone ha avviato una attività di osservazione negli 8 principali reparti di osservazione del Paese. E i problemi non sono pochi. Uno su tutti: "Presso le sezioni di osservazione - rileva l’associazione - accade purtroppo, e anche spesso, che vi siano destinati detenuti senza specifici problemi di salute mentale, ma che sono considerati come ‘indesideratì presso altre sezioni o semplicemente difficili da gestire". Ma l’allarme lanciato sulla sanità non si ferma ai problemi psichiatrici. Secondo gli studi il 27-30% dei detenuti (tra 15 e 18mila) è tossicodipendente. Cinquemila sono positivi all’Hiv, circa 6.500 sono portatori attivi del virus dell’epatite B e 25mila di quello dell’epatite C. Eppure la metà dei detenuti entra in carcere senza averne alcuna consapevolezza. La Giustizia e la rigidità dei precetti costituzionali di Giovanni Verde Il Mattino, 25 settembre 2016 In un lungo memoriale, apparso sul giornale nei giorni scorsi, il direttore di questo giornale si è chiesto se il nostro Parlamento (io direi, il nostro Paese) sarà mai un giorno in condizione di dare vita ad una vera e necessaria riforma della giustizia. Sarebbe troppo facile essere pessimisti e chiudere la discussione con un "no" definitivo. Voglio per una volta andare contro la mia naturale inclinazione, anche perché ho sempre pensato che la giustizia debba essere un’aspirazione dell’animo umano nascente da un perenne stato di insoddisfazione e che dovremmo diffidare di noi stessi nel momento in cui ritenessimo di avere risolto il problema della giustizia. Sarebbe la nostra fine e probabilmente ci troveremmo di fronte ad un apparente stato di soddisfazione quale può essere imposto dall’alto in un regime autoritario. Allora sono spinto a discutere con il Direttore (e, spero, con i lettori) sulle ragioni che rendono difficile nel nostro Paese una qualsiasi (sensata) riforma della giustizia e che portano governo e Parlamento ad intervenire con provvedimenti di settore, spesso dettati da esigenze del momento o peggio ancora da reazioni istintive e passionali nate da episodi che hanno avuto particolare rilievo nella pubblica opinione. Per pensare ad una riforma organica della giustizia occorre sciogliere un nodo preliminare. Quale è la giustizia che vogliamo? I nostri Costituenti pensavano ad un a giustizia con la "G" maiuscola, non condizionata dalle esigenze di bilancio. Pensavano, insomma, ad un servizio che lo Stato deve rendere ai cittadini fuori da qualsiasi obbligo di contenimento della spesa. Le cose sono andate diversamente. La folla di bisogni collettivi si è moltiplicata all’infinito e uno Stato sensibile alle esigenze di solidarietà sociale non può chiudere gli occhi e non tenerne conto. Il bilancio statale si è appesantito, il nostro debito pubblico è cresciuto a dismisura e, poiché abbiamo fortemente voluto vivere in unione con altri Paesi dell’Europa, era inevitabile che dall’esterno ci fossero imposti vincoli e limitazioni. Anche a me il nuovo art. 81 della Costituzione quello che ci impone di rispettare l’equilibrio tra le entrate e le spese non piace. Ma non vedo come ce ne possiamo liberare e al tempo stesso continuare ad appartenere all’Unione europea. E, pertanto, penso che ci dobbiamo rassegnare all’idea che anche il servizio che lo Stato rende in materia di giustizia non è indipendente dalle risorse a disposizione. Quali sono le ricadute sulla giustizia civile e su quella amministrativa? Per i non tecnici è bene precisare la differenza tra questa forma di giustizia e quella penale. Si tratta, per la civile e l’amministrativa, di giustizia a domanda di parte. Di conseguenza, nulla esclude che il Parlamento possa disporre misure per contenere la domanda o per diversificare i percorsi di giustizia, immaginando differenti binari. Non lo può fare, allo stato, perché l’art. 24 della Costituzione stabilisce che "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi" e, poiché l’art. 3 stabilisce che "tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge", è evidente che il legislatore, da un lato, non potrebbe escludere la tutela giurisdizionale per alcuni diritti o interessi e, dall’ altro lato, non potrebbe stabilire forme di tutela diversificate o lo potrebbe eccezionalmente fare (come in effetti fa) giustificando la differente disciplina in base alla natura peculiare delle situazioni da tutelare. Vi è una rigidità di fondo per la quale non è possibile nel nostro Paese - dirottare (faccio un esempio) controversie seriali dinanzi d organismi non giurisdizionali con il potere di risolverle in maniera definitiva. A questa rigidità se ne aggiunge un’altra, che nasce dall’esigenza di assicurare alla magistratura assoluta indipendenza e autonomia. Esigenza sacrosanta, che però paga il prezzo di un’organizzazione del personale che ha tutti i difetti della corporazione (la quale, come è noto, ve de e risolve i problemi in funzione prevalente delle proprie esigenze e assai meno in funzione delle esigenze dei destinatari del servizio). Posto che è difficile intervenire sull’organizzazione, governo e Parla- mento cercano di intervenire sulle tutele. Tuttavia, quando ricorrono a tutele extraprocessuali, devono comunque lasciare aperta la porta all’impugnazione dei provvedimenti dinanzi al giudice statale. Il rimedio non è, perciò, risolutivo. Avviene, allora, che il governo e il Parlamento percorrano vie traverse per contenere le domande e i ricorsi. Come ho già avuto modo di rappresentare in altre occasioni, si è costruito un sistema sbrindellato che lascia tutti insoddisfatti. La sfiducia nella nostra giustizia, purtroppo, è un dato in aumento costante. Diverso è il discorso da fare per la giustizia penale? La possiamo considerare una variabile indipendente dalle esigenze di bilancio? Ho l’impressione che, purtroppo, anche qui la risposta non possa che essere negativa. Ma se la risposta non può che essere negativa, dobbiamo cominciare a riflettere sulla rigidità della nostra Costituzione, che prevede, all’art. 112, l’obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale. Ne possiamo fare a meno? In altri Paesi di civiltà democratica non inferiore alla nostra di tale principio si fa a meno. Noi lo consideriamo irrinunciabile. E ne paghiamo i costi. Che non sono soltanto in termini di organizzazione del servizio o di sovraesposizione della giustizia penale. Mi viene in mente un tema assai caro al nostro Direttore (e anche a me): il tema delle intercettazioni. Purtroppo, il terrorismo su scala planetaria ha reso indispensabile un sistema di intercettazioni ampiamente diffuso che viola la nostra libertà, riducendo in maniera insopportabile il diritto alla riservatezza (tanto più insopportabile in quanto la violazione si accompagna alla rapidità e alla facilità con cui le notizie intercettate possono essere diffuse e fatte conoscere all’esterno). Tuttavia, tra le intercettazioni a fine di prevenzione e di sicurezza sociale, che (altrove) restano riservate e non sono utilizzabili a fini processuali, e le intercettazioni che, da noi, sono disposte necessariamente dall’autorità giudiziaria e che possono essere occasione di esercizio obbligatorio dell’azione penale corre una differenza assai rilevante. Anche questo è un prezzo che paghiamo alla rigidità del precetto costituzionale. La guerra di mala dei baby Gomorra, indaga l’Antimafia di Mara Chiarelli La Repubblica, 25 settembre 2016 Da una parte ci sono gli Strisciuglio, dall’altra i Capriati. In mezzo un mare di droga, feste liceali e pistole. E protagonisti, pronti a comandare sulla città, questa volta sono i ragazzini, sui quali ora indaga la Direzione distrettuale antimafia di Bari. Materia nuova sui tavoli di magistrati che hanno sempre avuto a che fare con boss navigati, ma che ora si trovano costretti a fronteggiare una vera e propria emergenza malavitosa. In una settimana si sono registrati ben tre episodi, tutti collegati fra loro, che impensieriscono le forze dell’ordine, tenendo alta anche l’attenzione della Procura per i minorenni. Giovanissimi, tra i 15 e 17 anni, che prendono il posto di chi sta in carcere, impugnano una pistola e vanno a sparare, quando non si mescolano a comitive di ragazzi incensurati, potenziale bacino di arruolamento criminale. Molti di loro, infatti, frequentano i luoghi di aggregazione dei liceali: angoli del murattiano o piazze della movida serale, feste in locali molto noti, organizzate per i liceali, con i quali stringono amicizia. Sono gli stessi che poi pubblicano sui loro profili Facebook foto di armi, utilizzano come nickname i nomi dei protagonisti di fiction, si sfidano per strada in sella a scooter, mimando una vera e propria sparatoria. Le cronache dell’ultima settimana si aprono lunedì tra San Girolamo e Fesca, alle 21.30, orario di per sé inconsueto: i carabinieri intercettano una motocicletta con due ragazzi armati. I due se ne accorgono, scappano, vengono rincorsi e fermati: uno dei due è un 17enne incensurato, viene controllato, denunciato e riaffidato ai genitori. L’altro, un 16enne scappa, ma si costituirà l’indomani ai carabinieri. Anche lui senza precedenti penali. Ma quel che impensierisce gli inquirenti, oltre al possesso delle due pistole con il colpo in canna, è il proprietario di quella moto intestata a un importante esponente del clan Strisciuglio del quartiere Libertà. Nel frattempo, però, sulla nuova geografia criminale in città, sulle nuove dinamiche, si muove anche la polizia, che scopre da fonti confidenziali un altro episodio: domenica sera, solo 24 ore prima del fermo dei due ragazzi, un altro minorenne vicino ai due fermati in moto, aveva sparato. E lo aveva fatto tra i vicoli di Bari vecchia, da sempre feudo indiscusso del clan Capriati e tornato da alcuni mesi a essere una piazza dello spaccio di droga. I colpi solo casualmente non hanno ferito nessuno, anche se diversi testimoni hanno visto e sentito gli spari. Ma dell’agguato mancato, nessuna segnalazione ufficiale o telefonata è arrivata al 112 o al 113. L’elenco degli ultimi fatti si conclude venerdì sera, in una zona che è sempre stata considerata lontana da infiltrazioni criminali: il quartiere Poggiofranco. Sono le 20 quando al 113 arriva una telefonata anonima: "Uomo a terra" è la stringata comunicazione. Ad intervenire sono i carabinieri della Compagnia San Paolo (competenti territorialmente), che trovano sull’asfalto, in stradella del Caffè un 17enne incensurato. Il giovane, ferito a una gamba ma in maniera non grave, non ha visto niente, non sa niente, non riesce a spiegarselo. Viene accompagnato all’ospedale San Paolo per essere medicato e tenuto in osservazione prima di tornare a casa, non distante dal luogo della sparatoria. Le ipotesi iniziali sono numerose, ma si comincia a vedere chiaro quando ieri mattina, con le prime luci, nei pressi del punto in cui c’è ancora il sangue del giovane, vengono trovate 18 dosi di marijuana, ben confezionate e pronte per essere spacciate. Un altro elemento che impensierisce gli inquirenti è rappresentato dai rapporti di amicizia del ferito con alcuni coetanei del borgo antico. Proprio da lì, un’ora e mezza dopo l’agguato, parte una nuova "picchiata": altri giovani, in sella a tre scooter, si lanciano verso il quartiere Libertà, inseguiti e riconosciuti dalla polizia. Intervista a Franco Roberti: "ma il carcere può diventare anche nocivo" di Mara Chiarelli La Repubblica, 25 settembre 2016 L’inutilità del carcere per i minori di mafia, figli del disagio giovanile. "Prevenzione" resta la parola d’ordine per il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervenuto a un dibattito pubblico con gli studenti dei licei Fermi e Orazio Flacco. Anche a Bari sta nascendo la "paranza dei bambini". Cosa fare per fermarli? "È un problema enorme che non può essere solo giudiziario". Parliamo in termini di repressione? "Metterli in carcere non serve a niente, perché in carcere si ripropongono le stesse alleanze, le stesse divisioni, gli stessi schieramenti sul territorio. Le stesse logiche criminali che c’erano fuori". E allora che fare? "Bisogna agire con interventi sul sociale, è necessario intercettare il disagio giovanile che è alla base". Non è facile. "Sì, è difficile, ma è una prospettiva ineludibile". A Bari oggi si scopre anche il voto di scambio per le ultime regionali. "È la conferma di una consuetudine di rapporti troppo frequenti fra esponenti del mondo politico e le organizzazioni criminali, soprattutto sul terreno del voto di scambio, del sostegno elettorale, di tutto quello che fa la forza della mafia". In che modo? "Come dice don Ciotti, la forza della mafia è fuori dalla mafia stessa, è in tutti quei settori della società civile, della politica, dell’economia e delle istituzioni che sono disposti a entrare in rapporto con le mafie". La mafia non usa più intimidire? "Solo come forza di riserva, come rinforzo degli atti corruttivi". Appunto, parliamo della corruzione. "La corruzione è uno strumento privilegiato dell’agire mafioso, non c’è mafia senza corruzione. Quindi contrastare efficacemente la corruzione significa dare un colpo forte alla mafia". Cosa possono fare le istituzioni? "Per fare prevenzione le istituzioni, in tutte le loro articolazioni, devono dimostrarlo con i fatti, non solo con le parole, dando segnali che generino fiducia". Torniamo ai giovani di mafia, che spesso scimmiottano serie televisive come Gomorra. Andrebbero evitate? "Non ha senso proibire trasmissioni, serie televisive come Gomorra, che in effetti sono molto realistiche". Si annullerebbe però il rischio emulazione. "Sì, ma ritengo più importante sviluppare, meglio recuperare, il senso critico, la ragion pratica, che consente ai giovani di distinguere il bene dal male". Cosa fare per far sparire la droga dalle strade? "Colpire le centrali economiche che sono all’estero e che foraggiano le organizzazioni criminali. Ricordiamoci che non c’è offerta senza domanda, la mafia è una agenzia di servizi". Abruzzo: verso la nomina del garante dei detenuti, sarà Rita Bernardini rete8.it, 25 settembre 2016 Il sottosegretario Chiaravoli auspica che il consiglio regionale proceda in tempi brevi. Dopo oltre un anno di discussioni e rinvii l’Abruzzo non ha ancora il garante dei detenuti. In consiglio regionale sembra profilarsi una convergenza da parte della maggioranza delle forze politiche, compresa Ncd, il partito del sottosegretario alla giustizia, la senatrice abruzzese Federica Chiavaroli che abbiamo ascoltato a Pescara, dove ha ricevuto il premio "Donne d’Abruzzo-Arcolaio d’argento". L’Abruzzo è l’unica regione italiana che ancora non procede alla nomina, a causa dell’impossibilità di trovare in aula la maggioranza di 21 consiglieri pronta a votare la candidata in pectore, la radicale Rita Bernardini. A seguito di una fitta serie di incontri l’opposizione di centrodestra, che conta cinque e determinanti voti, si è detta infatti disposta a votarla. Il sottosegretario Chiavaroli auspica che si proceda alla nomina speditamente. Sondrio: il servizio medico in carcere è garantito, no ad allarmismi di Susanna Zambon Il Giorno, 25 settembre 2016 La direttrice Stefania Mussio: "Massima sinergia con l’ospedale". "Il dottor Alì El Hazaymeh ha generato inutili allarmismi, il servizio sanitario all’interno del carcere di Sondrio è garantito puntualmente e quotidianamente". Replica così Stefania Mussio, direttore della Casa circondariale di via Caimi, alle dichiarazioni del medico responsabile del servizio sanitario all’interno del carcere, che accusa la Mussio di averlo prima sospeso ingiustamente dall’incarico, e poi di avergli impedito, con un ordine di servizio, di entrare venerdì mattina per il consueto giro di visite. "Apprendo notizie e affermazioni riportate sul servizio sanitario perché dichiarate, senza che il giornale abbia svolto alcun riscontro - scrive Stefania Mussio (ma ci permetta una breve risposta: abbiamo effettuato riscontri e anche cercato di contattare l’interessata per una puntuale replica già venerdì, ma ha gentilmente rifiutato: ndr). Sono affermazioni gravi e allarmanti che avrebbero meritato un approfondimento. Avevo indicato di contattare l’Asst nelle persone dei Dirigenti incaricati per il servizio medico in istituto proprio per l’intervento della voce autorevole e competente su possibili questioni del medico dottor Alì. Il servizio sanitario infatti è gestito e articolato dall’Asst con la quale è instaurato un rapporto di reciproca stima e sinergia professionale. Senza questi riscontri invece, si possono ingenerare allarmismi infondati e dare un quadro dei problemi inveritiero. Il servizio medico è garantito puntualmente e quotidianamente dai medici presenti e incaricati dall’azienda nei diversi ruoli e specialità, che le persone detenute ricevono le cure adeguate alla struttura e che vi sono Autorità Giudiziarie competenti e medici regionali pronti a valutare ogni situazione che richieda il loro intervento specialistico. Collaboriamo con l’ospedale di Sondrio sempre attento alle nostre esigenze. I provvedimenti sulle misure alternative sono di stretta pertinenza dei magistrati la cui autonomia di valutazione trova fondamento nella Costituzione. Su ogni altra affermazione indicata nell’articolo mi riservo di adire ogni strumento per tutelare non solo il mio lavoro e la mia persona ma anche la mia Amministrazione che in questo momento, attraverso il medico coordinatore regionale, non solo è costantemente informata ma molto sostenente. L’articolo così come apparso mi ha imposto di contattare il Prefetto e la Procura per rassicurare sulla regolarità del servizio sanitario in Istituto". Trento: colletta dei detenuti per aiutare i terremotati Il Trentino, 25 settembre 2016 Hanno rinunciato a sigarette e generi alimentari per fare la loro donazione. Padre Forti: "Molti di loro sono poveri, ma hanno una grande sensibilità". Il terremoto, i detenuti e la colletta nel carcere. Mentre la terra in Centro Italia continua a tremare, l’inverno incombe e il lavoro di tante persone per aiutare la popolazione sfollata è senza sosta il filo rosso della solidarietà, colonna portante del pianeta, non si ferma. A mobilitarsi, questa volta, sono i detenuti della Casa circondariale trentina, una struttura realizzata in soli 3 anni e 8 mesi e inaugurata nel 2011 dall’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano. A Spini di Gardolo nell’area demaniale di 110.000 metri quadrati vive addossato alla montagna un mondo poliglotta, 311 uomini e 20 donne con differenti storie, culture, religioni. Dopo le prime scosse dell’evento sismico un gruppetto di detenuti si è rivolto al cappellano padre Fabrizio Forti dell’ordine dei cappuccini sollecitandolo ad organizzare una raccolta fondi per aiutare i terremotati. Il religioso ha subito annunciato l’iniziativa di solidarietà durante tre messe domenicali. "Sono in carcere - spiega padre Fabrizio - ma hanno emozioni e sentimenti e vivono la realtà mondiale forse più di molti di noi. In tanti sono veramente poveri eppure si sono privati donando qualcosa dal loro conto personale e lo posso testimoniare per loro quel poco è indispensabile. Ne ho parlato con tutti. La loro risposta spontanea è stata commovente". Un gesto vero di umanità, il loro, che ha sorpreso tutti, dal personale dell’Istituto penitenziario ai volontari, e che si è unito alla macchina degli aiuti; un gesto fatto nel silenzio da un luogo dove il tempo gira in tondo sempre uguale a se stesso; un gesto solidale, rivolto a chi soffre, che conta più delle parole e del valore del denaro raccolto che sarà portato a destinazione. Ogni detenuto ha risposto con generosità guardando oltre la propria condizione e rinunciando ad acquistare pacchetti di sigarette o generi alimentari od igienici messi a disposizione nella struttura. Roma: San Lorenzo, i bimbi di Rebibbia in via degli Apuli per un "Sabato in libertà" di Rory Cappelli e Annarita Carbone La Repubblica, 25 settembre 2016 L’iniziativa promossa dall’associazione A Roma Insieme - Leda Colombini che si occupa di aiutare i piccoli che nascono e crescono nelle carceri della Capitale. L’ex assessore Francesca Danese: "Non ci dimenticheremo mai di loro". Si sono uniti alle altre famiglie e per un giorno hanno potuto assaporare la libertà che non hanno. Perché sono nati e vivono in carcere. Sono i figli delle detenute di Rebibbia che hanno trascorso un intero sabato con gli asinelli ed i coniglietti portati in città proprio per loro nella sede dell’Esercito della Salvezza. Grazie all’iniziativa "Sabato in libertà con gli asinelli in città", i bambini insieme a tante altre famiglie romane, hanno trascorso una giornata di condivisione e di gioia a contatto con la natura. L’iniziativa. È stata promossa dall’associazione A Roma Insieme - Leda Colombini che si occupa di aiutare i bambini che nascono e che crescono nelle carceri di Roma. In occasione dell’uscita settimanale dei "sabati di libertà", la giornata di oggi si è svolta nel Giardino Nascosto dell’Esercito della Salvezza di Roma, nel cuore del quartiere San Lorenzo. Un evento sostenuto dal Cesv (Centro servizi per il volontariato) e dall’associazione Mustag che si occupa di ristabilire il contatto dei bimbi metropolitani con la natura. Almeno una sessantina le mamme che con i loro bambini hanno potuto sperimentare con mano e capire cos’è l’onodidattica (terapia assistita con gli asinelli). I bambini. Erano 7 i bambini della sezione nido del carcere femminile di Rebibbia. Tutti tra i 15 mesi e i 3 anni. "Quando andiamo a prendere i piccoli per portarli fuori cerchiamo di lasciarli liberi" racconta Elena, volontaria dell’associazione da oltre 12 anni. "Loro non hanno possibilità di muoversi liberamente nel carcere perché vivono in cella con le loro mamme. Hanno un piccolo cortile a disposizione ma non sempre riescono a fruirne. In carcere in questo momento ce ne sono 10. In ogni cella ci sono due o tre mamme, a seconda dello spazio disponibile. Al mattino i bambini frequentano la scuola pubblica ma poi tornano in cella. Escono solo il sabato quando arriviamo noi". L’atmosfera. È stato un sabato molto speciale per questi bambini che sono stati guidati alla scoperta degli asinelli in un itinerario fatto di favole, filastrocche, ma anche di indicazioni concrete sul loro accudimento, personalità e abitudini. Lo scopo del progetto. Francesca Danese, ex assessore alle politiche sociali e abitative del Comune di Roma, spiega che "l’iniziativa di oggi ha un valore speciale perché le famiglie del quartiere San Lorenzo ospitano i bambini di Rebibbia. Lo scopo del progetto Famiglie al Centro è quello di aiutare tutte le famiglie, soprattutto quelle meno abbienti che possono così frequentare laboratori e progetti e avere anche uno spazio in cui vivere, nell’attesa di poter ospitare questi bimbi meno fortunati in una grande casa lontana dal carcere". Terremoto. L’ultimo appello per una ricostruzione senza scandali di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 settembre 2016 È una sfida gigantesca per un Paese che "devolve" sessanta miliardi all’anno in tangenti. Con semplicità, e dunque con grande efficacia, il vescovo di Rieti ieri ha ammonito: "La ricostruzione non sia deviata da altri interessi". In tutte le trame, lo scenario da incubo è il più duro da evocare: così va riconosciuto a monsignor Pompili di avere detto pane al pane, dando nella sua omelia forma verbale a un’ansia che tutti cercano di negare ma che pesa sul cuore di ciascuno. Questa ricostruzione, che dovrà far rinascere i borghi devastati dal sisma del 24 agosto, è per noi italiani l’ultimo appello: anche di fronte all’Europa, alla quale ci accingiamo a chiedere contributi e agevolazioni una volta quantificato un danno che Vasco Errani fissa "in via provvisionale" in oltre 4 miliardi. A un mese esatto dal terremoto, esaurita con successo l’emergenza a breve termine, il governo ha messo le carte sul tavolo, non solo con le stime del commissario Errani, ma anche tracciando un quadro chiaro del medio termine. Gli incentivi e la white list per le imprese, la sterilizzazione del patto di stabilità per le aree interne di almeno cinque comprensori, l’assunzione in deroga di personale in una struttura amministrativa ad hoc che tenga insieme Regioni e Comuni: tutto verrà puntualizzato nel decreto atteso per il 3 ottobre. Il timore che si materializzino gli "altri interessi" paventati dal vescovo di Rieti è tuttavia assai visibile (e comprensibile) nel continuo (e quasi ossessivo) richiamo alla collaborazione con l’Anac di Raffaele Cantone, che assume vieppiù - nell’uso dialettico che ne fa la politica - i connotati d’una sorta di salvacondotto di onestà in un mondo di losco affarismo. In effetti non c’è da essere ottimisti almeno a rileggere la storia delle recenti ricostruzioni post-sisma, L’Aquila in testa, passando per la pur virtuosa Emilia e risalendo fino all’Irpinia che fu il primo vero salto manageriale della criminalità organizzata: decine di inchieste, appalti opachi, infiltrazioni mafiose, sconcertanti intercettazioni tra profittatori che ridono mentre muri e morte cadono sulla povera gente, cricche che si scambiano mazzette nella certezza di arrivare, alla peggio, a una generosa prescrizione. Beh, diciamolo qui e ora: stavolta tutto questo non deve succedere, non possiamo permetterci di sbagliare. La ricostruzione del dopo 24 agosto, le sue modalità e soprattutto l’assenza di gravami giudiziari (almeno per il periodo successivo al sisma) saranno elementi che definiranno noi italiani nel contesto europeo e il governo Renzi di fronte a noi italiani. Il presidente del Consiglio, con un’attitudine che in fondo lo caratterizza, s’è portato molto oltre il problema contingente: con la buona idea di Casa Italia, un approccio nuovo per la manutenzione straordinaria di un territorio nazionale ad alto rischio sismico, con una regia affidata a personalità indiscusse come il rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone. Ma se, come osserva Oscar Giannino sul Messaggero, la sfida di domani è riprogettare l’intero Paese, quella dell’oggi si gioca negli uffici della burocrazia locale e sulle scrivanie dei costruttori, e consiste nell’impedire che le solite gang di malfattori tornino a portarsi via pezzi del Paese con la scusa di ricostruirlo. Sui 4 miliardi in gioco si muoveranno appetiti formidabili. Avere accesso o meno alle deroghe fiscali, gestire o meno assunzioni resteranno - sempre ammesso che Cantone riesca a disinfettare il campo degli appalti - grosse partite di potere e di danaro. La sfida è gigantesca, perché queste partite le ha sempre giocate "l’Italia peggiore": la definizione efficace è di Fabrizio Curcio, capo della Protezione civile e ottimista convinto che vinca "l’Italia migliore". Noi lo speriamo, anche se dai fascicoli della Procura di Rieti, sui mancati adeguamenti antisismici pregressi, è la prima ad emergere, non certo la seconda. Renzi arriva inoltre logorato da tensioni enormi a questo snodo che davvero potrebbe pesare su di lui più del referendum istituzionale (provate a immaginare un "effetto Abruzzo" a ridosso di un voto politico...). Una ricostruzione per una volta senza scandali è l’ultimo treno per un Paese che "devolve" in tangenti 60 miliardi l’anno, che perciò viene ritratto dai partner europei con profili macchiettistici e che, come raccontava l’altro ieri il citatissimo Cantone, inquina con la corruzione anche il mondo accademico e il futuro dei suoi ragazzi. Davvero sotto gli occhi del mondo ci siamo noi, la nostra qualità di italiani. Perché non c’è Autorità anticorruzione che basti se la corruzione - tra falsi collaudi caserecci e fondi antisismici distratti dai privati cittadini - passa proprio nel nostro tinello. Europa. Il piano italiano: una Difesa europea limitata agli Stati disposti a esserci di Paolo Valentino Corriere della Sera, 25 settembre 2016 Il modello è Schengen: un gruppo ristretto di Paesi disposto a integrarsi di più. "Quando il contesto non corrisponde più alle aspirazioni del tempo in cui viviamo, allora bisogna cambiare il contesto". E non c’è dubbio che "lo scenario della sicurezza europea sia cambiato drammaticamente e richieda un salto di qualità in termini di analisi e di soluzioni politiche". Lo dice il documento del governo italiano, messo a punto dai dicasteri degli Esteri e della Difesa, che il ministro Roberta Pinotti presenterà domani a Bratislava alla riunione informale dei responsabili della Difesa dell’ Ue. Il paper, che il Corriere ha visto in anteprima, è il contributo che l’Italia vuole dare al processo avviato in giugno dalla Strategia Globale per la politica estera e di sicurezza della Ue, presentata dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Fra le proposte della strategia vi sono il rilancio dei Battlegroup multinazionali, creati ma mai impiegati dalla Ue; la creazione di un Quartier Generale permanente a Bruxelles per la pianificazione e la condotta di operazioni comuni; l’attivazione di clausole oggi dormienti del Trattato di Lisbona che permetterebbero a un gruppo ristretto di Stati di integrarsi più profondamente a Trattati invariati o di svolgere compiti nel campo della difesa e sicurezza per conto dell’Unione. Ma la proposta italiana firmata da Pinotti e Gentiloni fa un passo in avanti. Suggerisce infatti che parallelamente al pieno uso delle possibilità offerte dai Trattati, "gli Stati membri con un più alto livello di ambizione dovrebbero essere pronti ad avanzare verso una Unione europea della Difesa". Il modello di riferimento è quello di Schengen. Concretamente, è scritto nel paper, "i Paesi disposti a condividere forze, comandi, controllo, manovra e capacità di intervento potrebbero creare una Forza Multinazionale Europea (Fme)" che sarà "in permanenza a disposizione del Quartier Generale della Ue" e rappresenterà "il nucleo iniziale della futura Forza integrata europea". La FME potrebbe essere messa anche al servizio di operazioni della Nato o dell’Onu e rimarrebbe aperta ad altri Stati membri che decideranno di aderirvi. Sempre sul terreno operativo, l’Italia propone la creazione di un sistema europeo di istruzione militare e una "maggiore integrazione dei sistemi di addestramento, basati sullo sfruttamento delle rispettive aree di eccellenza nazionale", dove in pratica ogni Paese addestrerà i futuri soldati nelle cose che sa far meglio. Nessuna di queste ambizioni sarà credibile tuttavia se l’Europa non svilupperà allo stesso tempo la dimensione industriale e tecnologica della Difesa comune: solo una base produttiva robusta e "strategicamente autonoma" consentirà all’Unione di dotarsi delle capacità necessarie. L’Italia propone un piano di incentivi fiscali e finanziari, come l’esenzione dell’Iva o prestiti a tasso agevolato, ai progetti di cooperazione militare europea. Il documento parla anche di "supporto della Banca europea per gli investimenti", formula in codice per alludere a eurobond per la Difesa, uno dei tempi più controversi nel dibattito fra gli Stati membri. Ancora, sul modello di quanto viene fatto negli Stati Uniti con i progetti di ricerca finanziati dal Pentagono, il documento parla di "incentivi per l’innovazione tecnologica" e della possibilità di lanciare un "Programma europeo di ricerca per la difesa". "Rafforzare la difesa comune - recita il paper - aumenterà la nostra capacità di proiettare stabilità in aree e regioni cruciali per la nostra sicurezza. L’Italia crede che occorra riconciliare le proposte pragmatiche di breve periodo con una visione politica condivisa del futuro della difesa europea e dei suoi obiettivi". Sono parole che confermano tutto l’impegno e la vocazione comunitaria del nostro Paese. Ma che allo stesso tempo suonano in dissonanza con i toni accesi usati negli ultimi giorni dal presidente del Consiglio verso l’Unione europea e alcuni partner, in particolare Francia e Germania. E se da un lato ribadiscono che oltre ogni polemica, l’Italia rimane uno dei Paesi più impegnati al rilancio dell’integrazione in questa fase difficilissima, dall’altra sollevano qualche dubbio sull’utilità di certe uscite, pur fondate su argomenti sacrosanti. Siano la difesa, gli immigrati o l’economia, da soli non andiamo da nessuna parte. Migranti. I duri dettano legge di Carlo Lania Il Manifesto, 25 settembre 2016 Più controlli alle frontiere esterne, ma anche a quelle interne. L’Europa si chiude, la cancelliera Merkel si accoda. L’accordo sui migranti firmato a marzo con la Turchia funziona, ma non basta più. Ne servono altri, uguali nei contenuti, da siglare con altri paesi di origine o di transito dei migranti. A cominciare dall’Egitto, diventato ormai il secondo paese dopo la Libia per il maggior numero di partenze. Ma anche Mali, Niger, Senegal, Afghanistan e Pakistan con i quali bisognerà trattare accordi per facilitare i rimpatri. La proposta, ma sembra più un ordine, è uscita ieri a Vienna al termine del mini-vertice voluto dal cancelliere austriaco Christian Kern e al quale hanno partecipato i capi di stato e di governo di Ungheria, Albania, Bulgaria, Croazia, Macedonia, Serbia e Slovenia, più la cancelliera Merkel e il premier greco Tsipras. In pratica tutti i paesi coinvolti dalla vecchia rotta balcanica chiusa lo scorso mese di febbraio in un vertice analogo tenuto sempre a Vienna (ma al quale non parteciparono Merkel e Tsipras) e successivamente blindata proprio con l’accordo siglato dall’Unione europea con Ankara. La paura che quel percorso - lungo il quale nel 2015 è passato più di un milione di profughi diretti a nord - possa oggi riaprirsi, magari sotto la spinta degli oltre 50 mila profughi siriani rimasti bloccati in Grecia, ha convinto Kern a convocare la riunione alla quale sono stati presenti anche il presidente del consiglio europeo Donald Tusk e il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos. Tusk, in particolare, ha dimostrato di aver ben compreso il messaggio inviato ieri all’Europa. "Dobbiamo confermare politicamente e nella pratica che la rotta dei Balcani occidentali per la migrazione irregolare è chiusa per sempre", ha scandito alla fine del vertice. Toni radicalmente diversi rispetto a quelli utilizzati meno di un anno fa dai leader dell’Unione. "Ce la faremo", diceva la Merkel ai tedeschi invitandoli ad accettare la sfida dell’accoglienza, mentre il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker attaccava i paesi che si opponevano alle quote di migranti minacciando multe da 250 mila euro per ogni profugo rifiutato. Sono passati pochi mesi e la musica è cambiata. "Vogliamo fermare l’immigrazione clandestina" ha detto ieri la cancelliera, seppure aggiungendo che, certo, "non dobbiamo sottrarci alle nostre responsabilità umanitarie". "Dobbiamo essere noi quelli che decidono chi entra in Europa, e non le organizzazioni di trafficanti", le ha fatto eco Kern. Il progetto messo a punto ieri prevede un ulteriore rafforzamento non solo delle frontiere esterne dell’Unione, ma anche di quelle interne da mettere in atto grazie a un rafforzamento di Frontex e all’impiego della Guardia costiera e di frontiera europea, il cui debutto è previsto per il 6 ottobre al confine tra Bulgaria e Turchia. Un intervento, quello della nuova forza europea, previsto anche ai confini della Grecia con Macedonia e Albania e che, se è vero quanto rivelato dal quotidiano tedesco Die Welt che cita il direttore di Frontex Fabrice Leggeri, sarebbe stato richiesto proprio da Atene. Alcune delle proposte, come la necessità di arrivare ad accordi con i paesi africani uguali a quello siglato con la Turchia, faranno piacere a governo italiano che sollecita da tempo migration compact che siano in grado di fermare le partenze dall’Africa (obiettivo al quale, tra l’altro, Roma sta provvedendo da sola). Ma la scelta di schierare le guardie di confine europee alle frontiere di Bulgaria, Macedonia e Albania sembra tradire l’intenzione che non si vogliano fermare solo i migranti economici, ma anche impedire nuovi ingressi di profughi siriani. Scelte che sono altrettanti tentativi di rispondere alle opinioni pubbliche nazionali sempre più attratte dai movimenti populisti in crescita in Europa. In Austria, dove nei primi sei mesi di quest’anno si sono avuti 24 assalti contro altrettanti centri di accoglienza di migranti, il doppio rispetto a tutto il 2015, il 4 dicembre si voterà di nuovo per l’elezione del presidente della repubblica e il leader del’Fpo Norbert Hofer potrebbe essere il primo capo di stato di estrema destra in Europa dal 1945. Mentre il 2 ottobre in Ungheria un referendum metterà definitivamente la parole fine al progetto di Juncker di distribuire i profughi in Europa. Naturalmente, come direbbe la Merkel, senza dimenticare le nostre responsabilità umanitarie. Migranti. Il secolo buio dei rifugiati ambientali di Luca Fazio Il Manifesto, 25 settembre 2016 Si è tenunto ieri a Milano, su iniziativa della parlamentare europea Barbara Spinelli (Gue), un convegno internazionale sugli effetti della crisi climatica e ambientale sugli spostamenti delle popolazioni. Secondo l’Onu, entro il 2050 ci saranno più di 200 milioni di rifugiati costretti a fuggire non per un conflitto ma per disastri che non si possono più definire naturali. Tra gli obiettivi della giornata di lavori, una campagna a livello europeo per definire lo status giuridico del rifugiato ambientale nel diritto internazionale. In Europa, e nel mondo, non sono previsti cambi di strategia per gestire il fenomeno delle migrazioni che sta destabilizzando economie e società di un pianeta violentato da uno sviluppo insostenibile. Dove la guerra è il corollario dell’ideologia dominante. Per restare alla cronaca, lo dice il fallimento dei due summit sui rifugiati di Bratislava e New York (Onu). Tra gli indicatori del disastro, con la retorica di capi o capetti di Stato, c’è uno scandalo: in un anno l’Europa, 500 milioni di abitanti, ha ricollocato 5.290 rifugiati sui 160 mila previsti. Solo profughi di guerra, gli unici ad aver diritto all’asilo in virtù della distinzione tra chi fugge da un conflitto e chi emigra per motivi economici. Viste le premesse, sono ancora più urgenti le analisi fornite dai relatori del convegno Il secolo dei rifugiati ambientali? che si è tenuto ieri a Milano su iniziativa di Barbara Spinelli, parlamentare del Gruppo della Sinistra Europea (troppi gli interventi, moderati da Guido Viale, per poterne dare conto diffusamente). Secondo l’Onu (Unhcr), entro il 2050 ci saranno circa 200-250 milioni di rifugiati ambientali, una media di 6 milioni di persone all’anno costrette ad emigrare non a causa di un conflitto. Il fenomeno è in corso ma interessa poco i media poiché, per ora, si tratta di "sfollati interni": nel 2015 sono stati 27,8 milioni (in Siria 6 milioni e mezzo di persone sono profughi interni). Altri numeri danno un’idea più precisa del profilo di un profugo climatico e ambientale. Negli ultimi venti anni, "il 90% delle catastrofi sono causate da fenomeni legate al clima, quali inondazioni, tempeste e siccità" (Onu). I morti sono stati 600 mila, le case distrutte 87 milioni: l’anno scorso gli sfollati per calamità sono stati 19,2 milioni, e nel periodo 2008-2014 157 milioni di profughi hanno abbandonato le loro abitazioni Se risulta evidente il legame tra devastazione ambientale e migrazioni, è logico che la politica continui a tacere sui fattori di "origine antropica". La sua vocazione predatoria è il problema. François Gemenne, docente all’università di Versaille-Saint Quentin, ha scosso la sala dicendo "tutti noi siamo responsabili" (abbiamo un conto in banca e i nostri soldi servono a finanziare energie fossili). Siamo entrati nell’era geologica dell’Antropocene, questa la tesi. "Gli uomini sono diventati la principale forza di trasformazione del pianeta, significa che la terra è diventata soggetto politico. Non tutta l’umanità è responsabile, la verità è che questa è l’età in cui pochi uomini trasformano l’ambiente". Significa ammettere che i disastri non sono opera del fato e che, considerate le conseguenze - le migrazioni - non ha senso la "dicotomia tra rifugiati e migranti". Non è una differenza giuridica ma eminentemente politica, "il rifugiato ambientale viene screditato perché altrimenti dovremmo riconoscere le persecuzioni che esercitiamo verso quelle popolazioni". Depoliticizzare la questione significa essere complici: "I ricercatori lo sono perché hanno creduto di poter influenzare la politica, siamo stati degli idioti" Emilio Molinari, nel suo intervento su diritto all’acqua e profughi idrici, ha chiesto alla sinistra "libertaria e laica" se davvero tutto ciò è in cima ai "nostri" pensieri. Ha ricordato un rapporto del Pentagono del 2004 (era Bush), la pianificazione di un disastro: "Diceva che Usa e Europa diventeranno fortezze virtuali per respingere i profughi ambientali e che chi non saprà difendersi verrà travolto…". E l’acqua. Ne vengono imbottigliati 50 miliardi di litri ogni giorno, un campo da golf in Africa ne consuma come una città di 6 mila abitanti, un residence in Kenia ne fornisce 3 mila litri a stanza e agli abitanti 60 a famiglia, la coltivazione di rose in Kenia e in Etiopia per il mercato europeo - milioni di tonnellate - sta prosciugando i laghi e riduce le lavoratrici in condizione di schiavitù. Poi l’affondo: "Qui un sindaco non ripubblicizza l’acqua e poi apre uno sportello per le unioni civili e noi siamo tutti contenti". La sala applaude. Jens Holm, deputato svedese, ha messo in relazione il consumo di carne e l’uso sconsiderato della terra. Per un chilo di proteine animali servono 5 mila litri di acqua, la produzione di carne su scala globale produce le stesse emissioni del traffico automobilistico - "ma nessuno lo dice" - e l’aumento vertiginoso della produzione di soia serve unicamente per la mangimistica animali, laddove la produzione costringe le popolazioni che ci abitano ad abbandonare le terre. Succede in Brasile. Di terra ha parlato anche Vittorio Agnoletto per dire che gli accordi commerciali (nella fattispecie Epa) e il fenomeno del land grabbing (l’acquisizione di terreni da parte di governi e società straniere) producono immigrazione. "Con questi accordi i paesi africani non possono imporre dazi per proteggere i loro prodotti e così le multinazionali vendono sottocosto distruggendo intere economie". Il Burundi ha perso 20 milioni di dollari, il Kenia 24: "La Ue sta cercando di ottenere sproporzionati vantaggi da una delle zone più povere del mondo". Quanto al land grabbing, "sono già stati acquistati 44 milioni di ettari e in Africa quasi la metà del terreno comprato non produce più cibo". L’Italia fa la sua parte (un milione di ettari acquistati). "Noi milanesi - ha concluso - riempiamoci di vergogna: ricordiamoci la carta di Milano dell’Expo, avrebbe dovuto cambiare il mondo…". Francesca Casella (Survival International) e Luca Manes (Re:Common) hanno sottolineato il caso emblematico della valle del fiume Omo (Etiopia) dove la costruzione di una diga sta generando una "catastrofe umanitaria" che coinvolge una popolazione di 500 mila persone. Si è parlato anche di "approccio hotspot" bocciando senza appello la politica europea dei rimpatri. E di un aspetto giuridico di fondamentale importanza, visto che la Convenzione di Ginevra non riconosce lo status di chi scappa da catastrofi ambientali (unica eccezione: Svezia e Finlandia). Oltre agli aspetti di denuncia e informazione, questo è l’obiettivo del convegno: promuovere un’azione parlamentare a livello europeo per il riconoscimento della figura del rifugiato ambientale. Un cambio di prospettiva necessario per una missione che oggi sembra disperata. Migranti. Scope e sacchi, i profughi ripuliscono Milano di Simone Gorla La Stampa, 25 settembre 2016 I 350 volontari hanno partecipato all’iniziativa di Legambiente. Il Comune: un modo per rendersi utili alla città che li accoglie. Legambiente ha organizzato le giornate "Puliamo il mondo", iniziativa che ha riunito 350 volontari tra i richiedenti asilo. Alla fine gli attrezzi da lavoro non sono bastati e qualcuno si è dovuto arrangiare a mani nude. A Milano la voglia di fare dei 350 richiedenti asilo che si sono offerti volontari per ripulire le vie della città ha colto di sorpresa tutti. Dagli organizzatori dell’iniziativa ai milanesi, increduli di fronte alla vista di squadre di eritrei, somali, afghani, iracheni e centrafricani, impegnati a ramazzare e portare via foglie secche, mozziconi di sigaretta e cartacce. A Milano le giornate "Puliamo il mondo" di Legambiente si sono trasformate nella prova generale per l’impiego dei richiedenti asilo in attività socialmente utili. Ora il Comune è pronto a rilanciare. L’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino, schierato con la pettorina gialla al fianco dei "suoi" profughi, rende esplicito il patto: "Che in cambio dell’accoglienza, con il nostro sostegno, si partecipi ad azioni utili per sé e per la collettività". Il calendario autunnale per i volontari è già fitto di impegni: "Da domenica 16 ottobre i migranti aiuteranno gli operatori nella raccolta delle foglie nei parchi, dal mese di novembre saranno impiegati stabilmente nella consegna dei pasti a domicilio agli anziani. Poi ci saranno altre iniziative". L’idea è quella di sfruttare in positivo la pressione migratoria su Milano, che nelle ultime settimane è tornata a livelli di guardia: in città sono ospitate stabilmente 3600 persone e i centri sono di nuovo saturi. Per non rifiutare un tetto a nessuno, sono state attivate nuove strutture d’emergenza, in attesa che sia operativa la caserma da 300 posti letto annunciata in estate. Loro, i richiedenti asilo, sono pronti: "Abbiamo ricevuto molto, ora diamo una mano. Ma non è uno scambio", chiarisce Adokor, togolese, mentre porta via le erbacce raccolte lungo il naviglio della Martesana. Qui, in estate, hanno dormito spesso le persone che l’hub della stazione Centrale non riusciva a contenere. "Aiutiamo a tenere la città pulita perché vogliamo diventi casa nostra". Poco più in là lavorano Hard e Dashsti, due fratelli curdo-iracheni. "Eravamo arrivati in Germania, dove vive la nostra famiglia, ma ci hanno rimandato indietro". Nei centri di accoglienza tedeschi avevano una stanza e una somma mensile da spendere. "Qui la situazione è più difficile, ci sono tante persone e soldi non ne abbiamo". Ma lavorare gratis non è un problema: "Oggi ci hanno chiesto se volevamo venire a pulire Milano, abbiamo detto subito di sì. E ci saremo ancora la prossima volta". Un entusiasmo che non dovrebbe sorprendere. Dopo mesi passati nei centri e nelle stazioni in attesa di un’opportunità, di un documento, di una svolta, a questi ragazzi non sembra vero di poter fare una mattinata di lavoro. I milanesi, affacciati alle finestre, tra curiosità e stupore approvano. La voglia di lavorare, qui, rimane sempre una qualità molto apprezzata. Un anziano scende in strada per congratularsi: "Però, sono bravi! Li ho sempre visti in televisione ma si rendono anche utili". A Quarto Oggiaro ne attendevano una trentina, si sono presentati in settanta. "Alla fine invece della piccola area prevista sul volantino abbiamo ripulito tutto il quartiere", racconta il presidente del consiglio di municipio Fabio Galesi. Questa periferia considerata "difficile" ospita due grandi centri di accoglienza: i migranti rischiano di essere un corpo estraneo, una miccia in un contesto già teso. "Il problema è che sono sempre chiusi nelle loro strutture, non c’è contatto con il quartiere. Fanno paura perché non li conosciamo". A fine mattinata i volontari della zona snocciolano i risultati: 300 sacchi di immondizia portati via, oltre a mobili abbandonati e frigoriferi. "Domani facciamo un’altra giornata. Non era prevista, ma loro si sono offerti di continuare. Speriamo non tornino tutti, perché non avremmo abbastanza spazi da pulire". Droghe. Cannabis, una firma per la legalizzazione di Luca Sappino L’Espresso, 25 settembre 2016 Questo week end due giorni di tavoli per aderire alla proposta dei Radicali e legalizzare marijuana. Ecco dove e perché firmare. E sull’Espresso in edicola dal 25 settembre lo speciale Libera canna in libera Stato. "È vero. La proposta di legalizzazione su cui stiamo raccogliendo le firme è più avanzata di quella arrivata a luglio in aula, alla Camera". Riccardo Magi, segretario dei Radicali, riconosce che la proposta della campagna Legalizziamo! è ben più radicale - come ovvio - di quella partorita dall’intergruppo parlamentare, bipartisan, coordinato dal sottosegretario Benedetto Della Vedova: "Anche quella, se miracolosamente si dovesse riuscire ad approvarla, è una buona legge", dice Magi, "ma la nostra idea era che servisse una mobilitazione fuori dal parlamento, nella speranza che di compromesso in compromesso non si arrivi a una legge menomata, come è stato con le unioni civili senza adozioni". Le firme, insomma, per Magi servono a far sì "che deputati e senatori possano trovare il coraggio di approvare qualcosa in più del solo uso terapeutico", cosa comunque tutt’altro che scontata come raccontiamo sull’Espresso da domenica 25 settembre in edicola. La campagna Legalizziamo! il 24 e 25 settembre organizza una due giorni di mobilitazione straordinaria per raccogliere le firme su una proposta molto avanzata di legalizzazione della cannabis. Sul sito legalizziamo.it c’è la mappa dei tavoli aggiornata. La proposta prevede l’autocoltivazione (fino a 10 piante per uso personale, 5 se non ci si dichiara) e un regime di mercato libero per il prodotto destinato al commercio, senza monopolio statate (previsto invece dalla legge dell’intergruppo). E però c’è anche la depenalizzazione dell’uso personale delle altre droghe, sul modello del Portogallo, che non ha legalizzato la cannabis ma già nel 2001 ha depenalizzato tutte le droghe con ottimi risultati dal punto di vista sanitario. Come la legge dell’intergruppo, Legalizziamo! prevede poi la possibilità di associarsi in cannabis social club (che potranno avere fino a 100 iscritti, contro i 50 dell’intergruppo). L’ex ministro della Giustizia si schiera per la legalizzazione. Visto il fallimento delle politiche di contrasto del traffico di stupefacenti, e perché la "guerra alla droga è diventata una crociata contro la diversità e contro gli ultimi, tra cui i tossicodipendenti". In edicola da domenica un lungo speciale dell’Espresso A promuovere l’iniziativa, con Radicali Italiani, è stata l’associazione Luca Coscioni, ma hanno poi aderito associazioni come A Buon Diritto e Antigone, Possibile di Giuseppe Civati e decine di grow shop italiani, negozi dove si possono trovare anche i kit per l’autocoltivazione. L’associazione Coscioni, poi, al tema delle libertà e della scienza dedica il suo prossimo congresso, che si svolgerà a Napoli dal 30 settembre al 2 ottobre. "Se la politica ha perso credibilità", ci dice il tesoriere Marco Cappato, "è anche perché molto spesso, tra populismo e proibizioni, prescinde dai dati di realtà e limita libertà individuali". "Rimuovendo proibizioni inutili, che peraltro diminuiscono la capacità dello Stato di garantire diritti, la politica può tornare credibile. E vale per la cannabis così come per la fecondazione assistita", continua Cappato, "perché solo l’ideologia ti può spingere a trattare la cannabis come l’eroina o anche a sventolare la paura dei migranti: i dati e la scienza, invece, sono l’antidoto al populismo". Guerre e fame, quei bambini persi per sempre di Domenico Quirico La Stampa, 25 settembre 2016 Non solo bombe e spari uccidono. Nelle guerre che insanguinano Africa e Medio Oriente la popolazione è allo stremo, senza cibo aiuti e medicinali. I primi a pagare sono i bambini. Yemen. Sotto assedio e senza cibo. Il dramma di 370mila bimbi C’è un luogo al mondo da cui la gente vorrebbe fuggire, ora, subito, senza attendere un istante, senza riempire fagotti o valige. Fuggire, salvarsi, non sentire più il rumore delle bombe, afferrare qualcosa da mangiare e offrirlo ai propri figli denutriti. Vorrebbe. Ma non può. Questo luogo si chiama Nord Yemen. Volete sapere i motivi che li spingerebbero a abbandonare la loro terra diventata maledetta? Manca il cibo, le madri impotenti ascoltano i figli, che hanno gambine sottili come spago, implorare con il lamento infinito, acuto della pietra sfregata contro la pietra. Non si trovano medicine, gli ospedali e le scuole, affollati di pazienti e di bambini, sono sottoposti a bombardamenti feroci che li trasformano in ciotoli di cemento. Come ad Aleppo in Siria. Sì. Ma da lì almeno si può imboccare la dura, pericolosa strada del profugo. In Yemen no. Perché un assedio metodico e spietato da terra e dal cielo ha isolato milioni di persone. Impossibile entrare per testimoniare, impossibile fuggire per sopravvivere. Ad Aleppo hanno diritto, ogni tanto, quando una immagine ci sottrae alla comoda scusa del non sapere, hanno diritto a un pò di attenzione. Chi parla dello Yemen se non gli eroici samaritani di Medici senza Frontiere e di Save the Children? Questi ultimi hanno diffuso un rapporto agghiacciante, dice che 1,5 milioni di bimbi sono malnutriti, e che 370 mila stanno addirittura peggio, sono alla fame. Privi di cibo, e medicinali, il loro sistema immunitario è ormai segnato. C’è qualche governo occidentale che ha il coraggio, politico e umano, di adottare i bambini di Sanaa? Eppure sappiamo nomi e cognomi di chi li bombarda e li affama, le testimonianze arrivano da testimoni imparziali e incontestabili. Il crimine qui ha un volto e una storia. Invece andiamo, umili, in pellegrinaggio dagli assassini, stringiamo loro le mani, compriamo il loro petrolio, siamo alleati deferenti del loro Islam bigotto, ipocrita e feroce. Gli ospedali li inviamo, semmai, in luoghi dove un confuso canagliume si contende il bottino petrolifero. Da un lato una ribellione zaydita, una confessione della eresia sciita, con antiche velleità secessioniste e alle spalle l’Iran, dall’altra i sauditi, capofila dell’ortodossia sunnita. Una guerra che con andamento di epidemia, di alluvione scuote le fondamenta dell’Islam. In mezzo un popolo in ostaggio. Non c’è niente da aggiungere per capire questo dramma, ogni distinguo è un servizio reso agli assassini. Al Qaeda, l’internazionale terrorista, è presente, anche qui, e attivissima nel caos. Ma non è alleata con gli sciiti di Sanaa. Tutti possiamo immaginare la guerra, questa guerra, non c’è niente di misterioso nel denominatore comune della sofferenza. La guerra accade alle persone, alle singole persone. L’azione si basa sulla fame, sulla mancanza di un tetto, sulla paura, il dolore e la morte. I bambini agonizzanti e denutriti di Guernica e di Sanaa sono gli stessi, la gente rannicchiata che ascolta le bombe che ti fischiano incontro a una velocità inimmaginabile, come se tu fossi il bersaglio, e sembra che piangano fino a quando diventano un urlo vicinissimo e poi un tuono di granito, sono un unico popolo di tutto il mondo. La guerra è una orribile ripetizione. C’è un luogo al mondo in cui sperimentiamo ogni giorno che realtà politica e moralità politica non hanno nulla in comune. Perché gli aerei che bombardano, gli uomini che stringono i bulloni di questo assedio spietato di un popolo intero hanno contrassegni divise e nome: è l’esercito della Arabia Saudita e di suoi nove alleati-clienti, dagli Emirati al Qatar, le monarchie del petrolio. Il silenzio volontario con cui l’Occidente avvolge il massacro lo conosciamo bene: è la realpolitik con cui gli Stati Uniti e l’Europa rendono omaggio ai signori del petrolio, a questi "ottimi alleati" seminatori di spietate sharie, finanziatori, da quaranta anni, di tutti i fanatismi islamisti, fino al sanguinario califfato nella Terra tra i due fiumi. Sulla pelle degli yemeniti la giovane generazione dei corrotti dinasti di Riad, Mohamed Ibn Salman, figlio del re e ministro della Difesa, e Mohamed Ibn Nayef, potente ministro degli Interni, fanno le prove di governo, ossessionati dal rischio di accerchiamento sciita. Pericolosa temerarietà quella di piegare gente fiera e bellicosa, capace di ingolfare in queste ambe massicce anche gli eserciti più lussuosi e moderni. Nello Yemen del Nord, un luogo pieno di palpiti e di ombre, non è difficile scegliere con chi schierarsi. Non resta altro da fare che allearsi, con il cuore e con la mente, agli innocenti, i vari sconosciuti che pagano per quel conflitto con tutto ciò che di amato hanno da perdere. Siria. Nell’inferno di Aleppo bevono l’acqua infetta, di Giordano Stabile Il bimbo di un paio d’anni al massimo, estratto con la forza delle mani e della caparbietà dalle macerie, tutto bianco per i calcinacci, è l’immagine della speranza, perché, nonostante tutto, è vivo. Ma molti altri sono morti e altre foto mostrano una mamma sepolta dal soffitto crollato assieme ai due figli, il profilo scolpito dalla polvere e il sangue. La guerra ad Aleppo è tornata a essere la guerra dei bambini. Uccisi dalle bombe, affamati e ora anche costretti a bere acqua infetta, dopo che gli acquedotti sono stati danneggiati dai raid, terribili, di venerdì, o sabotati per vendetta dagli insorti per tagliare le forniture anche alla parte occidentale della città in mano ai governativi. La battaglia finale è entrata nella fase cruciale, con la prima avanzata delle truppe di Assad che stringono i quartieri ribelli in una tenaglia. Dopo il convoglio umanitario distrutto lunedì scorso in un raid di cui nessuno vuole prendersi la responsabilità, ora è la volta dei beni primari, vitali. Una guerra totale dove i civili sono solo un ostacolo, o uno scudo, e non c’è pietà per nessuno. I bambini che vivono ad Aleppo Est, come quelli di Aleppo Ovest, sono le prime vittime. E a due mesi dell’ultima grande battaglia, a luglio, tornano a essere senza elettricità e acqua corrente. "Da metà luglio la situazione è insostenibile - denuncia Andrea Iacomini, portavoce dell’Unicef -. Ad Aleppo Est non entra più nulla. Nel convoglio distrutto lunedì c’erano prodotti per l’igiene, pasticche per la potabilizzazione dell’acqua, integratori alimentari, vitamine, kit salvavita. Dovevano servire a 78 mila abitanti in condizioni estreme. Tutto distrutto. Nei quartieri orientali ci sono centomila bambini in pericolo. I casi di malnutrizione, diarrea, stanno esplodendo". Alcuni bevono dalla pozzanghere. Se in passato i tecnici dell’Onu erano stati fatti passare per riparare gli acquedotti ora "neanche loro possono entrare, siamo molto preoccupati". La situazione è migliore a Ovest, dove comunque "ci sono 35 mila minori sfollati, in condizioni difficili". Gli attacchi di giovedì notte e venerdì sono stati devastanti. Hanno danneggiato la centrale di pompaggio dell’acqua di Bab al-Nayrab che fornisce acqua alle 300 mila persone intrappolate nella parte orientale della città. Per ritorsione, la centrale di Suleiman al-Halabi, che si trova ad Est, è stata bloccata dai ribelli e così anche un milione e mezzo di civili nella parte occidentale della città sono senz’acqua. Per Kieran Dwyer, rappresentante dell’Unicef in Siria, gli esiti possono essere "catastrofici". Anche perché i raid sono continuati anche ieri e il soccorso umanitario "è diventato impossibile". Ieri le vittime sono state almeno 56, dice l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Dalla fine della tregua, secondo gli Elmetti bianchi, i volontari vicini ai ribelli, i bombardamenti sono costati la vita a 323 civili. "Nuove armi russe sono state usate per la prima volta - denunciano - puntate su donne, bambini, le case dei civili, scuole, moschee, chiese e ospedali". L’opposizione in esilio ha chiesto all’Onu una "nuova strategia per la protezione dei civili: le tregue non servono più". Ma Damasco va avanti, sente la vittoria vicina. Ieri truppe governative hanno cominciato le prime operazioni di terra, hanno occupato la zona residenziale di Al-Hamdaniyah, a Sud della zona ribelle, e l’ex campo profughi di Handarat, a Nord. E il ministro degli Esteri Walid al-Moualem, all’assemblea Generale dell’Onu, ha parlato di "grandi successi grazie agli amici veri", i russi. Nigeria. Ragazzini e donne usati come kamikaze dai Boko Haram, di Lidia Catalano Attentati, suicidi, saccheggi, sequestri di massa. Dal 2009 la Nigeria è insanguinata dalla ferocia dei fondamentalisti di Boko Haram. Almeno 20.000 le persone uccise in sette anni e due milioni e mezzo i civili costretti a fuggire in altre zone del Paese e negli Stati limitrofi: Niger, Chad e Camerun. A pagare il prezzo più alto della violenza jihadista sono donne e bambini. Il caso delle 219 studentesse rapite nel 2014 ha suscitato sdegno internazionale, ma altrettanto scioccanti sono i dati sui minori usati per seminare morte. Dal 2014, il totale degli attentati kamikaze compiuti impiegando bambini è di ben 86: un quarto del totale. E nell’ultimo report l’Unicef denuncia che nello Stato di Borno, roccaforte dei terroristi, 244.000 bambini sono in grave stato di malnutrizione: un drastico peggioramento rispetto ai 175.000 che si registravano a inizio 2016. Centrafrica. Gli scontri etnici spingono 10mila minori a fare i guerriglieri, di Lidia Catalano Metà della popolazione della Repubblica Centrafricana è ridotta alla fame. La Fao denuncia che circa 2,5 milioni di persone non hanno accesso a mezzi di sostentamento, una cifra più che raddoppiata nell’ultimo anni. Il conflitto esploso nel 2013 tra i ribelli musulmani del Saleka e i cristiani ha stremato il Paese e a farne le spese sono soprattutto i bambini: senza cibo, acqua, educazione, cure mediche. L’alternativa è spesso imbracciare un kalashnikov ed entrare nel sempre più vasto esercito di bimbi soldato, che secondo le stime dell’Unicef ha superato le 10mila unità. Dopo un periodo di relativa quiete seguito all’elezione a febbraio del presidente Touadera, da luglio il Paese è ripiombato in una spirale di violenza. Gli sfollati sono oltre un milione e nell’ultimo report l’Onu parla di "situazione inquietante" e di "pericolosa instabilità". Sud Sudan. Nel Paese più giovane oltre quattro milioni non hanno da mangiare, di Lidia Catalano È lo Stato più giovane del mondo - nato cinque anni fa con la dichiarazione d’indipendenza dal Sudan - ma la sua infanzia è tutt’altro che serena. In Sud Sudan il conflitto interetnico tra le truppe del presidente Salva Kiir (etnia Dinka) e i ribelli del vicepresidente deposto Riek Machar (etnia Nuer) si protrae senza tregua dal dicembre 2013 e ha già lasciato sul terreno oltre 10.000 vittime. I violenti scontri dell’8 e 9 luglio nella capitale Juba hanno aggravato a dismisura la crisi alimentare nel Paese, costringendo decine di migliaia di civili a lasciare le proprie abitazioni per cercare rifugio nel confinante Uganda. A quasi tre anni dall’inizio della guerra civile gli sfollati sono quasi due milioni. L’Unhcr denuncia che la pressione sui confini ugandesi si sta facendo sempre più forte e i centri di accoglienza sono al collasso, mentre nel Paese più di 4 milioni di persone "fanno la fame".