L’altra invasione giustizialista di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 settembre 2016 Il giusto allarme di Violante sull’eccesso di reati penali (e se lo dice lui). Luciano Violante, in un’intervista a Rocco Vazzana per il quotidiano il Dubbio, denuncia che "c’è un’invasione del diritto penale nelle nostre vite del tutto ingiustificata, perché inidonea a salvaguardare i beni della comunità e dei singoli". Sarebbe difficile trovare una definizione più appropriata di quel che comunemente si chiama giustizialismo. Ognuno può poi considerare i diversi casi di questa indebita invasione, da quella rappresentata dalle intercettazioni a strascico alla legislazione che introduce un nuovo reato, magari denominato in inglese, un mese sì e uno no. È rilevante che una persona che è stata indicata, non infondatamente, per anni come il massimo rappresentante istituzionale del giustizialismo ora lanci in modo così fermo e preciso un allarme che dovrebbe essere inteso nel suo valore profondo. L’idea che sia il diritto penale a definire gli stili di vita, i comportamenti individuali come le scelte pubbliche, in sostanza deriva da una concezione in cui non c’è spazio per la libertà e la responsabilità personale. Quello che una volta si chiamava "stato di polizia" (in realtà facendo un pò di confusione, visto che quella locuzione rappresentava uno stato che non interviene direttamente nelle dinamiche sociali ed economiche) oggi diventa uno stato penale, in cui l’invadenza delle fattispecie di reato, per giunta ampliate da interpretazioni della magistratura, arriva a definire in modo opprimente i comportamenti delle persone e delle istituzioni. Se si verificano episodi di persecuzione sul posto di lavoro si inventa il "mobbing" e il relativo reato, se si diffondono illecitamente sulla rete informatica immagini o registrazioni intime, se ne inventa un altro, il "cyberbullismo" e così via. In realtà quello che è effettivamente criminale avrebbe potuto essere perseguito con le leggi già esistenti, mentre quelle nuove servono solo a estendere in modo confuso l’area del reato, invece che determinarla in modo preciso come è richiesto in uno stato di diritto. È insieme un’illusione e un’oppressione, che finisce col limitare la libertà senza peraltro combattere i veri crimini, ed è ora che a questa tendenza ci si ribelli. Magari seguendo le indicazioni dell’ex capo dei giustizialisti. "Salviamo la riforma del processo, il governo metta la fiducia" di Errico Novi Il Dubbio, 24 settembre 2016 Intervista a Giuseppe Cucca, relatore per il "nuovo" processo penale. "È stato un lavoro lungo. Il confronto è stato vivace, anche spigoloso". A Giuseppe Cucca pare ripassino davanti agli occhi tutti e 15 i mesi spesi dalla commissione Giustizia del Senato a cercare un’intesa sulla riforma del processo. E quando gli si chiede se davvero alla fine servirà la fiducia per arrivare al sospirato sì di Palazzo Madama, lui risponde ancora con l’evocazione di quella fatica: "Il provvedimento è tra i più complessi. Pieno di insidie proprio perché pieno di contenuti. Sulla fiducia deve decidere il governo, in ogni caso va tenuto presente che il lavoro necessario è stato fatto". Non è un appello affinché Palazzo Chigi lanci un salvagente e accetti di blindare il disegno di legge, no. Però è un invito a non mandare per aria tutto il lavoro fatto, senza dubbio. Il senatore Cucca d’altronde ci ha messo la faccia, come si dice in questi casi: in questa impervia riforma del processo divide con il collega ed ex pm Felice Casson il titolo di relatore. Avvocato di Nuoro, eletto col Pd, Cucca ha più volte dato precedenza al pragmatismo delle soluzioni politiche rispetto alle proprie convinzioni personali. Come quando in commissione ha ritirato la firma dall’emendamento, suo e di Casson, che prevedeva lo stop della prescrizione in primo grado. "Con i senatori di Area popolare si è lavorato con il comune obiettivo di approvare la riforma". Ma adesso servirà la fiducia, senatore? Posso assicurare che in questo momento certezze non ce ne sono. Di sicuro la scelta è tutta in capo al governo. Nel Pd c’è chi sostiene che questo disegno di legge su prescrizione, intercettazioni, modifiche al processo penale e all’ordinamento penitenziario in fondo non è la priorità. Davvero? Non si direbbe che dal punto di vista del governo le cose stiano davvero così. Vedo una forte determinazione ad affrontare uno per uno i temi più delicati nel campo della giustizia. E in Parlamento mettiamo in pratica questa determinazione, con i tempi necessari. Sul mandato del ministro Andrea Orlando c’è un passaggio iniziale che andrebbe ricordato. A cosa si riferisce? Al suo primo intervento qui al Senato, in commissione Giustizia, dopo la nomina. Espose uno per uno tutti i passaggi che puntualmente sono diventati iniziative di legge. Dal carcere alla riforma della magistratura onoraria, una svolta epocale di cui si parlava da più di vent’anni. I risultati ci sono, il guardasigilli ha avuto una linearità ineccepibile. I tempi sul ddl penale però sono stati più lunghi, rispetto ad altri provvedimenti. Credo si debba guardare alla qualità dei risultati. Tutto è perfettibile, ma si è fatto lo sforzo di ascoltare tutte le voci, anche dell’opposizione. Mi riferisco per esempio al senatore di Forza Italia Giacomo Caliendo: sono passati ben 28 emendamenti presentati da lui, che sta all’opposizione, insieme con l’ex presidente della commissione Giustizia Francesco Nitto Palma. Ma adesso senza la fiducia rischia di sbriciolarsi tutto. O no? È il governo che decide. Posso dire che si tratta di un disegno di legge molto complesso, articolato. Sulla fiducia il governo valuterà anche in base ai tempi necessari per completare il percorso e arrivare all’approvazione. Ma la fiducia rischia di ravvivare le accuse dei Cinque Stelle, come quelle di Giarrusso secondo cui su prescrizione e altre questioni la maggioranza fa un regalo a mafiosi e corrotti? Guardi, sarà sorprendente ma le posso assicurare che l’approccio dei Cinque Stelle non è sempre quello che lei dice. Giarrusso l’ho ascoltato anch’io, giovedì mattina, intendiamoci. Ma ho ascoltato anche il senatore Buccarella. E ho sentito considerazioni ragionevoli, anche se il giudizio su singoli aspetti è diverso dal nostro. Almeno per lui non siete i fiduciari del crimine. Ma veramente, non scherziamo, l’accusa di voler salvare i corrotti è inconcepibile. Certo, c’è chi come Giarrusso la tira fuori ma c’è anche chi come Buccarella sostiene che nel provvedimento ci sono misure corrette e che però la risposta complessiva dal suo punto di vista non è sufficiente. Sulla prescrizione, per esempio. Certo. Loro sono su posizioni simili a quelle dell’Anm: stop alla prescrizione dopo la condanna di primo grado. In pratica è la stesso punto di vista di Casson. Poi hanno posizioni diverse sull’uso dei trojan horse, per esempio. Poniamo passi per esempio uno degli emendamenti Casson: è immaginabile andare avanti a costo di uno strappo nella maggioranza, di una rottura con Ncd? Abbiamo lavorato insieme, abbiamo concordato insieme un testo, non mi pare ci siano le condizioni per prevedere uno strappo di qualunque genere. Con il suo correlatore Felice Casson si è trovato in disaccordo su diverse questioni: pensa che Casson sia spinto su posizioni eterodosse solo dalle sue convinzioni di giurista o anche dall’essere schierato "a sinistra", nel Pd? Posso dire una cosa: Casson è un ottimo tecnico del diritto, una persona assolutamente preparata. Se sia condizionato anche da aspetti esclusivamente ideologici, bisognerebbe chiederlo a lui. Si poteva fare meglio, in questa riforma del processo? Tutto è perfettibile. Guardi questa è una riforma complessa, non epocale, ma non era quella l’intenzione. Si doveva regolare una materia molto ampia nel migliore modo possibile tenuto conto che nella maggioranza ci sono sensibilità diverse. Io dico che abbiamo messo un punto fermo, ecco, che abbiamo fatto compiere un grosso passo avanti verso la soluzione delle questioni più delicate nel campo della giustizia penale. È proprio la concretezza di questa evoluzione ad assegnare alla riforma un’importanza particolare. A proposito di nuove leggi: quella sul sistema elettorale per gli Ordini degli forensi consentirà davvero all’avvocatura di uscire dal groviglio dei ricorsi? Con una legge primaria si risolve il problema delle incongruenze normative che determinavano i ricorsi. Cercheremo di approvare questa riforma in tempi brevi, in modo da consentire a tutti gli ordini di ricominciare a lavorare in modo più ordinato, e mettere fine all’imbarazzo in cui si trovano i fori di tante città. "Nuova prescrizione, un’arma contro la corruzione" di Salvatore Ferro Giornale di Sicilia, 24 settembre 2016 Il presidente della Camera penale di Palermo, Zummo: "Ma in Parlamento sulla durata dei processi si rischia di escogitare rimedi peggiori dei mali" Regime della prescrizione appuntito "e in grado di contrastare più efficacemente la corruzione e gli altri reati contro la pubblica amministrazione" e la nuova disciplina sull’ammissibilità dell’appello, "sulla quale - dice il presidente della Camera penale di Palermo, Vincenzo Zummo - si rischia in Parlamento di escogitare rimedi peggiori dei mali, gonfiando la mole di procedimenti anziché snellirla". Temi portanti del convegno, oggi e domani all’Albergo delle Povere, "Giustizia: verso quali riforme", organizzato dalla Camera penale "G. Bellavista" di Palermo. Tanti i convitati di prestigio, uno quello di pietra: il difficile dibattito alla Camera sul testo licenziato dalla commissione Giustizia del Senato, sul quale la maggioranza non esprime umori omogenei. Il governo potrebbe così porre, da subito, la fiducia. Attorno al tavolo, a Palermo, oltre a Zummo e al suo predecessore emerito alla guida della Camera penale Gioacchino Sbacchi, il ministro degli Interni Angelino Alfano, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Francesco Greco, il presidente della commissione Giustizia del Senato Nico D’Ascola. Attesi pure il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, Giovanni Fiandaca e Giuseppe Di Chiara, ordinari rispettivamente di Diritto penale e Procedura penale, il procuratore aggiunto Bernardo Petralia, il presidente dell’Unione Camere penali itaiane Beniamino Migliucci. Avvocato Zumino, iniziamo dalla prescrizione. I numeri sono quelli snocciolati in primavera dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio: 667 procedimenti prescritti in un anno su 53 mila totali. Cosa cambierà? "Per fortuna, di fronte a spinte propagandiste e colpevoliste che fanno bene soltanto alla notizia facile, la commissione presieduta da D’Ascola ha svolto un eccellente lavoro, comprendendo che la prescrizione incide poco ed è un istituto necessario, il giusto prezzo della democrazia e del principio costituzionale della ragionevole durata dei processi. Per tacere del principio di obbligatorietà dell’ azione penale che per noi non si tocca e che dimostra, come del resto hanno fatto seri studi europei, quanto sia laboriosa la magistratura italiana e, in funzione del rispetto della legalità, in particolare quella palermitana. Soprattutto, la prescrizione non è quella mala pianta che alcuni descrivono, in grado di deturpare il processo penale. In pratica, fatta eccezione per i reati più gravi che non hanno un "tetto", nelle intenzioni del legislatore tutto resta com’è, eccetto per corruzione e reati contro la Pubblica amministrazione. Oltre alla cosiddetta soglia di salvaguardia del minimo di 6 anni, si guarda il massimo della pena prevista dalla legge e si aumenta di un quarto. Per i reati di corruzione si calcolerà invece un aumento della metà. Esempio, la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio - pena massima 10 anni - si prescriverà in 15 anni. Ma resta un problema". Quale? "La ragione dell’inasprimento per la corruzione è l’invito esplicito da parte dell’Europa per quei reati e non altri. Invece è rimasta a galla la proposta, per tutte le fattispecie, sulla sospensione di un anno e mezzo dei termini di prescrizione dopo la condanna, sia di primo sia di secondo grado. Significa tre anni in più: per noi, sintomo grave di colpevolismo, capace di ingolfare ulteriormente ciò che la riforma dichiara di voler snellire. Un’altra norma discutibile, invece, è stata "sminata": la prescrizione continua a decorrere dall’accertamento del reato e non dall’iscrizione della notitia criminis. Fa eccezione solo la tutela del mino -re maltrattato: qui decorrerà dall’iscrizione o dalla maggiore età". Passiamo all’appello. "Paradossalmente, nel tentativo di limitare i ricorsi, si incappa nel pericolo opposto di ingolfare. Attualmente si possono appellare tutte le sentenze, con una "concisa" - dice la legge - indicazione dei motivi. La riforma vorrebbe invece l’indicazione di tutte le prove ritenute inesistenti o di cui è stata ammessala fondatezza, oltre a quelle per le quali è stata omessa l’assunzione o la valutazione. Una mole di carta che, fra l’altro, svuoterebbe di senso il dibattimento. E poi c’è il controsenso più pesante, dal nostro punto di vista di avvocati: la Camera voterà sull’appellabilità da parte del pm della sentenza di proscioglimento emessa dal giudice dell’udienza preliminare. E, come se non bastasse, se la norma passa, la Corte d’appello che accogliesse il ricorso del pm, sarebbe chiamata a emettere il decreto di citazione a giudizio. L’organo giudicante che rinvia a giudizio. Per noi è una confusione fra arbitri e giocatori che il legislatore dovrebbe disinnescare". Quei processi infiniti non sono da "Stato di diritto" di Tania Rizzo (Segretario Nazionale Aiga) Il Dubbio, 24 settembre 2016 L’appuntamento congressuale dei Giovani Avocati di Aiga dei giorni 22, 23 e 24 settembre 2016 si aprirà con il convegno nazionale dal titolo "Processo penale: una riforma tra giustizia e società" nel quale interverranno Paola Balducci, componente laico del Csm, Emilia Rossi, componente del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, Antonella Marandola, docente di diritto processuale penale, Fausto Cardella, procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia, Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, e Luigi De Ficchy, procuratore a Perugia. Nel corso dell’evento sarà trattata la riforma del processo penale, il cui esame in aula parlamentare è calendarizzato per il 20 settembre, nei vari aspetti salienti del testo approvato dalla Commissione Giustizia del Senato. L’Aiga ha partecipato al dibattito politico sulla riforma del processo penale tramite un ricco e puntuale documento di riflessioni tecnico-giuridiche e socio-culturali sul testo del DDL 2067/S, inviato nel mese di giugno scorso all’attenzione della Commissione Giustizia del Senato, con il quale sono state segnalate le seguenti premesse indefettibili: "Il diritto ad essere sottoposti ad un processo giusto ed equo, anche vagliato dal giudice naturalmente precostituito per legge; il diritto ad una difesa piena, in parità processuale di armi con la pubblica accusa; il diritto ad assistere fisicamente al processo penale nel quale si è imputati, anche per interloquire con il proprio difensore; la necessità che restino fermi i limiti alle intercettazioni di comunicazioni e al loro utilizzo processuale; la necessità che la prescrizione dei reati non si allunghi e non venga sospesa quale stimolo per lo sviluppo effettivo del processo; la necessità che non si versino a carico dei cittadini le problematiche organizzative del carico di lavoro della magistratura; e ancora, il diritto alla salute, il diritto a non essere trattati in modo avvilente quando sottoposti in stato di detenzione; il diritto a lavorare ed a essere correttamente retribuiti, anche se detenuti; abbattimenti fiscali per imprese private che prevedono posti di lavoro per detenuti o ex detenuti; lo scopo risocializzante della pena anche come momento di rilancio culturale del nostro paese". Inoltre, l’Aiga ha ribadito, con un comunicato stampa del 4 di agosto u. s., i propri rilievi critici su: il complessivo inasprimento delle pene che nulla aggiunge in termini di effettività della tutela penale ma che sembra, piuttosto, ispirato dall’ansia di risposta dell’opinione pubblica rispetto a fatti di indubbia rilevanza sociale; La nuova disciplina sulla prescrizione, la quale prevede un aumento del periodo massimo di interruzione per particolari categorie di reati e lunghissimi periodi di sospensione in pendenza dei giudizi di impugnazione, non tenendosi, invece, in considerazione che lo Stato deve assicurare la definizione del processo entro termini "ragionevoli" e che non è possibile legittimare attraverso un simile combinato disposto pendenze giudiziarie potenzialmente sine die. Le disposizioni in tema di "partecipazione a distanza" al processo, con riferimento alle quali pare evidente il contrasto con princìpi di rango costituzionale e sovranazionale: su tutti, quelli sanciti dall’art. 6 della Convenzionale Europea dei Diritti dell’Uomo; La delega al Governo in materia di riforma delle intercettazioni, la quale ? pur animata dalla apprezzabile finalità di tutelare maggiormente la riservatezza e la dignità della persone coinvolte dall’attività di indagine ? attribuisce in via esclusiva al Pubblico Ministero il potere di selezionare il materiale ritenuto rilevante ai fini delle indagini, confinando l’attività difensiva di ricerca della prova dell’innocenza negli angusti (e spesso concretamente insormontabili) limiti del mero ascolto presso gli archivi della Procura, senza diritto di estrazione di copia (art 35 lett. a n. 2). Non si trascuri, poi, il macro tema dell’ordinamento penitenziario, sul quale l’intervento del Garante Nazionale per i diritti dei detenuti, da pochi mesi definito nei suoi componenti, risulta di estrema complessità e difficoltà stante l’annosa indifferenza (rectius emarginazione) nel dibattito politico dei diritti dei detenuti e delle persone ristrette, fino all’intervento europeo di condanna. La riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario, dunque, è necessaria? Per L’Aiga la risposta non può che essere affermativa per quanto concerne i punti, ancora oggi, soggetti a continue e disomogenee interpretazioni giurisprudenziali, senza trascurare, però, la necessità che ogni riforma deve essere frutto di riflessioni sulla "tenuta" dell’intero impianto sistemico. L’uomo a terra nel vagone vuoto: l’orrore della nostra indifferenza di Paolo Graldi Il Messaggero, 24 settembre 2016 Roma che subisce una catena di violenze quotidiane, ferita e sovente senza difesa, quasi arresa davanti a tanta ferocia, un frammento di questa Roma è documentato in un video choc pubblicato dal sito on line del Messaggero. Un video divenuto immediatamente virale. Un documento che riapre con urgenza l’imponente questione della sicurezza smarrita nelle strade della Capitale, sugli autobus, nella Metro. Il fatto di sangue (perché solo così si può definirlo) è racchiuso in una sequenza di immagini sconvolgenti: un minuto e 55 secondi che vanno visti e rivisti, mandati al rallentatore, studiati fotogramma per fotogramma. Un documento visivo che il Messaggero.it ha diffuso ieri grazie ad uno scoop di Rino Barillari, "The King", il re dei paparazzi, un’intera vita a cogliere e mostrare i mille volti della città, e che documenta l’aggressione subìta da una madre e dal figlio in un vagone della Metro B, sotto piazza Bologna il 18 settembre. Maurizio Di Francescantonio e la madre sessantenne: lui, tuttora ricoverato al Policlinico Umberto I con gravissime lesioni al cranio. Operato quand’era in fin di vita. Il fatto di sangue è noto, la notizia ha avuto la giusta eco su giornali e tg, e tuttavia l’aggressione bestiale di tre giovani casertani ai quali Maurizio si era rivolto chiedendo di "smettere di fumare, qui non si può", si dispiega attraverso le immagini raccolte dalla telecamera di servizio installata all’interno del vagone. Di più. È chiara l’intenzione di rispondere a botte selvagge a quel richiamo civile e garbato. Uno dei tre si è caricato di rabbia, è uscito dal vagone ed è rientrato da una diversa porta per fronteggiare il malcapitato: calci con tacco delle scarpe sul viso, sul torace, sferrati per uccidere, intrisi di ferocia da commando di picchiatori professionali. Poi la fuga mentre il vagone si svuotava, i passeggeri impauriti, sgomenti per lo svolgersi fulmineo dell’aggressione. Fatti loro, chissà perché si azzuffano così, hanno pensato in molti guadagnando l’uscita e lasciando quell’uomo rantolante, gemente, tramortito, incapace di rialzarsi, quasi preda di una crisi motoria che gli faceva scattare le gambe in cerca di un impossibile appoggio. E, accanto a lui, la madre, anch’essa aggredita per essersi avventata a difendere il figlio: sbattuta a terra da quegli energumeni. La scena di Maurizio solo e svenuto nel vagone improvvisamente vuoto racconta molto. Di sfuggita, sulla pensilina, si nota lo sguardo curioso e frettoloso ma anche autenticamente impaurito dei viaggiatori. Ma è un fatto che sgomenta: sono scappati tutti, a gambe levate, come se nulla di quel che avevano appena visto li riguardasse minimamente, come se nessuno sentisse il dovere, almeno ad aggressione esaurita, di avvicinarsi a quel disgraziato per tendergli una mano, accoglierlo tra le braccia, gridare aiuto a più non posso, e magari qualcun altro a mettersi sulle tracce di quel terzetto, cercare di fermarlo o di sbarrargli la strada. Maurizio è rimasto a terra da solo in quel vagone che si è improvvisamente svuotato: non una strada buia, di notte, con chissà quali nemici da fronteggiare. Ma un vagone della Metro, di giorno, con centinaia di persone intorno. È l’indifferenza diffusa ancorché in qualche misura comprensibile, che indigna: quella sì, l’indifferenza che si lascia vincere dalla paura impaurisce, ci rende sempre più estranei gli uni agli altri, ci avvolge in una cortina di egoismo, dentro la quale ciascuno si ripara dall’obbligo della solidarietà verso il prossimo che chiede ed ha bisogno di aiuto. È una constatazione che amareggia e, questa sì, impaurisce perché segnala un degrado intenso dei rapporti di civiltà e di reciproco rispetto. Abbandonare a sé stesso quell’uomo così gravemente ferito pone il problema di un’etica della convivenza che si affievolisce. Eppure, in quella carrozza della metropolitana c’erano anche giovani, studenti, uomini fatti. Qui non si pensa ad atti di eroismo, a gesti di sacrificio, di coraggio: è il comportamento di normale civismo che viene meno, che manca. Estranei tra gli estranei, vittime noi stessi della nostra indifferenza. Anche questo è un pestaggio. Poi i tre pregiudicati, grazie a un’indagine lampo del commissariato di Porta Pia, sono stati acciuffati. Sballati si aggiravano nella zona. Erano gonfi di droga e di alcol, "strafatti" in gergo, la serata passata ad un rave party all’Eur, un’intera notte tra schiamazzi musicali e poi il ritorno barcollante verso casa, dove li conoscono bene: rapina e spaccio. Ora, (per ora), restano in carcere. Il filmato sarà un prezioso supporto, indiscutibile, per i giudici che si sono trovati di fronte a tre bulli sfrontati che interrogati continuavano a negare l’evidenza dei fatti. Lo scoop giornalistico di Rino Barillari offre a tutti materiale per riaccendere con forza la questione della sicurezza. Egli stesso, cinque anni fa, fu aggredito e mandato all’ospedale con un femore spezzato, una gravissima frattura, per aver difeso di notte, a piazza Navona, una ragazza malmenata dall’ex fidanzato. Sempre della serie: fatti gli affari tuoi. Ma è la sequenza infinita di violenze che sgomenta e richiede un’azione diffusa e determinata. Un gruppetto di ragazzini fanatizzati, l’altro ieri, ha risposto con la violenza, anche qui calci e pugni e sputi, ad un autista di autobus che ricordava il divieto di fumare con l’invito a scendere. Una baby gang talmente arrogante che poi si è messa a danneggiare l’autobus, scatenando in tutta la potenza la violenza del gruppo. Una inchiesta giornalistica ancora calda ci segnala che su 110 colonnine di Sos ne funzionano 22, che la presenza di agenti sul territorio, specie alle stazioni della Metro, in particolare alle fermate sotterranee è pressoché inesistente e dunque l’idea dell’agente di prossimità, vicino alla gente, in mezzo alla gente, subisce un colpo durissimo. Quei territori divengono terra di nessuno, o meglio praterie per borseggiatori e zingari in bande organizzate che attaccano e derubano in particolare gli stranieri. Si tratta di un’emergenza, al pari di quella dei rifiuti e dei trasporti. Gli arresti, che pure avvengono, non sfiorano neppure la intensità e la vastità del fenomeno degli scippi e delle rapine: si ammette, ormai, che è inutile denunciarli. È chiaro che le tecnologie, come anche dimostra il caso dei tre casertani, divengono indispensabili e la loro capillare diffusione un elemento di utile controllo del territorio: migliaia di occhi vigilanti rassicurano. È la presenza fisica delle forze dell’ordine, impegnate in una difficile incombenza sulla sicurezza generale, a mostrare un vuoto che va colmato. Se è vero che la sicurezza è un prodotto e come ogni prodotto costa è inevitabile pagarne i prezzi affinché il prodotto sia buono. Spiato più di Riina. Storia di un’inchiesta fondata sul nulla di Errico Novi Il Dubbio, 24 settembre 2016 Un milione di euro per intercettare il nostro Jacobazzi. Guardo Giovanni e mi chiedo: ma come fa? Da quasi 7 anni un procedimento penale gli tiene sequestrata la vita eppure ne parla col sorriso. Penso: è stato un servitore dello Stato, un militare dell’Arma, ha fiducia cieca nella giustizia. Però 6 anni sono tanti, uno stillicidio, iniziato con 40 giorni di carcere. Ascolto i suoi racconti e capisco che solo la fede aiuta a credere anche nel diritto. Almeno quando l’attesa di vedersi riconosciuti innocenti dura tanto da spezzarti il respiro. Giovanni Maria Jacobazzi è una delle più importanti firme di questo giornale, fino al 24 giugno 2011 è stato il comandante della polizia municipale di Parma. Quel giorno lo arrestano sulla base di accuse che a leggerle sembra di trovarsi davanti al caso del secolo: corruzione, tentata concussione, peculato, abuso d’ufficio. Ieri dopo sette anni, Giovanni per la prima volta parla in udienza davanti al giudice, ancora al primo grado del processo. E per la prima volta si scoprono le carte delle accuse a suo carico: e il gelo cala ancora più pesante. Perché a un orecchio appena addestrato si capisce che la consistenza degli addebiti è invisibile. È chiaro dall’esame del teste chiave, il generale della Guardia di Finanza Guido Geremia. Incalzato dalle domande di un difensore del calibro di Roberto Lassini, il generale ammette che i suoi uomini neppure verificarono se sui conti correnti risultava l’assegno con cui Giovanni aveva regolarmente pagato dei lavori edili segnalati dall’accusa come contropartita di una presunta corruttela. Nonostante si tratti dell’investigatore che aveva coordinato le indagini, al controesame viene pronunciata una quantità impressionante di "non ricordo". Emerge che secondo i capi d’imputazione Giovanni da capo dei vigili avrebbe indotto un presunto correo a una sovrafatturazione, ma che in realtà non poteva essere lui a stabilire l’importo della commessa. Al pm Lucia Russo, Geremia dichiara che le sue verifiche avrebbero accertato come l’indagato avesse annullato alcune multe a proprio carico nonostante l’auto privata in questione fosse sicuramente utilizzata al di fuori delle funzioni d’ufficio. Ma quando l’avvocato Lassini gli chiede se in quel periodo Giovanni fosse già intercettato, viene fuori che no, che il telefono sarebbe stato messo sotto controllo solo un anno dopo, e che dunque "non siamo in grado di dire dove fosse l’auto in questione al momento delle contravvenzioni". A proposito di intercettazioni, i telefoni del nostro giornalista sono stati sotto controllo per oltre dieci mesi ininterrotti, per l’astronomico costo di un milione di euro, già notificato in fattura all’imputato. Sette anni di vita, un milione di euro, un arresto in diretta e la perdita dell’incarico, per questo, per accuse che alla prova del dibattimento evaporano in un istante. In un clima non surreale, ma kafkiano. Perché nel retropalco di questa storia c’è una pm, Paola Dal Monte, che secondo la Procura di Ancona avrebbe dovuto astenersi dall’inchiesta, e che potrebbe essere chiamata addirittura a rispondere di abuso di ufficio. Il marito della inquirente, Alberto Cigliano, dirigente di polizia, è esaminato e bocciato da Giovanni a fine 2009, a un concorso per assumere un ruolo semi-dirigenziale all’interno dell’ufficio di Parma da lui guidato. Pochi giorni dopo Dal Monte indaga Giovanni. E, nel giugno successivo, Cigliano fa domanda per il posto ancora occupato da Jacobazzi. Il quale guarda caso due settimane dopo è in manette. Secondo i magistrati di Ancona, il fascicolo per abuso a carico della pm Dal Monte potrebbe riaprirsi, se le accuse a Jacobazzi si rivelassero inconsistenti. Lei ha lasciato l’indagine, ma i pm che le sono subentrati e lo stesso collegio giudicante sanno che se Giovanni esce assolto la loro collega rischia il processo. Uno stillicidio, appunto. Che solo la fede, non quella nella giustizia, può aiutarti a reggere. Non si può negare la patente di guida al pregiudicato di Dario Ferrara Italia Oggi, 24 settembre 2016 Impossibile negare la patente di guida al pregiudicato, che pure ha sulle spalle una condanna definitiva a sei anni di carcere. E ciò perché la Motorizzazione civile non solo deve motivare il diniego ma deve far precedere il provvedimento da un atto in cui comunica le ragioni che impediscono la concessione. È quanto emerge dalla sentenza 1409/16, pubblicata dalla quinta sezione del Tar Campania. L’ufficio Mctc impedisce al pregiudicato di sostenere la prova pratica per ottenere la patente A3. E la spiegazione è che ci sarebbe una comunicazione via Pec del ministero dei Trasporti a precludere il conseguimento del titolo al richiedente. Il punto è che il provvedimento non spiega che cosa risulta al database delle Infrastrutture come motivi ostativi alla concessione della licenza di guida. L’articolo 120 Cds esclude che possano avere la patente di guida le persone sottoposte a misure di sicurezza personali o di prevenzione, oltre che i condannati per reati di droga e i destinatari dei divieti previsti dal testo unico sugli stupefacenti. Ma la condanna sul casellario giudiziale dell’interessato riguarda altri delitti, mentre il certificato dei carichi pendenti è immacolato. Il tutto mentre il contenuto della comunicazione ministeriale resta segreto. Insomma: non si capisce che cosa impedisce al richiedente di fare l’esame e il provvedimento viene annullato non solo per il vizio di motivazione ma anche per carenza di istruttoria. Spese di giudizio compensate per gravi ed eccezionali motivi. Toscana: suicidi in carcere. La Regione "verificheremo le condizioni di vita dei detenuti" tenews.it, 24 settembre 2016 È iniziata con il cordoglio per i drammatici episodi di Grosseto e Lucca la visita della commissione regionale Sanità, presieduta da Stefano Scaramelli alla Casa di reclusione "Pasquale De Santis" di Porto Azzurro. Con il presidente erano presenti i commissari Enrico Sostegni e Nicola Ciolini a cui si è unito anche Gianni Anselmi, presidente della commissione Sviluppo economico del Consiglio regionale. "Con questa visita è partita la verifica delle condizioni di vita dei reclusi nelle strutture penitenziarie toscane", ha spiegato Scaramelli. "L’invito a partecipare a queste visite, esteso a tutti i commissari, è volto a constatare in prima persona lo stato di salute, le condizioni sanitarie, i processi rieducativi e i percorsi formativi intrapresi o meno nelle carceri toscane per migliorare la qualità della vita di queste persone e mettere tutti i rappresentanti dei cittadini nelle condizioni di avere le stesse possibilità di conoscere e analizzare la situazione carceraria". "La rieducazione dei condannati - ha proseguito Scaramelli - deve essere l’obiettivo, e l’ossessione, di una regione come la nostra, la Toscana, baluardo nel mondo e nella storia dei diritti civili e umani". Nella casa di reclusione di Porto Azzurro, i consiglieri regionali hanno visitato la struttura e analizzato caratteristiche e criticità con il direttore Francesco D’Anselmo, il dirigente sanitario Giovanni Martini e il Garante dei detenuti Nunzio Marotti. La casa di reclusione attualmente conta 233 detenuti (dato al 31 agosto 2016), su una capienza di 300 persone, con un’età media di 45 anni. A spiegare come vivono i detenuti al carcere di Porto Azzurro è D’Anselmo: "Il primo e il secondo reparto sono aperti. Ogni detenuto di questi reparti vive in un carcere aperto, cioè può lavorare. Il terzo reparto è di osservazione, ovvero in una situazione atta alla valutazione della capacità di ogni soggetto di integrarsi e convivere con gli altri. Ogni detenuto del primo e secondo reparto - continua D’Anselmo - per il pernottamento ha una cella propria di nove metri quadri con doccia interna. Non la totalità delle celle ha questa dotazione, ecco perché parte dei 4 milioni di euro stanziati dal Ministero saranno destinati anche all’adeguamento delle aree di pernottamento". Una situazione, quella del carcere di Porto Azzurro in cui non sussistono particolari criticità e nella quale, mentre altrove in Toscana si registrano gli ultimi tragici episodi di questi giorni, l’ultimo suicidio risale al 2001. Sul fronte sanitario si contano 21 operatori, tra medici e infermieri, attivi alla casa di reclusione di Porto Azzurro, consulenza psicologica per 60 ore e psichiatrica per 3 giorni a settimana. Sull’aspetto sociale è intervenuto Nunzio Marotti, Garante dei detenuti di Porto Azzurro. Marotti ha chiesto di "sostenere questo carcere perché qui ci sono molte possibilità di realizzare azioni volte alla formazione e al lavoro". Dell’importanza di formazione e lavoro ha parlato anche il presidente Gianni Anselmi: "La condizione carceraria improntata al reinserimento nella società, si realizza attraverso azioni di promozione della formazione professionale e con la pratica, durante la detenzione, di esperienze lavorative. L’obiettivo è la rieducazione dei carcerati. In questo senso è molto interessante, e da valorizzare, il progetto di lavoro che alcuni detenuti di Porto Azzurro portano avanti sull’isola di Pianosa. Vi rientrano i corsi di formazione per la pratica agraria, che fa eco al progetto che a breve potrebbe essere realizzato sulla formazione per potatori e per i lavori in vigna". Toscana: gli psicologi "i suicidi dei detenuti drammatica espressione di un’emergenza" gonews.it, 24 settembre 2016 "I suicidi sono la più drammatica espressione di un’emergenza di cui sono complici il sovraffollamento delle carceri, l’uso indiscriminato della soluzione detentiva per affrontare problemi di natura sociale e psichica, la presenza massiccia di persone in attesa di giudizio che si trovano a vivere una condizione in cui sono totalmente assenti stimoli alla crescita personale e requisiti essenziali di vivibilità". A sottolinearlo Lauro Mengheri presidente dell’Ordine degli psicologi della Toscana dopo i due ultimi episodi di suicidio nelle carceri toscane. La Toscana è la regione con il numero più alto di fenomeni di autolesionismo in carcere (1.047 episodi) e di tentati suicidi sventati dagli agenti (112). I suicidi nel 2015 in Italia sono stati 43, 25 fino ad agosto 2016, 10 quelli degli agenti di custodia. Questa la fotografia attuale realizzata dal Gruppo di Lavoro di Psicologia Penitenziaria dell’Ordine degli Psicologi della Toscana (450 gli psicologi che lavorano nelle carceri italiane), istituito nel 2014 per rispondere ad alcune problematiche che colpiscono i professionisti operanti nel contesto inframurario nonché i detenuti. In 15 anni i detenuti suicidatisi in Italia sono saliti a 912, e oltre 100 sono stati i suicidi tra il personale di polizia penitenziaria. In Toscana sono 18 gli istituti penitenziari per una capienza regolamentare di 3.406 persone. I detenuti (dato di giugno 2016) sono 3.211 (affollamento 94,27%) di cui 1.496 stranieri (il 46,59%). In Toscana nel 2015 erano 415 i detenuti in attesa di primo giudizio, 271 condannati non definitivi e appellanti 271 e 148 ricorrenti. I condannati definitivi 2.297, 113 gli internati. "Una realtà - spiega Benelli referente del gruppo di lavoro psicologia penitenziaria - che spesso finisce per mettere a repentaglio il benessere delle persone che vivono in questo contesto". Abruzzo: carceri sovraffollate, è possibile attuare la finalità rieducativa dei detenuti? di Claudia Castelli histonium.net, 24 settembre 2016 Pessima condizione quella delle carceri in Abruzzo, e per di più con grave carenza di personale. Ottime le attività di rieducazione, ma pochi i fondi a disposizione. Il sovraffollamento delle case di reclusione è una realtà cruda e difficile da sopportare per gli innumerevoli detenuti. Questa è la situazione negli otto carceri presenti sul territorio abruzzese, quelli di Avezzano, L’Aquila, Lanciano, Pescara, Sulmona, Teramo e Vasto, monitorata dall’associazione Antigone, che dal 1995 è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare tutti i 205 istituti di pena italiani. Il sovraffollamento crea atmosfere pesanti all’interno delle carceri sia per quanto riguarda la condizione esistenziale dei detenuti sia per l’eccessivo carico di lavoro che le guardie penitenziarie si trovano a dover quotidianamente affrontare. Negli ultimi anni nelle otto carceri abruzzesi si sono registrati 8 casi di suicidio, 31 di tentato suicidio e 118 di autolesionismo. Altra problematica riguarda i percorsi lavorativi, i quali non trovano vita a causa della scarsità di risorse e spazi adeguati. Il carcere di Vasto, per esempio, nel 2013 è diventato Casa di lavoro, e vi vengono trasferiti tutti gli internati soggetti alla misura di sicurezza detentiva ristretti a Sulmona. A mancare sono le risorse economiche utili a garantire la retribuzione minima ai detenuti. Non bisogna dimenticare che nel carcere dell’Aquila sono presenti carcerati che sono sottoposti al regime del 41 bis, il cosiddetto carcere duro previsto per reati di mafia e terrorismo. E proprio qui che crescono le difficoltà. Nel supercarcere aquilano Francesco Schiavone, cugino dell’omonimo e più noto esponente della camorra conosciuto come "Sandokan", ha tentano il suicidio per ben due volte. Nello stesso istituto nell’ottobre del 2009 si è suicidata la brigatista rossa Diana Blefari. L’attuale art. 1 dell’Ordinamento Penitenziario statuisce che: "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". Occorre ricordare che il comma 2-quater dell’art. 41- bis prevede che "i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione" siano "ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto". La sfida più grande resta una sola: è davvero possibile attuare una concreta rieducazione dei detenuti? Sicilia: opportunità di lavoro per detenuti grazie al Po 2014/2020 di Michele Giuliano Quotidiano di Sicilia, 24 settembre 2016 Rafforzare l’integrazione sociale delle persone fra i 18 e i 64 anni di età in carcere o ai domiciliari. L’assessore Micciché: "Contribuire al processo di riforma del sistema penitenziario". Una nuova opportunità per chi, in passato, ha avuto problemi con la legge. Un modo per integrarsi nuovamente in società, una strada per ricominciare nella legalità e nell’onestà. Questi gli obietti del primo bando a valere sulla nuova programmazione Po 2014/2020 finalizzato "a rafforzare l’integrazione sociale delle persone, di età compresa fra i 18 e i 64 anni, in esecuzione penale intramuraria ed esterna, attraverso azioni integrate di orientamento, formazione e accompagnamento all’inserimento occupazionale, comprensivo di tirocini lavorativi in imprese e laboratori tecnici". Lo comunica lo stesso assessore regionale al Lavoro, Gianluca Micciché, orgoglioso di questa nuova azione, dalla duplice valenza, economica, di reinserimento al lavoro ma anche umana, di empatia e vicinanza al prossimo. Il bando, denominato Avviso 10, la cui copertura finanziaria si concretizza in quasi 11 milioni di euro, è aperto agli enti di formazione, alle agenzie per il lavoro, agli organismi del terzo settore (cooperative sociali, enti senza scopo di lucro e associazioni) e alle imprese che operano in favore della rieducazione e dell’inserimento sociale. "Vogliamo contribuire a sostenere il processo di riforma che sta interessando il sistema penitenziario italiano, e siciliano in particolare - scrive l’assessore Micciché - sistema che identifica nel lavoro lo strumento principale su cui fondare il percorso rieducativo della pena. Puntiamo su un percorso riabilitativo che parta dalla persona e si concluda nell’esperienza lavorativa e soprattutto che porti all’abbandono di una carriera sviante in favore della costruzione di un futuro". L’avviso, che coinvolge soggetti ancora in condizione di carcerazione o che stanno scontando la pena ai domiciliari, verrà naturalmente attuato in stretta collaborazione col ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le modalità di svolgimento delle attività sarà regolato da un apposito protocollo d’intesa, in fase di sottoscrizione, tra le istituzioni regionali e nazionali, per la realizzazione di una partnership che parta dalla valutazione congiunta delle proposte progettuali e che prosegua fino al monitoraggio della realizzazione dei progetti selezionati. Gli istituti penitenziari e gli uffici dell’esecuzione penale esterna interessati dovranno essere pertanto essere coinvolti attivamente in tutte le fasi di svolgimento dell’Avviso, al fine di verificare il fabbisogno e la sostenibilità organizzativa dell’operazione progettuale, per poter garantire la coerenza della proposta con le esigenze connesse all’organizzazione del personale e della sicurezza interna degli istituti e l’integrazione del percorso trattamentale dei soggetti in esecuzione penale che parteciperanno al progetto. L’avviso 10/2016 è scaricabile sul sito istituzionale del Dipartimento Famiglia all’indirizzo regione.sicilia.it/famiglia, sul sito internet www.sicilia-fse.it e, dal 16 settembre, sulla Gazzetta ufficiale. Gli enti interessati all’Avviso dovranno dimostrare di avere sul territorio siciliano una sede direzionale e organizzativa permanente e di almeno una sede di erogazione, di possedere affidabilità economica e finanziaria, e le capacità tecnico-professionali e organizzative tali da garantire il regolare svolgimento delle attività previste nell’ambito della proposta progettuale presentata. Gli enti che usufruiranno del finanziamento per lo svolgimento del progetto dovranno accettare le indagini tecniche e i controlli che la Regione e gli altri organi competenti potranno effettuare nel corso delle attività progettuali. Lazio: visita alla C.C. di Frosinone da parte del Garante regionale dei detenuti Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2016 Proseguono le visite conoscitive presso gli istituti penitenziari del Lazio, da parte del Garante Stefano Anastasia, che oggi venerdì 23 settembre nel primo pomeriggio, si recherà insieme ai due coadiutori Sandro Compagnoni e Mauro Lombardo oltre alcuni membri del suo staff, presso la Casa Circondariale di Frosinone. Attualmente questo luogo detentivo ospita circa 550 detenuti raggruppati in due strutture, un vecchio padiglione dove sono divisi in diversi reparti e sezioni, per reati comuni, disagio psichico, tossicodipendenti, precauzionali e collaboratori di giustizia, e uno nuovo che accoglie tra l’altro anche detenuti di sezioni Alta Sicurezza. All’interno della struttura sono presenti due infermerie, una ludoteca, sei sale colloqui, un’area verde in fase di realizzazione e un campo da calcio da quattro anni utilizzato anche dalla squadra di rugby. Un’ampia area interna è destinata alle lezioni scolastiche, sono presenti inoltre un laboratorio per corsi di pasticceria, informatica, ceramica, anche se spesso le attività devono essere alternate per mancanza di personale. Tra le problematiche riscontrate nel corso degli anni e più volte segnalate dai detenuti, figurano l’inadeguatezza e i ritardi nell’assistenza sanitaria, vedi i lunghi tempi d’attesa per le visite specialistiche interne e per gli esami diagnostici esterni oltre che per le cure odontoiatriche. Non ultimo il fatto che Frosinone sia un carcere "cerniera" dove arrivano persone da carceri di Roma e della Campania, che perennemente necessitano di essere svuotati, e questo crea una perenne situazione di tensione tra i detenuti e un elevato numero di richieste di trasferimento. Campania: "i baby-soldati della camorra, sono quattromila in tutta la Regione" di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 24 settembre 2016 Centomani, coordinatore delle carceri minorili: "Misso ha ragione, vengono utilizzati dai clan". Quattromila minori a rischio in tutta la Campania e ogni anno aumentano sempre di più. Ragazzini che possono finire nelle mani della camorra. "Baby-soldati, come in Africa, che non hanno paura di morire perché la loro vita è qui e ora e non domani. Però non chiamateli boss". Giuseppe Centomani ha 60 anni e più della metà della sua vita (32 anni) l’ha passata con minorenni che "inciampano nella giustizia". Li chiama i "nostri ragazzi", perché il problema non è del singolo ma proprio "di tutti". Le paranze dei bambini, le stese della camorra e i killer di vent’anni che ammazzano per 500 euro. "Ha ragione quando l’ex boss Giuseppe Misso dice che sono manipolati dagli adulti". Centomani è al vertice del Centro di Giustizia minorile della Campania e gestisce il lavoro dei due istituti di pena (Airola e Nidisa), delle comunità di accoglienza e dei centri di assistenza sociale che "ospitano minori dell’area penale". I numeri, perché sono quelli che danno sostanza al fenomeno: "Cento reclusi a Nisida, circa 90 ad Airola, 100 in comunità, e 2mila i servizi di assistenza sociale". Ma non è tutto: "Stimiamo che i minori a rischio sono molto, ma molto di più. Il 40 per cento dei reati che commettono non vengono perseguiti perché non sono individuati i responsabili". Almeno quattromila di loro che potrebbero finire nelle mani della camorra. Pistole in pugno e terrore: i ragazzi delle paranze sono davvero camorristi? "Non regaliamo una etichetta da camorrista a questi ragazzi. La paranza dei bambini, i ragazzi che stanno in carcere e che fanno parte di questa banda, sai come la chiamano tra di loro? La paranza degli scemi. Perché hanno capito di essere stati usati". Cosa è successo in questi anni a Napoli? "La delinquenza minorile è stata trattata esclusivamente per fini strumentali e sul piano politico. Ci dicono tutti i giorni che dobbiamo salvarci da questo tsunami di delinquenza e rendere sicura questa città: presidiare le strade con l’Esercito dai branchi di giovani senza speranza. Tutto ciò ha inquinato la percezione del reale problema della devianza minorile che è soprattutto sociale". Perché sono così facilmente attratti dai boss? "I clan li fanno sentire importati, li riempiono di affetto. I boss creano un rapporto animale, affettivo. Li educano in maniera potente e i ragazzi spesso dicono: "quello per me è un padre, io darei la vita per lui". Basta sentirsi accettato per poter cadere nella trappola dei clan? "Nove su dieci di questi ragazzi hanno una esperienza negativa del rapporto con la scuola. Le famiglie non hanno mai costruito alleanze con insegnati. Il ragazzo percepisce che non è "buono" e che per esempio come studente è una schifezza. Poi frequenta altri contesti fuori dalla scuola e riesce. Si sente accettato, realizzato, rispettato". Non hanno percezione del pericolo di quello che fanno? "I soldati più pericolosi delle bande africane sapete chi sono? I baby-soldati. E perché? Perché non hanno paura e non si rendono conto di cosa stanno facendo. Qui è così. Loro non hanno paura perché sono come i baby-soldati africani: non hanno percezione dell’ingranaggio mortale nel quale sono finiti". Esiste un’opera di prevenzione possibile? "Io sono contrario al concetto di prevenzione, occorre invece la promozione sociale. Non si deve prevenire qualcosa che dai per scontato che esiste ma promuovere la qualità della vita di questi ragazzi". Se non sono allora camorristi, killer, se loro stessi quando capiscono di essersi rovinati si chiamano "scemi", questi ragazzi cosa sono? Lei come li definirebbe? "Sono solo ragazzi". Roma: centenario di Aldo Moro, i detenuti di Rebibbia digitalizzano carte dei processi di Laura Bonazzi 2duerighe.com, 24 settembre 2016 Saranno i detenuti del carcere di Rebibbia a digitalizzare le carte dei processi per il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Il progetto è stato presentato oggi in occasione del centenario della nascita dello statista, nato, infatti, a Maglie, in Puglia, il 23 settembre 1916, rapito e assassinato dalle Brigate rosse nel 1978. Aldo Moro è tra i personaggi più discussi e conosciuti della nostra politica; fu tra i fondatori della democrazia cristiana che rappresentò all’Assemblea Costituente e di cui divenne segretario nel 1959. Ricoprì più volte l’incarico di ministro - della Giustizia, dell’Istruzione e degli Esteri-; nel 1963, a 47 anni, divenne presidente del consiglio. Convinto assertore della necessità di un’alleanza tra il suo partito e il Partito Socialista Italiano, guidò diversi governi di centrosinistra. Fermo sostenitore del dialogo tra i partiti, all’inizio del 1978 riuscì a convincere la Dc della necessità di un "governo di solidarietà nazionale", con la presenza del Pci nella maggioranza parlamentare. Oggi è stato celebrato al Quirinale, in una cerimonia commemorativa alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato. E proprio nell’anno del centenario della nascita di Moro, il Ministero della Giustizia e quello della Cultura e del Turismo, procederanno alla digitalizzazione delle carte relative ai processi per il rapimento e l’assassinio del grande statista. Il progetto rientra in un protocollo per la conservazione e la valorizzazione della documentazione giudiziaria. Tra gli aspetti più interessanti di questa iniziativa c’è il coinvolgimento diretto dei detenuti della casa circondariale di Rebibbia, che saranno chiamati a collaborare nella scansione dei documenti. Il progetto appare molto importante da un duplice punto di vista, perché da un lato mira alla rieducazione dei carcerati e dall’altro consente una migliore conservazione delle carte originali e una più agevole consultazione dei fascicoli da parte di studiosi e ricercatori. Nell’iniziativa non rientrano solo le carte relative a Moro ma tutti i fascicoli processuali più importanti nella storia del secondo Novecento, come quelli riguardanti le stragi di Fiumicino del 1973 e 1985, la Banda della Magliana e l’attentato a Giovanni Paolo II. Un progetto ambizioso, al passo con i tempi e con le nuove tecnologie, che ci auguriamo possa servire non solo a catalogare, tutelare e diffondere i processi storici italiani, ma anche a favorire il reinserimento nel mondo del lavoro di tanti detenuti ai quali viene data la possibilità di acquisire nuove competenze. Sondrio: visite "vietate" al medico dei detenuti, in carcere scoppia il caso di Susanna Zambon Il Giorno, 24 settembre 2016 Dissidi e rapporti tesi tra il direttore del carcere di Sondrio e il medico responsabile del servizio all’interno della Casa circondariale, e i detenuti rimangono senza medico. Ha dell’assurdo quello che sta accadendo in questi mesi all’interno della struttura di via Caimi e che ieri mattina è sfociato nell’episodio più grave: visto l’ordine di servizio del direttore Stefania Mussio, il dottor Alì El Hazaymeh non è potuto entrare in carcere per svolgere il suo normale turno di visite. "L’ultima di una serie di vessazioni, nate da dissidi tra me e la direttrice iniziati a maggio, ma adesso non ne posso più - racconta il medico, mentre Stefania Mussio, da noi contattata, non ha voluto per il momento replicare e fornire la sua versione dei fatti. Tutto è iniziato appunto a maggio, quando una circolare del Ministero dell’Interno ha vietato a noi medici responsabili del servizio sanitario nelle strutture carcerarie di rilasciare certificati di idoneità lavorativa per i detenuti, che devono essere redatti esclusivamente da medici competenti. Io quindi mi sono rifiutato di farli, nonostante lei insistesse. Da lì sono iniziati gli screzi, ha tentato in tutti i modi di isolarmi". La situazione è degenerata a inizio agosto, quando la direttrice ha sospeso il dottore El Hazaymeh dall’incarico di coordinatore ("atto illegittimo - afferma l’avvocato a cui il medico si è rivolto - perché privo di motivazione adeguata, non potendosi ritenere tale la mera formula di stile relativa al deterioramento del rapporto istituzionale evidenziato dalle relazioni della direttrice, in assenza di constatazione di fatti specifici, di preventiva instaurazione di un procedimento disciplinare o in contraddittorio e di riferimenti normativi giustificanti la sospensione cautelare") nominando vice coordinatore un medico esercente funzioni di guardia medica ("ma questa possibilità è prevista solo in caso di strutture che ospitano oltre 200 detenuti, a Sondrio ce ne sono 38", rileva il legale). "L’Asst, di cui sono dipendente - prosegue il dottor Alì El Hazaymeh - per non andare contro la direzione carceraria mi ha modificato l’orario di lavoro, così che io sia di turno nei giorni in cui la direttrice non è presente. Ma questa mattina (ieri per chi legge, ndr) nonostante lei non ci fosse e dovessi svolgere il mio turno come da accordi, non sono potuto entrare". Una situazione che si ripercuote sui detenuti. "Basti pensare - conclude - che ha respinto due mie richieste di custodia alternativa per altrettanti detenuti le cui condizioni di salute non sono compatibili con il carcere. Uno di loro, ad esempio, ha avuto ben due arresti cardiaci, ma è ancora in cella. E qualche tempo fa si è atteso due giorni per visitare in ospedale un detenuto che era stato picchiato con calci allo stomaco". Opera (Mi): i detenuti che disegnano i francobolli di Papa Francesco di Laura Secci La Stampa, 24 settembre 2016 "In questi eremi di espiazione della pena, la corrispondenza, e quindi i francobolli, occupano un ruolo vitale, in termini di rapporti sociali e affettivi col mondo esterno. Chi ha provato l’esilio, in qualsiasi delle sue forme - scriveva Primo Levi - sa che nel grande continente della libertà, la libertà di comunicare è una provincia importante". Difficile trovare una definizione più pregnante ed esaustiva di quella scelta da Matteo Nicolò Boe, detenuto nel carcere milanese di Opera, per spiegare l’importanza della corposa collezione intitolata "Vangelo filatelico". Un lavoro "commissionato" da un fornitore d’eccezione: Papa Francesco. "Si tratta di francobolli donati al Pontefice e inviati a Opera tramite il suo elemosiniere, l’arcivescovo Konrad Krajewski e Mauro Olivieri, direttore dell’Ufficio filatelico del Città del Vaticano" spiega Danilo Bogoni, giornalista, responsabile del progetto Filatelia nelle carceri. E come il mittente, anche i destinatari non sono "comuni" detenuti, ma ex 41 bis oggi reclusi nella sezione Alta sicurezza. Oltre a Boe, anche Vito Baglio, Antonio Albanese, Nicola Mocerino, Diego Rosmini, Luigi Di Martino. "È stata una sorpresa e una sfida per la nostra neofita attività in materia" spiega Boe, che ha già firmato un’immagine, "Oltre le dure sbarre" (raffigurante alcuni simboli della sua agognata Sardegna), diventata francobollo da 95 centesimi. "Dopo vari tentativi, tanti fogli ed energie, ecco balenare un’idea: il racconto evangelico attraverso il genio artistico prestato alla filatelia". Le opere, frutto di un anno di lavoro certosino, saranno esposte in una mostra allestita nel carcere diretto da Giacinto Siciliano. Al taglio del nastro, il 28 settembre, parteciperanno tra gli altri il cardinale Angelo Scola e la presidente di Poste Italiane, Luisa Todini. Contemporaneamente alla mostra, sarà presentato - per la prima volta in un carcere - il francobollo "Visitare i carcerati" emesso dalla Città del Vaticano. "E nei corridoi della Casa di reclusione rimbomberà, per il solo pomeriggio del 28, il classico rumore dei timbri degli annulli postali - anticipa Bogoni -: in pratica uffici postali in miniatura bolleranno lettere e cartoline, annulli predisposti per l’occasione, delle cui illustrazioni si è occupato Boe". Questi bolli arricchiranno due cartoline: una vaticana con il Papa, mentre dell’illustrazione di quella italiana si è occupato il detenuto Gaetano Puzzangaro. Una successione di sbarre che dividono plasticamente chi sta di qua e chi sta di là: da una parte volti sorridenti, dall’altra uomini con le lacrime agli occhi. Così Puzzangaro, ha rappresentato la sesta Opera di misericordia: Visitare i carcerati, riprodotta sulla cartolina predisposta da Poste Italiane a ricordo dell’incontro "Giubileo della misericordia - Visitare i carcerati" di Opera. "Il colloquio con i familiari - spiega Puzzangaro - è il momento più atteso da una persona reclusa. È quell’insieme di attimi in cui ti senti ancora parte di una famiglia". L’incasso della vendita delle cartoline verrà devoluto alle popolazioni terremotate. Bergamo: un carcere più umano nello sguardo dei bimbi di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 24 settembre 2016 Bambini dietro le sbarre. Succede anche a Bergamo, in via Gleno, dove ogni mese almeno 300 minori varcano i cancelli della Casa circondariale per incontrare la mamma o il papà detenuti. Occuparsi di questi bambini è un compito cruciale della società civile per tre ragioni. Innanzitutto per i piccoli, perché il loro diritto di essere figli va tutelato prima di ogni altra cosa. Poi per i loro genitori, che sono sì detenuti, ma sono anche padri e madri, nonni e nonne, fratelli e sorelle. Infine per tutti noi, perché un carcere più umano è il migliore rimedio alla recidiva, la più grave piaga del nostro sistema penitenziario. Un deficit profondo e strutturale del quale incredibilmente non esistono statistiche ufficiali che possano dimostrarne la portata. Anche se il conto è presto fatto: attualmente la popolazione carceraria è di circa 54 mila detenuti. Gran parte di costoro fa parte di un gruppo più ampio di circa 200 mila persone, il cui orizzonte di vita si sposta, con ritmo più o meno costante, dalla strada alla cella, passando saltuariamente per qualche presidio sociale. Il risultato è che di dieci detenuti che escono di prigione, sette torneranno dentro. È il meccanismo perverso, noto come "porta girevole", che si innesca nei territori della grave marginalità e che costituisce storicamente il principale bacino di alimentazione delle nostre carceri. Lo denunciano da anni le associazioni di settore come Antigone, ma lo ha ribadito recentemente dalle colonne del Corriere un paladino del pensiero liberale come Ernesto Galli della Loggia: "Solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere". Come rompere questo meccanismo? Senz’altro uno degli antidoti è il lavoro. Il detenuto che lavora e che viene reinserito in società, scontata la pena, con degli adeguati strumenti di autonomia, ha una probabilità di delinquere di nuovo inferiore al 10 per cento. L’altro antidoto è la famiglia. Lo sguardo dei bambini, scrivono i promotori della rete Bambinisenzasbarre, che si occupa della permanenza dei minori nelle strutture detentive e che ora è in cerca di un piccolo contributo per proseguire l’attività, "può trasformare e umanizzare il carcere, che è costretto a prendere in considerazione la loro presenza, se pure paradossale, e quindi attrezzarsi per accoglierli". Ma lo sguardo dei bambini può anche trasformare i genitori. Anche L’Eco lo ha documentato più volte durante le feste per i genitori e per i nonni che, ormai regolarmente, la Casa circondariale di via Gleno organizza nella palestra dell’istituto, aprendo le porte ai più piccoli. Momenti di convivialità dove si respira, non fosse per il muro di cinta e le garitte di guardia, un’atmosfera di gioiosa normalità. E dove i figli possono finalmente guardare negli occhi i loro padri e le loro madri e vederli - e riconoscerli - finalmente, come genitori. Farsi carico di quello sguardo innocente e colmo di futuro è probabilmente la migliore motivazione per evitare di ricascarci di nuovo. E per gli irriducibili seguaci della filosofia del "chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave" ricordiamo due semplici cifre: la permanenza dei detenuti che fanno rientro in cella costa ogni anno tra i 3 e i 4 miliardi di euro l’anno, mentre ogni punto di recidiva abbattuto fa risparmiare allo Stato 40 milioni l’anno. Se non bastasse il diritto, ma speriamo che basti, risparmiamoci almeno un inutile spreco. Saluzzo (Cn): diciassette detenuti portano in scena "Il male dentro" La Stampa, 24 settembre 2016 Si intitola "Il male dentro" il nuovo spettacolo teatrale prodotto da Voci Erranti insieme a diciassette detenuti del Laboratorio teatrale della Casa di reclusione dì Saluzzo sotto la direzione di Grazia Isoardi, con Marco Macaria e Grazia Oggero. La prima dello spettacolo andrà in scena oggi, alle 17, poi fino a domenica (alle 15 e alle 17), Sarà replicato l’8 ottobre (in entrambi gli orari); posti ancora disponibili allo 017289893 o al 3406703534. La pièce è una rivisitazione del romanzo "Caino" di José Saramago, scrittore e premio Nobel portoghese, letto dai detenuti durante il laboratorio. "Saramago capovolse la prospettiva tradizionale facendo di Caino un essere umano né migliore né peggiore degli altri - spiegano da Voci Erranti; abbiamo rivisitato l’opera creando un parallelo con la vita nel penitenziario e portando in scena alcuni aspetti dei male che i detenuti stessi hanno vissuto". "Il male dentro" è la storia di un gruppo che vive il castigo di essere fuori dal tempo e non vede la luce se non attraverso le crepe della sua fragilità. A fare da sfondo non la landa desolata agli albori dell’umanità di Saramago, ma un "asylum", un rifugio, governato da tre potenti che ingannano gli ospiti con giochi seduttivi alimentandoli con l’odio e l’indifferenza. "È il 14° anno che operiamo all’interno del penitenziario saluzzese - proseguono da Voci Erranti. Oltre 500 i detenuti coinvolti negli anni, molti dei quali terminato il periodo di detenzione hanno scelto di proseguire la propria attività teatrale", "Grazie alla sensibilità dei Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Cuneo riusciamo ad allestire gli spettacoli anche in altre città - concludono da Voci Erranti: ad esempio il 29 settembre saremo a Milano con "La favola bella" e il 16 ottobre a Genova con "Amunì". Ferrara: il teatro-carcere di Balamòs Teatro al Festival Internazionale balamosteatro.org, 24 settembre 2016 In occasione del Festival Internazionale 2016, sabato 1 ottobre, alle ore 15.00, presso il Centro Teatro Universitario (Ctu) di Ferrara (via Savonarola 19), avrà luogo un incontro sul teatro in carcere intitolato "Teatro e carcere in Italia raccontato attraverso il video". L’iniziativa fa seguito alle precedenti manifestazioni realizzate nelle edizioni di Internazionale 2012 (Teatro in Carcere oggi in Italia: esperienze, metodologie, riflessioni), 2013 (La cultura ci rende migliori? Dialogo sul teatro in carcere), 2014 (Etica ed estetica del teatro in carcere), 2015 (Teatro in carcere: dentro e oltre i confini), promosse da Balamòs Teatro e Centro Teatro Universitario in collaborazione con il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e la rivista "Teatri delle diversità". Attraverso questo nuovo appuntamento annuale vengono presentate alcune tra le più significative esperienze di teatro in carcere in Italia attraverso la visione di video documentari dagli Istituti penitenziari di Rebibbia, Padova e Venezia. A seguire una riflessione tra operatori teatrali, operatori penitenziari, giornalisti, studiosi di teatro, cittadinanza. Il programma: ore 15.00 - Saluti, presentazione, introduzione: Massimo Maisto, vicesindaco del Comune di Ferrara, Assessore alla Cultura Daniele Seragnoli, direttore del Centro Teatro Universitario di Ferrara Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro, responsabile del progetto teatrale "Passi Sospesi" negli Istituti Penitenziari di Venezia. In sala una mostra fotografica di Andrea Casari dal progetto teatrale "Passi Sospesi" alla Casa di Reclusione Femminile nel 2015. ore 15.30 - Video proiezioni: "Naufragio con spettatore", di Fabio Cavalli (co-sceneggiatore e attore del film "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani), dalla Casa Circondariale di Rebibbia. Menzione speciale documentari nella sezione "MigrArti" alla 73a Mostra del Cinema di Venezia. Un video per tutti quelli che sono partiti dal Sud del mondo e sono naufragati in carcere. Durata 15’ "videOtello", di Michele Sambin e Pierangela Allegro, dalla Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Una originale, sentita e profonda ricostruzione della tragedia del Moro, in cui le vicende e i sentimenti dei personaggi si intrecciano con le storie personali degli interpreti. Durata 25’ "Passi Sospesi" 2015, di Marco Valentini, dalla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Un video del progetto teatrale "Passi Sospesi" diretto da Michalis Traitsis di Balamòs Teatro che documenta in forma sintetica le varie attività, le fasi di allestimento e le repliche esterne dello spettacolo "Cantica delle donne" interpretato dalle detenute della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Durata 15’. Ore 16.30 - Interventi di: Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, rivista Teatri delle Diversità; Valentina Venturini, Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo, Università Roma 3; Valeria Ottolenghi, Associazione Nazionale dei Critici di Teatro; Fabio Cavalli, Casa Circondariale di Rebibbia; Michele Sambin, Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova; Michalis Traitsis, Casa di Reclusione Femminile di Giudecca. Seguirà dibattito con il pubblico presente. Info: balamosteatro.org, teatrocarcere.it, 328 8120452. Piacenza: "Festival del diritto" gli ultimi, i profughi, il diritto di avere la dignità di un nome di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2016 Il diritto di avere diritti, il diritto all’orma. Gustavo Zagrebelsky, intervenuto alla prima giornata del Festival di Piacenza, ricorda il verso di Leopardi "tutto al mondo passa e quasi orma non lascia". Il giurista attira l’attenzione sul "quasi". Le nostre opere sono effimere ma non del tutto perché c’è un deposito delle esperienze. Ma non possono lasciare nessuna impronta i 69 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni destinati a morire entro il 2030 secondo il rapporto dell’Unicef, spesso prima ancora di avere un nome. Nessuna impronta lasciano i milioni di profughi senza terra, siriani, turchi, sudamericani in un mondo nel quale non c’è più spazio per nessuno. Un mondo che cerca solo il modo per "smaltirli" pensando a piattaforme galleggianti o a navi in disarmo. Eppure - afferma Zagrebelsky - tutti dovremmo poter partecipare alla cultura, altrimenti siamo fuori dall’umanità. Malgrado questo non sia, malgrado si resti al sicuro nelle proprie case guardando immagini di morte attraverso le moderne tecnologie, si riesce comunque a parlare di dignità senza arrossire. Entrambi i candidati alla Casa Bianca - sottolinea Zagrebelsky - hanno affermato che lo stile di vita americano non è negoziabile, come non lo è quello delle altre culture europee. Ognuno deve stare al suo posto: "Lo stato sociale non è per tutti ma solo per quelli di casa". Di diritti fondamentali parla anche la giudice della Corte costituzionale Silvana Sciarra. "La dignità sta nella libertà dal bisogno e dunque nei salari sufficienti, nell’accesso al lavoro, nella tutela della salute". La Consulta - ricorda Sciarra - ha affermato la dignità nelle sue declinazioni: quella dell’embrione, il diritto alla riservatezza, la dignità dello straniero anche privo del permesso di soggiorno. Sciarra riconosce il ruolo delle Corti nell’interpretare i diritti, ma si chiede se lo fanno sempre bene. Un limite sta nel misurarsi con Stati indeboliti dalla crisi economica. Il problema per la giudice è nell’assicurare l’effettività del diritto, a cominciare dall’accesso al lavoro. "La dignità - afferma - deve essere anche uguaglianza di sacrifici, le misure di austerità non devono incidere sui diritti fondamentali, come il cibo e la salute. In Grecia - ricorda - il consiglio di Stato è intervenuto sui salari al di sotto della soglia di povertà, attraverso il diritto alla contrattazione collettiva". È comprensibile per la giudice che ci sia un’esigenza di contenimento di spesa, ciò che conta però è l’elemento della "temporaneità": un diritto attenuato da una legge di stabilità deve essere "restituito". Le Corti si occupano di pubblico impiego e di pensionati, Silvana Sciarra avverte però che ci sono anche i poveri, gli ultimi. Il filosofo Remo Bodei ricorda che gli uomini sono fatti tutti della stessa acqua, la differenza la fanno le rive, se sono larghe il fiume scorre tranquillo se, sono strette e tortuose l’acqua si intorbida. Oggi si parlerà ancora di migranti con il ministro dell’interno Angelino Alfano, di carceri, con Giuseppe Cascini e di equo processo con Franco Coppi e Armando Spataro. Roma: la mostra "Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura" di Riccardo Cristiano articolo21.org, 24 settembre 2016 I Presidenti delle Commissioni Esteri e il Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la difesa dei Diritti Umani hanno deciso di partecipare il 5 ottobre prossimo all’inaugurazione della mostra "Nome in codice Caesar: detenuti siriani vittime di tortura" al Maxxi, esibizione che chiuderà la sera del 9 ottobre. È una decisione importante, che indica l’attenzione istituzionale per un dramma rimosso, lo sterminio dei detenuti in Siria nel drammatico tempo che ha seguito l’inizio delle pacifiche proteste in Siria. Si legge infatti nel rapporto varato dalla commissione d’inchiesta sulla Siria (Ohchr) costituita dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, presieduta dal giurista Pineiro e della quale fa parte la signora Carla Del Ponte: "Detenuti sotto custodia del governo sono stati picchiati a morte, o sono morti come conseguenza di ferite patite a causa di torture. Altri sono morti a causa di condizioni detentive inumane. Il governo ha commesso i crimini contro l’umanità di sterminio, assassinio, stupro o altre forme di violenza sessuale, tortura, sparizione forzata, o altri atti disumani. Per via della medesima condotta sono stati commessi anche crimini contro l’umanità." Questi crimini che nessuno potrà mai prescrivere non solo pesano oggi come ieri da un punto di visto giuridico, ma hanno segnato politicamente, e drammaticamente, il corso degli eventi in Siria. Tutto questo indica infatti che questa ferocia ha determinato la trasformazione di una protesta, pacifica e non violenta, in altro da sé, per difendere persone, famiglie, villaggi, città, aprendo le porte all’abisso nel quale il mondo si trova oggi. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Amnesty International Italia, Focsiv, Un Ponte Per, Unimed (l’Unione delle Università del Mediterraneo) e Articolo21 hanno ritenuto loro dovere portare un importantissimo tassello di questa verità, sancita dai giuristi dell’Onu, a Roma, dopo che altrettanto è stato fatto al palazzo di vetro di New York, al museo dell’Olocausto di Washington, al Parlamento Europeo e altrove. Questa prova è la mostra Caesar, una selezione di pochissime delle 50mila fotografie che l’agente della polizia militare siriana chiamato Caesar, incaricato dal regime di fotografare tutti i morti, portò con sé quando decise di fuggire. Caesar ha deposto, testimoniato, ma non ha mai rilasciato interviste. Il 4 ottobre però un suo messaggio sarà letto durante la conferenza stampa di presentazione dell’evento, alle 11.00, presso la sede della Fnsi, in Corso Vittorio Emanuele 258. Sono molte e autorevolissime le personalità politiche, culturali e religiose che parteciperanno all’inaugurazione, il 5 ottobre alle 18.00, e l’8 ottobre, sempre alle 18.00, quando giornalisti testimoni dell’inferno siriano, operatori umanitari ed esponenti religiosi si confronteranno sui fatti e la strada possibile per uscire da una devastazione che sta portando con sé nelle fiamme di una furia devastatrice tutto il popolo siriano e l’intero Mediterraneo. "Nome in codice Caesar" ci interpella in prima persona, ci chiede di guardare indietro per capire l’oggi, e costruire un domani che renda possibile, dopo 50 anni, il rispetto dei diritti di ogni persona come di ogni gruppo etnico e religioso. La storia dell’inferno siriano non si esaurisce con l’analisi di quanto di agghiacciante è accaduto nelle prigioni; Isis e Al Nusra sono intervenuti con il loro carico di orrori e crimini contro l’umanità. Ma l’analisi politica e giuridica dell’orrore non può che partire dall’inizio. E quanto accadde nelle prigioni, nelle notte bui dei forzatamente scomparsi, è un tassello centrale di questo doloroso ma indispensabile cammino di " ricostruzione per la riconciliazione". Augusta (Sr): riuscito l’evento "Aperi-cella" di Cecilia Casole lagazzettaaugustana.it, 24 settembre 2016 Insieme carcere e club service per beneficenza e recupero sociale. Un pubblico di oltre cento persone ha partecipato all’iniziativa solidale promossa dalla Casa di reclusione di Augusta insieme ai club service cittadini, segnatamente Rotary, con i club giovanili Rotaract e Interact, Inner Wheel, Kiwanis, Lions e Fidapa. Alla realizzazione dell’evento hanno contributo l’associazione "Pol Pen", la cooperativa "Beppe Montana libera terra", un noto ristorante locale, un’azienda agricola siracusana e la signora Anna Pinto. L’evento chiamato "Aperi-cella" si è svolto il giovedì sera appena trascorso nel cortile esterno della Casa di reclusione. Obiettivo precipuo della manifestazione è stata la raccolta fondi da destinare alle popolazioni terremotate del Centro Italia. Il direttore della casa di reclusione di Augusta Antonio Gelardi ha dato avvio alla serata porgendo i saluti alle numerose autorità civili e militari partecipanti, oltre ai rappresentanti dei club service e ai generosi cittadini. Ha esordito dicendo: "Questa iniziativa nasce perché dopo una serie di spettacoli che abbiamo fatto quest’estate all’interno dei teatri c’era la voglia di dare un seguito. L’incontro con la comunità esterna tramite tali manifestazioni rappresenta uno dei pilastri fondamentali dell’ordinamento penitenziario e implicitamente dell’art. 27 della Costituzione". Poi ha parlato del corso di caseificazione per i detenuti tenuto lo scorso fine settimana, promosso da Rotary, Rotaract e Interact e di cui nel corso della serata sono stati consegnati gli attestati: "La proposta di un corso per le lavorazioni casearie e la successiva consegna pubblica degli attestati è arrivata dall’ingegnere Pitari e diverse sono state le collaborazioni di cui ha beneficiato il corso. Il rapporto con i club service cittadini sta diventando una tradizione. Il progetto di prodotti caseari che rappresentano la nostra cultura ha intercettato brevemente lo scambio di offerta e domanda. Difatti il settore alimentare è uno dei pochi che prevede uno sbocco lavorativo". Subito dopo è intervenuto Gianfranco De Gesu, provveditore regionale delle case circondariali, che ha sottolineato l’eccellenza dell’istituto penitenziario di Augusta sia sul piano regionale che nazionale. "Per ogni detenuto che riusciamo a rieducare c’è un aumento della sicurezza. La possibilità di trovare un posto di lavoro concede, altresì, ai detenuti un’importante occasione di recupero sociale", ha aggiunto De Gesu. È seguito l’intervento del presidente del Rotary club di Augusta, Giuseppe Pitari, che ha preso la parola ringraziando l’Università di Palermo e la Coldiretti per il patrocinio concesso alla iniziativa. Ha messo, altresì, in risalto le attività svolte dai detenuti e il successivo obiettivo solidale dell’evento come strumenti formativi di scambio: "Alla fine colui che da è colui che maggiormente riceve: un senso di arricchimento reciproco". Mentre Alfredo Nocera, segretario distrettuale del Rotary, ha espresso l’auspicio di poter coprire tutte le carceri della Sicilia con la realizzazione di corsi ricreativi per i detenuti. "Il corso come quello caseario nasce spiegando ai ragazzi ciò che devono fare per dare loro la possibilità di poter spendere fuori ciò che hanno appreso", ha spiegato Santo Caracappa, presidente dell’Istituto zooprofilattico della Sicilia. Alla conclusione degli interventi, sono stati consegnati gli attestati del corso di caseificazione patrocinato dal Rotary club di Augusta e dal distretto Rotary 2110, a tredici corsisti: Pietro D’Agata (scarcerato proprio giovedì mattina), Elmestary Morad, Emanuele Ferrante, Cirino Fichera, Salvatore Fiorentino, Felice Gebbia, Francesco Mallo, Nicola Mondello, Luca Orodifero, Rosario Piacente, Adelfio Pulia, Ernesto Viaglianesi, Vittorio Gabriele Pietro. Dopo un breve intervento del magistrato di sorveglianza Nunzio Corsaro, che ha ribadito il diritto di reinserimento del condannato nel "circuito civile", è seguita la degustazione dei prodotti confezionati dai corsisti e conclusasi con una varietà di dolcetti sfiziosi. Lo spettacolo serale, The best of, con brani di musica e teatro messi in scena nel corso dell’anno dai detenuti, è stato presentato da Michela Italia. La rappresentazione teatrale di Giorno dopo giorno, definito un dramma semi-serio, conteneva un chiaro messaggio di solidarietà e di speranza. Infine due momenti musicali che hanno visto esibirsi i ragazzi della Petit Music Band accompagnati dal soprano Francesca Ussia, alla pianola Salvo Passanisi, Pamela Platania con il flauto e Carmelo Tringali alla chitarra, per poi lasciare il palco alla Swing Brucoli Brothers diretta dal maestro Maria Grazia Morello. Le due band hanno interpretato canzoni di famosi cantautori italiani e celebri brani in dialetto napoletano. Giù il sipario solo dopo il coinvolgimento del pubblico, in un ballo collettivo sulle note di ‘A città ‘e Pulcenella. Nasce "Studi sulla questione criminale" on-line studiquestionecriminale.com, 24 settembre 2016 Questo blog è l’interfaccia on-line della rivista Studi sulla questione criminale e della sua comunità scientifica e culturale di riferimento. Studi sulla questione criminale, di cui Massimo Pavarini è stato il primo direttore, è la nuova serie di Dei delitti e delle pene e de La questione criminale, la storica rivista fondata da Alessandro Baratta e Franco Bricola attraverso cui si è affermata in Italia l’analisi critica sociologica e giuridica del diritto penale, e delle forme e dei processi di controllo sociale. A quarant’anni dall’avvio di quell’impresa, la questione criminale è non solo sempre più al centro del dibattito pubblico, ma si pone anche come lente per leggere e intendere le trasformazioni sociali e politiche odierne. Per queste ragioni la dimensione di ricerca propria di una rivista scientifica ha bisogno di misurarsi con l’analisi e il confronto sollecitato dall’attualità attraverso uno strumento più agile e comunicativo quale può essere un blog aperto al contributo di studiose/i, osservatori/rici e operatori/rici. Ecco dunque la missione di questo spazio che vi invitiamo a leggere, frequentare e alimentare con i vostri commenti e riflessioni. Mandateci brevi scritti, recensioni, segnalazioni, eventi e conferenze, call for papers, ecc. Vogliamo che questo spazio diventi un punto di riferimento per chi come noi crede nel valore di produrre, condividere e diffondere un sapere critico sulla questione criminale contemporanea. Buona lettura! Cyberbullismo. I giganti del web pensino anche all’educazione di Juan Carlos De Martin* La Repubblica, 24 settembre 2016 In pochi anni Internet ha rivoluzionato il modo con cui comunicano miliardi di persone. Dall’interagire prevalentemente di persona con un numero limitato di amici e parenti siamo passati a una platea sterminata dei possibili interlocutori, contattabili - grazie agli smartphone - in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È un cambiamento la cui enormità forse stiamo iniziando ad apprezzare solo adesso. Come affrontare un simile cambiamento, soprattutto nei suoi aspetti più negativi, come l’odio online o il cyberbullismo, quest’ultimo oggetto di una controversa proposta di legge di recente approvata dalla Camera? Per provare a orientarci è utile guardare a cosa successe con un’altra rivoluzione tecnologica controversa, quella del telefono. Gli entusiasti lo avevano salutato come lo strumento che avrebbe portato prosperità e pace nel mondo, mentre gli scettici lo avevano dipinto come una violazione dell’intimità domestica e come strumento di depravazione. Ci vollero decenni e un imponente sforzo educativo prima che l’umanità riuscisse a sviluppare norme sociali condivise che umanizzassero il telefono. Contemporaneamente si imparò ad accettare gli aspetti negativi del telefono, che poteva essere usato tanto per far parlare una nonna col nipotino quanto per organizzare un attentato, minacciare, diffamare, truffare, perseguitare. Aspetti negativi che si imparò a considerare come l’inevitabile prezzo da pagare per godere di quelli positivi. Col tempo, quindi, una rapina organizzata al telefono ridiventò una rapina e basta. Il mezzo era finalmente diventato trasparente. Dall’esperienza del telefono possiamo imparare due lezioni principali. La prima è che la società ha bisogno di molti anni per umanizzare rivoluzioni tecnologiche del calibro del telefono o, a maggior ragione, di Internet. È quindi del tutto normale se in questo momento storico la Rete ci rende, a seconda dei momenti, entusiasti e felici oppure disorientati e ansiosi. Siamo ancora agli inizi, ci vorrà tempo. La seconda lezione, però, è che fin d’ora è necessario un grande sforzo di riflessione e di educazione affinché la transizione avvenga massimizzando il benessere sociale. Riflessione per non prendere decisioni sull’onda dell’emozione, ma dati alla mano e con un’attenta valutazione delle conseguenze. Educazione perché al centro di tutto ci sono i comportamenti delle persone. Alcuni comportamenti - come quelli misogini, xenofobi, morbosi - sono sempre esistiti nella pancia della società, ma ora Internet li facilita - perché in generale facilita la libertà di espressione - e, soprattutto, li rende visibili. A tutto questo non c’è una soluzione rapida. In particolare nessuna legge riuscirà mai a estirpare per decreto l’odio dal mondo e, quindi, dalla Rete. L’unica strada seria - anche se lenta e impegnativa - è quella di educare le persone. Spiegare loro, per esempio, cosa sia il reato di diffamazione: pochissime persone lo sanno e ancor meno ne colgono le basi etiche. Far capire - raccontando storie, mostrando volti - che le parole possono ferire e persino uccidere. Coltivare, insomma, il senso morale in una società sempre più frammentata e insicura. Questo è il compito di cui tutti dobbiamo farci carico, a partire dalle famiglie e dalle scuole, ma con un ruolo particolare per le grandi aziende Internet. Ai tempi del telefono, infatti, furono le società telefoniche a investire molto per educare i propri utenti; ora è il turno dei giganti del Web di fare la loro parte. Con le loro enormi risorse e la loro creatività potrebbero usare i loro stessi mezzi per contrastare, informando ed educando, i principali comportamenti antisociali. In altre parole, a Google, Facebook, Apple, ecc., non dobbiamo chiedere di sviluppare improbabili algoritmi anti-odio, ma di progettare e realizzare una ambiziosa, pluriennale azione educativa. Sarebbe una componente importante dello sforzo più ampio che dobbiamo fare per aiutare milioni di persone a ripensare i propri comportamenti e le proprie aspettative nell’età della Rete. *L’autore insegna al Politecnico di Torino ed è Faculty Associate presso il Berkman Center for Internet & Society della Harvard University Cyberbullismo. Prepariamoci a una vergognosa censura digitale di Giulio Cupini e Fabio Scalet Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2016 Una legge contro il cyberbullismo è necessaria, sia per i nostri figli, sia per la salute stessa delle fondamenta della nostra società. Il problema è che in questi giorni si è portata in Parlamento una legge che ha davvero poco a che fare con questa tematica, ma riguarda potenzialmente tutte le nostre comunicazioni digitali. La cosa è tanto più grave perché è nascosta sotto una definizione, quella di cyberbullismo, che tende ad allontanare le critiche. D’altra parte chi è che non vorrebbe una legge contro il cyberbullismo, sarà sicuramente giusta, votiamo sì. La legge contro il cyberbullismo, infatti, rappresenta l’ennesima riprova di come la politica italiana non riesca a capire le logiche del mondo digitale, nel migliore dei casi, o cerchi volontariamente di depotenziare la libertà di espressione del nostro Paese, nel peggiore. Partiamo dall’inizio, quali sono i nodi cruciali intorno ai quali si sta dibattendo, troppo poco, di questa legge? 1) I gestori dei siti web, quindi chi operativamente ospita i contenuti, non direttamente chi li produce, devono rimuovere entro 24 ore i contenuti che possano aver generato sentimenti quali l’ansia, senza che sia stato commesso uno specifico reato di opinione. In parole povere, qualsiasi contenuto può essere soggetto a una interpretazione ansiogena da parte di un soggetto che ha interesse a farlo rimuovere, e con l’automatismo delle 24 ore, non c’è alcun giudice a filtrare la legittimità dall’illegittimità della richiesta. Quella recensione al mio ristorante mi crea ansia, va rimossa. Quell’articolo su questa cosa che mi riguarda mi crea ansia, va rimosso; 2) Chi non si adegua, può ricevere una multa fino a 180.000 €, enunciando quindi in realtà il diritto che chi non esegue gli ordini di rimozione in automatico può trovarsi sulle spalle una causa che non può sostenere. È evidente a qualsiasi persona dotata di buon senso che questi due punti possano aprire la strada maestra per qualsiasi tipo di censura, e i commentatori internazionali hanno già cominciato ad accorgersene. La legge è stata approvata dalla Camera e ora dovrà passare al vaglio del Senato. Vorremmo lanciare un appello a tutti i senatori che leggeranno questo articolo. Se avete a cuore la tematica del bullismo, nelle sue forme digitali e quotidiane, non fatevi portatori di una legge che potrebbe diventare una macchia indelebile sulle libertà del nostro Paese, senza di fatto proteggere nessuno. Per far sentire la vostra voce, potete firmare la petizione contro la censura digitale. Cercheremo di portare le vostre firme in Senato. Migranti. I muri costruiti dal nuovo diritto d’asilo europeo di Valeria Carlini Il Manifesto, 24 settembre 2016 L’Europa non sta cambiando strategia, o girando improvvisamente le spalle all’Italia su migranti e rifugiati. Sta consolidando la traiettoria che aveva abbozzato nell’Agenda europea sulle migrazioni e poi tradotto in tutti i provvedimenti che ne sono seguiti: isolamento dei paesi di "frontiera" dal resto dell’Unione, restrizione dei diritti per le persone in cerca di protezione, muri per impedire gli spostamenti interni dei richiedenti asilo. L’errore è stato valutare diversamente l’impegno europeo e non avere avuto la lungimiranza di capire dove tutto questo avrebbe portato. Guardando ai mesi trascorsi da quell’orribile 19 aprile 2015 da cui tutto ha preso le mosse, troviamo solamente le macerie del sistema comune di asilo. Troviamo il ricollocamento beffa che in 1 anno ha ricollocato 5.290 persone su 160.000. Troviamo le innumerevoli sospensioni dello spazio Schengen, con i muri austriaci, tedeschi, ungheresi e adesso anche francesi. Troviamo la Grecia e le sue isole trasformate in un grande campo profughi, in un limbo che intrappola migliaia di rifugiati. L’unico aspetto della politica europea che ha portato a un significativo risultato è stato l’accordo con la Turchia. Ha fatto crollare gli arrivi sulle coste greche dai 151.452 pre-accordo ai 14.618 post-accordo. Unico obiettivo era chiudere un flusso che stava mettendo a rischio lo stesso impianto comunitario, scoraggiare le partenze dalla Turchia alla Grecia, senza alcun interesse a individuare uno spazio di protezione per i rifugiati. Un gran risultato numerico, un pessimo risultato in termini di diritti. Il governo italiano è amareggiato nel rilevare che il contenimento dei flussi sulla sponda sud del Mediterraneo non sia nelle priorità dell’Unione e che l’Africa sia sparita dalle Agende dei meeting europei, come quello di Bratislava di pochi giorni fa. Abbiamo sempre creduto che il contenimento dei flussi in Paesi di origine e di transito in cui non sono garantiti i diritti fondamentali dei rifugiati non possa assolutamente essere la soluzione per gestire la più grave crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale. Le proposte che potrebbero avere un reale impatto su tali paesi si giocano su un arco temporale di medio-lungo termine e non possono avere un significativo risultato sulla attuale situazione, a meno che non si vogliano completamente calpestare i diritti delle persone in cerca di protezione. Quello che ci preoccupa davvero molto è quanto l’Italia ancora non sembra in grado di vedere. A luglio la Commissione ha presentato 2 proposte di Regolamento per modificare la normativa relativa alla procedura d’asilo e alla qualifica di rifugiato. Proposte che sembrano rispondere esclusivamente a 3 ossessioni: restringere i diritti delle persone in cerca di protezione, punire qualsiasi movimento interno ai paesi dell’Unione, accelerare le procedure d’asilo in modo da capire velocemente chi può essere rispedito a casa. Proposte che se approvate in questa forma e se combinate con la proposta per il nuovo famigerato regolamento "Dublino IV" avranno conseguenze devastanti sia sui richiedenti asilo e rifugiati che sull’Italia. I Regolamenti, se approvati, diventerebbero legge subito applicabile in tutti gli Stati Ue e imporrebbero a tutti una procedura comune in cui concetti di paese terzo sicuro, paese di origine sicuro, paese di primo asilo sicuro, procedura accelerata, manifesta infondatezza, sarebbero inseriti negli ordinamenti di tutti gli Stati membri. Creando il paradosso di una procedura sì ora davvero comune, ma che vincola, pena provvedimenti punitivi e ritorsioni per i richiedenti asilo, le persone ai primi paesi di approdo. Un’unica procedura, 28 Stati totalmente separati. Una legge che farebbe di fatto alzare quei muri che Schengen avrebbe dovuto abbattere. Dobbiamo immaginarci uno scenario senza più alternative: i richiedenti asilo che arriveranno nei paesi di frontiera dell’Unione non potranno davvero più muoversi se non attraverso il meccanismo di ricollocamento, del quale abbiamo già sperimentato il fallimento, e all’interno dei restrittissimi spazi del boccheggiante Regolamento Dublino. Uno scenario in cui in Germania potrebbero esserci poche migliaia di richiedenti asilo, quei pochi che arriveranno agli aereoporti, e dove centinaia di migliaia di persone si affollerebbero inevitabilmente in Italia, Grecia, Malta e i paesi con confini valicabili. Crediamo necessario concentrare l’attività italiana per cercare di modificare un sistema che condannerebbe l’Italia e i rifugiati a una condizione ingestibile, sia per uno Stato che si troverebbe davvero da solo in prima linea, sia per le persone che vedrebbero le loro possibilità di essere protetti e integrati sempre più compromesse. Migranti. L’artista palestinese Katanani: "Ecco i miei rifugiati" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 settembre 2016 Abdul Rahman Katanani, artista palestinese di 33 anni, non ha voluto lasciare il campo profughi libanese in cui è nato e dove lavora e vive nonostante il successo delle sue sculture a livello internazionale, quotate e vendute anche da Christies. Gran parte delle sue istallazioni rappresentano la magra esistenza nei centri di accoglienza per rifugiati ma sono anche simboli di convivenza e di conflitti. Una di queste, un albero di ulivo che simboleggia la pace ma acquista una dimensione inquietante perché realizzata col filo spinato, riciclato dal campo profughi di Sabra, sarà donata da Katanani alle vittime del terremoto di Amatrice. L’artista è in questi giorni in Italia e il 22 settembre ha incontrato, al Senato della Repubblica, in Sala "Caduti di Nassirija, il senatore del Partito democratico Roberto Cociancich, responsabile Europa e membro della Commissione Esteri, il presidente della Federazione della stampa, Beppe Giulietti e Antonella Napoli, presidente della commissione Italians for Darfur. "Stiamo trasformando il mondo in un grande campo di rifugiati - ha detto il senatore Roberto Cociancich - Siamo anche noi rifugiati, a causa di idee a volte intrappolate nel filo spinato delle paure. I nostri pregiudizi verso l’Altro rischiano di farci rimanere sempre più soli". Per Cociancich la chiusura dell’occidente al dramma tanto attuale dei migranti è superabile anche attraverso l’arte. Per questo le opere di Katanani sono importanti: "ci fanno sentire il grido di dolore che sale dai quei profughi palestinesi, ma anche di speranza, nonostante da troppi anni vivano in quella condizione". "Il mio lavoro vuole richiamare l’attenzione non solo sulla causa dei palestinesi, ma su tutti coloro che vivono in uno stato di precarietà" dichiara l’artista stesso. Tra le opere di Katanani un albero realizzato col filo spinato: "Questi nostri giovani sono come gli alberi e dobbiamo fare in modo che possano fiorire e che i loro diritti siano rispettati", osserva l’ambasciatrice dei Territori palestinesi occupati Dra Mai Alkaila. "Dalla mancanza di informazione sui canali mainstream sulla questione palestinese e le periferie del mondo in generale è nata la rete Illuminare le periferie", ha spiegato Antonella Napoli, giornalista, coordinatrice della rete che coinvolge le istituzioni e soggetti della società civile. A maggio l’artista terrà la sua prima mostra personale in Italia, in Calabria al Marca (Museo delle arti di Catanzaro). Droghe. Il "Legalizziamo day" sull’esempio del Portogallo di Antonella Soldo (Radicali Italiani) Il Dubbio, 24 settembre 2016 L’argomento chiave di tutta la dialettica proibizionista, il cavallo di battaglia di ogni oppositore alla legalizzazione della cannabis è quello che riguarda i rischi e i danni per i giovani. Nell’opinione di chi lo propone, questo argomento risulterebbe inappellabile: una sorta di poker d’assi in grado di inchiodare ogni obiezione alla propria inefficacia. E tuttavia, con buone ragioni, si può dimostrare che è vero l’esatto inverso: ovvero che è proprio la legalizzazione della cannabis la via da perseguire per il "bene dei giovani". È d’accordo su questo Raffaele Cantone, magistrato e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il quale ha così spiegato la ragione per la quale oggi è sostenitore della legalizzazione: "credo che una legalizzazione intelligente delle droghe leggere possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità". E i pericoli in una situazione come quella attuale - dove chiunque, maggiorenne o meno, può reperire a qualsiasi ora in qualsiasi strada di qualsiasi città ogni tipo di sostanza - sono davvero molti. Per farsi un’idea basta dare un’occhiata allo studio Espad Italia, che ogni anno fotografa la situazione dei comportamenti a rischio tra gli studenti italiani, di età compresa tra i 15 ed i 19 anni. Secondo la rilevazione oltre un terzo degli studenti ha sperimentato il consumo di almeno una sostanza illecita (tra cannabis, cocaina, eroina, allucinogeni e/o stimolanti) nella vita, mentre il 27% lo ha fatto nel corso dell’ultimo anno. Tra tutte le sostanze illegali consumate, la cannabis è quella maggiormente utilizzata (quasi il 27%), seguita da stimolanti (2,6%), cocaina (2,5%) allucinogeni (2,2%) ed eroina (1%). Ma il dato di maggiore allarme è costituito dalla percentuale di coloro che hanno utilizzato sostanze psicoattive "sconosciute", ignorandone cioè la natura e gli effetti e, quindi, aumentando i potenziali rischi correlati al consumo. Si stima, infatti, che circa il 2,1% degli studenti di 15-19 anni abbia assunto almeno una volta nella vita sostanze psicoattive senza sapere di cosa si trattasse. Il 52% circa di questi studenti le ha assunte per non più di 2 volte, il 26% ha ripetuto l’esperienza oltre 10 volte. In un quadro del genere, non possono essere rimandati ancora interventi minimi come quelli di riduzione del danno, con unità mobili che oltre ad offrire servizi come quello del "drug checking", ovvero dell’analisi delle sostanze che è già routine davanti alle discoteche in molti paesi soprattutto del nord Europa. O ancora, è il momento di assumere provvedimenti strutturali come quello della decriminalizzazione del consumo di tutte le droghe. Può sembrare una provocazione, ma per avere un’idea della sua efficacia basta vedere cosa è accaduto in Portogallo, che nel 2001 ha approvato una legge in materia. Lì gli esiti di questo provvedimento di decriminalizzazione sono stati sbalorditivi: tra il 2001 e il 2006, l’uso di droga tra i giovani di età tra i 13 e i 18 anni è calato per quasi tutte le sostanze considerate e, in generale, il consumo di sostanze da parte dei portoghesi rimane al di sotto della media europea. Dunque, anche "per il bene dei giovani" come Radicali italiani e Associazione Luca Coscioni in queste settimane siamo nelle piazze a raccogliere le firme per un progetto di legge di iniziativa popolare per legalizzare la cannabis e decriminalizzare l’uso di tutte le sostanze. Oggi, 24 settembre, e domani 25, abbiamo organizzato in decine di città italiane i Legalizziamo Day: una mobilitazione straordinaria con tanti tavoli dove i cittadini potranno firmare la nostra proposta. Con noi, le più grandi associazioni antiproibizioniste e centinaia di volontari. Il tema è così popolare che, in questi giorni, dopo che molti siti internet avevano rilanciato l’iniziativa (e anche Roberto Saviano l’aveva segnalata sulla sua pagina Facebook) il portale della campagna Legalizziamo. it è crollato per i troppi accessi. Ci è sembrato un auspicio: migliaia di firme per far crollare il proibizionismo. Siria. I signori della guerra non vogliono la tregua di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 settembre 2016 Quali sono gli obiettivi delle potenze regionali e globali e perché i loro interessi non contemplano un cessate il fuoco. Escalation militare ad Aleppo: il governo lancia una nuova offensiva. L’unico output della tregua è l’escalation militare: a suggellarla è stato giovedì sera l’esercito del presidente Assad che ha lanciato una nuova controffensiva su Aleppo. Mentre all’Onu i 23 paesi dell’International Syria Support Group chiudevano il meeting con un nulla di fatto, sul sito del governo appariva un messaggio ai residenti: state lontani dalle postazioni dei gruppi armati (difficile visto che sono nascosti tra i civili) e raggiungete i checkpoint dell’esercito (ancora più difficile vista l’assenza di corridoi umanitari). Già 150 i raid sui quartieri est controllati dalle milizie, 90 le vittime. Tra i target anche centri della locale protezione civile. E ieri pomeriggio una fonte interna ha paventato la possibilità di una prossima offensiva via terra. Dichiarazioni che non fanno pensare alla volontà di dialogare, stesso messaggio inviato dalle continue violazioni della tregua compiute la scorsa settimana dalle opposizioni. Dietro il paravento diplomatico (ieri il segretario di Stato Usa Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov parlavano ancora, incredibilmente, di rivedersi oggi per cercare un accordo) stanno interessi difficili da scalfire, specchio delle diverse strategie impiegate sul disastrato campo di battaglia siriano. Se è vero che tutti vogliono risolvere il conflitto, perché dopo 5 anni e mezzo e 450mila morti, si combatte ancora? Perché gli obiettivi dei signori della guerra non sono stati del tutto raggiunti. Assad, dato per spacciato ma rinvigorito dall’intervento russo, punta oggi a chiudere islamisti e moderati in enclavi circondate dal governo, territorialmente discontinue. Lo fa con l’esercito ma anche con gli accordi di Homs e Daraya, costringendo all’evacuazione i "ribelli" e spedendoli tutti a Idlib, in mano ad al-Qaeda. Le opposizioni non accettano il ben che minimo compromesso, forti dei balbettii internazionali che non sanno distinguere tra forze effettivamente legittimate dalla popolazione per prendere parte al futuro della Siria e quelle il cui obiettivo non è la democrazia ma un califfato sunnita. Continuando a ricevere armi e protezione con cui si rafforzano, gli islamisti si stanno creando una base di consenso nelle zone assediate, fertili alla propaganda anti-governativa. La Turchia non ha ancora ottenuto zona cuscinetto e scomparsa del progetto politico e geografico della kurda Rojava e accende la guerra con invasioni ostili al dialogo. Approccio che condivide con il Golfo, il grande finanziatore del conflitto, che - seppur non abbia fatto saltare Assad - ha ridotto la Siria in macerie, mera ombra del paese leader che era. L’Iran, che con uomini e denaro tiene in piedi Damasco, vuole scansare il pericolo di una frammentazione del paese alleato in cui tanto ha investito e che gli garantisce, insieme ad Hezbollah, di opporre all’asse sunnita un asse sciita altrettanto potente. Infine, la guerra fredda Usa-Russia. Washington, annichilita dal ritorno del Cremlino, vuole evitare che la Siria resti nella sfera russa e non disdegna una frammentazione che ne faccia un soggetto debole e controllabile. E si allea con chiunque, gruppi impresentabili ma nei fatti le sole opposizioni. Mosca vuole tornare super potenza a livello globale, sia sul piano politico che economico: la Siria, in tal senso, non è che campo di battaglia di una contrapposizione politico-strategica molto più ampia, nella quale non è la diplomazia a definire gli equilibri di potere, ma gli eserciti e gli affari. E le alleanze si mescolano, i cambi di casacca sono repentini. Ieri il voltafaccia dell’ex al-Nusra: dopo aver ricevuto per anni armi e denaro dalla Turchia, ha fatto appello alle opposizioni perché si contrappongano all’invasione turca a nord: "Vietiamo di combattere sotto qualsiasi potere regionale o coalizione internazionale - dice il comunicato chiaramente scritto nella veste di leader delle opposizioni sunnite - L’intervento Usa sostiene il Pkk a danno delle regioni sunnite". Al solito, il mostro che si ribella allo sponsor anche se ne condivide gli scopi.