Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2016 20 gennaio 2017, Casa di reclusione di Padova. Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, loro famigliari: aiutateci a promuoverla, organizzarla, darle poi un seguito. Da tempo la redazione di Ristretti Orizzonti pensava a una giornata di dialogo su questi temi, che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone condannate a lunghe pene, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte solo sulla persona punita, ma annienta tutta la sua famiglia. Oggi però forse sono più i motivi che ci spingerebbero a non organizzare quella giornata, che quelli che ci incoraggiano a promuoverla. Non vorremmo organizzarla: perché in carcere troppo spesso si fanno un passo avanti e poi tre indietro. È il caso della nostra redazione, che stava facendo una esperienza importante di lavoro in comune tra detenuti di Alta Sicurezza e detenuti di Media Sicurezza, e di confronto con il mondo esterno (più di seimila studenti che entrano in carcere ogni anno) che costringe tutte le persone detenute ad avere uno sguardo critico sul proprio passato. Ma proprio pochi giorni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha sospeso le attività dove detenuti AS e detenuti comuni stavano insieme e ricostituito i soliti ghetti dei circuiti di Alta Sicurezza, dove di fatto non c’è nessuna possibilità di cambiamento. Abbiamo chiesto con forza di continuare la nostra esperienza, e di far tornare in redazione i detenuti AS che ormai ne fanno parte da tempo, e vogliamo sperare che la nostra richiesta verrà davvero accolta, ma bisogna sempre vigilare e combattere per cambiare le cose, e le cose nei circuiti di Alta Sicurezza da troppo tempo sono ferme, chiuse, immutabili; perché Ristretti Orizzonti sta letteralmente morendo per mancanza di risorse per continuare le sue battaglie e probabilmente alle Istituzioni non gliene frega niente di una esperienza, che fa riflettere su un modello di pena che ha al centro meno carcere e più sicurezza per la società; perché siamo anche noi intrappolati in questa logica che "i tempi non sono maturi" per parlare di abolizione dell’ergastolo, e quindi non ci crediamo abbastanza, non abbiamo abbastanza coraggio. Ma poi un pensiero fisso ce l’abbiamo, ed è quello che ci spinge a fare comunque qualcosa: non vogliamo abbandonare quelle famiglie, non vogliamo far perdere loro la speranza. Allora il 20 gennaio invitiamo a dialogare, con le persone condannate a lunghe pene e all’ergastolo e i loro figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle: parlamentari che si facciano promotori di un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo e che si attivino per farlo calendarizzare, o che comunque abbiano voglia di confrontarsi su questi temi; uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, perché ascoltino le parole del Papa, che ha definito l’ergastolo per quello che è veramente: una pena di morte nascosta; uomini e donne delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati. Non vogliamo aver paura di parlare apertamente di abolizione dell’ergastolo, di quello ostativo ma anche di quello "normale", perché il fine pena mai non può in nessun caso essere considerato "normale". Ma non vogliamo neppure avere solo obiettivi alti, e poi dimenticarci di come vivono le persone condannate all’ergastolo o a pene lunghe che pesano quanto un ergastolo. È per questo che proponiamo di dar vita a un Osservatorio, su modello di quello sui suicidi: per vigilare sui trasferimenti da un carcere all’altro nei circuiti di Alta Sicurezza; per mettere sotto controllo le continue limitazioni ai percorsi rieducativi che avvengono nelle sezioni AS (poche attività, carceri in cui non viene concesso l’uso del computer, sintesi che non vengono fatte per anni); per monitorare la concessione delle declassificazioni, che dovrebbe essere, appunto, non vincolata a relazioni sulla pericolosità sociale che risultano spesso stereotipate, con formule sempre uguali e nessuna possibilità, per la persona detenuta, di difendersi da accuse generiche e spesso prive di qualsiasi riscontro. Nessuno sottovaluta il problema della criminalità organizzata nel nostro Paese, e il ruolo delle Direzioni Antimafia, ma qui parliamo di persone in carcere da decenni, già declassificate dal 41 bis perché "non hanno più collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza", e parliamo di trasferirle da un circuito di Alta Sicurezza a uno di Media Sicurezza, non di rimetterle in libertà; per accogliere le testimonianze e le segnalazioni dei famigliari delle persone detenute, che non trovano da nessuna parte ascolto: per raccogliere sentenze e altri materiali, fondamentali per non farsi stritolare da anni di isolamento nei circuiti di Alta Sicurezza e per spingere la Politica a occuparsi di questi temi con interrogazioni e inchieste; per cominciare a mettere in discussione, finalmente, il regime del 41 bis con tutta la sua carica di disumanità; per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41 bis davvero TRASPARENTE Di tutto questo vorremmo parlare il 20 gennaio a Padova, ma non vi chiediamo semplicemente di aderire a una nostra iniziativa. Vi chiediamo di promuovere con noi questa Giornata, di lavorare per la sua riuscita, di prepararla con iniziative anche in altri luoghi e altre date, e soprattutto di fare in modo che non finisca tutto alle ore 17 del 20 gennaio, ma che si apra una stagione nuova in cui lavoriamo insieme perché finalmente "i tempi siano maturi" per abolire l’ergastolo e pensare a pene più umane. La redazione di Ristretti Orizzonti La redazione di Ristretti Orizzonti Adesione alla giornata del 2 dicembre e all’Osservatorio dall’Associazione "Liberarsi" Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2016 Cari amici di Ristretti Orizzonti, grazie per l’invito alla giornata del 2 dicembre e alla creazione dell’Osservatorio. A tutte e due le proposte noi diamo una piena adesione. Sono temi che ci coinvolgono da anni profondamente. Faremo varie azioni concrete: - parteciperemo alla giornata del 2 dicembre. - contribuiremo alle spese della giornata. - coinvolgeremo i nostri soci e amici e tutte le realtà associative che conosciamo, chiedendo anche a loro di aderire e di essere presenti e di organizzare informazione su questi temi prima e dopo il 2 dicembre. Condividiamo pienamente che nella giornata del 2 siano attori fondamentali i detenuti e le detenute condannati all’ergastolo e a lunghe pene e i loro familiari. Questo vogliamo dire anche con chiarezza: il 2 dicembre sarà un primo momento, importante, ma non vogliamo che sia solo una giornata di dialogo e un libro con gli atti, ma riteniamo necessario che l’ottica sia quella di continuare finché non riusciremo a realizzare l’abolizione dell’ergastolo, pena di morte viva, e la cessazione della tortura nelle sezione a 41 bis e nel circuito differenziato, come scrisse il nostro amico Sandro Margara in una sua intervista: "Liberiamoci da questo carcere"! Un abbraccio e cerchiamo di gridarlo: "i tempi sono maturi"! A giorni riceverete materiali per il nostro Osservatorio. Per comunicare con l’Associazione Liberarsi: mail: assliberarsi@gmail.com indirizzo postale: Associazione Liberarsi, casella postale 30 - 50012 Grassina (Firenze). Per l’Associazione Liberarsi: Mario Bencivenni, Filippo Benfante, Fabio Bianchi, Roberto Caiani, Giuliano Capecchi, Christian De Vito, Antonio Mellini, Paola Ricciardi, Alfredo Sole, Anna Terlizzi. Carcere, addio riforma se in Aula vince il caos di Errico Novi Il Dubbio, 23 settembre 2016 Orlando: niente strappi sul ddl penale o salta la legge sui detenuti. Ci vorrebbe un corso accelerato di ascesi tibetana, per gestire le spinte schizofreniche del Senato sulla riforma penale. E infatti il ministro della Giustizia Andrea Orlando deve fare appello a tutta la sua proverbiale pazienza per non imprecare per esempio contro la scelta di accorpare il testo sulla prescrizione a quello "generalista" sul processo. Adesso non c’è altro da fare che procedere passo passo nell’aula di Palazzo Madama e incrociare un po’ le dita. Conclusa ieri la discussione generale, si riparte martedì, con le repliche dei due relatori, Felice Casson e Giuseppe Cucca, per poi passare al voto sui singoli articoli. Con un doppio mantra: evitare la fiducia, ma evitare anche che il disegno di legge sia stravolto. Orientati da questa bussola, governo e maggioranza seguiranno appunto la strada indicata dal guardasigilli: cominciare l’esame del ddl e valutare dopo un primo step se davvero sarà indispensabile porre la fiducia. Nell’auspicio di Orlando, del capogruppo Luigi Zanda e della "controparte interna" alla maggioranza, ovvero Area popolare, la versione della riforma approvata in commissione Giustizia dovrebbe passare liscia in mezzo al bombardamento dei voti segreti e degli emendamenti. Nel caso peggiore - un incubo non ancora allontanato - qualche blitz dell’opposizione potrebbe andare a segno, con l’aiuto della minoranza dem. In particolare sulla prescrizione, il tema sul quale mercoledì avevano raggiunto un accordo lo stesso ministro della Giustizia e i vertici di Ap al Senato, Laura Bianconi e Nico D’Ascola. Se per esempio con un colpo di scena non troppo fantasioso il governo andasse sotto su uno degli emendamenti Casson, l’intesa con i centristi salterebbe. E il ddl finirebbe per dover essere magari modificato di nuovo alla Camera, per poi tornare ancora al Senato. Se ne riparlerebbe insomma tra mesi, forse un anno. Quest’ipotesi nera per ora è lasciata nello sgabuzzino dei disastri improbabili. Ma in fondo basta poco perché si materializzi, per un motivo semplicissimo: il governo, Renzi in primis, vuole evitare a tutti i costi il ricorso alla fiducia. Blindare la riforma del processo penale vorrebbe dire regalare un rigore a porta vuota ai cinquestelle. Che immediatamente griderebbero al "regalo per mafiosi e corrotti". Già lo ha detto ieri, per esempio, il senatore Mario Giarrusso nel suo intervento. Figuriamoci in caso di fiducia. Riforma carcere, rischio paralisi - La fiducia è una bomba atomica da non sganciare, insomma: tanto più nel pieno della campagna referendaria. Dal punto di vista di Renzi sarebbe un suicidio. Ma se la fiducia resta un tabù, nessuno può essere sicuro che il ddl arrivi immacolato al voto finale. E qui però interviene il timore opposto a quello sulla controffensiva grillina. È il timore del guardasigilli Orlando. Che vorrebbe evitare un ulteriore, farsesco ritardo nell’entrata in vigore del provvedimento. Tra le decine di articoli ce n’è uno interamente destinato alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Si tratta dell’articolo 31, che contiene in realtà una delega all’esecutivo, molto dettagliata però. Dentro ci sono tutte le scommesse degli Stati generali dell’aprile scorso: dal rafforzamento delle misure alternative all’affettività in carcere. Il ministro della Giustizia tiene molto ad andare avanti sui diritti e la dignità dei detenuti, tema su cui è intervenuto persino durante l’incontro interreligioso di Assisi. Ma visto che si parla di una delega, e dunque di altri necessari passaggi parlamentari, Orlando vuole evitare a tutti i costi che l’Aula del Senato alteri il testo del ddl e costringa Montecitorio a risistemarlo, anziché licenziarlo così com’è definitivamente. La prova del nove su scippi e rapine - Da martedì dunque, al più tardi da mercoledì mattina, si comincerà a votare sui primi articoli. E si verificherà la tenuta dell’Aula. L’opportunità di capire se davvero ci sono i numeri per portare a casa, intatto, il provvedimento, è offerta da una particolare circostanza: la prima parte del ddl è dedicata agli innalzamenti di pena per scippi, rapine e furti in appartamento. "Si tratta di norme che intervengono sulla libertà personale e dunque impongono per regolamento il ricorso al voto segreto", fa notare il relatore Casson. Si vedrà se davvero la minoranza dem seguirà la linea di partito. Se andrà bene, si andrà avanti fino alle forche caudine della prescrizione e delle intercettazioni. E appunto, si incroceranno le dita. Se invece già ci fossero avvisaglie di instabilità, si valuterà la fiducia ad hoc sugli articoli a rischio. Maxiemendamento out: troppi "commi" - Tra le modifiche che dividerebbero la maggioranza c’è anche quella sulle notifiche telematiche: il capogruppo dem in commissione Giustizia Beppe Lumia l’ha ritirata, come da accordi di pace con l’Ncd, ma Casson intende mantenere il suo emendamento. I centristi fanno notare che, con la digitalizzazione, le notifiche agli imputati perderebbero certezza. Sulla prescrizione "posticipata" per l’omicidio colposo legato alla sicurezza sul lavoro e per i reati ambientali, Lumia e il Pd si sono dissociati da Casson più a malincuore. E proprio per questo i rischi di un colpo di mano della minoranza dem, di sponda con i grillini, permangono tutti. Ma l’antidoto resta in ogni caso la fiducia mirata sugli specifici articoli, e non il maxiemendamento al testo. Quest’ultima ipotesi è più che problematica anche per un aspetto di qualità della legislazione: un maxiemendamento ridurrebbe gli articoli del ddl a commi. Già ora, per esempio, proprio l’articolo 31 sulla riforma penitenziaria è suddiviso in 12 "lettere", una delle quali, quella sui detenuti minori, specificata a sua volta in 8 punti. Se con la fiducia l’intero disegno di legge passasse dagli attuali 41 articoli a uno solo, quello del maxiemendamento appunto, il Senato partorirebbe un mostro. E un finale del genere non appassiona davvero nessuno. La giustizia e la gatta frettolosa di Alessandro Barbano Il Mattino, 23 settembre 2016 La gatta frettolosa, dice il proverbio, fa i gattini ciechi. Ma li fa anche sordi se la fretta giunge, sospetta, dopo una lunga idiosincrasia alle gravidanze. Dovrebbe saperlo il guardasigilli, Andrea Orlando, che, dopo due anni di traccheggiamento, alla vigilia del referendum spinge per portare in aula una riforma del processo penale che si risolve nell’aumento dei termini della prescrizione e in un filtro alla pubblicabilità delle intercettazioni, il cui uso e il cui abuso risultano estesi oltre ogni decenza. Tanta fretta trova la resistenza del premier, preoccupato di esporre un testo, già piegato al giustizialismo, al tiro mancino di maggioranze trasversali di ispirazione giacobina, e dubbioso sull’idea di fare uso della fiducia in una fase in cui non ha interesse ad accentuare e rendere visibile la direttività del governo. Certo, Renzi sa bene che la giustizia continua a rappresentare l’emergenza istituzionale che indusse l’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a subordinare il suo bis temporaneo all’impegno dei partiti tutti per una riforma sollecita e strutturale. E sa anche, il premier, che poche settimane dopo l’insediamento del suo governo il guardasigilli elaborò una bozza di 12 punti attorno ai quali costruire e far approvare in Parlamento una nuova geografia del sistema giudiziario italiano. Una modesta ricerca d’archivio dimostrerebbe che quegli impegni sono rimasti in gran parte disattesi. E che, dopo due anni, i mali che quel disegno intendeva correggere restano piaghe purulente, come, per fare solo alcuni esempi, la dimensione abnorme della giustizia cautelare e del suo impatto sociale, l’abuso delle intercettazioni, i tempi dei processi, soprattutto in appello, la politicizzazione e la corporativizzazione senza limiti ne pudore del Csm. Certo, una riforma strutturale era un impegno arduo. In cui era assai più facile bruciarsi piuttosto che vincere la sfida. Non a caso i retroscena, mai smentiti, sulla formazione del governo Renzi raccontano che Orlando avrebbe prefe rito un altro dicastero. Convinzione che deve essersi rafforzata di fronte all’ostilità scatenata dai suoi primi atti di governo: la riduzione delle ferie dei magistrati e la loro responsabilità civile. La prima disinnescata da una prassi interpretativa che è riuscita a riconfermare lo "statu quo" con abilità gattopardesca. La seconda tradotta in una legge di cui si fa fatica, a un anno dalla sua approvazione, a vedere effetti tangibili. La responsabilità civile sembra essere scivolata come l’olio sull’autonomia di un corpo che continua, talvolta, a sconfinare nell’arbitrio. Eppure, tanto era stata osteggiata dalla magistratura militante, paventando effetti disastrosi per l’esito della giustizia che, per fortuna, nessuno ha dovuto constatare. Per il resto l’azione del guardasigilli si è concentrata su alcuni obiettivi non divisivi, la cui utilità non è in discussione: la telematizzazione del processo civile, il miglioramento della macchina organizzativa, una strategia deflattiva del contenzioso, lo svuotamento delle carceri, che peraltro registra negli ultimi mesi una nuova, preoccupante inversione di tendenza. Ma la strategia del pragmatismo minimalista adottata da Orlando è parso uno slalom tra i veri nodi della giustizia, nessuno dei quali è più venuto, come si suoi dire, al pettine. È come se l’assaggio delle prime ostilità corporative, in coincidenza temporale con le inchieste che hanno allungato la loro ombra minacciosa sul governo e sul Pd, avesse indotto il guardasigilli a più miti consigli. Nell’ultimo anno la sua prudenza ha assunto i tratti dell’inerzia, che certifica come in politica qualunque priorità possa essere sacrificata in nome di interessi divenuti più urgenti. L’urgenza del referendum sulla riforma costituzionale e il rischio di una magistratura requirente schierata nelle piazze per il "no" sono certamente un buon motivo per transigere una tregua, anche a costo di pagare un prezzo all’azione di governo. Tuttavia è indubbio che in questa prudenza Orlando ci ha messo del suo, non sfruttando come avrebbe potuto e dovuto i tempi e gli spazi di agibilità e ignorando gli appelli alla risolutezza che in una prima fase gli erano giunti dallo stesso premier. Il fatto che egli non sia, come del resto molti dei suoi predecessori, un giurista, ma piuttosto un politico di professione, non ha per questo reso più debole la sua resistenza alle spallate corporative. Nella stessa impasse sono incappati negli ultimi vent’anni raffinati giuristi, transitati per il soglio di via Arenula. Ma la loro avventura non era accompagnata, diversamente da Orlando, da grandi aspettative riformatrici. Ora invece Orlando ha fretta. Fretta di condurre in porto una riforma che convalidi con un risultato politico un’azione di governo altrimenti fallimentare. Poco conta che la direzione imboccata sia opposta a quella da cui l’esigenza della riforma era partita. Poco conta che la legge in aula rischi di offrire il destro ad accordi trasversali tra la minoranza Pd ei Cinquestelle, capaci di ribaltare con un emendamento dell’ultima ora le residue garanzie previste nel testo della legge. Ne rassicura ascoltare il ministro quando valuta, in una recente intervista, come un accordo al ribasso quello che si propone di allungare fino a 15/18 anni la prescrizione per il reato di corruzione, rispetto alla soluzione ideale da lui auspicata, cioè un’interruzione "sine die" della stessa dopo la sentenza di primo grado. Esattamente come vorrebbe il relatore della legge in discussione in Parlamento, Felice Casson. Ma Casson è un pasdaran, Orlando è il riferimento di un sistema giudiziario in cui il tempo dell’appello, e più in generale del giudicato, è la metafora di una feroce eternità, di cui solo le vittime della giustizia sembrano avvertire, in tragica solitudine, il peso afflittivo. Fa ancora più stupore registrare l’indifferenza del guardasigilli di fronte alla piega che ha assunto il dibattito interno al Consiglio superiore della magistratura sulla riforma dello stesso. L’attesa delle proposte di autoriforma, chieste dal ministro all’organo di autogoverno, è diventata una resa. Poiché nessuna risposta men che credibile è giunta sui nodi che hanno trasformato il Csm in un parlamentino corporativo e velenoso. In nome di un’antica congiuntura pattizia e consociativa, specchio di una democrazia che scopre un lato di estrema e irrisolta fragilità, si è archiviato lo spirito riformatore su uno dei fronti nei quali il Paese registra il maggior ritardo. Che in questo clima si tenti ora un’accelerazione, dispiace sospettare e doverlo dire, non è affatto una buona notizia. Violante: "La macchina penale ci sta invadendo" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 23 settembre 2016 La clamorosa denuncia dell’ex presidente della Camera. "C’è un’invasione del diritto penale nelle nostre vite assolutamente ingiustificata, perché inidonea a salvaguardare i beni della comunità e dei singoli". Per l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, prima di affrontare qualsiasi discorso sulla giustizia sarebbe necessario ridefinire il concetto stesso di reato. "Se non partiamo da questo assunto ci ritroveremo a staccare un acino dal grappolo complessivo del ragionamento su diritto, processo e pena", insiste. E ancora: "La questione di fondo è capire cosa deve essere nel XXI secolo la macchina penale". Presidente, da mesi il Parlamento si confronta, senza ancora trovare una sintesi, sulla riforma del processo penale. Uno dei punti più delicati riguarda la prescrizione. Che è idea si è fatto di questa discussione? La prescrizione è solo un pezzo di un ragionamento. La questione di fondo è capire cosa deve essere nel XXI secolo la "macchina penale" che è ancora uguale a quella di fine 700. Fatte salve, ovviamente, tutte le modernizzazioni, il cuore è lo stesso: raccolta delle prove, discussione, decisione, assoluzione o condanna, pena. Questo è il paradigma. Bisogna fare una seria riflessione su cosa dev’essere il processo penale. Oggi c’è un dispendio enorme di risorse umane, intellettuali e finanziarie su processi che non servono a niente. Come dovrebbe cambiare il diritto penale? Dovrebbe essere limitato ad alcune grandi questioni, lasciando tutto il resto ad altre forme di intervento: civile o amministrativo. Non possiamo costruire un diritto penale - tra l’altro ad azione obbligatoria - su un numero indefinito di illeciti e di reati. Dunque, o si opta per la discrezionalità dell’azione penale - che però è una soluzione molto contestata -, oppure si ridiscute la penalizzazione, cioè si stabiliscono i confini di ciò che va penalizzato nelle società del XXI secolo. Senza perder tempo a disquisire su ciò che andrebbe depenalizzato, sarebbe come svuotare il mare con un cucchiaino. Cosa deve essere penalizzato allora? Ciò che lede profondamente e irreversibilmente beni costituzionalmente protetti. Se selezioniamo solo una serie di fatti particolarmente rilevanti, saremo in grado di pensare in maniera diversa anche alla pena, visto che riguarderà un numero inferiore di persone. Ad oggi, invece, è necessario mettere in campo tutta una serie di misure che prevedano l’esclusione dal carcere. Nella situazione attuale, senza correzioni, bisogna costruire meccanismi di sanzione in libertà, aumentando in modo significativo i servizi di pubblica utilità. Che ne pensa della proposta del senatore Felice Casson di bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado? Non sono d’accordo. Le persone col tempo cambiano, e spostare così in avanti il termine della prescrizione, in più legandolo a un dato soggettivo e non oggettivo, non è condivisibile. Lo dico con tutto il rispetto per Felice Casson. Parte dell’opposizione però accusa il governo di voler boicottare l’emendamento per favorire i corrotti... La questione della sicurezza è terreno di costruzione di consenso politico, dunque bisogna essere capaci di spiegarsi per bene le scelte fatte, per evitare strumentalismi. Accuse di questo tipo però attengono alla propaganda, non c’è alcun ragionamento. I 5 stelle devono spiegare cosa intendono quando utilizzano certi argomenti. Per intenderci, hanno chiesto dimissioni a valanga di persone che poi sono state assolte. Questo essere subalterni a un atto giudiziario, rinunciando a una propria valutazione autonoma, è una rinuncia alle proprie responsabilità. Eppure lo scontro non riguarda solo le forze politiche. Gran parte della magistratura è favorevole a un allungamento dei termini della prescrizione. È un normale gioco delle parti? La magistratura, come qualunque altro corpo, vive positivamente tutto ciò che aumenta i propri poteri e diminuisce le proprie responsabilità. La cosa non mi stupisce, né la considero deplorevole, è assolutamente normale. L’emendamento Casson va in questa direzione. In realtà la vicenda della prescrizione somiglia alla questione dell’amnistia. Visto che le carceri scoppiano, invece di indagare le radici del fenomeno, si sceglie un provvedimento per svuotarle. In questo caso, visto che i reati si devono perseguire, si propone di allungare i termini della prescrizione per un tempo indefinito e indefinibile. Con buona pace della certezza dei diritti. È necessaria una riforma del Csm o sarebbe preferibile un’autoriforma? Auspico l’autoriforma, ma mi sembra difficile. Il meccanismo delle correnti è troppo cristallizzato. Ma credo si possano fare due o tre interventi per dare un segnale importante. Quali? Prima di tutto, fare in modo che l’Ufficio studi del Csm sia formato non da magistrati ma da personale esterno assunto tramite concorso, in modo che chi deve dare un parere non dipenda da chi lo chiede. Stesso discorso deve poi valere per segretari: devono essere esterni, altrimenti si innesca un meccanismo di carriera all’interno delle correnti. Terza questione: creare una Corte unica, separata dal Csm, che si occupi della responsabilità disciplinare di tutti i magistrati, ordinari, amministrativi, contabili. A proposito di quest’ultimo punto, nella bozza iniziale di riforma della giustizia, il ministro Orlando aveva inserito un passaggio che suonava più o meno così: "al Csm chi giudica non nomina e chi nomina non giudica". Sarebbe stata una buona soluzione di compromesso? Capisco e apprezzo molto lo sforzo di Orlando ma la mia opinione è diversa, io chiedo un organismo terzo per tutte le magistrature. Quella "lieve entità" che ha pesi diversi di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 23 settembre 2016 L’attenuante negata a tre cittadini marocchini spacciatori e riconosciuta a militari ed (ex) comandante del Ros: stessa contestazione, differente sentenza. L’abito non farà il monaco, ma magari nei processi fa diventare "virtuale" il "ponderale", e aiuta a schivare le condanne. Specie se l’abito non è quello di un nordafricano al parco, ma di un rispettabile generale al comando dei suoi uomini. Lo suggerisce la storia parallela, a parità di titolo di reato addebitato, dei processi per droga in Tribunale a Milano a tre cittadini marocchini, e in Cassazione invece all’ex comandante del Ros dei carabinieri Giampaolo Ganzer. I tre marocchini sono stati condannati in rito abbreviato a 4 anni e 4 mesi per aver spacciato al parco otto dosi ad altrettanti acquirenti italiani, ciascuna pari a circa 0,6 grammi di droga, e per essere stati arrestati con addosso altri 2,6 grammi. Al difensore che chiedeva una riduzione di pena in virtù dell’attenuante speciale del "quinto comma", cioè del "fatto di lieve entità", il Tribunale ha risposto no, "stante l’intensità e continuatività del traffico, il numero delle cessioni, il numero dei concorrenti, la presenza di una sia pur rudimentale organizzazione, gli ingenti incassi". Tolto l’ultimo riferimento (nel caso dei carabinieri non sono stati provati arricchimenti personali), tutti gli altri indici comparivano anche nelle contestazioni a una dozzina di militari del Ros e al loro ex comandante Ganzer, in primo grado condannato a 14 anni nel 2010 (poi già ridotti a 4 anni e 11 mesi in Appello nel 2013 da alcune assoluzioni parziali e da alcune intervenute prescrizioni come sui 1.170 chili di hashish dal Libano dell’operazione "Shipping") per i discussi blitz "sotto copertura" costruiti alla fine degli anni 90 su uno schema che prevedeva l’importazione in Italia di rilevantissimi quantitativi di droga allo scopo di indurre all’acquisto trafficanti italiani sulla base di contatti intercorsi con intermediari stranieri del narcotraffico internazionale, meccanismo con il quale far poi mostra di pervenire alla loro individuazione e al loro arresto con "brillanti operazioni" che in apparenza "scoprivano" persino raffinerie. In teoria la droga veniva poi tutta sequestrata, ma non essendo pesata in partenza non vi era certezza sul punto, e capitava anche che piccoli quantitativi "di prova" si disperdessero. Nel gennaio 2016 la Cassazione aveva confermato la responsabilità dell’avallo di Ganzer per almeno due di queste operazioni, "Cobra" e "Cedro1", concernenti oltre 270 chili di cocaina, ma a sorpresa gli aveva concesso l’attenuante del quinto comma, cioè del fatto di lieve entità, con il risultato che l’attenuante aveva indirettamente fatto scattare la prescrizione dei reati e il conseguente proscioglimento di Ganzer. Nella motivazione depositata dopo 7 mesi, i giudici della III sezione della Cassazione premettono che nel 2014 è cambiata la legge sulla droga e il quinto comma, che prima era una attenuante, ora è diventata una fattispecie autonoma. Una precedente sentenza di Cassazione, capofila di una consolidata giurisprudenza sul tema, aveva stabilito che l’attenuante del fatto di lieve entità può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile "sia dal dato quantitativo sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio". Insomma, basta un solo indice negativo e non può essere concessa l’attenuante: e nel processo Ros l’indice negativo sarebbe ovviamente il dato quantitativo delle centinaia di chili di droga importata. Ma i giudici di Cassazione valorizzano quello che i giudici d’Appello avevano accennato nel 2013, e cioè la convinzione che Ganzer avesse agito "per una sorta di presunzione o superbia di corpo, di "fuoco sacro", consapevole di forzare la norma e cadere nell’illegalità" ma convinto "comunque di poter ottenere effetti positivi nella prevenzione dei reati". Questo contesto, a detta della Cassazione, "autorizza allora ad affermare il principio che, laddove tutti gli indici di valutazione richiesti dal quinto comma siano di segno positivo, e l’unico dato dissonante sia rappresentato dalla quantità, questa non assume specifico rilievo negativo se si tratta di quantitativo solo apparentemente rilevante ma in realtà del tutto virtuale perché non destinato a circolare e a essere immesso sul mercato". Il Gip di Napoli Avallone: il carcere minorile è diventato è l’università della camorra di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 23 settembre 2016 "Non è normale che ragazzini e adulti stiano insieme in cella. Misso? Le baby-gang non sono una novità ma vengono ignorate. Serve più attenzione". "È normale che nelle carceri per i minori ci siano ragazzini di 15 anni e adulti di 25? È chiaro che così alcuni istituti penitenziari diventano università del crimine. E poi mancano soldi, strutture di assistenza sociale, oltre a leggi più incisive. Baby-gang, baby-killer, paranze dei bambini, stese: continueranno ad esserci se lo Stato non farà a pieno la propria parte". Nel suo ufficio a piano terra del Tribunale dei minori, il giudice per le indagini preliminari Pietro Avallone, 61 anni, ha la scrivania piena di fascicoli: "Oggi ho trenta udienze". Saranno pronunciate, forse, 30 sentenze e riguardano tutti ragazzini al di sotto dei 18 anni. Ogni anno la Procura per i minorenni iscrive quasi 3mila procedimenti. Sono le 9 e ai Colli Aminei è un via vai di persone, lui scherza e sorride ma si commuove quando ricorda la frase di un ragazzino che processò negli anni Novanta. "Fu una delle prime indagini in Italia che dimostrava la partecipazione di minorenni nella camorra, io ero sostituto procuratore. Dopo una serie di udienze con questo ragazzo ci davamo del tu, si chiamava Luigi. Dopo la condanna si avvicinò e mi disse: "Se ti avessi conosciuto prima". Una cosa che ricorderò per tutta la vita. E sono venti anni che continuo a stare qui perché qualche volta mi sento utile. Nessuno nasce cattivo, il cromosoma della cattiveria non esiste, soprattutto per i ragazzini". I babykiller, le paranze, le stese. Ne hanno parlato l’ex boss della camorra Giuseppe Misso e autorevoli magistrati. È diventato ormai un fenomeno? Cosa c’è dietro? "Non è affatto un fenomeno e pare che le persone abbiano scoperto l’acqua calda. Non ci siamo inventati niente: le bande giovanili esistono da sempre. L’aggregazione fra ragazzi è fisiologica, dipende da come viene gestita. Il problema è che questi ragazzi sono lasciati allo stato brado". A 15 anni si può essere un boss? "No. Se al boss diamo l’accezione di colui è in grado di comandare". Cosa si è allora a 15 anni, quando si prende una pistola e si uccide? "Si è lo stesso ragazzino che molti anni prima impugnava la fionda e spaccava i vetri. Ma poiché il livello etico è sceso e la violenza è cresciuta, oggi si ammazza e si accoltella per nulla". Chi deve sentirsi in colpa per la fine di questi minorenni? "Il pesce puzza sempre dalla testa. Questi ragazzi sono abbandonati dalle famiglie e dalla società. Dei minori tutti parlano ma nessuno fa niente. Inutile parlare di progetti senza mettere mano alla tasca, senza denaro non si cantano messe. Taglia oggi, domani e dopodomani: i risultati sono questi". Perché si tende ad emulare boss e killer? "Ciò che fa notizia è il bullo che dice: io sono più forte di te. Abbiamo costruito una società dell’apparire. Il messaggio è: devo arrivare a quel punto? Bene, non importa quanti morti e feriti lascio per strada". E la scuola? "Io inserirei una nuova materia: educazione all’indignazione. Non siamo più capaci di indignarci di fronte alle cose, anche davanti a quelle gravi. Ci scivola tutto addosso". Come si deve intervenire? "Con azioni dello Stato decisamente più incisive. Dove la famiglia non riesce a gestire un minore, deve intervenire lo Stato. Ma le leggi attuali rappresentano un’arma spuntata. Da una casa famiglia uno entra e esce quando vuole: occorre il collocamento in una comunità protetta dove invece il minore è chiuso dentro ed ha la possibilità di sperimentare che esiste una via diversa". Il carcere può servire? "È una ipotesi residuale. Può avere una funzione, il carcere in certe situazioni ti sveglia da un sogno. È un cazzotto in faccia. Ci sono tre grandi categorie di minori che transitano da qui: quelli che hanno fatto una cazzata, quelli che se fossero stati seguiti non avrebbero commesso errori, quelli che sono minori solo anagraficamente. Solo i primi due gruppi hanno possibilità di essere salvati". La vera realtà della camorra: comandano ancora i capi storici di Marco Demarco Corriere della Sera, 23 settembre 2016 Giudici, ministri, addetti ai lavori attribuiscono un ruolo centrale ai minorenni fanatici e senza padrini di riferimento. Non è così. I suoi non erano colpi in banca, ma "prelievi forzati", e di conseguenza lui non era un rapinatore ma un "prelevatore". Non si definisce un pentito, ma un "ravveduto". E benché sia stato un pluriomicida capo della camorra, nonché uno dei protagonisti della triste storia del rapido 904 (16 vittime, anno 1984), si presenta come "scrittore" (per un libro pubblicato e un altro in uscita) e si identifica con Ignác Semmelweis, l’incompreso scopritore della febbre puerperale, morto in manicomio, a cui Céline dedicò la tesi di laurea. Giuseppe Misso ha uno strano modo di presentarsi, ma in un’intervista esclusiva al Corriere del Mezzogiorno ha detto una cosa che merita attenzione. Riguarda i baby-boss diventati famosi per le "stese", le sparatorie intimidatorie nei quartieri popolari, e le confessioni fatte alle telecamere di Michele Santoro. Giudici, ministri, addetti ai lavori: in molti ritengono che a comandare siano loro, i minorenni fanatici e senza padrini di riferimento, i nostri "radicalizzati". Il che per un verso inquieta, ma per un altro aiuta ad accreditare la comoda idea di una camorra ormai sconfitta, con tutti i capi storici isolati in galera. A sorpresa, Misso sovverte la visione dominante. "Quei ragazzi - dice - fanno molto rumore, ma la realtà è un’altra...sono manovrati per spostare l’attenzione dai traffici milionari di droga, e se volessero, quelli che ancora davvero comanda, i Licciardi, i Moccia, i Contini, li farebbero sparire nell’acido in 24 ore". Staremmo dunque correndo dietro lepri messe in pista dai soliti capiclan. L’ipotesi ha un precedente. In un saggio di Giovanni Starace ("Vite violente, psicanalisi del crimine organizzato"), a proposito di certe "incomprensibili" dinamiche camorristiche (faide decennali, duelli e delitti spettacolari) l’ex pm antimafia Giovanni Melillo si chiede: e se fossero "il tributo da versare alla simulazione dell’azione repressiva dello Stato"? Appunto. Il fantasma dell’onestà che paralizza la Capitale di Carlo Nordio Il Messaggero, 23 settembre 2016 Tutti conoscono il paradosso di Epimenide di Creta. "Io - sosteneva il filosofo scrittore cretese - dico sempre e solo bugie". Il che è assurdo. Perché, o l’affermazione era anch’essa falsa, e allora qualche volta il cretese diceva la verità; oppure era vera, e allora, proprio perché era vera, smentiva sé stessa. La tesi del sindaco Raggi di ritirare la candidatura di Roma perché offrirebbe l’occasione alle corruzioni e agli sprechi, è un paradosso analogo. Purtroppo esso non si esaurisce in un esercizio dialettico, perché vulnera la credibilità del Paese e offende i cittadini, soprattutto i romani. Ma è anche un assurdo logico, perché contraddice i postulati della stessa protagonista, la quale si era candidata con la promessa di intraprendere un’amministrazione onesta. Infatti delle due l’una. O la Raggi ritiene, come par di capire, che sia oggettivamente impossibile operare a Roma senza commettere qualche odioso reato. E allora non doveva promettere niente, o meglio, doveva promettere di non far niente. Oppure si dichiara incapace, lei, di evitare l’illegalità, e allora anche la sua onestà diventa inutile. In entrambi i casi, vi è un’impotente rassegnazione a una inerte, inevitabile decadenza. A parte la sua illogicità, questo atteggiamento è davvero singolare. Un sindaco, soprattutto dopo le riforme degli anni passati, possiede tutti gli strumenti preventivi e repressivi per evitare tanto la corruzione quanto gli sprechi. Individuando le competenze, semplificando le procedure e vigilando con diligenza, il primo cittadino può benissimo controllare tanto la correttezza delle aggiudicazioni degli appalti quanto la loro perfetta esecuzione. Non solo. Valendosi della collaborazione dell’Anac può individuare, e se necessario sventare tempestivamente, tutti i tentativi di interferenze anomale e di cointeressenze sospette. È vero che l’esordio dei rapporti tra la Raggi e il dottor Cantone è stato, certo non per colpa di quest’ultimo, quantomeno infelice; ma l’incredibile vicenda della magistrata capo di Gabinetto è già dimenticata, e comunque non può compromettere, per il futuro, una collaborazione tra due organismi così importanti. In conclusione, l’arsenale normativo e operativo a disposizione del sindaco era ed è tale da consentire di accettare la sfida anche con le più agguerrite e insidiose organizzazioni criminali. Certo occorre, come insegnava lo storico e politico inglese Edward Gibbon, l’intelligenza per capire, il coraggio per decidersi e la forza per eseguire. Il messaggio che arriva da questa rinuncia getta un’ombra funesta quantomeno sugli ultimi due requisiti. Infine, e forse ancor più grave, è la fonte di questo messaggio. Pare infatti che la decisione sia stata presa, dopo mille esitazioni, a seguito di un’intimazione arrivata da Grillo. Una sorta di eterodirezione che mai si era vista negli annali della nostra pur disastrata politica. È vero che spesso, e forse sempre, le decisioni più importanti sono state prese fuori dalle assemblee legittimamente elette: il convento di Santa Dorotea, le segreterie particolari, via via fino alle aziende Fininvest e i relativi studi legali. Tuttavia mai si era arrivati al palcoscenico di un comico. È vero che al peggio non c’è mai fine. Questa, tuttavia, sembra la comica finale. "Io killer pericolosa anche a casa? In 5 mesi non ho ucciso i miei figli" di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 23 settembre 2016 La Cassazione annulla la scarcerazione dell’infermiera di Piombino. "Ho appreso la notizia con sorpresa, anche stavolta non me l’aspettavo, ma con grande serenità. "Come ho appreso la notizia? Con sorpresa, anche stavolta non me l’aspettavo, ma con grande serenità. So di essere innocente e le indagini e gli accertamenti vanno tutti in questa direzione. Non ho mai ucciso nessuno. Alla gente ho sempre cercato di salvare la vita". Fausta Bonino, l’infermiera accusata di aver assassinato 14 pazienti dell’ospedale di Piombino con iniezioni di eparina, ha saputo della decisione della Cassazione davanti al mare di Rio Marina, all’Isola d’Elba, dove sta trascorrendo un periodo di vacanze con il marito Renato. La prima sezione penale della Suprema Corte ha accolto il ricorso della procura di Livorno e ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze con la quale era stata disposta la sua scarcerazione. Adesso i giudici fiorentini dovranno riesaminare il caso". Teme di tornare in carcere, signora Bonino? "No, come dice il nostro avvocato Cesarina Barghini le nuove indagini e i nostri accertamenti stanno dimostrando la mia assoluta innocenza". Però la procura di Livorno ritiene che lei sia socialmente pericolosa… "La procura di Livorno ha scritto che io devo stare in galera perché potrei uccidere mio marito e i miei figli. Sono passati più di cinque mesi, mio marito è accanto a me (lui sorride scuotendo la testa) e i miei figli, se Dio vuole, godono di ottima salute". Si sente vittima di un complotto? "Credo ci sia stato un accanimento nei miei confronti, prima dei carabinieri e poi della procura. A giorni ci saranno altri esami (con la riesumazioni delle vittime, ndr) e, come dice il mio legale, sarà confermata la verità". E qual è la verità, infermiera Bonino? "Quella che hanno evidenziato i periti: l’eparina trovata fa parte di contaminazioni involontarie su alcuni cateteri e provette". Lei ha dichiarato che guarderebbe negli occhi i parenti delle vittime ai quali ha espresso le sue condoglianze. Li ha incontrati? "Non spetta a me chiedere d’incontrarli. Se vorranno sarà un piacere parlare con loro e abbracciarli". Ha avuto problemi in questi mesi di libertà, l’hanno guardata con diffidenza? "Ho avuto solo testimonianze di stima e di affetto, soprattutto da chi mi conosce. Anche il sindaco di Rio Marina ha espresso pubblicamente la sua solidarietà e mi ha dato il benvenuto nel suo comune. Mi ha fatto molto piacere". Il procuratore di Livorno, Ettore Squillace Greco, non ha voluto commentare la decisione della Cassazione. "Noi non facciamo i processi a mezzo stampa", ha detto. Aggiungendo che "come privato cittadino mi auguro che ora non si parli di "sberle" della Cassazione al tribunale del Riesame. Le decisioni dei giudici si possono impugnare, criticare, ma vanno sempre rispettate. Auspico che in questa vicenda si acquisiscano maggiore misura e sobrietà nelle valutazioni e nei giudizi". Cassazione, una "circolare" boccia le sentenze-fiume di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2016 Un invito a smetterla con le sentenze-fiume, ma soprattutto con quelle pronunce di ampio e documentato sfoggio del diritto, ma di limitata efficacia pratica. Aumenta lo stock dei processi giacenti. E la Cassazione corre ai ripari dettando un vademecum per la redazione delle sentenze. Lo mette nero su bianco il primo presidente Giovanni Canzio in un decreto diffuso ai consiglieri. Decreto che prende innanzitutto atto della crescita delle pendenze che ormai sono a quota 107.000, frutto di una durata media dei procedimenti del tutto irragionevole (3 anni e 5 mesi per le sezioni ordinarie; 5 anni e 5 mesi per la sezione tributaria; 1 anno e 8 mesi per la Sesta sezione, quella chiamata a "scremare" i giudizi"). Allora, nell’assenza (almeno per ora) di misure più incisive, attese invano nel recente decreto legge sul pensionamento dei vertici della Cassazione stessa (si veda l’intervento pubblicato sul Sole 24 Ore di ieri), a muoversi è stato lo stesso Canzio nella convinzione "che le modalità di redazione dei provvedimenti possono costituire uno degli strumenti utili per consentire alla Corte di svolgere il proprio ruolo, sia mediante la chiarezza argomentativa delle decisioni, in primo luogo di quelle a valenza nomofilattica, sia mediante la differenziazione delle tecniche motivazionali". Tanto più poi che questo tema ricorre da tempo in atti normativi, la riforma del processo civile (legge n. 69 del 2009), in progetti del ministero della Giustizia che, anche su questo punto, ha messo in campo un gruppo di lavoro, in protocolli magistrati avvocati (intesa Cassazione-Cnf del 17 dicembre 2015). A rafforzare ancora l’opportunità di un intervento c’è poi il fatto, sottolinea il decreto, che una parte maggioritaria dei procedimenti non richiede un intervento nomofilattico (ergo, per assicurare l’uniformità nell’applicazione del diritto): quelli che richiedono una pronuncia sul vizio di motivazione, quelli in cui la denuncia di vizi di legittimità si risolve nella prospettazione di una diversa valutazione del merito della controversia, quelli in cui la soluzione comporta l’applicazione di principi consolidati. E allora, raccomanda Canzio, il "peso" in termini di esigenza di unità del diritto deve essere individuato e reso evidente; per tutti gli altri provvedimenti, in numero maggioritario appunto, vanno adottate tecniche più snelle di scrittura delle motivazioni. Così, l’esposizione dei fatti di causa può anche mancare del tutto, quando questi emergono dalle ragioni della decisione e quella dei motivi di ricorso omessa quando la censura risulta dallo stesso tenore della risposta della Corte. Più praticamente le istruzioni invitano i consiglieri delle sezioni civili, analogamente a quanto sperimentato nel settore penale, a utilizzare, con aiuto del Ced della Corte, tecniche di redazione delle sentenze su moduli standard per specifiche questioni, siano queste ultime di natura processuale o sostanziale. Gli stessi moduli possono poi essere utilizzati, come parte delle motivazioni, nella redazione di sentenze più complesse. Attenzione poi, ricorda la circolare, che la capacità di sintesi del magistrato anche attraverso la motivazione semplificata nella redazione dei provvedimenti giudiziari rappresenta un indice di valutazione del magistrato. La politica clientelare non prova il patto corruttivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 settembre 2016 n. 39462. La scoperta di una politica di assunzioni di tipo clientelare non integra quei "gravi indizi" di un "accordo corruttivo" che autorizzano la custodia in carcere. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 22 settembre 2016 n. 39462, rigettando il ricorso della Procura contro l’ordinanza del Tribunale del riesame, e affermando che la ricerca di voti a favore di politici locali come forma di "gratitudine" per l’assunzione presso una società di servizi, in assenza di un vero e proprio "accordo criminoso", non prova la "corruzione propria" né "elettorale", anche se l’imputato è un pluripregiudicato per mafia, considerato che tra la stabilizzazione e le elezioni erano passati 4 anni. La Suprema corte ricorda che ai fini dell’accertamento del reato di "corruzione propria", anche nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, "è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio è stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione" (n. 5017/2011). E che "deve escludersi l’esistenza di un accordo corruttivo quando l’atto contrario ai doveri di ufficio sia stato oggetto solo di una promessa indeterminata da parte del pubblico ufficiale, senza certezza di prestazioni corrispettive tra le parti" (3522/2011). Dunque, la giurisprudenza esprime l’esigenza che la prova dell’accordo illecito, "quale fatto tipico costituente il reato di corruzione propria", sia raggiunta in termini di certezza al di là del ragionevole dubbio. Riguardo poi alla "corruzione elettorale", i giudici di legittimità hanno chiarito che le attività illecite costituite dalla promessa, dalla offerta o dalla dazione di denaro o altra utilità, "devono necessariamente svolgersi a ridosso dell’elezione", in quanto "impongono la definizione di un ambito temporale entro il quale si configura l’aggressione alla libertà di scelta elettorale, ambito che va ragionevolmente contenuto tra la data in cui risulti comunque proposta la candidatura e quella dell’elezione". E, in linea con queste indicazioni, la decisione ha ritenuto che anche tale reato richieda un preciso "patto con il candidato". Del resto, prosegue, "la necessità del pactum sceleris finalizzato a una specifica e prossima espressione di voto" emerge dal testo dell’articolo 86 del Dpr 570/1960. Di conseguenza, conclude la Corte, una volta esclusa l’esistenza di un accordo illecito "funzionale allo scambio tra utilità corrisposte dai candidati o dai loro sponsor e sostegno offerto loro nella specifica campagna elettorale del 2009, correttamente è stata ritenuto non configurabile il delitto di corruzione elettorale". Allo stesso modo, una volta esclusa la sussistenza "di un accordo di scambio tra gli atti amministrativi relativi all’assunzione dell’imputato nella società di servizi e alla sua preposizione all’incarico di responsabile di settore e la dazione o la promessa di specifiche utilità da parte di questo in favore dei pubblici amministratori, correttamente è stato ritenuto non configurabile il delitto di cui agli artt. 319e 321 cod. pen.". Al giudice penale la decisione sull’importo dell’imposta evasa di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 39379/2016. Spetta esclusivamente al giudice penale l’accertamento e la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa e si deve tenere conto degli elementi negativi di reddito anche sulla base dell’analisi e della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale dell’ordinamento tributario. Pertanto, contestando vendite non dichiarate, occorre considerare anche i costi d’acquisto pure non dichiarati dei beni, perché nella propria dichiarazione il contribuente ha verosimilmente esposto i soli costi relativi a beni regolarmente venduti. A precisarlo è la sezione III penale della Corte di cassazione con la sentenza 39379/2016 depositata ieri. Un contribuente era stato condannato per infedele dichiarazione avendo omesso di dichiarare vendite on line di beni. Nel caso specifico, la Guardia di Finanza aveva quantificato il volume delle vendite attraverso i dati acquisti con specifica richiesta ad una società che gestisce un portale di vendite online. Successivamente alla condanna in appello, proponeva ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, che non erano stati debitamente considerati i costi sostenuti per la produzione del reddito con la conseguenza che le imposte evase erano inferiori a quelle contestate ed alla soglia di punibilità. In altre parole dai controlli presso la società che gestiva il portale era stato possibile riscontrare vendite on line di beni non dichiarate da parte dell’imputato ma non si era tenuto per nulla conto dei costi di acquisto dei beni stessi. A questo proposito la Corte d’appello aveva ritenuto che non avendo l’imputato provato che tra i costi regolarmente dichiarati non fossero inclusi anche quelli dei beni venduti in evasione d’imposta, non si poteva procedere al riconoscimento di tali oneri. La Cassazione ha invece accolto il ricorso. Innanzitutto è stato ribadito che per imposta evasa deve intendersi l’intera imposta dovuta da determinarsi dalle risultanze acquisite nel processo penale e sulla base dell’analisi e della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario. Di conseguenza, per la determinazione deve tenersi conto anche degli elementi negativi di reddito spettando esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa da intendersi come l’intera imposta dovuta attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata in sede tributaria. Nello specifico, rilevano i giudici di legittimità, è stato ritenuto sufficiente il conteggio degli oneri passivi indicati nella dichiarazione fiscali presentate dal contribuente, nelle quali però non erano stati indicati i ricavi oggetto degli accertamenti successivamente compiuti dalla Guardia di Finanza. Tali costi, quindi, dovevano necessariamente riferirsi ai ricavi riportati nella contabilità ed indicati nelle dichiarazione fisali e non anche a quelli oggetto di imputazione. Da qui l’accoglimento del ricorso e il rinvio alla Corte d’appello stante la necessità di determinare la sussistenza della soglia di imposta evasa attraverso la considerazione dei costi documentati o in ogni caso presumibili. La pronuncia assume rilievo perché può accadere che il Pm, conformandosi alla tesi dei verificatori, in presenza di maggiori ricavi o di dichiarazione omessa calcoli l’imposta evasa sulla base dei soli ricavi lordi senza tener conto dei costi comunque sostenuti i quali - come precisa la Cassazione - possono essere documentati dall’imputato o comunque presunti come nel caso esaminato. Lucca: detenuto si suicida in cella, secondo caso in pochi giorni in Toscana La Repubblica, 23 settembre 2016 Tre giorni fa un uomo si era tolto la vita nel penitenziario di Grosseto. Un detenuto tunisino di 28 anni si è tolto la vita impiccandosi all’interno del carcere di San Giorgio di Lucca ieri sera. L’allarme è stato lanciato dagli agenti penitenziari che sono intervenuti subito. Sul posto è stato chiamato il 118 ma i sanitari hanno potuto solo constatare il decesso del detenuto. Un suicidio che arriva solo a tre giorni di distanza da un altro caso, questa volta nel penitenziario di Grosseto. A togliersi la vita era stato un italiano di 47 anni detenuto perché indagato per i reati di lesioni e maltrattamenti in famiglia. "L’agente di servizio - aveva spiegato il segretario toscano del Sappe Pasquale Salemme - aveva fatto il giro di controllo alle 3 e l’uomo dormiva (o almeno così sembrava); al successivo passaggio, alle 3.15 circa, l’ha trovato impiccato alla finestra. Subito si è intervenuti ma purtroppo non c’è stato nulla da fare". Palermo: i ragazzi dell’Ipm Malaspina si scoprono pasticcieri di Sveva Alagna La Repubblica, 23 settembre 2016 Un gruppo di detenuti dell’istituto minorile produce biscotti e crostate. È il progetto "Cotti in fragranza" che prevede anche catering. Che siano frollini al mandarino, crostatine al gelo di melone o focaccine salate, il sapore è quello buono della lavorazione con l’uso di materie prime locali e quello intenso della partecipazione. Dietro i prodotti del biscottificio Malaspina, infatti, c’è un vero laboratorio, che nasce proprio nel complesso del carcere minorile, e un obiettivo: trasmettere un mestiere ai giovani detenuti. Promosso dall’Istituto penale per i minorenni, dall’associazione Centro studi Don Calabria e dalla Fondazione San Zeno, con il sostegno dell’associazione Nazionale magistrati, "Cotti in fragranza" è il laboratorio gestito dalla neocostituita cooperativa sociale Rigenerazioni, con l’obiettivo di realizzare prodotti da forno di qualità, è una delle poche realtà imprenditoriali italiane all’interno di un istituto penale minorile. Il laboratorio è stato inaugurato il 27 giugno, ma oggi è pronto per commercializzare i suoi prodotti. Il direttore del Malaspina, Michelangelo Capitano, parla di un progetto portatore di "etica della responsabilità". La mente organizzativa del gruppo è uno dei ragazzi del Malaspina, attento agli aspetti legati alla logistica. Un altro ragazzo dell’istituto ha creato lo slogan del progetto: "Se non li gusti non li puoi giudicare". Tutti i ragazzi che partecipano all’iniziativa sono essenziali per la sua riuscita. Con il tempo sono emerse delle attitudini più specifiche, ma ognuno è autonomo nella produzione di Buonicuore, i frollini ideati da Giovanni Catalano (pasticcere del bar Oscar) fatti con i mandarini raccolti in terreni di Ciaculli confiscati alla mafia e realizzati con la farina Maiorca bio molita a pietra, lo zucchero integrale di canna Muscovado, il lievito biologico, burro e latte a km 0. Un vero e proprio "prodotto di lancio" (disponibile in vari formati, con un prezzo medio di quattro euro), che oggi si può trovare in vendita alla caffetteria della Galleria d’arte moderna, allo Spaccio Bio, da U babbìo, Equonomia, Qbio e alla bottega di Libera. "La volontà è diversificare i prodotti - dice Nadia Lodato, coordinatrice del progetto con Lucia Lauro - proponendo non solo pasticceria ma anche rosticceria per catering. I ragazzi hanno già lavorato ad alcuni eventi, tra cui il varo della barca Lisca Bianca e il ricevimento per un’unione civile". L’ordine si può effettuare telefonando al 3395738946, ma a breve il sito cottiinfragranza.com offrirà un servizio di e-commerce. Il progetto è stato sostenuto da tanti professionisti tra i quali lo chef formatore Nicola Cinà e dalla Federazione italiana pasticceri Sicilia. I ragazzi, che hanno svolto il corso per la certificazione Hccp (sulla sicurezza degli alimenti) e hanno anche imparato a emettere le ricevute, lavorano quattro ore al giorno, dal lunedì al venerdì, per una produzione settimanale di 300 chili di biscotti Buonicuore: "L’obiettivo è raddoppiare la produzione - conclude Lodato - in questo momento ai ragazzi garantiamo un periodo di lavoro, speriamo presto che possano divenire soci della cooperativa". Milano: il giardino di San Vittore sarà intitolato a Pannella La Repubblica, 23 settembre 2016 Un giardino per il leader radicale Marco Pannella, scomparso il 19 maggio scorso a 86 anni. L’idea è quella di intitolargli la zona verde di fronte al penitenziario di San Vittore (o un altro luogo ugualmente significativo). Allo stesso tempo, a Palazzo Marino è stata istituita una sottocommissione "Carcere, pene e restrizioni della libertà personale". "Nonostante i poteri del Comune sulle carceri e sulle restrizioni delle libertà personali siano limitati - spiega la capogruppo di Sel, Anita Pirovano - è fondamentale che la città e il suo Consiglio comunale si occupino e preoccupino di persone e diritti che troppo spesso rimangono sottotraccia per le istituzioni, sembrano invisibili per le politica, vengono rimossi per l’opinione pubblica. C’è ora tanto lavoro concreto da fare di concerto con la garante delle persone con restrizioni delle libertà personali Alessandra Naldi". Del resto, come diceva la massima di Voltaire citata dalla consigliera di Sel, "non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione". Torino: i prodotti dell’economia carceraria a "Terra Madre - Salone del Gusto 2016" primapaginanews.it, 23 settembre 2016 Terra Madre - Salone del Gusto 2016, l’importante manifestazione internazionale di enogastronomia, organizzata da Slow Food insieme a Regione Piemonte e Città di Torino, che si tiene a Torino dal 22 al 26 settembre 2016, ospita anche le eccellenze enogastronomiche realizzate nelle carceri italiane, grazie alla collaborazione tra il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte, il Presidente di Slow Food Carlo Petrini, i Garanti regionale e comunale dei diritti dei detenuti il Comune di Torino e Cooperative sociali. L’Amministrazione penitenziaria sarà presente con uno stand, ceduto a titolo gratuito dagli organizzatori della manifestazione, allestito nel grande mercato all’interno del Parco del Valentino. Lo spazio è finalizzato a far conoscere le opportunità trattamentali offerte ai detenuti oltre che alla presentazione delle produzioni enogastronomiche carcerarie. Alla conferenza stampa che si terrà venerdì 23 settembre, alle ore 11.30, presso la sala stampa del Castello del Valentino, a cui partecipano il provveditore regionale Luigi Pagano, il direttore della Casa circondariale di Torino Domenico Minervini, i garanti regionale e comunale Bruno Mellano e Monica Cristina Gallo, i responsabili delle cooperative Ecosol e Extraliberi, saranno presentati altri eventi previsti nell’ambito della manifestazione: inaugurazione di Freedom, il nuovo negozio destinato ai prodotti dell’economia carceraria nazionale realizzato in un locale in pieno centro storico, ceduto in comodato gratuito dal Comune di Torino al Provveditorato Regionale, la cena di inaugurazione del ristorante Liberamensa, situato nell’intercinta dell’Istituto penitenziario di Torino, nella serata di venerdì 23 settembre 2016, preparata dallo chef "stellato" Salvatore Toscano. Lo chef, che lavorerà a titolo gratuito, sarà coadiuvato nell’occasione dai detenuti che lavorano per la Cooperativa Ecosol, cooperativa che gestisce il ristorante Liberamensa, nonché da una rappresentanza di detenuti della Scuola Alberghiera della Casa circondariale di Cuneo. È di ieri sera, 21 settembre, l’inaugurazione a Grugliasco, in Corso Torino 78, del Bistro realizzato dalla cooperativa sociale Pausa Café che da diversi anni realizza produzioni agroalimentari all’interno degli istituti penitenziari piemontesi. Il Bistro costituisce un’importante occasione lavorativa per ex detenuti e soggetti in esecuzione penale esterna. Tutti gli eventi sono organizzati in collaborazione con le Cooperative sociali che da tempo lavorano insieme al Provveditorato regionale per la promozione del lavoro in carcere e per la realizzazione di attività imprenditoriali utili a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Napoli: una giornata di musica tra i detenuti di Poggioreale Roma, 23 settembre 2016 Arte, cultura e spettacolo nell’ambito dell’evento "Gennaro, il sangue di un popolo". Incontrarsi e trovarsi tra i detenuti del carcere di Poggioreale o in mezzo ai ragazzi delle periferie che suonano nel Duomo: una giornata particolare che ha rispecchiato in pieno lo spirito del programma di "Gennaro, il sangue di un popolo" dedicato al protettore degli ultimi. Un calendario di eventi con musica, arte, cultura, sport, spettacolo, solidarietà e fede nei siti simbolici del Santo, realizzato dalla Regione Campania in collaborazione con la Curia di Napoli, a cura della società regionale Scabec e della Fondazione Fare Chiesa e Città, che fa da corollario alle celebrazioni liturgiche dedicate al Santo Patrono della città di Napoli. Una giornata di musica che è cominciata nella casa circondariale di Poggioreale, dove il maestro Pietro Quirino e il Quartetto Calace hanno tenuto un concerto per i detenuti del padiglione Firenze con musiche su Napoli, la sua storia, le sue canzoni e la sua devozione per il Martire. Il concerto sarà poi replicato anche nella casa circondariale femminile di Pozzuoli nel prossimo mese di ottobre. Gli scrosci di pioggia non hanno fermato i ragazzi delle bande musicali che hanno riempito il Duomo con la loro allegria e la loro musica. La cattedrale cittadina ha fatto da scenario a "Convenire suonando", concerto delle bande musicali del progetto "Canta, suona e cammina", composte da giovani che hanno scoperto e condiviso la passione per la musica. Il progetto è riuscito ad appassionare finora più di 300 ragazzi tra gli 8 e i 15 anni provenienti dalle parrocchie di Santa Caterina a Formiello a Porta Capuana, Santa Maria della Misericordia di Capodimonte, Maria Santissima del Buon Rimedio di Scampia, Santa Lucia a Mare, San Michele Arcangelo di Afragola, zona Salicelle, Santa Maria del Popolo, che raccoglie gli abitanti di Torre del Greco ed Ercolano e il Centro Ester di Barra. Le performance dei ragazzi sono state applaudite, tra gli altri, dal cardinale Crescenzio Sepe, da Padre Adolfo Russo responsabile delle attività culturali della Curia di Napoli, e presidente della Fondazione Fare Chiesa e Città, e da Patrizia Boldoni, presidente della Scabec. Cinema. "Cambiare e sperare". Parola di ergastolano. Il docu-film presentato a Opera di Ilaria Sesana Avvenire, 23 settembre 2016 Da quanto tempo sei qui?". "Da ventidue anni", risponde il primo uomo. Da venticinque, risponde, il secondo. Da diciannove, il terzo. E così via. C’è anche chi pronuncia un numero spaventoso: 34. "Qui" è il carcere di Opera, Milano. A parlare, alcuni detenuti che si sono macchiati di reati molto gravi e che - a differenza di quanto avviene per i detenuti comuni - non hanno un fine pena. Il loro ergastolo è "ostativo", nega cioè ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario. Una condizione cui sono soggette circa 1.200 persone nelle varie carceri italiane. A parlare sono Alfredo, Vito, Gaetano, Orazio, Giuseppe, Rocco, Ciro e Roberto, protagonisti del docufilm "Spes contra spem. Liberi dentro" del regista Ambrogio Crespi, prodotto da "Nessuno tocchi Caino" ed Indexwav. Che, dopo il debutto ufficiale al Festival di Venezia, è stato proiettato ieri per la prima volta al pubblico all’interno del carcere milanese. Il film colpisce fin dal titolo, che richiama un passaggio della lettera di San Paolo ai Romani sull’incrollabile fede di Abramo che "ebbe fede sperando contro ogni speranza". Speranza e cambiamento sono le due parole chiave che ricorrono durante tutta la narrazione, che è un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso. A raccontarsi sono uomini che riconoscono i propri errori, che ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite libere perdute, perché solo in carcere hanno potuto prendere coscienza di quello che hanno fatto. Uomini che spiegano come gli ambienti in cui sono cresciuti li abbiano in qualche modo forzati ad agire in un determinato modo (senza però auto assolversi), anche per la mancanza di punti di riferimento diversi. Oggi sono loro stessi a "confessarsi". "Se potessi parlare con un ragazzo che vuole intraprendere quella che considera la via più facile per avere denaro e potere, gli direi che quella strada lo porterà solo verso una vita ricca di dolore e di sangue - riflette Salvatore". Noi abbiamo alle spalle anni di carcere, anche duro, ed è un inferno. Ma è poca cosa rispetto a quello che vi chiede la vostra coscienza. È un tribunale che non vi lascia scampo". "Dal film emerge come questi uomini si siano allontanati dal loro mondo di origine. Ed è il manifesto più potente contro la criminalità organizzata - riflette Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara. Perché smantella l’immagine monolitica dell’ergastolano irriducibile". Un processo di cambiamento in cui ha un ruolo fondamentale il difficile lavoro svolto dalla direzione del carcere e dagli agenti di polizia penitenziaria. Protagonisti, al pari dei detenuti, del docu-film. E che, come sottolinea l’associazione "Nessuno tocchi Caino", "stanno compiendo un’opera straordinaria per cercare di fare uscire di qui persone diverse. Per realizzare un cambiamento. Un’opera che la società dovrebbe riconoscere e valorizzare". "Ciascuno di noi, nel suo ruolo, sta lavorando nella medesima direzione", conclude il direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano. Cinema. Detenuti, un film sull’ergastolo alla ricerca della speranza di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 settembre 2016 Nel carcere di Opera. Il docu-film "Spes contra spem - Liberi dentro", dopo essere stato presentato al Festival di Venezia, è approdato nel luogo in cui è stato pensato, girato e realizzato. "Per la vita che facevo non ho visto crescere nessuno dei miei figli. Il più grande l’ho lasciato che aveva sette anni. Oggi ha dei figli anche lui". "Non c’è nessuna scusante nel fare del male agli altri. Io sono qui perché ho un ergastolo". Le facce sono al buio per metà. La luce viene solo da una parte e dell’intera stanza non si vede altro che quell’altra metà di faccia illuminata per metà, come un Caravaggio. Bianco e nero, anime a nudo. Sono gli ergastolani che raccontano la loro storia e la loro vita nel docu-film "Spes contra spem - Liberi dentro" che dopo essere stato presentato al Festival di Venezia è approdato giovedì pomeriggio nel luogo in cui è stato pensato, girato e realizzato: il carcere di Opera. C’erano quelli che l’hanno fatto, detenuti e non. E c’erano tanti a guardarlo, detenuti e non. Mai abbastanza rispetto a quelli che - detenuti, ma soprattutto non - dovrebbero vederlo. Per sapere qualcosa di più, o anche solo avere qualche spunto di meditazione, su concetti come la colpa, il male, la punizione, la disperazione, ma anche su loro contrario, la coscienza, il bene, il cambiamento, la speranza. In una parola: sull’uomo. Partendo da quel particolare tipo di uomo che dopo aver compiuto una o tante azioni terribili, a volte efferate, si trova con la vita sintetizzata nella frase finale del suo fascicolo di condanna: "Fine pena mai". Per il film, che già a Venezia aveva fatto parlare tantissimo, quella di giovedì è stata la prima proiezione "pubblica". Insieme con il regista Ambrogio Crespi - che tanti anni fa ci aveva trascorso da detenuto 200 giorni anche lui, a Opera - c’erano tra gli altri il vicacapo dell’amministrazione penitenziaria Massimo de Pascalis, il direttore del carcere Giacinto Siciliano, il capo degli agenti Amerigo Fusco e il costituzionalista Andrea Pugiotto, e Sergio d’Elia che con Elisabetta Zamparutti e Rita Bernardini rappresentava i vertici di "Nessuno tocchi Caino", l’associazione da cui il film è stato co-prodotto. E c’erano naturalmente i detenuti che in quei settanta minuti, insieme con agenti e operatori del carcere, raccontano la loro storia: Alfredo Sole, Vito Baglio, Gaetano Puzzangaro, Orazio Paolello, Giuseppe Ferlito, Rocco Ferrara, Ciro d’Amora e Roberto Cannavò. Il titolo "Spes contra spem" è un riferimento alla Lettera di San Paolo ai Romani sulla fede di Abramo che in essa trovò la forza di "sperare contro ogni speranza". Cioè esattamente la sfida che si trova di fronte un uomo alle prese con un ergastolo "semplice", se mai ce n’è, ma con un ergastolo ostativo: cioè quello che di speranza non ne prevede nessuna, zero, quello che di galera esci solo da morto. Ma se è così, se speranza non c’è, allora dove sta il principio di recupero che la pena, qualsiasi pena - per diritto costituzionale - dovrebbe avere? Il film è il racconto di uomini che quella speranza, grazie ai programmi e alle attività di trattamento e recupero seguite in carcere - in qualche modo l’hanno trovata. È il racconto di chi dice "si può". Ed è una testimonianza fortissima anche per chi in galera non sta. Radio. Parte la settima stagione di Jailhouse Rock, trasmissione radiofonica di Antigone Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2016 Inizia la nuova e settima stagione di "Jailhouse Rock, suoni, suonatori e suonati dal mondo delle prigioni". Storie di musica e di carcere raccontate ogni settimana da Susanna Marietti e Patrizio Gonnella (rispettivamente coordinatrice nazionale e presidente di Antigone) e dai tanti detenuti che in tutta Italia collaborano alla trasmissione. Ogni puntata sarà dedicata ad un musicista che ha conosciuto il mondo del carcere del quale racconteremo questa esperienza anche attraverso le canzoni. Come per la scorsa stagione sono rinnovate le collaborazioni con le redazioni del Giornale Radio dalle Carceri di Rebibbia Nuovo Complesso e Bollate, con la rubrica l’ergastolano di Carmelo Musumeci dal carcere di Padova, con la cover band "Freedom Sounds" di Bollate e con i detenuti del Polo Universitario di Torino e, novità di quest’anno, la loro radionovella. Non mancherà anche l’intervista settimanale a Carmelo Cantone, provveditore di Puglia e Basilicata così come la rubrica calcistica sull’Atletico Diritti, squadra composta da migranti, persone in esecuzione penale e studenti, promossa da Antigone e Progetto Diritti. La prima puntata, dedicata a Johnny Cash e al suo Folsom Prison Blues, andrà in onda venerdì 23 dalle 16.00 alle 17.00 su Radio Articolo 1 e Radio Popolare Roma, domenica 25 alle 22.45 su Controradio Firenze, lunedì 26 alle 13.00 su Radio Città Aperta a Roma e, sempre lunedì, a Milano e in Lombardia alle 13.30, su Radio Popolare. Tranne per Radio Articolo 1 e Radio Popolare Roma per le quali gli orari sono relativi alla sola prima puntata, prima di entrare nella fascia 17.00-18.00, per le altre Radio questa sarà la programmazione che accompagnerà gli ascoltatori per l’intera stagione. Dalle prossime puntate la trasmissione sarà trasmessa anche da Radio Flash (in FM a Torino), Radio Città del Capo (in FM a Bologna), Radio Popolare Salento (in FM a Lecce), Radio Ciroma (in FM a Cosenza), Radio Beckwith (in FM a Cuneo e Val Pellice) in orari che verranno presto definiti in base ai singoli palinsesiti. Altre informazioni su: www.jailhouserock.it. Televisione. La fine di Escobar nella spirale del male di Giovanna Branca Il Manifesto, 23 settembre 2016 L’avevamo lasciato al culmine del suo potere, in quel momento che necessariamente coincide con l’inizio della caduta. In chiusura della prima stagione della serie di Netflix Narcos, il "protagonista" Pablo Escobar - interpretato da Wagner Moura - era infatti appena fuggito da La Catedral, il carcere-villa di lusso che si era fatto costruire dalle autorità colombiane come condizione per la sua "resa", e dal quale aveva continuato a gestire indisturbato il suo impero del narcotraffico. Laddove la prima stagione ricostruiva i quasi 20 anni dell’ascesa di Escobar, questo secondo capitolo di Narcos ripercorre solo un anno della vita del signore della droga: dal 1992 della sua fuga al dicembre ‘93, in cui viene trovato dagli uomini del Search Bloc (la squadra militare dedicata appositamente alla sua cattura) e raggiunto da una pallottola alla testa: non si è mai stabilito se come conseguenza dello scontro a fuoco o in un’esecuzione a sangue freddo. Eppure nei dieci episodi che compongono questa stagione il ritmo si fa più concitato, con meno digressioni dedicate alle vite private dei due agenti americani della Dea - Javier Peña e Steve Murphy - membri della task force che collabora con il governo colombiano allo smantellamento del regno di Pablo. In campo ci sono infatti nuove forze, si forma un’alleanza anti Escobar: il gruppo che si diede il nome di Los Pepes e che comprendeva il cartello rivale di Cali, la moglie di uno dei "caporali" di Pablo da lui ucciso nella Catedral e una truppa paramilitare sino ad allora impegnata nella lotta ai comunisti delle Farc nelle foreste colombiane. Un’alleanza su cui non a caso punta il lancio pubblicitario di questa seconda stagione, che offre la possibilità di proseguire la serie oltre il declino dell’impero di Escobar, nel mondo più frammentato ma non meno violento dei narcos a lui succeduti. La star è però lui, Pablo, sorta di incarnazione demoniaca capace di qualunque nefandezza, catalizzatore del fascino del male. Quello stesso controverso appeal che caratterizza i personaggi televisivi di maggiore successo del momento, e che si cerca di rendere "articolato" soffermandosi a lungo (a volte troppo) sull’amore di Escobar per la sua famiglia, compreso il sofferto rapporto con il padre, un cammeo finale del bravissimo attore cileno Alfredo Castro. Un male che si rispecchia allo stesso tempo in coloro che gli danno la caccia: gli accordi sottobanco della Cia con i gruppi paramilitari, la scelta di avallare metodi violenti per stanare il mostro, il vacillare della democrazia colombiana sotto i colpi inferti dal potere dei drug lords. Più di tutto però Narcos lavora intorno alle immagini cronachistiche entrate - negli anni ‘90 della guerra senza quartiere a Escobar - nell’immaginario collettivo, soprattutto americano: le macerie degli attentati bombaroli di Pablo, i cadaveri vilipesi dei suoi uomini esposti sulla pubblica piazza dai Los Pepes, lo stesso corpo senza vita del "capo dei capi" esibito come un trofeo di caccia dall’agente Murphy e dagli uomini del Search Bloc. La narrativa dietro questi frammenti di realtà viene ricostruita e reimmaginata, compiendo delle scelte interpretative su fatti altrimenti controversi come la stessa morte di Escobar sui tetti di Medellìn. Nel suo affresco del male penetrato a tutti i livelli Narcos prende posizione: la vendetta è solo uno dei tanti frutti del "seme del male" piantato da Escobar. Rispettare sempre la dignità delle persone di Papa Francesco Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2016 Il Papa incontra i giornalisti: le chiacchiere possono uccidere le persone. Pubblichiamo il discorso che il Santo Padre ha tenuto ieri all’udienza al Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. "Ci sono poche professioni che hanno tanta influenza sulla società come quella del giornalismo. Il giornalista riveste un ruolo di grande importanza e al tempo stesso di grande responsabilità. In qualche modo voi scrivete la "prima bozza della storia", costruendo l’agenda delle notizie e introducendo le persone all’interpretazione degli eventi. E questo è tanto importante. I tempi cambiano e cambia anche il modo di fare il giornalista. Sia la carta stampata sia la televisione perdono rilevanza rispetto ai nuovi media del mondo digitale - specialmente fra i giovani - ma i giornalisti, quando hanno professionalità, rimangono una colonna portante, un elemento fondamentale per la vitalità di una società libera e pluralista. Anche la Sante Sede - a fronte del cambiamento del mondo dei media - ha vissuto e sta vivendo un processo di rinnovamento del sistema comunicativo, da cui voi pure dovreste ricevere beneficio; e la Segreteria per la Comunicazione sarà il naturale punto di riferimento per il vostro prezioso lavoro. Oggi vorrei condividere con voi una riflessione su alcuni aspetti della professione giornalistica, e come questa può servire per il miglioramento della società in cui viviamo. Per tutti noi è indispensabile fermarci a riflettere su ciò che stiamo facendo e su come lo stiamo facendo. Nella vita spirituale, questo assume spesso la forma di una giornata di ritiro, di approfondimento interiore. Penso che anche nella vita professionale ci sia bisogno di questo, di un po’ di tempo per fermarsi e riflettere. Certo, questo non è facile nell’ambito giornalistico, una professione che vive di continui "tempi di consegna" e "date di scadenza". Ma, almeno per un breve momento, cerchiamo di approfondire un po’ la realtà del giornalismo. Mi soffermo su tre elementi: amare la verità, una cosa fondamentale per tutti, ma specialmente per i giornalisti; vivere con professionalità, qualcosa che va ben oltre le leggi e i regolamenti; e rispettare la dignità umana, che è molto più difficile di quanto si possa pensare a prima vista. Amare la verità vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro. Vivere e lavorare, dunque, con coerenza rispetto alle parole che si utilizzano per un articolo di giornale o un servizio televisivo. La questione qui non è essere o non essere un credente. La questione qui è essere o non essere onesto con se stesso e con gli altri. La relazione è il cuore di ogni comunicazione. Questo è tanto più vero per chi della comunicazione fa il proprio mestiere. E nessuna relazione può reggersi e durare nel tempo se poggia sulla disonestà. Mi rendo conto che nel giornalismo di oggi - un flusso ininterrotto di fatti ed eventi raccontati 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana - non è sempre facile arrivare alla verità, o perlomeno avvicinarsi ad essa. Nella vita non è tutto bianco o nero. Anche nel giornalismo, bisogna saper discernere tra le sfumature di grigio degli avvenimenti che si è chiamati a raccontare. I dibattiti politici, e perfino molti conflitti, sono raramente l’esito di dinamiche distintamente chiare, in cui riconoscere in modo netto e inequivocabile chi ha torto e chi ha ragione. Il confronto e a volte lo scontro, in fondo, nascono proprio da tale difficoltà di sintesi tra le diverse posizioni. È questo il lavoro - potremmo dire anche la missione - difficile e necessaria al tempo stesso di un giornalista: arrivare il più vicino possibile alla verità dei fatti e non dire o scrivere mai una cosa che si sa, in coscienza, non essere vera. Secondo elemento: vivere con professionalità vuol dire innanzitutto - al di là di ciò che possiamo trovare scritto nei codici deontologici - comprendere, interiorizzare il senso profondo del proprio lavoro. Da qui deriva la necessità di non sottomettere la propria professione alle logiche degli interessi di parte, siano essi economici o politici. Compito del giornalismo, oserei dire la sua vocazione, è dunque - attraverso l’attenzione, la cura per la ricerca della verità - far crescere la dimensione sociale dell’uomo, favorire la costruzione di una vera cittadinanza. In questa prospettiva di orizzonte ampio, quindi, operare con professionalità vuol dire non solo rispondere alle preoccupazioni, pur legittime, di una categoria, ma avere a cuore uno degli architravi della struttura di una società democratica. Dovrebbe sempre farci riflettere che, nel corso della storia, le dittature - di qualsiasi orientamento e "colore" - hanno sempre cercato non solo di impadronirsi dei mezzi di comunicazione, ma pure di imporre nuove regole alla professione giornalistica. E terzo: rispettare la dignità umana è importante in ogni professione, e in modo particolare nel giornalismo, perché anche dietro il semplice racconto di un avvenimento ci sono i sentimenti, le emozioni e, in definitiva, la vita delle persone. Spesso ho parlato delle chiacchiere come "terrorismo", di come si può uccidere una persona con la lingua. Se questo vale per le persone singole, in famiglia o al lavoro, tanto più vale per i giornalisti, perché la loro voce può raggiungere tutti, e questa è un’arma molto potente. Il giornalismo deve sempre rispettare la dignità della persona. Un articolo viene pubblicato oggi e domani verrà sostituito da un altro, ma la vita di una persona ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre. Certo la critica è legittima, e dirò di più, necessaria, così come la denuncia del male, ma questo deve sempre essere fatto rispettando l’altro, la sua vita, i suoi affetti. Il giornalismo non può diventare un’"arma di distruzione" di persone e addirittura di popoli. Né deve alimentare la paura davanti a cambiamenti o fenomeni come le migrazioni forzate dalla guerra o dalla fame. Auspico che sempre più e dappertutto il giornalismo sia uno strumento di costruzione, un fattore di bene comune, un acceleratore di processi di riconciliazione; che sappia respingere la tentazione di fomentare lo scontro, con un linguaggio che soffia sul fuoco delle divisioni, e piuttosto favorisca la cultura dell’incontro. Voi giornalisti potete ricordare ogni giorno a tutti che non c’è conflitto che non possa essere risolto da donne e uomini di buona volontà. Vi ringrazio per questo incontro; vi auguro ogni bene per il vostro lavoro. Il Signore vi benedica. Vi accompagno con la mia preghiera e la mia simpatia, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie". Migranti. Hotspot, strutture al collasso. A Pozzallo rinchiusi 180 minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2016 Nate per identificare i migranti, sono luoghi peggiori dei Cie. Non adatti a ospitare esseri umani. L’hotspot di Pozzallo, in Sicilia, è al collasso. Nei giorni scorsi sono sbarcati oltre 650 immigrati, tra i quali un centinaio di minori. La situazione diventa sempre più critica: a fronte di una capienza di 180 persone, al centro ci sono ancora 182 minori. La Protezione civile ha allestito tende per circa 200 persone, i migranti senza una sistemazione adeguata, seppur provvisoria, sono restati a bordo. L’emergenza in corso non fa che peggiorare la situazione già degradante, uno delle quattro strutture volute dall’Ue e aperte in Italia - gli altri sono a Lampedusa, Trapani e Taranto - dove i migranti dovrebbero rimanere 72 ore per essere identificati e fotosegnalati, per poi essere trasferiti in centri più idonei. A Luglio, la Commissione parlamentare d’inchiesta sui Centri di accoglienza aveva bocciato senza mezzi termini la struttura. L’ hotspot risulta ospitato in un capannone in cemento armato piantato alla fine del porto commerciale, completamente protetto da una recinzione metallica che in alcuni punti è integrata con delle assi di legno che impediscono di vedere all’esterno. Tutto attorno alla recinzione non c’è un filo di verde, solo cemento. Una struttura non adatta ad ospitare vite umane e dove, invece, si trovano centinaia di uomini, donne e minori, tutti insieme. L’hotspot è arrivato ad "accogliere" anche 400-500 persone. Con soli 5 bagni. Come se non bastasse, all’interno del Centro restano per settimane decine di minori non accompagnati: soggetti che dovrebbero essere protetti e trasferiti in strutture sicure. Il presidente della Commissione, Federico Galli, non aveva potuto far altro che evidenziare le carenze: infrastrutture inadeguate, sovraffollamento e permanenze troppo prolungate, soprattutto dei minori. La Commissione aveva anche ascoltato il prefetto, Maria Carmela Librizzi, il responsabile della cooperativa che gestisce la struttura ed il sindaco di Pozzallo, Luigi Ammatuna. "Ho fatto il possibile per mantenere su buoni standard l’hotspot durante questi anni di emergenza, ma con fondi ridotti e senza aiuti dallo Stato non è possibile fare di più - ha sottolineato quest’ultimo - Ho rappresentato le difficoltà del Comune e non ho strutture alternative dove sistemare i minori. Il centro avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma questi non possono essere a carico del bilancio comunale, già critico". Nonostante i problemi non risolti, la struttura continua ad essere aperta e operativa per contenere i nuovi arrivi. Le norme - Gli immigrati minori non accompagnati non dovrebbero, per legge, essere rinchiusi negli hotspot. Si trovano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. Si applicano per loro le norme previste in generale dalla legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori e, tra le altre, le norme riguardanti: il collocamento in luogo sicuro del minore che si trovi in stato di abbandono; la competenza in materia di assistenza dei minori stranieri, attribuita, come per i minori italiani, all’ente locale (in genere il Comune), l’affidamento del minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a una famiglia o a una comunità. L’affidamento può essere disposto dal Tribunale per i minorenni (affidamento giudiziale) oppure, nel caso in cui ci sia il consenso dei genitori o del tutore, dai servizi sociali e reso esecutivo dal giudice tutelare (affidamento consensuale). La legge non prevede che per procedere all’affidamento si debba attendere la decisione del Comitato per i minori stranieri sulla permanenza del minore in Italia. E quindi perché ci sono minori non accompagnati rinchiusi negli hotspot? Dovrebbero essere inseriti immediatamente in strutture protette, andrebbe avvertito il tribunale dei minori, il giudice tutelare dovrebbe nominare qualcuno che faccia le veci del genitore. Invece dimorano in questo stato per più di un mese. Questi centri sono una zona d’ombra dove è vietato - per ordine del ministro degli interni Alfano - fare entrare i giornalisti. Sono luoghi ancora più oscuri dei Cie, che invece hanno una copertura legislativa affinata e migliorata negli anni anche grazie alle battaglie della società civile. Status giuridico - Come già denunciato da Il Dubbio, i nuovi hotspot - centri di contenimento e di selezione dei migranti appena arrivati in Italia - risultano luoghi privi di uno status giuridico certo, nei quali si realizzano forme diverse di limitazione della libertà personale, dove c’è il rilevamento forzato delle impronte digitali. Delle vere e proprie carceri in miniatura. La questione era stata sollevata da un’interrogazione presentata in Parlamento dal senatore Luigi Manconi, che, nel chiedere chiarimenti al governo su queste violazioni, ha ricordato l’articolo 13 della Costituzione, secondo cui "la libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto". Gli hotspot sono il fulcro della nuova strategia dell’unione europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Si tratta di strutture già esistenti, ma ampliate. In teoria, dovrebbero funzionare trattenendo i migranti fino all’identificazione rapida - entro 48 ore dall’arrivo, prorogabili a 72 - e alla registrazione, prendendo anche le impronte digitali. Sono strutture che funzionano da filtro: vengono selezionati solamente i richiedenti asilo e rimpatriati gli immigrati giunti nel paese per motivi economici. Il dossier di LasciateCIEntrare - gruppo di associazioni che si occupano della detenzione amministrativa dei migranti - denuncia un grave problema di discriminazione: si garantisce la possibilità di accesso a forme di protezione solo a coloro che provengono da paesi i cui profughi sono almeno nel 75% dei casi considerati aventi diritto. Significa che gran parte dei Paesi, tutt’ora in guerra o in situazione politica, economica o ambientale critica, saranno considerati paesi sicuri in cui poter rimpatriare con la forza gli immigrati. Procedure rigide, coercitive e discriminanti. E in questo caso ce lo chiede anche l’Europa. La storia di Angelo, italiano salvato dai migranti di Nadia Ferrigo La Stampa, 23 settembre 2016 Senza più lavoro è stato accolto a Camini, borgo calabrese ripopolato dai migranti. Zaino in spalla, una pagina di giornale come biglietto da visita e la speranza di una nuova occasione: "È qui che date una mano ai migranti? Io sono italiano, ma non è mi è rimasto niente. C’è posto per me?". Angelo racconta il suo inaspettato lieto fine tra i sorrisi e qualche lacrima di commozione, rigirando tra le mani i doni appena ricevuti dai suoi nuovi compaesani: una bottiglia di olio d’oliva e un paio di scarpe nuove. Senza lavoro né casa, dopo due giorni di viaggio in treno e una lunga camminata è arrivato da Torino a Camini, in Calabria. A convincerlo ad attraversare il Paese senza nemmeno un euro in tasca è stata la storia - pubblicata in agosto da La Stampa - del borgo destinato a scomparire e ripopolato dai migranti. Come Riace, Gioiosa Jonica, Stignano, Benestare e altri comuni della Locride, anche Camini partecipa allo Sprar, il Sistema di protezione asilo e rifugiati gestito dal ministero dell’Interno. Gli abitanti sono poco più di duecento, più 89 migranti arrivati da Siria, Iraq, Nigeria, Mali. Gli ultimi arrivati sono quaranta bimbi siriani, scappati con le loro famiglie dall’inferno della guerra. Mentre i più grandi si preparano a frequentare la scuola elementare, Angelo Olivella, 58 anni, siciliano, corre su e giù per le stradine strette e assolate e dà una mano dove può. Ha sempre lavorato come idraulico, e lo scorso agosto ha lasciato Licata, la sua città d’origine, per tornare a Torino, dove ha vissuto molti anni. Un amico gli aveva promesso un lavoro, ma pochi giorni dopo il suo arrivo si è trovato senza nemmeno un posto dove dormire. Così ha portato con sé la pagina di giornale capitatagli tra le mani per caso, ha deciso di tentare. "Se laggiù sono così buoni da accogliere chi non ha più nulla - si è detto, forse avranno un posto anche per me". "Ero al lavoro in ufficio, quando uno dei ragazzi mi ha detto che un signore mi stava cercando. Sono sceso, e davanti a me c’erano Angelo e il suo sorriso timido - racconta Rosario Zurzolo, che con la moglie Giusy gestisce il progetto di accoglienza diffusa -. Ci ha raccontato la sua storia, e che non mangiava da due giorni. Ne ho parlato con il parroco e il sindaco del paese, Giuseppe Alfarano, e insieme abbiamo preso l’unica decisione possibile". Divorziato, ha un solo figlio che non sente più da tempo. "Lui ha la sua vita, una bella famiglia, e non lo voglio rattristare con i miei problemi - racconta -. Qui sto bene, ho incontrato delle persone buone e sincere, come piacciono a me. Posso dare una mano con dei lavoretti, insieme agli altri ragazzi. Qualcuno parla già italiano, ma un modo per capirsi si trova. Non smetterò mai di ringraziare i miei nuovi amici". "Non voglio illudere nessuno, e appena arrivato gli ho spiegato con chiarezza la situazione della nostra terra - continua Rosario -. Per mangiare e dormire, nessun problema. In paese lo conoscono già tutti, e sono felici di offrirgli un caffè o ospitarlo per pranzo. Ma sa che trovare lavoro è molto difficile, c’è tanta gente che cerca un impiego senza trovare nulla". Ora ha una stanza in un Airbnb della zona, e per sdebitarsi con il proprietario l’ha sistemata da sé, con una nuova mano di vernice. Per le spese personali, Rosario gli passa ogni settimana una piccola somma: sono le stesse banconote colorate che i comuni della Locride usano come pocket money per i migranti, e che si possono spendere solo nei negozi del paese. La sua preferita? Quella con Che Guevara. "In questi giorni le famiglie e i ragazzi ospitati a Camini hanno raccolto mille euro per il terremoto del Centro Italia - racconta Rosario -. Le famiglie siriane hanno donato 50, 60 euro, un quarto di quel che ricevono ogni mese per tutte le loro esigenze. Nessuno pensa a se stesso, tutti vogliono aiutare i parenti che devono sopravvivere a guerre e fame. All’inizio non li volevo nemmeno accettare, ma poi ho capito: per loro era importante aiutare il Paese che li ha accolti". La vergogna ungherese: "Migranti da deportare" di Attilio Geroni Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2016 Le parole di un leader europeo democraticamente eletto, anche se nazionalista e populista come il premier ungherese Viktor Orban, dovrebbero avere sempre il senso della misura. La campagna elettorale in vista del referendum sul ricollocamento dei migranti, previsto il 2 ottobre, non giustifica in alcun modo ciò che Orban ha detto: il milione e passa di clandestini approdati in Europa andrebbero secondo lui "rastrellati" e "deportati". Sono parole che devono far paura perché pronunciate da un capo di governo dell’Unione, quella stessa Unione dove Paesi come Italia e Germania, in splendido isolamento, stanno cercando di convincere i partner ad affrontare in maniera coordinata e solidale l’emergenza profughi. Non è possibile che la linea di divisione tra Est e Ovest - la più pericolosa al momento in Europa poiché segnata dalle divergenze sui princìpi fondanti dei Trattati - sia così marcata. Che accanto a chi salva ogni giorno centinaia di migranti dall’annegamento nel Mediterraneo (l’Italia) e chi soltanto l’anno scorso ne ha accolti oltre un milione (la Germania), si costruiscano muri e si fomenti l’intolleranza razziale. La sovranità nazionale, invocata sempre con grande disinvoltura dallo stesso Orban, ma anche dalla nuova leadership polacca, non autorizza linguaggi e gesti estremi, soprattutto in nome dell’identità e delle radici cristiane dell’Europa. L’Ungheria ha già costruito un muro ai suoi confini e aggiungere parole come "deportazione" e "rastrellamenti" alla retorica nazionalista può solo allontanarla idealmente - ed è già grave - dall’Europa. Libia. I tecnici rapiti nel caos libico di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 23 settembre 2016 Per il portavoce di Haftar sono in mano ad al Qaeda ma il sindaco di Ghat lo smentisce. A New York Gentiloni e Kerry al fianco di Sarraj: "Ora nuova Costituzione e governo di riconciliazione". Ogni giorno che passa è un nuovo, diverso, scenario in Libia, dal punto di vista delle alleanze e delle forze in campo. Ogni giorno che passa cambiano le speranze di una celere liberazione dei due ostaggi italiani, i due tecnici della ditta Conicos di Mondovì, rapiti lunedì scorso nei pressi dell’oasi di Ghat, nell’estremo lembo della regione del Fezzan ai confini con l’Algeria, dove nelle ultime ore sono sbarcati gli "007" dell’Aise, il servizio d’intelligence estero italiano, per cercare di intavolare una trattativa con i "piccoli criminali di fuori città" indicati dal sindaco di Ghat come autori del ratto. Danilo Calonego e Bruno Cacace sono stati infatti catturati in un momento particolarmente delicato della caotica situazione libica, che si protrae dal 2011, successivamente alla caduta del dittatore Muammar Gheddafi, con una guerra civile strisciante tra le due entità statali di Tripoli e di Tobruk. In questa guerra fratricida si è inserito nel 2013 il tentativo di incunearsi, anche geograficamente tra Tripolitania e Cirenaica, dell’Isis, foraggiato dall’estero e irrobustito da foreign fighters nella città costiera di Sirte, dallo scorso primo agosto bombardata dall’aviazione Usa a dare man forte alle milizie libiche di Misurata fedeli al governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj. La zona desertica dove sorgono i pozzi petroliferi del Fezzan e dove i due tecnici sono stati catturati è, a sentire l’autodifesa dei vertici della ditta Conicos per la mancanza di scorta armata della loro auto, "un’area relativamente tranquilla". Questo spiegherebbe perché proprio il giorno della consegna dei lavori del nuovo aeroporto di Ghat, in costruzione dal 2012, - il 19 settembre - la jeep con a bordo il musulmano bellunese Calonego, il cuneese Cacace e il collega italo-canadese fosse "scortata" soltanto dall’autista libico armato. Il guidatore, poi ritrovato legato a un albero, ha scelto però di non reagire "per evitare il peggio". Questa la ricostruzione data da Stefano Bongiovanni e Giorgio Vinai, i manager della Conicos che saranno su questo presto sentiti dal pm di Roma Colaiocco che indaga sul rapimento. In passato i due hanno avuto altri "guai" da spiegare ai magistrati, per altri lavori, essendo stati inquisiti nell’inchiesta Minotauro sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta e della mafia in Piemonte e per una vicenda di riciclaggio. Dalla Libia le informazioni sui due rapiti arrivate ieri sono invece da leggere nella chiave dei rivolgimenti di fronte. Il portavoce delle milizie chiamate "esercito nazionale libico" guidato dal generale Belqasim Khalifa Haftar, fedele al governo di Tobruk, ha detto al sito arabo Al Wasat che il rapimento dei due italiani "reca le impronte di al Qaeda". è stato però prontamente smentito dal sindaco della città di Ghat, Muhammad Qomani Saleh, legato al governo di Sarraj a Tripoli che collabora con gli uomini dell’intelligence italiana arrivati sul posto. C’è da dire che per il generale Haftar ieri non è stata una giornata positiva. Una settimana fa si è impadronito dei quattro principali porti petroliferi sulla costa, nel tentativo di accreditarsi politicamente lunedì ha ceduto alla compagnia petrolifera libica Noc, che sostiene il governo rivale di Tripoli, la gestione dell’export petrolifero e ieri è partita la prima nave cisterna battente bandiera maltese alla volta dell’Italia dal terminal di Ras Lanuf. Haftar si accontentava così di aver tolto di mezzo le guardie petrolifere al comando di Ibrahim Jadhran, tra l’altro ferito ad una gamba, e di mantenere l’appoggio dell’Egitto e della Francia. Ieri da Tripoli è arrivata la contromossa del Consiglio di Stato che ha avocato a sé il potere legislativo in mano al parlamento di Tobruk, facendo gridare lo stesso al "golpe". La risposta è arrivata in serata da New York dove sulla Libia si è svolto un vertice a tre con il ministro italiano Paolo Gentiloni, il premier di Tripoli Fayez Sarraj e il segretario alla Difesa Usa John Kerry. Dal summit è arrivata la richiesta pressante di arrivare nel 2017 alla stesura e approvazione di una nuova Costituzione e alla creazione di un nuovo "governo di riconciliazione". Nel frattempo dopo tre anni di contenzioso giudiziario alle Bermuda il fondo sovrano libico Lia, branca di Tripoli, ha ottenuto lo sblocco di 53,8 miliardi di dollari. Il Lia resta poi in attesa della fine della causa a Londra per altri 1,2 miliardi cui si sono impossessate Goldman Sachs e Societé Génerale. Stati Uniti. Semi-libertà e affari, i privati si lanciano nel business dei Centri di recupero di Massimo Gaggi Sette del Corriere, 23 settembre 2016 Meno crimini e una politica delle incarcerazioni meno severa: negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria rimane tra le più elevate del mondo, ma sta calando rapidamente: dai 2,4 milioni di detenuti del 2008 al milione e mezzo attuale. Una buona notizia per tutti: chi commette reati, certo, ma anche i cittadini-contribuenti che vivono in una società a minore intensità criminale con meno soldi pubblici destinati all’amministrazione dei penitenziari. Gli unici a non essere contenti sono i gestori delle prigioni private spuntate come funghi negli ultimi 40 anni approfittando dell’esplosione della domanda di celle e dell’incapacità del governo federale e dei singoli Stati di soddisfarla rapidamente costruendo nuovi penitenziari. Col calo dei detenuti e il recente annuncio del ministero della Giustizia del progressivo abbandono del ricorso alle prigioni private, le aziende del settore, come Management & Training, sono precipitate in una crisi nera. Non ci saranno veri e propri crolli, non subito almeno, perché l’annuncio riguarda i detenuti federali, mentre il grosso oggi è costituito dai criminali nelle carceri dei singoli Stati. Che, spesso con strutture piccole e fatiscenti, hanno ancora bisogno di ricorrere ai privati. Ma il vento è chiaramente cambiato, cosa che ha messo in fuga gli investitori: Correction Corporation of America basata a Nashville, in Tennessee, e Geo Group (una società della Florida), infatti, sono quotate in Borsa e dall’annuncio del "Justice Department", un mese fa, ad oggi, hanno perso il 30 per cento del loro valore. È arrivato così, come avviene in ogni settore economico, il momento della riconversione. Ma cos’altro può fare chi gestisce carceri? Queste società hanno deciso di restare nel settore della "correzione" spostandosi dai penitenziari alla gestione delle "strutture intermedie" come le "halfway house", centri per la reintegrazione nella società di ex detenuti o persone con disabilità mentali o di altra natura. Ma stanno acquistando anche centri per il recupero dei drogati e altre strutture usate per sorvegliare o sanzionare senza ricorrere al carcere i 4,7 milioni di americani in libertà vigilata. Le aziende del settore cercano di rassicurare gli azionisti: "Si è aperto per noi un mercato forse meno lucroso ma più ampio". Il risultato è che questi centri di correzione, un tempo gestiti da aziende familiari, ora vengono acquistati a decine dai gestori dei penitenziari privati: una vera e propria concentrazione industriale. Ma ha senso tutto ciò in un mondo difficile e delicato come quello della gestione delle pene? Le associazioni dei diritti civili sono già sul sentiero di guerra: sostengono che la scelta politica che si manifesta nella tendenza a ridurre le punizioni soprattutto detentive per i crimini (con la depenalizzazione di quelli minori) rischia di essere frenata proprio dall’esistenza di un settore economico che vive e prospera solo se questo tipo di "business" cresce. Turchia. Il governo rinvia la visita del relatore Onu sulla la tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 settembre 2016 Nonostante il dichiarato impegno a consentire agli organismi internazionali di monitoraggio di visitare tutti i detenuti nei luoghi in cui sono reclusi, il governo turco ha deciso di rinviare la visita di Juan Méndez, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura. Una decisione preoccupa tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani in Turchia. Dopo il fallito colpo di stato, sono emerse prove credibili di pestaggi e torture ai danni di detenuti, in centri ufficiali e non ufficiali di prigionia. Dopo il fallito colpo di stato a un solo organismo di monitoraggio, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, è stato garantito l’accesso ai luoghi di detenzione. Il mandato di Méndez scade alla fine di ottobre ed è improbabile che ci si riesca a mettere d’accordo su una nuova data della sua visita. C’è da sperare che il suo successore abbia maggiore fortuna. Nigeria. Le forze speciali torturano e taglieggiano i detenuti ibtimes.com, 23 settembre 2016 Un’unità d’élite della Polizia nigeriana è stata messa sotto accusa da Amnesty International per reati come la tortura e la corruzione. Nel rapporto "Nigeria: hai firmato la tua condanna a morte" Amnesty denuncia che ufficiali e agenti di polizia della Special Anti-Robbery Squad (Sars) torturano i detenuti derubandoli e estorcendo loro tangenti per ottenere la libertà e sicurezza per le loro famiglie. La SARS è stata creata per perseguire gravi crimini violenti, in particolare rapine a mano armata e sequestri di persona. Il rapporto, pubblicato mercoledì 21 settembre, contiene diversi dettagli forniti da ex detenuti ed include testimonianze di avvocati, difensori dei diritti umani, giornalisti e diversi altri testimoni. "Un’unità della polizia creata appositamente per proteggere le persone è diventata un pericolo per la società, che può torturare le sue vittime in piena impunità fomentando un clima di paura e corruzione" ha dichiarato Damiano Ugwu, ricercatore nigeriano di Amnesty International. L’associazione internazionale per i diritti umani afferma che diversi sospettati catturati dalle SARS sono stati sottoposti a fame, pestaggi, impiccagioni, finte esecuzioni e sparatorie fino a quando "rendono una confessione o pagano gli ufficiali, corrompendoli, per essere rilasciati". Si legge inoltre che molti sono stati trattati come animali e non è stato loro permesso di contattare un avvocato, un medico o la propria famiglia durante il periodo di detenzione. "Gli ufficiali delle Sars si stanno arricchendo con la loro brutalità. In Nigeria sembra che la tortura sia un business redditizio" ha dichiarato Ugwu. Le Sars hanno negato ogni addebito e puntualizzato che nessuna forma di tortura viene applicata. Tuttavia, un ufficiale di alto rango che ha preteso l’anonimato ha detto ad Amnesty che che sono almeno 40 gli ufficiali sospettati di avere compiuto atti di tortura e maltrattamenti sui detenuti in diverse stazioni di polizia a partire dal mese di aprile 2016. Non gli è stato possibile specificare se è stata aperta o meno un’indagine contro di loro. In uno dei casi descritti nel rapporto, il 32enne Chidi Oluchi dichiara di essere stato torturato subito dopo l’arresto da parte di alcuni ufficiali delle Sars nella città nigeriana di Enugu: "Mi hanno detto di auto-schiaffeggiarmi e di fronte al mio rifiuto hanno cominciato a picchiarmi con il lato della lama del loro machete e con pesanti bastoni. Mi usciva sangue dalla bocca e avevo la vista offuscata". Oluchi ha aggiunto di essere stato liberato solo dopo il pagamento di 25.000 Naira [l’equivalente di poco più di 70 euro, ndr] alle autorità. Nel mese di dicembre del 2014 la polizia nigeriana ha promosso un manuale per i diritti umani che teoricamente bandisce ogni tipo di tortura dei detenuti, un obiettivo che le Sars non hanno in alcun modo perseguito. "I tentativi del governo nigeriano di cancellare la tortura si stanno chiaramente dimostrando inefficaci, è il momento per le autorità di assicurare i responsabili di tali violazioni alla giustizia", ha affermato Ugwu, aggiungendo che "vi è un urgente bisogno di leggi robuste che assicurino che tutti gli atti di tortura siano considerati un reato in Nigeria". Kenya. Tre "jihadiste" somale uccise e bruciate dalla polizia di Sabatine Volpe Il Dubbio, 23 settembre 2016 Dietro lo "sventato attacco" dell’11 settembre a Mombasa la ferocia dell’antiterrorismo. La notizia dello sventato attentato terroristico alla stazione centrale di polizia a Mombasa lo scorso 11 Settembre ha destato clamore a varie latitudini. Si sarebbe trattato del primo attentato rivendicato da Isis in Kenya, perpetrato da tre giovani "jihadiste" di origine somala. Il simbolismo dell’azione nell’anniversario dell’attacco alle Twin Towers forniva effettivamente spunto per titoli d’effetto. A ridosso dell’attentato, le cronache internazionali hanno riproposto la versione fornita alla stampa locale dalla polizia di Mombasa. Riassumendo: il "commando" capeggiato da Tasnim Yakub Abdullahi Farah, sua sorella ed un’amica, avrebbe finto la denuncia del furto di un telefono cellulare allo scopo di fare irruzione in caserma e compiere l’attentato. Sotto i bui-buis (copri-capo e abito di colore scuro definiti "burqa" nelle cronache nostrane), le donne "disarmate ma dotate di giubbotto antiproiettile" avrebbero nascosto bottiglie incediarie. Nel tentativo di difendersi, gli agenti, tra cui una ragazza incinta, sarebbero rimasti feriti. In seguito al lancio di Molotov la polizia avrebbe "neutralizzato le terroriste" a colpi di arma da fuoco. Molti arresti sono seguiti a quest’azione rivendicata da Isis il 14 Settembre. Manoscritti attribuiti alle "martiri" sono stati messi in rete da simpatizzanti dello Stato Isamico. Sulla stampa di Londra (The Daily Mirror e il tabloid The Sun) sono apparsi articoli sui legami tra le attentatrici di Mombasa e la primula rossa Samantha Lewhite, moglie di uno degli attentatori di Londra del luglio 2007, super-ricercata dall’intelligence britannica. A riprova del vincolo tra le giovani e lo Stato Islamico vi sarebbero, secondo la polizia, i risultati dei tabulati telefonici indicanti transazioni finanziarie tra le fallite kamikaze e Hanya Saggar, vedova di un religioso estremista, reclutatrice, secondo Nairobi, di aspiranti jihadisti. Senza eco sulla stampa internazionale, lo scorso 21 settembre, il quotidiano keynota The Star ha però sollevato seri dubbi sulla versione ufficiale della storia. Secondo la denuncia dell’Organizzazione Muslim for Human Rights di Mombasa, citata da The Star, nella stazione di polizia si sarebbe sviluppata una colluttazione in seguito al tentativo da parte di un agente di spogliare del copriabito una delle giovani, che avrebbe reagito con un coltello. A quel punto la polizia avrebbe sparato per uccidere. Un video amatoriale, messo in rete dallo stesso quotidiano, mostra l’esecuzione a sangue freddo nel cortile della caserma, delle presute attentatrici. Le donne, riverse a terra e inoffensive, sono finite a colpi di arma da fuoco. Una con le mani alzate. Il leader del Muslim for Human Rights, Khelef Khalifa, spiega che per coprire l’esecuzione extragiudiziaria, le donne sarebbero state cosparse di kerosene e date alle fiamme. Khalifa ritiene la versione della polizia a dir poco contraddittoria e attende l’esibizione di prove sulle armi e gli oggetti esplosivi impiegati nel presunto attentato. Nel confutare le versioni ufficiali, Khalifa tira in ballo la transazione finanziaria telefonica (pratica molto diffusa in Kenya) tra Tasnim Yakub Abdullahi Farah e Hanya Saggar esibita come prova in quanto avvenuta il giorno del fallito attentato. La somma, sostiene Khalifa, risulterebbe rispedita al mittente, segno dell’origine sconosciuta del denaro. È plausibile che le donne fossero legate o simpatizzanti dello Stato Islamico, ed è certo che il Kenya sia nel mirino di organizzazioni terroristiche. Nairobi ha pagato un prezzo altissimo per l’invio di truppe nella confinante Somalia al fine di contrastare la minaccia posta all’intera Regione dal gruppo affiliato ad al-Qaed al-Shabaab. Quest’ultimo ha di recente sviluppato fratture al proprio interno dato lo spostamento di alcuni militanti nella sfera di influenza di Daesh, creando cellule in Somalia e Kenya. Ma l’ennesima uccisione extra-giudiziale da parte delle forze dell’ordine di Mombasa fa solo il gioco dei terroristi. Lo scorso luglio Human Rights Whatch (HRW) ha pubblicato un rapporto sugli abusi dell’anti-terrosmo in Kenya (Deaths and disappearances, abuses in counter-terrorism operations in Northestern Kenya). Kenneth Roth, direttore esecutivo della stessa organizzazione ha affermato che i diffusi casi di sparizioni e uccisioni extragiudiziarie in Kenya sono approvate ai massimi vertici dello Stato, con la totale impunità delle forze dell’ordine. Secondo HRW, i raid delle forze dell’ordine di Nairobi nel nord est-del paese prendono di mira giovani spesso solo in quanto musulmani o di origine somala. Per sventare possibili attentati e contrastare possibili attrattive verso gruppi "jihadisti", resta fondamentale il coinvolgimento delle comunità locali altrimenti omertose per il fondato timore di subire arresti per associazione familiare o culturale. HRW ritiene anche che l’esercito del Kenya (KDF) partecipi a operazioni anti-terrorismo su suolo nazionale senza approvazione da parte del Parlamento. All’indomani del fallito attentato di Mombasa il portavoce del governo Erik Kiraithe ha fatto appello al senso patriottico ed al dovere di denunciare sospetti. Khalifa (Muslims for Human Rights) chiede oggi la riesumazione delle salme delle uccise e un’indagine da parte dell’Independent Policing Overisght Authority, che dovrebbe vigilare sull’operato delle forze dell’ordine in Kenya. Due giorni fa sono state ricordate a Nairobi la vittime della strage terroristica al Westgate, consumatasi il 21 settembre 2013. I morti dopo 80 ore d’assedio di miliziani al-Shebbab furono almeno 67, i feriti tre volte di più. La strategia del terrore di Stato non è servita a mitigare la minaccia terroristica in Kenya, eppure dall’agenda del Governo di Uhuru Kenyatta non spuntano piani alternativi agli attuali illeciti. Afghanistan. Perdonato Gulbuddin Hekmatyar, "il macellaio di Kabul" La Repubblica, 23 settembre 2016 È possibile sedersi al tavolo dei negoziati con chi ha contribuito a ridurre la capitale del proprio Paese in un cumulo di macerie per poi trascinarla in 15 anni di guerra e violazioni di diritti umani? Forse sì, o almeno lo è in Afghanistan, dove ieri è stata firmata una bozza di accordo di pace tra il governo di Ashraf Ghani e il movimento Hezb-e-Islami (Hia) guidato dall’oggi quasi 70enne Gulbuddin Hekmatyar, meglio noto come "il macellaio di Kabul". Per 40 anni Hekmatyar è stato uno dei più potenti signori della guerra afgani: i suoi uomini sono accusati della morte di migliaia di persone, di aver sfigurato donne con l’acido e creato centri di tortura clandestini. Dagli anni Duemila, Hekmatyar è inserito nella lista dei "terroristi globali" delle Nazioni Unite: è stato anche uno dei motori della lotta contro la coalizione militare a guida statunitense che abbatté i Taliban nel 2001. Ma nell’Afghanistan di Ghani, un Paese disperato, in cui le zone sotto controllo del governo diminuiscono di giorno in giorno, anche a lui si può dare una possibilità. E questo, il signore della guerra lo ha capito bene: da mesi mandava segnali di cambiamento. Le sue posizioni verso la presenza internazionale nel Paese si sono notevolmente ammorbidite. La scelta di dialogo con il governo è avvenuta forse in nome di una paura comune, quella dell’Isis che si sta espandendo nell’Est del Paese, tradizionale rifugio di Hekmatyar, rubandogli finanziatori e reclute. O forse per convenienza economica, visto il calo di interesse verso l’Hia da parte dei suoi grandi finanziatori, l’Iran e i servizi segreti pachistani. In base a quanto stipulato nei 25 articoli dell’accordo Hezb-e-Islami abbandonerà le armi, rilascerà i prigionieri e rispetterà la Costituzione. Una svolta storica dunque, se non fosse per un vincolo che non ha mancato di suscitare proteste: la pace diventerà effettiva solo quando Hekmatyar verrà riabilitato a livello internazionale e sarà libero di rientrare a Kabul dopo 20 anni di esilio. Human Rights Watch e altre Ong internazionali hanno criticato duramente l’accordo.