Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2016 20 gennaio 2017, Casa di reclusione di Padova. Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, loro famigliari: aiutateci a promuoverla, organizzarla, darle poi un seguito. Da tempo la redazione di Ristretti Orizzonti pensava a una giornata di dialogo su questi temi, che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone condannate a lunghe pene, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte solo sulla persona punita, ma annienta tutta la sua famiglia. Oggi però forse sono più i motivi che ci spingerebbero a non organizzare quella giornata, che quelli che ci incoraggiano a promuoverla. Non vorremmo organizzarla: perché in carcere troppo spesso si fanno un passo avanti e poi tre indietro. È il caso della nostra redazione, che stava facendo una esperienza importante di lavoro in comune tra detenuti di Alta Sicurezza e detenuti di Media Sicurezza, e di confronto con il mondo esterno (più di seimila studenti che entrano in carcere ogni anno) che costringe tutte le persone detenute ad avere uno sguardo critico sul proprio passato. Ma proprio pochi giorni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha sospeso le attività dove detenuti AS e detenuti comuni stavano insieme e ricostituito i soliti ghetti dei circuiti di Alta Sicurezza, dove di fatto non c’è nessuna possibilità di cambiamento. Abbiamo chiesto con forza di continuare la nostra esperienza, e di far tornare in redazione i detenuti AS che ormai ne fanno parte da tempo, e vogliamo sperare che la nostra richiesta verrà davvero accolta, ma bisogna sempre vigilare e combattere per cambiare le cose, e le cose nei circuiti di Alta Sicurezza da troppo tempo sono ferme, chiuse, immutabili; perché Ristretti Orizzonti sta letteralmente morendo per mancanza di risorse per continuare le sue battaglie e probabilmente alle Istituzioni non gliene frega niente di una esperienza, che fa riflettere su un modello di pena che ha al centro meno carcere e più sicurezza per la società; perché siamo anche noi intrappolati in questa logica che "i tempi non sono maturi" per parlare di abolizione dell’ergastolo, e quindi non ci crediamo abbastanza, non abbiamo abbastanza coraggio. Ma poi un pensiero fisso ce l’abbiamo, ed è quello che ci spinge a fare comunque qualcosa: non vogliamo abbandonare quelle famiglie, non vogliamo far perdere loro la speranza. Allora il 20 gennaio invitiamo a dialogare, con le persone condannate a lunghe pene e all’ergastolo e i loro figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle: parlamentari che si facciano promotori di un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo e che si attivino per farlo calendarizzare, o che comunque abbiano voglia di confrontarsi su questi temi; uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, perché ascoltino le parole del Papa, che ha definito l’ergastolo per quello che è veramente: una pena di morte nascosta; uomini e donne delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati. Non vogliamo aver paura di parlare apertamente di abolizione dell’ergastolo, di quello ostativo ma anche di quello "normale", perché il fine pena mai non può in nessun caso essere considerato "normale". Ma non vogliamo neppure avere solo obiettivi alti, e poi dimenticarci di come vivono le persone condannate all’ergastolo o a pene lunghe che pesano quanto un ergastolo. È per questo che proponiamo di dar vita a un Osservatorio, su modello di quello sui suicidi: per vigilare sui trasferimenti da un carcere all’altro nei circuiti di Alta Sicurezza; per mettere sotto controllo le continue limitazioni ai percorsi rieducativi che avvengono nelle sezioni AS (poche attività, carceri in cui non viene concesso l’uso del computer, sintesi che non vengono fatte per anni); per monitorare la concessione delle declassificazioni, che dovrebbe essere, appunto, non vincolata a relazioni sulla pericolosità sociale che risultano spesso stereotipate, con formule sempre uguali e nessuna possibilità, per la persona detenuta, di difendersi da accuse generiche e spesso prive di qualsiasi riscontro. Nessuno sottovaluta il problema della criminalità organizzata nel nostro Paese, e il ruolo delle Direzioni Antimafia, ma qui parliamo di persone in carcere da decenni, già declassificate dal 41 bis perché "non hanno più collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza", e parliamo di trasferirle da un circuito di Alta Sicurezza a uno di Media Sicurezza, non di rimetterle in libertà; per accogliere le testimonianze e le segnalazioni dei famigliari delle persone detenute, che non trovano da nessuna parte ascolto: per raccogliere sentenze e altri materiali, fondamentali per non farsi stritolare da anni di isolamento nei circuiti di Alta Sicurezza e per spingere la Politica a occuparsi di questi temi con interrogazioni e inchieste; per cominciare a mettere in discussione, finalmente, il regime del 41 bis con tutta la sua carica di disumanità; per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41 bis davvero TRASPARENTE Di tutto questo vorremmo parlare il 20 gennaio a Padova, ma non vi chiediamo semplicemente di aderire a una nostra iniziativa. Vi chiediamo di promuovere con noi questa Giornata, di lavorare per la sua riuscita, di prepararla con iniziative anche in altri luoghi e altre date, e soprattutto di fare in modo che non finisca tutto alle ore 17 del 20 gennaio, ma che si apra una stagione nuova in cui lavoriamo insieme perché finalmente "i tempi siano maturi" per abolire l’ergastolo e pensare a pene più umane. La redazione di Ristretti Orizzonti Gocce di libertà di un uomo ombra di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2016 Penso che solo i sogni riescono a realizzare la realtà. E in questi venticinque anni di carcere non ho fatto altro che sognare la libertà perché solo se la si cerca, la si può trovare. Ed io non mi sono mai stancato di cercarla, sia nella mia mente che nel mio cuore. Ormai è da circa un anno e mezzo che usufruisco di permessi premio. Ogni volta l’emozione è sempre più intensa, perché quando esco provo piacere e paura nello stesso tempo, consapevole che fuori devo fare i conti con la realtà che è molta diversa da quella di dentro. Oggi mi hanno concesso sei giorni di permesso. Prima di uscire dalla mia cella, lancio uno sguardo alle foto dei miei due nipotini che ho attaccato alla parete accanto al letto. Mi sorridono. E sembrano dirmi: "Nonno ti aspettiamo". La guardia mi chiama: "Musumeci… è pronto?" E penso: "Sono pronto dalle quattro del mattino e mi sono fumato già sei sigarette". Esco dalla mia cella. E mi dirigo con decisione al cancello della sezione. Scendo le scale. Prendo il corridoio principale. Mi prende in consegna la guardia dell’ufficio matricola. Continuo a camminare in silenzio perso nei miei pensieri. Mi sforzo di rimanere calmo e distaccato. Desidero dare l’impressione alla guardia che mi accompagna e al mio cuore che sono un duro come mi ha sempre descritto l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) nelle sue carte tutte le volte che mi mandavano alle celle di rigore o mi trasferivano da un carcere all’altro La verità invece è che me la sto facendo addosso dalla felicità. Mi viene persino voglia di fare un centinaio di salti di gioia e di urlare a squarciagola. Arrivo nel grande cortile che porta all’ultima porta. Alzo lo sguardo. Il sole mi accieca. Mi sembra di uscire da una tomba. Il cielo è alto, immenso, celeste, diverso da quello che si vede dietro le sbarre. Allungo una gamba per varcare il cancello. Ad un tratto faccio una pausa di qualche frazione di secondo come se volessi immortalare nel mio cuore e nella mia mente quell’istante che ricorderò miliardi di volte quando sarò di nuovo dentro ad aspettare il mio fine pena che sarà nell’anno 9.999. Poi attraverso il cancello dei vivi da quello dei morti. Per un attimo mi sento spiazzato incapace di capire se sono ancora dentro o fuori. Il cuore mi batte forte per l’emozione. Chiudo forte gli occhi. Respiro lentamente perché mi manca il fiato. Poi prendo una grande boccata d’aria. Penso che sono di nuovo fuori. E mi ricordo che per un quarto di secolo sono sempre stato convinto che di me sarebbe uscito solo il cadavere. Mi muovo lentamente. Respiro a pieni polmoni. E penso che è bellissimo trovarsi negli spazi aperti. Fuori, le emozioni del giorno mi tengono sveglio per grande parte della notte. Per questo, fuori dormo poco perché sono troppo felice per riposare o perché quando si è felici si soffre di più. Avverto che le persone del mondo libero sono vive ed è bellissimo muoversi fra loro. Mi accorgo che è difficile controllare le emozioni che provo, per questo mi commuovo per nulla. Mi basta un sorriso dei miei figli o dei miei nipotini o un piatto di spaghetti con le cozze che mi prepara la mia compagna, e il mio cuore si scioglie come neve al sole. Vengo attratto e mi stupisco dalle cose più semplici come veder girare la lavatrice, toccare i bicchieri di vetro e le posate di acciaio. Rimango affascinato ad ascoltare i rumori delle onde del mare, le voci della gente e le grida dei bambini. La cosa che mi sembra più strana, e che non mi va proprio giù, è vedere mia figlia vestirsi e truccarsi da donna; forse perché l’avevo lasciata venticinque anni fa che giocava con le bambole. Alla mattina quando apro gli occhi per un attimo penso che non so proprio più a quale dei due mondi appartengo. Poi penso che probabilmente non appartengo più a nessuno dei due perché ormai appartengo al mondo dei sopravvissuti. Senza quasi che me ne accorga è già il giorno di rientrare in carcere. Mi sento malinconico. E penso chissà se mai riuscirò di nuovo a riprendere in mano il mio destino? Ogni volta che entro in carcere dopo un permesso mi sembra di entrare in un altro universo e in un altro mondo. Poi, per alcuni giorni, sto continuamente sdraiato nella branda con gli occhi fissi al soffitto, a ricordare le gocce di libertà che ho trascorso fuori dall’Assassino dei Sogni. In realtà ho solo sognato. Queste emozioni che ho descritto sono frutto dei precedenti permessi di cui ho usufruito. Si è vero avevo chiesto sei giorni di permesso da trascorrere a casa per festeggiare con i miei familiari la mia terza tesi di laurea con il risultato di 110 e lode. Ma, nonostante che il Magistrato di sorveglianza me l’avesse concesso, la Procura della Repubblica ha impugnato il provvedimento e non sono potuto uscire. Adesso devo aspettare che si pronunci il Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Nel frattempo continuo a sognare. Che altro posso fare? È stato difficile spiegare alla mia famiglia che la legge prevede, anche senza nessuna motivazione logica, che la Procura possa bloccare il permesso anche se già concesso dal Magistrato di Sorveglianza. Sono dovuto ricorrere ad un aforisma dicendo che, se fuori due più due fa quattro, in carcere fa cinque. Ma loro non hanno capito ugualmente. E allora ho detto che purtroppo la legge è fatta di norme strane e che, a volte, neppure i giudici possano fare nulla. Costa 77 milioni lo "strappo" italiano sui diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2016 Il prezzo delle violazioni riscontrate dalla Cedu nel 2015. Nel 2015 l’Italia ha versato oltre 77 milioni di euro per gli indennizzi dovuti a violazioni riscontrate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. È ciò che emerge dalla relazione annuale sull’Esecuzione delle pronunce della Corte europea nei confronti dell’Italia presentata a luglio dal dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri. Il costo degli indennizzi - se confrontati con il 2014 - segna un grande balzo in avanti visto che l’ultima volta lo Stato ha dovuto sborsare poco più di 5 milioni di euro. Perché questa impennata? Il governo ha cambiato strategia per evitare le condanne accettando la conclusione di regolamenti amichevoli per evitare accertamenti della colpevolezza e quindi dover pagare molto di più. Ciò significa che il rispetto del diritto umano e civile è ben lontano dall’essere realizzato. Il colpo enorme per le casse dello Stato - si legge nella relazione che viene presentata ogni anno in base alla legge 12/2006 - "è il risultato dell’attuazione delle politiche di riduzione del contenzioso seriale poste in essere attraverso i piani d’azione". Tale strategia ha comunque fatto uscire l’Italia dal gruppo di testa dei dieci Stati che hanno accumulato il maggior numero di condanne nel 2015, arrivando a 24 sentenze. Ma il pericolo di nuove condanne non è scongiurato. Rimane ancora ferma l’introduzione del reato di tortura nonostante la condanna all’Italia nel caso Cestaro. Ricordiamola. Nell’aprile del 2015 la Corte di Strasburgo condannò l’Italia a versare 45mila euro per risarcire il 75enne Arnaldo Cestaro presente all’interno della scuola Diaz di Genova durante il G8. La sentenza di condanna stabilì inoltre che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia non solo per il pestaggio subito da uno dei manifestanti (Cestaro, l’autore del ricorso, appunto) durante il G8 di Genova, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrissero i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". All’origine del procedimento c’era appunto il ricorso presentato da Cestaro, manifestante veneto che all’epoca aveva 62 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l’irruzione nella sede del Genova Social Forum. L’uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli agenti lo sorpresero mentre dormiva, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso, portato avanti dagli avvocati Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi, Cestaro affermò che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell’ordine tanto da dover essere operato e subire ancora oggi le conseguenze delle percosse subite. I giudici europei gli dettero ragione in toto, decidendo all’unanimità che lo stato italiano ha violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo nella parte in cui recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Se il governo non si deciderà ad approvare la legge sulla tortura, ci sarà il rischio di una nuova tegola da parte della Corte europea. Altri soldi che svuoteranno le casse - già in crisi - dello Stato. Davanti ai giudici di Strasburgo pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposte nella caserma di Bolzaneto. La Corte non ha ancora deciso ufficialmente quando emetterà le sentenze, ma non tarderanno molto ad arrivare. Le prigioni scoppiano di stranieri. Un problema irrisolto da troppo tempo di Noemi Azzurra Barbuto Libero, 22 settembre 2016 Se è vero che la democraticità di una nazione è inversamente proporzionale al numero dei suoi detenuti, allora in Italia la democrazia deve essere andata a farsi fottere già da un pezzo (e non è poi una novità). È infatti il sovraffollamento la grave piaga del sistema penitenziario italiano, motivo per il quale la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha più volte sanzionato l’Italia per trattamento inumano e degradante, invitandola a porvi rimedio. Invito accolto alla maniera italiana, ossia attraverso decreti-tampone aventi una certa logicità ma anche importanti ostacoli all’applicazione e che quindi non risolvono il problema. Anzi, la situazione diventa sempre più allarmante, in particolare negli ultimi mesi, sotto la spinta della continua crescita (ma forse sarebbe più coretto dire "invasione") del numero di immigrati extracomunitari che, quando non soggiornano negli alberghi o nei centri di prima accoglienza (che dovrebbero essere temporanei, ma che assumono sempre un carattere permanente), allora lo fanno nelle celle delle carceri italiane che, per quanto anguste e asfittiche, offrono comunque un tetto, cibo, possibilità di lavorare e studiare, assistenza e sicurezza. "Gli stranieri si trovano molto bene all’interno delle nostre carceri, in particolare quella di Bergamo, che offre una notevole assistenza sanitaria", ci racconta Donato Giordano, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della regione Lombardia, un tramite tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile con il compito di garantire che l’esecuzione penale assicuri l’accesso ai diritti costituzionali. Gli stranieri, in quasi tutti gli istituti, rappresentano più della metà dei detenuti. Negli istituti di Brescia Canton Monbello, Como e Busto Arsizio costituiscono circa i 2/3 della popolazione detenuta. Nonostante le carceri lombarde funzionino abbastanza bene, come riferisce il difensore, che per il suo ruolo può entrare in carcere senza alcuna autorizzazione e fare ispezioni, è chiaro che la convivenza forzata in spazi così ristretti tra persone di cultura diversa, che parlano lingue diverse, rende ancora più infernale la vita del detenuto. È indicativo il fatto che il numero dei suicidi in Italia aumenta di pari passo con l’aumento del numero dei detenuti e con la diminuzione di quello degli agenti di polizia penitenziaria. Ma non sono soltanto i detenuti a ricorrere al suicidio per liberarsi del peso di una condizione sempre più opprimente, non mancano infatti anche casi di suicidio da parte del personale penitenziario. Ma qual è la soluzione possibile al problema del sovraffollamento? "L’applicazione delle misure alternative alla detenzione costituisce un ottimo strumento per combattere il sovraffollamento. Tuttavia, non è affatto facile applicarle, soprattutto quando si tratta di detenuti extracomunitari". "Il problema del numero civico", così lo chiamano i magistrati di sorveglianza e tutti gli addetti ai lavori. Molto spesso, infatti, i detenuti extracomunitari non possiedono i requisiti di accesso alle misure stesse, ossia una casa, una famiglia idonea, un lavoro. Inoltre, "le ambasciate dei Paesi di provenienza non collaborano affatto, rendendo impossibile l’identificazione dei soggetti e la loro eventuale espulsione", lamenta Giordano, che sottolinea anche come nel momento attuale di crisi generale in cui il lavoro scarseggia anche per i cittadini italiani, essere extracomunitario ed in più detenuto o ex-detenuto rende praticamente impossibile trovare un impiego. Ecco che le carceri, da strutture destinate al recupero e al reinserimento sociale, si sono trasformate in centri di accoglienza di tutto ciò che non trova più posto per strada, ripostigli carichi di esseri umani di ogni nazionalità, contenitori di vite in attesa di morire, o di tornare a vivere, o di tornare a delinquere in modo più feroce di prima. Ed è così che lo Stato fallisce, perché più interessato a punire che ad educare dando il buon esempio che coincide con il rispetto dell’essere umano. E forse anche questa potrebbe essere una soluzione ai problemi logistici: fare in modo che chi ne esce non ne faccia mai più ritorno. "Il nostro ruolo è anche questo: quello di dare speranza. È troppo facile lasciarsi andare, c’è molta rassegnazione. La via da seguire è senza dubbio quella dell’istruzione. Il riscatto passa attraverso lo studio, per prepararsi alla vita fuori dal carcere anche attraverso l’acquisizione di una competenza professionale che prima dell’esperienza carceraria non si possedeva. Sebbene sovraffollate, le nostre carceri sono organizzate molto bene da questo punto di vista ed importante è anche il ruolo delle associazioni", afferma Giordano. Ma studiare non basta. Anche l’esperienza negativa della detenzione può essere un’opportunità quando porta il detenuto a prendere coscienza del reato e a scegliere un cammino diverso dalla devianza. Ma affinché ciò si realizzi risultano fondamentali il ruolo dello Stato, quello della famiglia e quello della società civile che, vincendo il pregiudizio, deve accogliere e dare fiducia al soggetto che ha commesso un errore, affinché continuare a sbagliare non sia l’unica strada che gli resta. Bernardini (Partito Radicale): per riformare la giustizia serve l’amnistia di Paolo Martini risorgimentoitaliano.news, 22 settembre 2016 Il 6 novembre prossimo il Partito Radicale ha organizzato una marcia per l’amnistia. Dal carcere romano di Regina Coeli a piazza San Pietro il Partito Radicale torna a proporre una misura che non è tanto o solo un misura di clemenza, ma una "riforma strutturale", come ci spiega Rita Bernardini, presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino e dirigente del Partito Radicale, che qualche giorno fa ha partecipato al convegno su detenzione e carcere organizzato da Emerlaws. Una marcia in nome di Pannella e di Bergoglio - "La decisione di una marcia per l’amnistia è stata presa nel congresso del Partito Radicale che si è tenuto nei primi giorni di settembre dentro un carcere, quello di Rebibbia", spiega la Bernardini. "È la battaglia storica di Marco Pannella, che ha avuto anche momenti di successo ma che non riusciamo a far passare nelle sue modalità di riforma strutturale della giustizia. L’amnistia è una misura che serve sia per abbattere il numero di procedimenti penali e il numero di detenuti nelle carceri ma soprattutto per avviare quella riforma della giustizia che non può più attendere". Amnistia per la Repubblica - "È in questo senso una amnistia per la giustizia e per la Repubblica, condizione per una riforma sempre più necessaria se guardiamo gli indicatori sui diritti civili e gli indicatori economici del nostro Paese". Il carcere intanto continua a produrre recidivi - "Sono dati ormai risaputi e lo sa anche il ministro Orlando che credo sia stato il primo ministro della giustizia che ha definito "criminogene" le carceri italiane. La marcia che faremo sarà intitolata a Marco Pannella e a Papa Francesco perché c’è da riconoscere - come lo stesso Orlando ha fatto - che se qualche passo in avanti è stato fatto su questo tema è per merito di queste due personalità. Io continuo a girare le carceri, grazie anche alla disponibilità del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e vedo che i detenuti sono abbandonati a loro stessi, che solo il cinque per cento di loro fa attività lavorativa, che la maggioranza delle persone in carcere non fa altro che frequentare una scuola di delinquenza". Accanto ad agenti ed operatori del carcere - "E poi il carcere non è solo fatto di detenuti. Io ho partecipato martedì ad una manifestazione del sindacato dei commissari di polizia penitenziaria, perché nelle carceri italiane queste figure - come gli educatori o gli psicologi o persino i direttori - sono drammaticamente poche, frustrate, mal pagate. Non dobbiamo stupirci se tra i lavoratori del carcere ci sia un altissimo tasso di suicidi. Per esempio, a proposito di illegalità: i direttori delle carceri non hanno un loro contratto, non lo hanno mai avuto. Quanto ai dati: è vero che sono aumentate le pene alternative, ma sono destinate ad una platea molto molto ristretta. Noi lanciamo questa marcia ma chiediamo al ministro di mettere un po’ di ordine e di legalità in questi settori. E gli chiediamo anche che fine hanno fatto le proposte emerse dagli stati generali dell’esecuzione penale". Bernardini è da tempo candidata per l’incarico di Garante regionale dei detenuti dell’Abruzzo ma i consiglieri regionali di quella regione da mesi discutono e non hanno ancora affidato a nessuno quell’incarico. "Io - spiega la ex parlamentare radicale - da tempo ho fatto sapere che sono disposta a ritirare immediatamente la mia candidatura se si trova un accordo su un altro nome. Purtroppo però nemmeno questo è servito. In Abruzzo non c’è un garante regionale dei detenuti ancora oggi, quando ormai esiste un Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà che dovrebbe poter contare sul lavoro dei vari Garanti regionali. Oggi, se il Garante nazionale Mauro Palma chiamasse in Abruzzo, non troverebbe nessuno a rispondere". Riforma del processo penale, il premier prende tempo sulla fiducia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2016 Dopo che per sei volte (quattro in mattinata e due nel pomeriggio) è mancato il numero legale, l’Aula del Senato ha ripreso ieri la discussione generale sul Ddl di riforma del processo penale, che andrà avanti anche stamattina. L’attesa decisione politica del governo sulla fiducia (se chiederla subito sul testo licenziato dalla commissione Giustizia, oppure soltanto dopo il voto sui primi articoli, o, infine, non chiederla affatto e votare 400 emendamenti) non è arrivata e resta ancora misteriosa (anche nella maggioranza) la strategia che ha in mente il premier Matteo Renzi. È chiaro, invece, che cosa ha in mente il ministro della Giustizia Andrea Orlando, stando almeno a quel che spiegava ieri, e cioè che non ha senso chiedere la fiducia subito, senza consentire all’Aula di votare i primi 6 articoli del Ddl, che fra l’altro contengono norme "largamente condivise" (come l’aumento delle pene su furti, scippi e rapine); meglio aspettare, ragionava il guardasigilli, e se emergono contrasti, allora si può pensare alla fiducia. Lo sviluppo della giornata sembra avergli dato ragione, sebbene sia improbabile che oggi si cominci a votare. Pertanto, il nodo sul "se e quando" mettere la fiducia resta. Il guardasigilli, però, ha incassato l’impegno di Ap di votare il testo della commissione e, a sua volta, si è impegnato a non modificarlo sulla prescrizione, tant’è che sono stati ritirati i due emendamenti del Dem Giuseppe Lumia indigesti al Centrodestra (uno sui tempi di prescrizione per l’omicidio colposo in violazione delle norme anti infortunistiche e l’altro sulle notificazioni agli imputati). La giornata comincia all’insegna della mancanza del numero legale (sebbene si sia ancora in fase di discussione generale), che provoca il rinvio della seduta alle 16,30. Le assenze sono nei banchi di Ap ma anche del Pd e l’opposizione attacca: i 5 Stelle parlano di "maggioranza in tilt su un provvedimento che contiene una serie di regali alla criminalità organizzata politica e mafiosa" e Forza Italia di "devastazione della giustizia e di auto ostruzionismo". Ma i malumori sono diffusi e trasversali nella maggioranza, al punto che qualcuno ipotizza persino un ritorno del Ddl in commissione. Di qui la scelta della melina, in attesa che Renzi decida il da farsi sulla fiducia. Alle 14,22, il presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola, esponente di spicco di Ap, detta alle agenzie: "Dalle ultime informazioni in mio possesso il governo metterà la fiducia sulla riforma del processo penale. Non so se oggi pomeriggio, alla ripresa dell’Aula, ma credo che per il voto non si superi la giornata di domani". In effetti, è già pronto un maxiemendamento che, salvo alcune correzioni tecniche, riproduce il testo della commissione. Nel frattempo, il ministro è alla Camera per rispondere a un question time, ma passa da una telefonata all’altra, freneticamente. Ai cronisti spiega la sua strategia (andare avanti con i primi voti e ricorrere alla fiducia solo in un secondo momento, se necessaria); poi, con un cambio di programma rispetto alla sua agenda, alle 16,00 si precipita al Senato dov’è in corso una riunione dei senatori di Ap, preoccupati che l’accordo di maggioranza raggiunto ad agosto, e faticosamente digerito, possa essere superato in Aula da alcuni emendamenti del gruppo Pd, e perciò pronti a non votare la riforma. Tant’è che per protesta fanno mancare per altre due volte il numero legale. Orlando parla con la capogruppo Laura Bianconi e si impegna a rispettare gli accordi di maggioranza. Lumia ritira due dei suoi emendamenti e Ap, incassata la "vittoria", torna in Aula. La discussione generale riprende. Alle 19,04, D’Ascola dichiara che l’ipotesi della fiducia subito sembra "tramontata. Resta in piedi - aggiunge -la possibilità di singole fiducie su singoli articoli o passi". La parola torna quindi a Renzi: in attesa di decidere se la fiducia comporti più rischi o vantaggi rispetto al voto referendario, il Ddl potrebbe procedere lento pede, magari cedendo il passo a provvedimenti più urgenti, come la riforma del cinema reclamata dal ministro Franceschini perché ha delle scadenze da rispettare in vista della legge di Bilancio. Tra l’altro, con la fiducia, il Ddl (40 articoli) si trasformerebbe in una legge monstre di un unico articolo con centinaia di commi: una soluzione imbarazzante quanto a qualità della legislazione. Prescrizione, stavolta c’è l’accordo. Il governo pronto a mettere la fiducia di Francesco Grignetti La Stampa, 22 settembre 2016 Il Csm boccia il governo. E quella norma che prevede la proroga dei pensionamenti soltanto per alcuni magistrati, tra cui i vertici della Cassazione, secondo il plenum del Csm sarebbe addirittura incostituzionale perché "pone in discussione il principio sancito dall’articolo 107 della Costituzione (..) posto a presidio della pari dignità di tutte le funzioni giurisdizionali". È insomma una bocciatura a tutto tondo il parere che il Csm ha approvato ieri all’unanimità. La cosa più grave? "Riproporre una anacronistica concezione gerarchica, formale e sostanziale, della magistratura". Intanto è tregua al Senato, per l’ennesima volta. E la riforma del processo penale faticosamente riparte. È stato necessario però un incontro a quattrocchi tra il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e la capogruppo dei centristi di Alleanza popolare-Ncd, Laura Bianconi, per rimettere in pista la riforma, dopo che per ben sette volte ieri mattina era mancato il numero legale. Risultato dell’incontro: macchine indietro tutta da parte del Pd, il senatore Beppe Lumia ritira i suoi emendamenti, sfuma una possibile convergenza tra sinistre e M5S. Di qui la "soddisfazione" dei centristi perché il Guardasigilli si è impegnato a mantenere il testo licenziato dalla commissione Giustizia, in particolare sui tempi e i modi della nuova prescrizione, sul quale c’era l’accordo di maggioranza. Non è escluso, però, che la settimana prossima il governo decida di chiedere la fiducia sul provvedimento. È lo stesso ministro, parlando ai suoi, che ha chiarito: "È ora di iniziare a votare. Valuteremo poi sul campo se sarà necessario chiedere la fiducia". È un fatto che questa riforma era stata approvata dalla Camera nel settembre 2015. Trascorso un anno, finalmente la legge approda all’Aula del Senato. Un ritardo che è colpa di multipli veti. Il principale riguardava appunto il meccanismo della nuova prescrizione su cui i centristi, che si erano astenuti alla Camera, non intendevano assolutamente dare il via libera finale al Senato. Un braccio di ferro sia tecnico, sugli anni da concedere ai processi prima di dichiararli estinti, che politico. E di nuovo, anche ieri, quanto più i centristi si mostravano soddisfatti dal risultato ottenuto, tanto più si facevano sentire i grillini o quelli di Sel-Sinistra Italiana come Laura De Petris, che ha detto: "Sui temi nevralgici il governo è ostaggio di un gruppetto di senatori centristi che hanno in pugno le sorti della maggioranza e che possono così permettersi di condizionare tutto". Nel merito del provvedimento, la riforma della prescrizione torna alla formulazione che Angelino Alfano e Andrea Orlando avevano concordato alla prima tornata di questa storia infinita. Cade l’idea di Lumia di calcolare i tempi della prescrizione (per le norme che riguardano prevenzione, sicurezza e igiene del lavoro) dal giorno in cui la notizia di reato viene acquisita al magistrato e non dal momento della commissione del reato. Secondo le opposizioni sarebbe un "accordo sulla pelle dei lavoratori". Il senatore Lumia, capogruppo dem in commissione Giustizia, che potrebbe apparire come lo sconfitto di questa giornata, chiarisce: "Si è alla soglia di un importante risultato, quindi è giusto il ritiro di due emendamenti che non incidono sul risultato. Sui tempi della prescrizione per i reati colposi quando è in gioco il diritto alla salute, e in particolare l’amianto, già oggi la legge prevede tempi di prescrizione doppi. Adesso si può procedere. Cadono tutti gli alibi". Giustizia, Ncd fa ballare il governo di Andrea Colombo Il Manifesto, 22 settembre 2016 Palazzo Madama. Manca sei volte il numero legale al senato. Poi il Pd si arrende: passo indietro sulla prescrizione. E nuova fiducia in arrivo sulla riforma del processo penale. Al Senato i centristi della maggioranza nemmeno si preoccupano di salvare la forma. Ricattano apertamente e alla fine portano a casa il risultato. Fanno mancare per sei volte consecutive il numero legale e consentono al dibattito sulla riforma del processo penale, con accluse modifiche della prescrizione, solo dopo aver ottenuto il ritiro degli emendamenti Pd firmati dal capogruppo in commissione Lumia. "Il ministro Orlando si è impegnato a fare riferimento al testo della Commissione sul quale era stato trovato l’accordo. È un successo di Area popolare", esulta l’alfaniana Laura Bianconi. Vittoria piena e indiscutibile. Non sufficiente però a chiudere la partita. Restano gli emendamenti Casson, ma soprattutto l’M5S ha fatto propri quelli ritirati. Affrontare l’aula con il testo varato dalla commissione significa sfidare circa 150 voti segreti: troppo pericoloso. Dunque la fiducia quasi certamente blinderà il testo, nonostante sia sconsigliabile a un passo dal referendum e nonostante le resistenze del Guardasigilli. Resta solo da vedere se saranno concordate alcune modifiche con i centristi, con un maxiemendamento da mettere al sicuro con la fiducia. Se ne parlerà la settimana prossima. Ma al momento l’affermazione dei centristi è netta. Non solo hanno ottenuto quanto volevano, ma hanno anche dimostrato di poter tenere il governo sotto scacco. La situazione era già chiara giovedì scorso, quando a sorpresa il numero legale era mancato tre volte, imponendo il rinvio. Ieri mattina il gioco è ripreso: in mattinata il numero legale è mancato per quattro volte consecutive, e la seduta mattutina è stata cancellata. Quella pomeridiana pareva destinata a finire allo stesso modo. Alla riapertura il numero legale non c’era. Pausa, rientro in aula, nuova conta, niente da fare, nuova interruzione. La prova di forza non poteva essere più esplicita né più determinata. Doveva pesare sulle trattative in corso tra Orlando e la capogruppo Bianconi, fresca di nomina dopo aver sostituito Schifani, tornato sotto i vessilli di Arcore. La richiesta era secca e ultimativa: confermare il testo uscito dalla commissione Giustizia, che prevede un innalzamento del tetto per la prescrizione nei reati di corruzione sino a 18 anni. I centristi temevano agguati, consentiti dalla quantità di voti segreti e resi temibili dalla possibile intesa Pd-M5S. C’era, e c’è ancora l’emendamento del relatore Casson, in dissenso dal gruppo Pd, che vorrebbe fermare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma soprattutto c’era quello di Lumia, che nei casi di reati ambientali mirava a far partire la prescrizione non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quello in cui la notizia di reato arriva al magistrato. Il primo emendamento ha sempre avuto pochissime possibilità, nonostante l’appoggio dei 5S. Ma per il secondo il rischio era serio, anche perché rispondeva a una logica inconfutabile. Nei reati ambientali, come nel caso dell’Eternit, il danno, la malattia, dunque la cognizione del reato, può arrivare con forte ritardo rispetto al momento in cui questo viene commesso. Il ricatto di Alfano lo ha spazzato via. L’ennesimo voto di fiducia completerà l’opera. La pace Pd-Ncd sulla prescrizione può non bastare di Errico Novi Il Dubbio, 22 settembre 2016 Via la firma di Lumia dagli emendamenti contestati dai centristi, Orlando si riserva la fiducia ad hoc. Si cerca di pettinare il mare. Di mettere in riga un Senato mai così incandescente come sulla riforma del processo (revisione costituzionale a parte, ovvio). Ma in realtà sul disegno di legge che dovrebbe ridefinire l’intera materia penale si naviga a vista. Il ministro Andrea Orlando sa che non ci sono alternative. Dopo una specie di sciopero bianco proclamato ieri in Aula da Area popolare, il Pd si impegna a "riportare il testo alla versione uscita dalla commissione Giustizia". E così è. Via dunque gli emendamenti presentati da Beppe Lumia, che in commissione è il capogruppo dei democratici. E scompare la firma del senatore palermitano dalla modifica sui reati ambientali, messa a punto da Felice Casson. Con quel piccolo granello di sabbia sarebbe saltato l’intero ingranaggio dell’intesa Pd-centristi. Ci vuole l’intervento personale del guardasigilli Orlando per mettere fine alle agitazioni di Palazzo Madama. Il ministro rassicura gli alfaniani, riuniti in conclave in attesa di chiarimenti. Ma non è affatto detto che sulla querelle sia stata scritta l’ultima parola. Certo gli esponenti dell’Ncd si dicono "soddisfatti per il ripristino di un articolato che, in particolare sulla prescrizione, è frutto di un confronto lungo e difficile". Di certo Ncd non avrebbe mai votato l’emendamento che modifica il regime della prescrizione per i reati connessi all’inquinamento ambientale: con la proposta Casson, controfirmata da Lumia, in casi come il processo Eternit il timer sarebbe partito non dal compimento del reato ma dal momento in cui il pm ne ha notizia. Uno stravolgimento pesante, che però al Pd non dispiaceva. Era stato Renzi a promettere ai familiari delle vittime di Casale Monferrato una norma simile. Ma non se ne farà nulla. L’emendamento formalmente resta, è vero, ma non c’è più il "timbro uffficiale" dei vertici dem. E questo basta ai senatori di Area popolare per far ripartire la discussione generale sul ddl, dopo aver fatto mancare per 7 volte il numero legale. Tutto a posto? Macché. Casson non fa passi indietro. "Nessuno ha chiesto il ritiro dell’emendamento direttamente al sottoscritto: io lascio la mia firma in calce a quella proposta e all’altra che interrompe per tutti i processi la prescrizione alla condanna in primo grado. Se mi domandassero di cancellarla, darei la risposta dovuta". E ancora: "Io non voterò la prescrizione così com’è uscita dalla commissione Giustizia", ribadisce al Dubbio. "Ma tanto con me ci saranno solo i cinquestelle e la minoranza pd". Hai detto niente. L’incognita resta. E non si sa neppure se oggi, chiusa la discussione generale, si passerà a votare l’ampio ddl in ogni sua parte. Incombe uno sciopero degli aerei che ha fatto già battere in ritirata i deputati. Renziani e centristi cercheranno di approfittare del long week end per mettere in sicurezza le parti a rischio della riforma penale. Se ne dovrebbe riparlare martedì. Ma una quindicina di voti segreti è già dovuta per regolamento: saranno inevitabili per le parti del ddl che stabiliscono innalzamenti di pena su furti e rapine. Sul resto decide il presidente Grasso, a condizione che almeno 20 senatori chiedano di votare a scrutinio segreto. Lì può capitare di tutto. Orlando ha incassato il riconoscimento di Papa Francesco, che ad Assisi ha detto di seguire il suo lavoro. Il ministro ha dichiarato a sua volta che va costruito un ponte tra carcere e società, in orgogliosa difesa della riforma penitenziaria contenuta nel disegno di legge. Eppure il guardasigilli si riserva il ricorso alla fiducia. Su singole parti come la prescrizione, possibilmente. Perché blindare l’intero testo amplificherebbe le grida grilline, già levate ieri da Mario Giarrusso, sulla "riforma che fa regali a mafiosi e corrotti". Si naviga a vista, appunto, e si spera di scansare gli iceberg. Corte di cassazione ancora senza riforme di Tommaso Basile Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2016 Alla fine, la montagna ha partorito il topolino. Soltanto pochi mesi fa, all’inizio dell’anno, un Presidente della Corte di cassazione nuovo di zecca richiamava con toni accorati, e per ben due volte, l’attenzione di tutte le Istituzioni - dal Presidente della Repubblica al ministro della Giustizia, dai giudici della Corte costituzionale ai membri del Consiglio superiore della magistratura - sulla situazione di drammatica inadeguatezza della Corte suprema ad affrontare il contenzioso civile: non solo l’arretrato "monstre" di circa centomila procedimenti pendenti non viene ridotto, ma persino i nuovi ricorsi non trovavano trattazione in tempi accettabili (i due anni ritenuti dalla Cedu fisiologici per il grado di legittimità). E questo nonostante il particolare sforzo posto in essere dai giudici della Corte negli ultimi anni. Occorreva dunque, a mali estremi, adottare rimedi estremi, necessari e urgenti, tali da modificare radicalmente il rito di legittimità e riservare solo a poche cause, particolarmente significative, l’approfondimento generatore del principio nomofilattico: in sostanza si proponeva, quantunque non esplicitamente, di risolvere in modo semplificato le cause ove prevalesse lo ius litigatoris (il mero interesse delle parti) e di concentrare le forze sulle (poche) cause ove venisse in questione anche lo ius instituzionis, cioè l’interesse giurisprudenziale ad affermare un principio-guida di carattere generale. Quando poche settimane fa il provvedimento, così necessario e urgente da assumere la forma del decreto-legge, è stato finalmente varato, i giudici sono rimasti attoniti: al prologo sulla urgenza di misure straordinarie per fronteggiare la crisi seguiva, come pressoché esclusivo contenuto del decreto, la semplice proroga del servizio per una ventina di magistrati della Corte che il 31 dicembre sarebbero dovuti andare in pensione, i più anziani e con funzioni direttive. Come spesso accade nel nostro Paese, le questioni relative alle persone hanno la meglio sulle questioni che coinvolgono l’interesse pubblico. Così, le (legittime) perplessità sul trattenimento in servizio solo di questa ventina di magistrati hanno di fatto assorbito l’intera attenzione, e impedito che la prima domanda da porre al Governo piuttosto che essere: perché solo loro? Fosse invece: e il resto delle misure promesse? Eppure i fatti testardamente continuano a indicare come, continuando così, il processo di cassazione (in teoria il più rilevante nell’ordinamento della giustizia) si trasformerà in modo definitivo e sempre più evidente in un mero simulacro di giudizio, privo di reale interesse per la società civile (e addirittura pericoloso, laddove può sconvolgere, imprevedibilmente e a distanza di molti anni dai fatti, equilibri interpretativi acquisiti e prassi funzionanti). Eppure l’ampio e appassionato dibattito ha da tempo messo in evidenza i possibili rimedi (da quello, decisivo, della modifica della norma costituzionale - unica al mondo - che consente l’accesso indiscriminato al giudizio di legittimità, a quelli, succedanei, dei possibili filtri processuali di ammissibilità per materia o valore della causa). Ma nulla si muove. Un magico incantamento degno della famosa fiaba ha addormentato la Corte nella ripetizione di riti dei quali sfugge ormai il senso ultimo: in quale paese avanzato la Corte suprema di legittimità affannosamente e disordinatamente produce trentamila sentenze all’anno (a fronte delle centoventi della Supreme Court britannica e delle poche migliaia del Bundesgerichtshof la Corte di cassazione federale della Germania)? Quali poderose forze sono al lavoro per fermare, contro ogni ragionevolezza, qualunque reale cambiamento che restituisca dignità alla nostra Istituzione giuridica più importante? Domande che ci facciamo da tempo, ed alle quali nessun governo sembra in grado di dare risposta. "Noi, orfani dei femminicidi con la paura addosso e senza aiuti statali" di Maria Corbi La Stampa, 22 settembre 2016 Un esercito di minori che vive in un limbo di negazione. Sono gli orfani del femminicidio, bambini e bambine, ma anche adolescenti, ragazzi, che spesso assistono all’omicidio della madre e che da quel momento perdono non solo l’amore più grande, la sicurezza, la casa, ma anche se stessi. E per ritrovarsi, per riacquistare fiducia nel futuro, è una lunga marcia. Al loro fianco nonni, zii, altre volte famiglie affidatarie. Spesso però finiscono in istituti. Sono 1628 secondo i dati raccolti da Anna Costanza Baldry, psicologa della Seconda Università degli studi di Napoli per il progetto europeo "Switch-off", ossia spento. Come lo sguardo di quelle che vengono chiamate "vittime collaterali" e che vengono subito dimenticate. Lo studio ha voluto indagare il "dopo", quando le luci della cronaca nera sono spente e per questi bambini inizia un nuovo capitolo, senza più la madre e anche il padre, morto suicida o rinchiuso in un carcere. L’81% di questi minori era presente durante l’omicidio della madre. "Sono bambini che subiscono, oltre al lutto, traumi equivalenti a quelli di una guerra e di un terremoto - spiega la professoressa Baldry - Molti di loro prima del "fatto" hanno convissuto con la violenza, perché il femminicidio non è mai un raptus. Perdono la madre, ma anche la loro casa, i loro punti di riferimento". Il 59% di loro trova accoglienza in famiglia, da nonni e zii materni, il 9% dalla famiglia paterna, il 7% viene accudito dai fratelli più grandi. Un quarto di loro invece finisce in affido extra parentale. Perché spesso i familiari non possono permettersi economicamente di tenerli con sé. E devono rinunciare. Le cose in Italia funzionano così: una comunità che accoglie un bambino in affido riceve dai 2 mila ai 6 mila euro al mese. Una famiglia senza legami di parentela con il bambino ne riceve dai 500 ai 1000. I parenti entro il quarto grado possono al massimo ricevere 350 euro, in maniera discrezionale e a seconda delle regioni dove vivono. Spesso non hanno nulla. E ieri, a denunciare questo paradosso alla Camera dei Deputati, durante il convegno per la presentazione dello studio Switch-off, c’era Agnese, zia affidataria dei bambini della sorella Silvana, uccisa dal marito nel 2014, a Fossano. "I miei nipoti sono la gioia della mia vita, non ho mai avuto dubbi su cosa fosse giusto fare - dice -. Non parlo per me, ma avendo dovuto affrontare questo cammino con loro, so cosa vuol dire crescere dei bambini feriti, che non trovano pace, che non dormono tranquilli, che hanno paura che loro padre esca dal carcere e li uccida. Il loro mondo è stato stravolto. Hanno bisogno di amore ma anche di un supporto psicologico e di aiuti di professionisti. Anche nella loro vita scolastica. E sono tutte cose che costano, ma quando chiedi una mano al pubblico ti rispondono sempre che non ci sono fondi". La Garante nazionale per l’infanzia e adolescenza, Filomena Albano, ha sottolineato come sia fondamentale per "ricostruire una rete familiare e sociale di riferimento a questi orfani "speciali", prevedere un sostegno adeguato anche di carattere giuridico ed economico". "Penso ad esempio all’istituzione di un fondo economico nazionale per gli orfani di femminicidio, al patrocinio a spese dello Stato, a prescindere dalle condizioni di reddito". Secondo la Garante occorre anche "intervenire sull’istituto dell’indegnità a succedere per evitare che, nonostante la gravità del delitto, il genitore colpevole possa concorrere all’eredità del coniuge a danno dei figli, e prevedere l’applicazione automatica di questo istituto in caso di sentenza definitiva di condanna per omicidio del coniuge". Il caso Cesaro e la solitudine dell’innocente di Andrea Marcenaro Panorama, 22 settembre 2016 Parla il deputato dipinto come un camorrista. Un giudice stabilisce che il fatto non sussiste ma i giornali lo ignorano. Limitiamoci ai casi più clamorosi di questo settembre: archiviato Stefano Graziano, ex presidente del Pd campano; assolto in Cassazione il governatore Vincenzo De Luca; il 2 settembre cancellate, inoltre, le accuse all’onorevole Luigi Cesaro, Forza Italia, indicato nel luglio 2014 dai magistrati come meritevole di essere arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, turbativa d’asta e favoreggiamento alla camorra. Archiviato il 2 settembre scorso: ops, pardon, non era vero niente. Questo, dopo anni di gogna con titoloni in cui Cesaro, per meglio farsi intendere dai lettori, veniva soprannominato "Giggino ‘a purpetta". Ma il 3 settembre la notizia dell’archiviazione è finita in una righina nascosta a pagina 32 di qualche giornale, non tutti, subito sotto gli annunci economici. Contento, onorevole Cesaro? Che devo dire? Contento, contento… Non l’arrestano più, visto? È andata un po’ per le lunghe. A qualcuno è andata peggio. E infatti condivido in pieno le parole del mio difensore, che Dio lo benedica, il professor Vincenzo Maiello. Vuole ripeterle per Panorama? "Trova così conferma che la ricostruzione giudiziaria dei fatti e delle responsabilità è affare delicato e complesso che non può cedere alle interessate semplificazioni di quanti costruiscono sulle indagini verdetti anticipati di colpevolezza". Parole nobili. E precise. Appunto: chi sarebbero, questi interessati semplificatori? Non mi permetterei. Atteggiamento cauto, ma saggio. Mi sono capitate sotto gli occhi queste righe, scritte sul suo caso da Roberto Saviano nel luglio 2014: "Oggi la politica è diventata mero strumento nelle mani dei clan". Il dottor Saviano è pensatore al cui livello non sono in grado di pormi. E pure altre righe ha voluto aggiungere, il dottor Saviano: "In questa indagine c’è proprio tutto ciò che serve per capire fino a che punto le organizzazioni criminali hanno compromesso la nostra democrazia: appalti truccati, elezioni pilotate, legami con la vecchia guardia camorristica. Ma c’è chi crede che raccontare sia diffamare". Una ‘nticchia (un poco, ndr) diffamato, con tutto il rispetto, io forse lo fui. Le avrà telefonato per scusarsi, adesso. Chi? Il dottor Saviano. Non ho avuto questo piacere. No, non mi pare. Magari lo fa domani. Sempre qua, io sto. Magari ha chiamato qualcuno a nome suo. No, no, le cose a quel livello le capisco pure io. Se chiamano, non mi sbaglio. L’Espresso fece articoli di fuoco, contro di lei. L’ha chiamata qualcuno? Dottò, con quello che tengono da fare, le pare che quelli hanno il tempo di telefonare a me? Forse mantengono ancora qualche dubbio sull’inchiesta. E no, questo no eh. Come può dirlo? Senta qua: a disporre la mia archiviazione perché "non sussiste elemento alcuno", è stata la stessa Gip, Alessandra Ferrigno, che aveva richiesto alla Camera l’autorizzazione per il mio arresto. E in completo accordo con la Direzione distrettuale antimafia. Ha intravisto malafede, nella persecuzione subita? Ma quando mai? Proprio volendo, eccesso di zelo. Ecco di nuovo le parole del professor Maiello, che Dio lo benedica: "L’epilogo della vicenda ci restituisce l’immagine di una giustizia non prigioniera di pregiudizi e che si mostra all’altezza della propria funzione, nella quale il mio assistito ha sempre confidato". Magnifiche parole, oltremodo opportune. Mica ci crederà, vero? E che faccio, mò, i capricci? Niente flagranza su input della vittima di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2016 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 39131 del 21 settembre 2016. Non è arresto in flagranza quello eseguito sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nell’immediatezza del fatto. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 39131, dirimono il contrasto sul tema, prendendo le distanze da prassi poliziesche e da pericolose estensioni del concetto di flagranza. Secondo l’indirizzo contrario a quello affermato nella sentenza di ieri, infatti, il concetto di flagranza o di quasi flagranza può essere applicato anche alle situazioni in cui ad inseguire il reo non è chi ha direttamente assistito al crimine, ma l’arresto scatta sulla base di indicazioni della vittima o di altri, come risultato di un’indagine investigativa, per quanto rapida e condotta nell’immediatezza del fatto. Una tesi non condivisibile precisa il Supremo collegio, pur considerando anche l’evoluzione che la nozione di inseguimento ha avuto nel tempo. Alla luce delle nuove tecnologie nella definizione di inseguimento possono rientrare una serie di azioni diverse da quelle descritte nel film "Guardie e Ladri" di Totò, dove il ladro scappa tallonato da un ansimante poliziotto. Ora l’inseguimento può essere messo in atto in molti modi: dal posto di blocco al controllo a distanza mediante i sistemi di controllo elettronico satellitare. Quello che però non può mancare perché l’arresto sia valido è la certezza o l’altissima probabilità che la persona arrestata sia la stessa che ha commesso il reato. Una consapevolezza che si acquisisce solo quando l’inseguito è stato colto sul fatto. Per le Sezioni unite deve considerarsi superata anche la nozione di quasi flagranza, riservata a chi viene "sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima". In tal caso precisa la cassazione la persona inseguita non "si considera" in stato di quasi flagranza ma "è" in stato di flagranza. Diverso è il caso, come quello esaminato nell’ordinanza di rinvio, in cui la persona era stata arrestata sulla base di una segnalazione della vittima, che era stata accoltellata. L’uomo era stato raggiunto dai carabinieri, i quali avevano effettuato una perquisizione personale, del veicolo e dell’abitazione senza trovare il coltello o altre tracce del reato. Il gip, dopo l’interrogatorio e sentito il difensore, aveva deciso di non convalidare l’arresto, ritenendo insussistente il requisito della flagranza o della quasi flagranza. Per le Sezioni unite si è trattato di una decisione corretta. La provvisoria privazione del diritto fondamentale alla libertà personale, su iniziativa della polizia giudiziaria e in assenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, rappresenta, infatti, un istituto del tutto eccezionale, connotato in tal senso dalla Costituzione (articolo 13 terzo comma). Le disposizioni della legge ordinaria e del Codice di rito che disciplinano l’arresto devono quindi essere interpretate in maniera stretta. La dilatazione della nozione di quasi flagranza fino a prescindere dall’essenziale relazione tra la percezione diretta del fatto e il successivo arresto, deborda - sottolineano i giudici - dall’ambito dell’interpretazione estensiva dell’articolo 382, comma 1 del codice di procedura penale. Cedendo alla tentazione di progressivi slittamenti e assimilazioni tra l’ipotesi specifica dell’inseguimento, e quelle più generiche, e dunque differenti, delle ricerche o delle investigazioni tempestive si viola il tenore letterale della norma. Per il Supremo collegio non è dunque condivisibile l’orientamento contrario secondo il quale ciò che conta è che la polizia giudiziaria si attivi immediatamente dopo il delitto e inneschi una sequela ininterrotta di atti, dall’investigazione al materiale inseguimento, che, senza soluzione di continuità si concludano con l’arresto del reo. Una tesi che forse trova il favore dell’opinione pubblica perché risponde all’esigenza avvertita di assicurare la pronta reazione delle istituzioni ai reati più gravi, ma che non è praticabile dal punto di vista del diritto e delle garanzie costituzionali. Limiti all’arresto. Testi vittime o terzi? Non basta di Dario Ferrara Italia Oggi, 22 settembre 2016 Non si può procedere all’arresto in flagranza sulla base delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dai testimoni del fatto, dunque la stessa vittima o terze persone. E ciò anche se l’indagato viene privato della libertà nell’immediatezza del fatto. La misura precautelare ha infatti natura eccezionale e si giustifica soltanto quando chi procede all’arresto ha un diretta percezione della condotta posta in essere dall’autore del reato. Lo stabiliscono le sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza 39131/16, pubblicata il 21 settembre. Nesso logico. Bocciato il ricorso del procuratore della repubblica dopo l’arresto di un uomo accusato di aver accoltellato un tabaccaio. In questo caso non c’è l’inseguimento del reo: passate alcune ore dal reato, i carabinieri arrestano l’indagato sulla base delle dichiarazioni fornite dalla vittima e dalle persone informate sui fatti. Invece, osserva il collegio esteso, la legge stabilisce in termini di immediatezza la successione sul piano temporale fra il reato e l’inseguimento del suo autore: è questo il nesso che lega sul piano logico la condotta delittuosa allo stato di flagranza. E va detto fra l’altro che ai fi ni della flagranza l’inseguimento non implica per forza l’inseguimento a vista del reo da parte della polizia, ma può manifestarsi in vari modi: per esempio realizzando blocchi stradali oppure circondando l’edificio in cui si è nascosto l’autore del reato. Insomma: per evitare abusi la misura precautelare può essere adottata soltanto quando chi procede all’arresto percepisce situazioni personali dell’autore del reato che sono correlate all’illecito perpetrato e rivelano in modo obiettivo la colpevolezza. Prassi poliziesche. Non si può invece assimilare il vero inseguimento a quello figurato, l’investimento cosiddetto "investigativo". E ciò perché la tesi risulta incoerente in modo palese con il linguaggio utilizzato in proposito dal codice. La stessa Corte costituzionale ha sottolineato che le norme in materia sono di stretta interpretazione perché si tratta di una deroga al principio secondo cui la sola autorità giudiziaria ha il potere di disporre misure che incidono sulla libertà delle persone. E la dottrina evidenzia come dilatare il concetto di "inseguimento" equivale ad allontanarsi dallo stesso concetto di flagranza e può celare il rischio di pericolose "prassi poliziesche"; il tutto mentre la Costituzione connota in termini di eccezionalità i provvedimenti provvisori con cui l’autorità amministrativa può procedere alla restrizione della libertà. Legittima dunque nella specie la mancata convalida dell’arresto. Sequestri: alla Consulta i compensi dei custodi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2016 La Corte di cassazione boccia la norma che taglia, con effetto retroattivo, i compensi riconosciuti ai custodi dei veicoli sequestrati: e chiede l’intervento della Consulta per chiarire i dubbi di costituzionalità della legge. Con un’ordinanza interlocutoria (18520)i giudici, dichiarano rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi da 312 a 320, della legge n.311 del 2004, "nella parte in cui riconosce ai custodi dei veicoli sottoposti a sequestro con effetto retroattivo, compensi inferiori a quelli previgenti". La legge ha modificato la disciplina in materia di compenso ai custodi dei veicoli "messi sotto chiave" dall’autorità giudiziaria, prevedendo, a certe condizioni relative all’ "età" dei veicoli e al tempo di giacenza, l’alienazione forzosa di quelli rimasti presso il custode, anche se non confiscati e la corresponsione a quest’ultimo di un importo complessivo forfetario, determinato sulla base dei criteri indicati nel comma 318, espressamente in deroga alle tariffe, più favorevoli, previste dal precedente Dpr (115/2002). L’obiettivo del legislatore era quello di risolvere il problema della lunga giacenza dei veicoli sequestrati, confiscati e non, presso i custodi, la cui conseguenza è l’accumulo di un numero abnorme di veicoli, per lo più da rottamare o comunque di valore irrisorio, per i quali l’amministrazione deve sostenere gli esorbitanti costi rappresentati dal pagamento per l’attività di custode inutilmente protratta nel tempo. La norma, con portata retroattiva è stata superata dal regolamento del 2006 con il quale il ministero della giustizia ha dettato le tabelle per le indennità. Un tariffario con le singole voci per ogni attività: dal recupero alla custodia con prezzi che variano a seconda del veicolo e della "conservazione" del mezzo in area coperta o meno. Il regolamento lasciava ferma la legge 2004 per le attività di custodia e conservazione dei beni sottoposti a sequestro per i quali alla data dell’entrata in vigore non era ancora stato emesso un decreto di liquidazione da parte dell’autorità giudiziaria. Per la Suprema corte la disciplina intertemporale, che definisce in via forfetaria rapporti negoziali di durata sorti nella vigenza di un diverso sistema, è di dubbia compatibilità sia con la Costituzione sia con la Cedu. Per i giudici la retroattività della norma, anche se coerente con l’esigenza di abbattere gli oneri, impone un sacrificio alla sola categoria dei custodi pregiudicando il loro diritto al compenso per prestazioni già effettuate. Tutte da valutare le conseguenze economiche in caso di adesione della Consulta alla tesi della Cassazione. Appello al Cpt sull’ergastolo ostativo dai detenuti di Voghera da Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2016 Al Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti Inumani o Degradanti. Strasburgo. Palazzo d’Europa. Oggetto: Ergastolo Ostativo, ovvero non pena di morte ma pena fino alla morte. Illustrissimo Comitato, noi sottoscritti detenuti, attualmente ristretti nel carcere italiano di Voghera e condannati alla pena dell’ergastolo "ostativo" (ergastolo senza possibilità di riesame della pena), intendiamo portare alla conoscenza delle SS. LL. dell’esistenza in Italia di una pena che non lascia alcuna speranza di poter un giorno, neanche lontanissimo, essere reinseriti nella società. Questa fattispecie di pena, introdotta in Italia nel 1991 - Legge n. 354 del 26 luglio 1975, art 4Bis Ord. Pen. - modificata in peggio negli anni successivi (ultima modifica aprile 2009), vogliamo sottoporla alla Vostra attenzione sia dal punto di vista giuridico sia da quello umanitario. Premesso che alcuni di noi, quando eravamo sottoposti al regime di isolamento previsto dall’art. 42 Bis OP, abbiamo avuto modi di incontrare una delegazione del C.P.T. in diversi istituti italiani e di esporre loro la problematica dell’esistenza dell’ergastolo ostativo. Da quanto ci risulta non ci sono, ad oggi, pronunce da parte dell’illustre Comitato in merito alla specifica problematica ed è per questo che sommessamente ci rivolgiamo a Voi, affinché possiate esaminare in concreto questa tipologia di pena ed in tal caso considerare l’ipotesi della violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come certamente saprete, l’art. 3 della Convenzione vieta qualsiasi forma di tortura, di trattamenti disumani o degradanti e l’ergastolo ostativo, nella sua configurazione, è in pieno contrasto con tale previsione laddove priva il condannato del diritto alla speranza di vedersi un giorno riesaminare la propria pena. Ci si chiede se condannare una persona all’ergastolo ostativo non sia di per se da inquadrare nell’ambito di un trattamento disumano e degradante. A tal proposito, non è fuori luogo citare la sentenza Vinter contro il Regno Unito (9 luglio 20013) in cui la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo riconosce al condannato all’ergastolo il diritto ad un riesame della pena fissando, anche come prima revisione, un termine massimo di 25 anni dalla comminazione della pena, ritenendo tale lasso di tempo ragionevolmente congruo per una ipotesi di evoluzione in positivo del condannato. Ad abundantiam, si cita una dichiarazione del giudice Ann Power-Ford - componente della Grande Camera riunitasi in relazione al caso Vinter sopra citato - che spiega così la sua votazione con la maggioranza: "Ho votato con la maggioranza in questo caso e desidero aggiungere quanto segue: capisco e condivido molte delle opinioni espresse dal Giudice Villiger a suo parere parzialmente dissenziente. Tuttavia, ciò che ha fatto pendere la bilancia per me a votare con la maggioranza è stata la conferma della Corte, in questa sentenza, che l’art. 3 comprende quello che potrebbe essere descritto come il "diritto alla speranza". Esso non va oltre quello. La sentenza riconosce implicitamente che la speranza è un aspetto importante e costitutivo della persona umana. Anche coloro che commettono il più grave dei delitti conservano la loro umanità fondamentale e portano in sé la capacità di cambiare. Anche se la pena detentiva possa essere lunga e meritata, esse mantengono il diritto di sperare che, un giorno, potrebbero aver espiato le loro colpe. Essi non dovrebbero essere privati del tutto di tale speranza. Negare loro l’esperienza di speranza sarebbe come negare un aspetto fondamentale della loro umanità e farlo sarebbe degradante". L’obbligo della collaborazione con la giustizia (così come previsto dall’art. 4 bis OP), al fine di avere la speranza di una revisione della pena, pretesa anche dopo 20 o 30 anni di pena sofferta, sancisce l’infallibilità assoluta del giudizio di cognizione dal momento che si stabilisce per legge che un soggetto condannato per determinati reati debba assolutamente essere a conoscenza specifici "altri" fatti delittuosi. Questa illogica impostazione giuridica da un lato, stride fortemente contro il senso e il buon senso comune, dall’altro contro i decenni di esperienza giuridica che ci insegnano come sia sempre alto il rischio dell’errore giudiziario e quindi della condanna di un innocente. Stride altresì con il nostro codice di procedura penale laddove, proprio in virtù dell’esperienza sopra citata, prevede sempre la possibilità di revisione di sentenze passate in giudicato (artt. 629, 630 e seguenti). Dunque, anche da questo punto di vista, l’art. 4 bis c. I OP, e di conseguenza l’ergastolo ostativo ad esso collegato, appare in assoluta violazione del diritto di professare la propria innocenza anche dopo sentenze passate in giudicato, come più volte si è espressa la Corte di Cassazione. Altresì, le garanzie e le facoltà che sono previste nelle fasi di giudizio nel mantenere un comportamento processuale, qualunque esso sia, vengono di fatto annullate nella fase di esecuzione della pena appalesando lo spirito liberticida della norma. Con l’automatismo previsto dall’art. 4 bis c. I OP -"se collabori con la giustizia hai diritto alla speranza, se non collabori tale speranza è negata vita natural durante"- la possibilità di revisione della pena è preclusa per sempre. È sottratta ex lege al Magistrato di Sorveglianza la facoltà di valutare e vagliare ogni singolo individuo condannato al fine di esaminare il percorso trattamentale, in vista di un possibile reinserimento nella società così come previsto dall’art. 27, comma II della Costituzione Italiana. Tale preclusione è imposta indipendentemente dall’esito del percorso trattamentale, dal mutamento dei propri valori culturali, dalla maturazione esistenziale e psicologica, dalla revisione personale che il condannato possa aver compiuto nel corso dei decenni di espiazione. A nostro modesto parere tale preclusione appare offensiva nei riguardi della stessa Magistratura di Sorveglianza in quanto, avendo sottratto alla stessa l’attribuzione giurisdizionale, si ha l’impressione di un atto di sfiducia verso la Magistratura e questo, in uno Stato di Diritto, non dovrebbe avere dimora. Per le ragioni sopra esposte, chiediamo alle SS.LL. illustrissime, di voler approfondire l’argomento e di verificare se, come da noi sostenuto, sia in atto la violazione dell’art. 3 della Convenzione. Chiediamo, inoltre, di volervi pronunciare in merito. Per una maggiore e più dettagliata verifica, chiediamo di disporre una ispezione nelle sezioni di Alta Sicurezza, sottocircuiti AS1 e AS3, dove siamo detenuti gli oltre 1200 ergastolani ostativi, al fine di avere una diretta cognizione dell’esistenza nel paese di Cesare Beccaria, un tempo culla del Diritto, di una pena disumana che non uccide il condannato ma che lo lascia morire di pena. Non sono pochi i casi in cui decine di ergastolani ostativi ormai anziani, malati, fiaccati nel corpo e nello spirito, da oltre 25 anni detenuti, che sono stati lasciati morire in carcere o dimessi cinicamente a poche ore dalla morte solo per evitare il disbrigo burocratico che comporta la consegna ai familiari ed il trasporto delle salme! Fiduciosi in una Vostra sollecita calendarizzazione della questione sollevata e con la speranza di avere al più presto un confronto con una Vostra delegazione, porgiamo distinti e ossequiosi saluti. Ergastolani "Ostativi" del carcere di Voghera (PV) - Via Prati Nuovi, 7. Italia Seguono firme di tutta l’As1 e As3 Veneto: il Sappe invia dossier al Ministero "carceri sovraffollate e pochi poliziotti" Il Mattino di Padova, 22 settembre 2016 Un report al ministero della Giustizia da parte della Polizia penitenziaria per denunciare il sovraffollamento delle carceri venete, a cominciare da quella padovana e l’inadeguatezza dell’organico. Il dossier è stato annunciato all’indomani del ferimento di due agenti impegnati a difendere un detenuto da atti di autolesionismo. In via Due Palazzi i detenuti sono 596, quasi un terzo in più rispetto ai circa 400 posti letto regolamentari. Ampliando l’indagine alle dieci case di reclusione del Triveneto, poi, emerge che i carcerati sono 3.200, quindi 400 in più rispetto al numero massimo che le strutture potrebbero ospitare per legge. Troppi, denuncia il Sappe, il sindacato autonomo degli agenti in una nota diffusa nelle scorse ore: "Troppi non solo per garantire loro condizioni di vita accettabili, ma anche per gli agenti di Polizia Penitenziaria che si ritrovano, quotidianamente, a fronteggiare tentativi di autolesionismo, suicidio e rissa". "Nei primi sei mesi del 2016" dice Giovanni Vona, segretario regionale "nelle carceri del Veneto si contano 142 atti di autolesionismo, 13 tentati suicidi sventati in tempo dai Baschi Azzurri, 3 suicidi, 141 colluttazioni e 47 ferimenti: numeri che fanno capire, più di mille parole, con quale e quanto stress operativo si confrontano quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria". L’ultimo caso, citato dal Sappe, è di questi giorni: per impedire che un detenuto del Due Palazzi si facesse del male con la lama di un temperamatite, sono rimasti feriti due agenti. "L’uomo" spiega ancora Vona "è un detenuto dalla doppia cittadinanza italiana e della Guinea Equatoriale, ristretto per diversi reati tra i quali quelli di lesioni, rapina, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Sconta un cumulo di pena sino al 2025 e non è nuovo ad atteggiamenti aggressivi verso il personale di polizia: non più tardi di qualche mese fa si era reso protagonista di un episodio analogo. Martedì ha tentato di appropriarsi di un temperamatite per poi usare la lama e lesionarsi il corpo. Gli agenti di Polizia Penitenziaria si sono accorti immediatamente del fatto e lo hanno bloccato. Ma l’uomo ha reagito con violenza e li ha colpiti. I due poliziotti, ai quali va la nostra solidarietà e vicinanza, hanno impedito più gravi conseguenze, ma è evidente che resta alta la tensione con la quale quotidianamente si confronta il personale di Polizia Penitenziaria". Sul caso è intervenuto anche il leader nazionale del sindacato, Donato Capece: "Il Sappe invierà una dettagliata nota sulle criticità delle carceri regionali che sarà portata all’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando". Pisa: "il carcere non è sicuro", la Polizia penitenziaria in stato di agitazione pisatoday.it, 22 settembre 2016 I tre sindacati Sappe, Osapp e Uilpa hanno elencato in una lettera tutto ciò che non va all’interno del penitenziario pisano, teatro sempre più spesso di aggressioni ai danni degli agenti. Con una lettera inviata al prefetto di Pisa Attilio Visconti, al provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana e l’Umbria Giuseppe Martone, al direttore della Casa Circondariale di Pisa Fabio Prestopino e alle segreterie nazionali Sappe, Osapp e Uilpa PP, i rappresentanti provinciali di Sappe Pisa Roberto Vassallo, di Osapp Pisa Alessio Vetri, e di Uilpa PP Pisa Nicola Di Matteo proclamano lo stato di agitazione all’interno del carcere Don Bosco di Pisa. Al centro della protesta lo stato delle relazioni sindacali, le continue aggressioni al personale della Polizia Penitenziaria e la mancata adozione di rimedi e proposte risolutive. Ecco la lettera inviata alle autorità e per conoscenza alla stampa. Considerata l’ennesima grave aggressione perpetrata da un detenuto presso il Reparto Penale in danno del personale di Polizia Penitenziaria in data 29/08/2016 che, nel caso di specie, ha portato all’astensione quasi totale dalla mensa di servizio da parte del personale, ormai stanco di subire simili sopraffazioni da parte della popolazione detenuta; Considerato che con successiva comunicazione del 03 settembre u.s. si interrompeva la suddetta astensione poiché era stato emanato l’avviso di servizio n.19/2016 della Direzione in cui si invitava il personale ad avvisare preventivamente un apposito ufficio nel caso di partecipazione alla forma di protesta suddetta, evidente tentativo di sedare una forma di protesta silente e pacifica, messa in atto dagli appartenenti ad un Corpo di Polizia che vanta 200 anni di storia, con la compostezza di chi sa stare al suo posto ed è consapevole dei limiti che non devono essere superati; Considerato che dopo l’intervento del Signor Provveditore, dr. Giuseppe Martone, presso la Casa Circondariale di Pisa nel Maggio 2016, a seguito della profonda crisi soporifera in cui sono state emarginate le relazioni sindacali, nessun intervento serio e concreto in favore di una riorganizzazione del lavoro è stato messo in opera dalla Direzione; Considerato che le firmatarie del presente documento, in un ottica di collaborazione sono state convocate dalla Direzione della Casa Circondariale di Pisa in via informale ed in quella sede hanno presentato una riformulazione della organizzazione del lavoro, con una compiuta revisione degli orari e dei posti di servizio che poteva essere considerata quale piattaforma per una nuova contrattazione sindacale ed occasione per la stipula di nuovi accordi in sede locale in attesa del Protocollo di Intesa Locale, che tarda a venire alla luce; Considerato che la colpa di quanto sta accadendo è stata infelicemente riversata sui quadri intermedi (Ispettori e Sovrintendenti) del Corpo di Polizia Penitenziaria, accusati di incapacità gestionali; Considerato che non sussistono, allo stato, i minimi requisiti standard di sicurezza dell’Istituto e che lo stesso andrebbe chiuso e ristrutturato a seguito delle gravi carenze strutturali e logistiche; cosa di cui è stato più volte interessato il Signor Prefetto di Pisa, il Provveditore Regionale ed il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Basti pensare ad esempio che nella giornata di ieri non funzionava l’intero impianto telefonico, non permettendo la comunicazione all’interno ed all’esterno dell’Istituto e menomando ulteriormente le già precarie condizioni di lavoro; Considerato che l’istituto della Vigilanza Dinamica ed il Regime Aperto, imposto dalla Corte Europea, non potevano essere messi in atto presso la Casa Circondariale di Pisa, senza la precedente installazione di un adeguato sistema di video sorveglianza a garanzia del personale e dei detenuti. Infatti le sezioni a regime aperto, dove i detenuti ‘ozianò per otto ore al giorno in media, hanno fatto sì che le stesse si trasformassero in vere e proprie ‘piazze di spacciò e fossero ambiente fertile per l’ideazione e la messa in opera di attività non consentite ed eventi critici che destabilizzano quotidianamente la vita detentiva, alterando significativamente le attività operative ed i relativi carichi di lavoro; Considerato l’elevato numero di richieste di distacco e/o trasferimento avanzate dal personale, che con tutta probabilità non vede più uno sbocco a tale incresciosa situazione; Le firmatarie del presente documento chiedono l’immediata adozione dei seguenti provvedimenti, in via urgente ed immediata: 1. Una ristrutturazione ed adeguamento strutturale, con contestuale rifacimento degli impianti idrici ed elettrici, l’installazione di un sistema di video sorveglianza interno e l’attivazione degli impianti già esistenti (ma mai utilizzati) di video sorveglianza esterno ed anti-scavalcamento, facenti capo ad una sala operativa degna di tale nome. Tali lavori potrebbero essere agevolati da una parziale chiusura dell’Istituto, partendo dai reparti Penale ed ex Centro Clinico; 2. Eliminazione dell’uso delle lamette e monitoraggio dell’uso delle bombolette di gas; 3. Trasferimento immediato dei detenuti che provocano disordini od aggressioni al personale; 4. Revisione dell’intera organizzazione del lavoro per singolo posto di servizio, come da progetto presentato dalle scriventi e misurazione in loco dei singoli carichi di lavoro. 5. Turnazione a sei ore garantita a tutto il personale nel turno notturno e maggiore trasparenza nella gestione delle risorse umane. Considerato inoltre il rinvio a data da destinarsi della riunione del 23 Settembre quale ulteriore oltraggio alle relazioni sindacali ed alle relative buone prassi, le scriventi proclamano lo stato di agitazione al fine di informare la cittadinanza ed i referenti politici ed istituzionali di quanto sta avvenendo nel penitenziario pisano, ritenendo la recente istituzione di gruppi di lavoro un palliativo teso solo a prolungare i tempi per l’adozione di provvedimenti urgenti e non più rinviabili; rimedio peraltro preso in considerazione solo a seguito di una imposizione da parte dei superiori uffici, cioè un mero adempimento burocratico. Purtroppo le voci e le istanze che provengono dal Corpo di Polizia Penitenziaria non trovano attuazione. Le proposte di queste sigle nella precedente riunione sindacale, pur rappresentando la maggioranza effettiva del personale sindacalizzato, sono state cassate dalla Parte Pubblica e dovevano essere discusse nuovamente ai primi di settembre, ma tutto ciò, per quanto sopra, non rappresenta una priorità per l’amministrazione penitenziaria. Roma: rissa al carcere di Regina Coeli tra 15 detenuti romatoday.it, 22 settembre 2016 Maxi rissa nel pomeriggio di martedì nel carcere romano di Regina Coeli a Trastevere dove due gruppi di detenuti si sono affrontati con sgabelli, bastoni ed altri oggetti. Lo rendono noto i sindacati Sappe e Fns Cisl della Polizia Penitenziaria. A scontrarsi quindici persone, dieci albanese e cinque sudamericani. "La situazione è stata davvero pericolosa" le denuncia il Vice Segretario Regionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE Giovanni Passaro. Rissa a Regina Colei - In particolare, come scrive ancora il sindacato dei baschi azzurri: "Ieri, nel primo pomeriggio, presso la III Sezione detentiva del carcere di Regina Coeli, dieci detenuti di nazionalità a maggioranza albanese hanno posto in essere una violenta aggressione, utilizzando sgabelli, bastoni ed altri oggetti, nei confronti di 5 detenuti di origine sudamericana al fine di assoggettare gli stessi". Minacce alla Polizia penitenziaria - "Ancor più grave - prosegue Passaro - è la reazione dei detenuti albanesi, che a seguito dell’intervento della Polizia Penitenziaria (ridotta a sole tre unità per la nota carenza di organico che non permette di fronteggiare eventi critici), con toni minacciosi e bastoni alla mano invitavano il Personale a intervenire perché erano pronti ad affrontare i rivali. Prontamente i detenuti sudamericani sono stati messi al sicuro ed i detenuti del reparto sono stati chiusi nelle celle di appartenenza. Successivamente, i detenuti interessati sono stati spostati in altro reparto. Appare chiaro il segnale che la sicurezza è fuori controllo, non ci sono ne strumenti ne uomini per fronteggiare tali eventi, non si comprende perché, nonostante i continui solleciti, non si individui una Sezione presso l’istituto penitenziario Capitolino che preveda il regime detentivo "chiuso" dove tenere ristretti i detenuti che violano il patto trattamentale". Sovraffollamento - Le violenze sono state denunciata anche dal Segretario Generale Aggiunto della Cisl-Fns Massimo Costantino: "Attualmente a Regina Coeli ci sono 946 detenuti, quindi un sovraffollamento di circa più 400 detenuti rispetto ala capienza prevista, un sovraffollamento che sta raggiungendo dei livelli non più sopportabili". "Oltre al Plauso della Fns Cisl Lazio per l’intervento del personale, che come sempre dimostra grande professionalità, occorrono interventi urgenti tali da punire penalmente detenuti partecipi di tali criticità basta solo punirli disciplinarmente". Risse continue - Il Segretario Generale del Sappe Donato Capece denuncia il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri. "È sintomatico - spiega - che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni 90 sono passati oggi ad essere oltre 18mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia. Il dato oggettivo è però un altro: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili. E credo si debba iniziare a ragionare di riaprire le carceri dismesse, come l’Asinara e Pianosa, dove contenere quei ristretti che si rendono protagonisti di gravi eventi critici durante la detenzione". Riforme strutturali - Capece evidenzia infine come anche i gravi eventi critici accaduti nel carcere di Regina Coeli a Roma siano "sintomatici del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. A poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale, a cominciare dall’espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli - e sono sempre di più - che, ristretti in carceri italiani, si rendono protagonisti di eventi critici e di violenza durante la detenzione". Taranto: vigne nel carcere, progetto con le cantine San Marzano sudnews.it, 22 settembre 2016 Insegnare un nuovo mestiere, quello del viticultore, per garantire un futuro migliore. È la possibilità che le Cantine San Marzano vogliono dare ai circa 10 detenuti della Casa Circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, per un periodo di 3 anni. "Questo progetto dimostra l’ulteriore impegno della nostra cooperativa in campo sociale e il legame profondo con il proprio territorio e i pugliesi, anche quelli più sfortunati, per cui la cantina sente una responsabilità personale". Sostiene il presidente di Cantine San Marzano, Francesco Cavallo, che ha siglato l’accordo con il direttore del carcere di Taranto, Stefania Baldassari, e il presidente del Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in Agricoltura "Basile Caramia" di Locorotondo, Antonio Palmisano. La coltivazione, per la produzione di uva da vino, interesserà i terreni agricoli adiacenti alle mura della struttura circondariale tarantina, attualmente non produttivi. Tale attività avverrà con l’utilizzo di pratiche agricole tradizionali e con un limitato ricorso alla meccanizzazione, grazie a un percorso formativo sulle attività vinicole per il successivo, e qualificato, inserimento lavorativo dei detenuti in un territorio a forte vocazione enologica. Le bottiglie così prodotte creeranno un’etichetta originale e saranno commercializzate da San Marzano. Un progetto inserito all’interno di un più ampio programma di attività che comprende anche una scuola di sartoria, un catering di cibi precotti e la coltivazione di un orto, finalizzato ad incrementare il tasso di rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro penitenziario. Roma: nel carcere di Rebibbia una "piazza" per i detenuti con figli di Gigliola Alfaro romasette.it, 22 settembre 2016 Toccare con mano il disagio dei figli di coloro che sono in carcere. È quello che è successo a Patrizia Bertoncello, insegnante di scuola primaria, esperta di didattica interculturale. La storia di Giordano, "un bambino molto triste, chiuso, con evidenti difficoltà di relazione e di apprendimento" a causa del papà detenuto, l’ha avvicinata alla realtà del carcere di Rebibbia. Dalla conoscenza delle detenute madri e di alcune associazioni che operano nelle carceri romane e italiane è nata l’idea di dedicare un capitolo del libro che Bertoncello ha curato per Città Nuova, "Bambini nei guai", proprio ai bambini da 0 a 3 anni che crescono in carcere e a quelli che visitano i genitori detenuti: "Bambini senza ali". Un tema di grande attualità, se si pensa che solo il 6 settembre il guardasigilli Andrea Orlando, la garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione "Bambinisenzasbarre" onlus Lia Sacerdote hanno siglato il rinnovo per altri due anni del protocollo d’intesa "Carta dei figli di genitori detenuti", avviato il 21 marzo 2014. Del protocollo Bertoncello ritiene "importantissima la sottolineatura da una parte della presenza dei genitori detenuti in momenti particolari della vita dei figli, quali l’ingresso a scuola o un compleanno, e dall’altra la non premialità da garantire a questi stessi momenti". A partire dalle buone prassi. "Nella mia esperienza - afferma l’insegnante - ho incontrato operatori carcerari (direttori, educatori, guardie…) davvero eccezionali ed encomiabili, costretti però a operare in condizioni non certo pensate per favorire le relazioni e nel rispetto di una normativa non certo attenta ai diritti dei minori. Eppure molti operatori si sono spesi per trovare tutte le possibilità per rispettare i diritti dei più piccoli e per mitigare le condizioni non favorevoli dei colloqui". Diverse associazioni, negli ultimi anni, "in diverse carceri italiane hanno operato per attrezzare spazi ludici e ambienti dei colloqui che rendessero possibile una serenità di relazione. Ora il protocollo viene a sancire queste buone prassi". Momenti da ricordare. "Dopo aver conosciuto il Nido di Rebibbia, sono entrata in contatto con la sezione G9 del Maschile di Rebibbia - racconta Bertoncello. Le educatrici che vi operano sono state di una disponibilità incredibile, così come la direttrice e l’ispettrice responsabile per i colloqui. Dal contatto con loro e con il Comitato interno dei detenuti del G9 sono nate delle idee: perché non creare dei momenti in cui i papà detenuti potessero stare con i figli più a lungo di un colloquio, proponendo delle attività di gioco da fare con i bambini? Questo avrebbe dato la possibilità ai bambini di avere dei momenti "belli" da ricordare insieme con il proprio papà. Al tempo stesso si sarebbero offerte ai detenuti delle possibilità di stare con i figli e di esercitare la genitorialità in un contesto più sereno e stimolante". Accanto agli ultimi. Patrizia appartiene al Movimento dei Focolari: "Non mi sono qualificata come tale - spiega - ma certo ciò che mi ha spinto a entrare in questo mondo è stato proprio il carisma dell’unità, il desiderio di costruire rapporti di fraternità con tutti, di non lasciare che nessuno che mi passa accanto, soprattutto se soffre, mi sia indifferente. Non ultime le parole di Papa Francesco che chiede ai cristiani di uscire, di andare nelle periferie, di incontrare chi tra i nostri fratelli, è nel dolore ed è emarginato". Tante le iniziative realizzate, come "laboratori di fumetto, realizzati da Walter Kostner, l’ideatore di "Gibì e Doppiaw", una festa nel cortile interno di Rebibbia nel periodo dell’Avvento, con la preparazione, assieme ai bambini e ai papà, di addobbi per gli alberi di Natale da mettere nelle diverse sezioni. In questa occasione ho coinvolto una ventina di giovani e ragazze del Movimento che hanno allestito degli stand con laboratori creativi. Tutto - chiarisce l’insegnante - è sempre stato organizzato insieme ai detenuti del Comitato interno". Tra i progetti futuri, un percorso di educazione alla legalità. Come in piazza. Da tre anni, poi, "in occasione del Natale, della festa del papà e prima dell’estate, organizziamo questi "eventi" nel cortile interno di Rebibbia. Vi partecipano circa 450 tra papà detenuti e le loro famiglie, oltre a una quarantina di animatori, quasi tutti giovani studenti universitari del Movimento dei Focolari. Si crea un clima molto bello, sereno, e, nelle ore che trascorriamo insieme, sembra di essere nella piazza di un paese con bambini che corrono da tutte le parti. Si gioca e ride insieme, dimenticando le sbarre e la presenza discreta degli agenti di custodia". Le prime volte, ammette Bertoncello, "è stato molto difficile: ogni nucleo familiare tendeva a isolarsi in un angolo del cortile, ma ora il rapporto è cresciuto con tutti, i bambini ci riconoscono e dopo i saluti iniziali sono loro che chiedono ai genitori di stare ai nostri tavoli per disegnare insieme o e coinvolgono gli adulti nelle gare di gioco". Per i detenuti queste attività sono importanti, ma i più contenti sono i bambini. "Maria, una delle mamme ci ha detto: "Da quando voi venite qui, anche Paolo ha qualcosa di bello da raccontare a scuola del suo papà, dei giochi che ha fatto con lui, dei disegni che hanno colorato insieme". Milano: il Giubilo della misericordia nella Casa di reclusione di Opera Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2016 Esposta la collezione "Vangelo Filatelico". Cartolina pro terremotati. Nuovo Protocollo "Filatelia nelle carceri". Messa del cardinale Angelo Scola. Tra i tanti modi attraverso i quali illustrare i Vangeli, alcuni reclusi nel carcere milanese di Opera hanno scelto i francobolli. Con i quali, oltretutto, hanno una certa dimestichezza in quanto è a questi pezzettini di carta, delicati come ali di farfalla, che affidano, perché possano giungere nelle mani dei loro cari, testi affettuosi, a volte struggenti o problematici. Ma per realizzare la corposa collezione intitolata "Vangelo filatelico" il Gruppo filatelia (Matteo Nicolò Boe, Vito Baglio, Antonio Albanese, Nicola Mocerino, Diego Rosmini, Luigi Di Martino), attivo all’interno della sezione alta sicurezza della Casa di reclusione di Milano Opera, non hanno utilizzato i pochi e quasi sempre uguali francobolli destinati ad affrancare le corrispondenze, o comunque quelli presenti nei negozi specializzati: hanno avuto il privilegio di attingere da un fornitore davvero eccezionale: papa Francesco. Si tratta di francobolli donati al Pontefice e inviati ad Opera tramite l’elemosiniere di Sua Santità, l’arcivescovo Konrad Krajewski e Mauro Olivieri, direttore, quest’ultimo, dell’Ufficio filatelico e numismatico del Città del Vaticano. Così, nel giro di poco più di un anno, ha preso corpo la collezione esposta, all’interno della Casa di reclusione diretta da Giacinto Siciliano, dal 28 settembre al 10 ottobre e che gli autori hanno unanimemente deciso di dedicare al Pontefice. "Al precetto cristiano "Visitare i carcerati" - sottolineano i componenti del Gruppo filatelico che ha realizzato la collezione - abbiamo voluto rispondere con un gesto che nello spirito cristiano e nel sublime della bellezza artistica, vuole, senza patetismo vittimistico, protendersi verso l’esterno in una feconda comunione di sentimenti". Contemporaneamente al taglio del nostro della mostra, viene presentato - con tutta probabilità si tratta di una prima assoluta all’interno di un carcere - il francobollo "Visitare i carcerati" emesso dalla Città del Vaticano su illustrazione di Orietta Rossi che si è ispirata al Vangelo secondo Matteo (25,31-46). "Qui - dice l’artista che nella mostra esposte alcuni inediti bozzetti preparatori - Gesù presentando Se stesso ci dà la possibilità di creare un contatto Divino. Quando siamo sospinti all’incontro con l’altro, per esempio facendo visita ai carcerati, non solo agiamo per pura umanità ma facciamo un atto di attenzione verso l’altro. Da una riflessione iniziale sull’origine della parola "attenzione", - dal latino "attendere", a sua volta composto di ad "verso" e tendere "tendere verso", "rivolgere l’animo a" - è maturata l’idea di una composizione che esprimesse un movimento, appunto una "tensione verso". Questo moto, fisico e morale, nel disegno è rappresentato dal gesto delle mani, dalle braccia tese, dagli sguardi che esprimono un senso di attesa che lascia tutti come sospesi. È l’attesa del contatto col Signore, del fine pena, della visita dell’altro, di uno spazio meno affollato e quindi più umano, di un futuro ancora pieno di speranza". All’opera di misericordia, la sesta, nell’Anno giubilare della misericordia, si richiama l’iniziativa del 28 settembre che trae origine dal Progetto "Filatelia nelle carceri" regolato da un apposito protocollo d’intesa la cui finalità è quella di "ampliare le conoscenze dei detenuti in un’ottica di rieducazione e di reinserimento nella società", che nella nuova e aggiornata versione verrà sottoscritto nell’occasione da parte di Santi Consolo, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dall’onorevole Antonello Giacomelli, sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico, dalla presidente di Poste Italiane, Luisa Todini e da alcune organizzazioni filateliche nazionali. L’incontro, che sarà aperto da una testimonianza del giornalista Domenico Quirico, culminerà nella Santa Messa celebrata dal cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano. Le ostie usate per questa celebrazione eucaristica sono quelle prodotte dal laboratorio di Opera, collegato col progetto "Il senso del pane" della Fondazione casa dello Spirito e delle arti. Nei corridoi della Casa di reclusione rimbomberà, per il solo pomeriggio del 28 settembre, il classico ta pim ta pum degli annulli postali. Le postazioni - in pratica uffici postali in miniatura - di Poste della Città del Vaticano e di Poste Italiane bolleranno infatti lettere e cartoline annulli predisposti per l’occasione annulli postali delle cui illustrazioni si è occupato Matteo Nicolò Boe. Questi bolli saranno prevalentemente stampigliati su apposite cartoline: quella vaticana dominata da papa Francesco, mentre dell’illustrazione di quella italiana si è occupato Gaetano Puzzangaro. "Mi sono ispirato - dice - al primo colloquio con i familiari che feci senza il vetro divisorio. Ricordo - prosegue- Anna, una delle mie numerose pronipoti che con la sua presenza portò, gioia, giocattoli colorati e pastelli con i quali mi colorò le mani. Alla base dell’opera di misericordia "visitare i carcerati". c’è l’impegno di adoperarsi per liberare. E quale libertà più autentica conclude Gaetano Puzzangaro - ci può essere nel poter abbracciare liberamente". L’incasso della vendita delle due cartoline verrà devoluto a favore delle popolazioni terremotate. Torino: a cena in carcere, al ristorante "Liberamensa" chef e camerieri sono i detenuti di Cinzia Gatti torinoggi.it, 22 settembre 2016 In via Milano 2 verrà inaugurato a breve "Freedom", negozio dove verranno venduti prodotti e servizi realizzati dalle imprese attive in carcere. La cucina come forma di evasione e riscatto dal carcere. L’amministrazione Penitenziaria di Torino parteciperà all’edizione 2016 di "Terra Madre Salone del Gusto" con uno stand, dove sarà possibile scoprire i prodotti enogastronomici di eccellenza che vengono realizzati nelle carceri di tutta Italia. Venerdì, all’interno della Casa Circondariale "Lorusso e Cotugno", verrà invece inaugurato il ristorante "Liberamensa". I detenuti sono coinvolti in ogni fase, dalla preparazione del cibo al servizio ai tavoli. Destinato nella pausa pranzo agli agenti e a tutti coloro che lavorano nel penitenziario, di sera sarà aperto al pubblico, Un’occasione per "chi sta fuori" di prendere maggiore consapevolezza di cosa può esserci "dentro" e contemporaneamente la possibilità, per chi "dentro" ci deve stare, di una reale opportunità formativa e lavorativa. Venerdì lo spazio verrà inaugurato alla presenza dello chef stellato Salvatore Toscano e con la collaborazione di alcuni detenuti che frequentano l’Alberghiero "G. Donadio" di Dronero nel carcere di Cuneo. A breve verrà poi inaugurato in via Milano 2, di fronte a Palazzo di città, Freedom. All’interno del negozio verranno venduti prodotti e servizi realizzati dalle imprese attive in carcere. Uno spazio pensato come un luogo di passaggio, che diffonderà la storia e la commercializzazione dei prodotti realizzati nelle aree detentive. Radio Carcere: le nuove adesioni alla marcia per l’amnistia e per la riforma della giustizia Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2016 Trasmissione condotta da Riccardo Arena su Radio Radicale. L’ultima puntata: "Le nuove adesioni alla marcia del 6 novembre per l’amnistia e per la riforma della giustizia, in occasione del giubileo dei carcerati indetto da Papa Francesco. La manifestazione che si è svolta oggi a Roma del Comitato Funzionari Polizia Penitenziaria". Link: http://www.radioradicale.it/scheda/486703/radio-carcere-le-nuove-adesioni-alla-marcia-del-6-novembre-per-lamnistia-e-per-la Premio Goliarda Sapienza. Racconti dal carcere 2016: ecco i 25 finalisti rbcasting.com, 22 settembre 2016 Annunciati i finalisti dell’edizione 2016 del Premio Goliarda Sapienza, unico concorso letterario in Europa dedicato ai detenuti - adulti e minori - affiancati da Tutor d’eccezione: scrittori, artisti e giornalisti. I testi giunti da tutte le carceri d’Italia erano 500. La giuria ne ha selezionati 25. "Anche la catena del male si può spezzare. Accade quando uno dei suoi anelli, una delle persone che compongono la catena, decide di liberarsene, di perdonare". Lo scrive uno dei detenuti finalisti della VI edizione del Premio letterario Goliarda Sapienza - Racconti dal carcere, dedicata al "Perdono" in occasione del Giubileo dei carcerati. Il concorso, nato nel 2010 da un’idea della giornalista Antonella Bolelli Ferrera, che ne è la curatrice, è promosso da inVerso Onlus, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e da Siae - Società Italiana degli Autori ed Editori, sostenitore dell’iniziativa fin dalla prima edizione. Centinaia i racconti pervenuti da tutte le carceri d’Italia. Sono storie di devianza ed emarginazione, storie d’infanzia negata, violata. Uomini e donne che raccontano senza retorica né autocommiserazione l’asprezza del carcere, la brutalità di una vita vissuta ai margini, dove l’adesione a falsi codici conduce a una lunga scia di sangue. Storie di violenza dove la vittima è una ragazza adolescente e il bambino è abusato dall’orco che si fa credere un mago. Racconti che lasciano senza fiato e dove avverti che la scrittura sia stato un potente antidoto, il modo per elaborare il dolore, la rabbia, il senso di abbandono. Dai 500 racconti in concorso sono stati selezionati i 25 finalisti (sedici per la sezione "Adulti" e nove per la sezione "Minori") e affidati a Tutor d’eccezione. Caratteristica del Premio, che lo rende unico in Europa, è l’affiancamento ai detenuti finalisti di grandi scrittori, artisti e giornalisti nelle vesti di Tutor letterari, per il lavoro di editing e per l’introduzione. Ecco i Tutor di questa edizione: Luca Barbarossa, Guido Barlozzetti, Marco Buticchi, Pino Corrias, Emilia Costantini, Alessandro D’Alatri, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Marco Franzelli, Massimo Lugli, Silvana Mazzocchi, Federico Moccia, Mogol, Antonio Pascale, Roberto Pazzi, Andrea Purgatori, Costanza Quatriglio, Carolina Raspanti, Sandro Ruotolo, Fiamma Satta, Gloria Satta, Bianca Stancanelli, Cinzia Tani, Ricky Tognazzi e Simona Izzo, Andrea Vianello. A fare da sfondo alle narrazioni, il tema del "Perdono", che emerge a tratti dalla consapevolezza che sia l’unica - sofferta - via d’uscita, ma anche dalla non facile ammissione di non aver saputo ancora intraprendere quel cammino: "Dissi a chi avrei dovuto chiedere perdono di sentirsi libero di odiarmi… alla fine quel debito sarebbe risultato in qualche modo saldato". Spiega Antonella Bolelli Ferrera: "Imboccare la strada del perdono, agli altri e a se stessi, non è facile per chi si trova recluso e ritiene di avere in tal modo saldato ogni debito, anche quello con la propria coscienza. Non tutti vi giungono con la stessa intensità e convinzione. Certamente il saper esprimere attraverso la scrittura un’esigenza dell’anima così intima dimostra di non avere paura di ciò che rimarrà per sempre, nero su bianco". La giuria, presieduta da Elio Pecora e composta da Lorenza Bizzarri, Silvia Calandrelli, Andrea Di Consoli, Piera Degli Esposti, Paolo Fallai, Daria Galateria, Angelo Maria Pellegrino, Giulio Perrone, dovrà votare i vincitori. Madrina dell’edizione 2016 Dacia Maraini, scrittrice, poetessa, saggista, drammaturga e sceneggiatrice italiana. La proclamazione dei vincitori si terrà lunedì 7 novembre nel carcere di Regina Coeli, a Roma. Alla cerimonia di premiazione, presentata da Serena Dandini con Antonella Bolelli Ferrera, parteciperanno tutti i detenuti finalisti affiancati dai rispettivi tutor, la giuria, rappresentanti istituzionali e degli enti promotori. I premi: i 25 finalisti, grazie al contributo di SIAE, riceveranno un computer portatile, mentre ai primi tre classificati di ciascuna categoria (Adulti e Minori) e alle menzioni speciali sarà consegnato un premio in denaro (1.000 euro per i primi classificati, 800 euro per i secondi, 600 euro per i terzi e 100 euro per ogni menzione speciale). Nell’occasione sarà presentato il volume - disponibile da novembre in libreria - che raccoglie i 25 racconti finalisti con le introduzioni dei Tutor, dal titolo "Così vicino alla felicità. Racconti dal carcere" (Rai Eri), curato da Antonella Bolelli Ferrera e con la prefazione di Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. Il Premio ha assunto una dimensione "multimediale": con Rai Fiction si è dato vita al progetto per la tv "I Corti del Premio Goliarda Sapienza" che prevede ogni anno la realizzazione di un cortometraggio tratto da uno dei racconti finalisti (nel 2014 "Mala vita" con Luca Argentero e Francesco Montanari, regia di Angelo Licata, che si è aggiudicato importanti premi e riconoscimenti; nel 2015 "Fuori" con Isabella Ragonese e la regia di Anna Negri. Entrambi trasmessi da Rai 3). Dalla collaborazione fra il Premio Goliarda Sapienza e Rai Fiction, e grazie al sostegno di SIAE è in corso di realizzazione una serie per la regia di Alessandro D’Alatri, che ha visto, in qualità di attori, giovani dell’Istituto Penale Minorile "Cesare Beccaria" di Milano, e la partecipazione straordinaria di Marco Palvetti. Il soggetto e la sceneggiatura sono tratti da due racconti di "Unknown", vincitore per la sezione Minori delle ultime due edizioni del Premio Goliarda Sapienza. In concomitanza della premiazione dei vincitori, inoltre, con un documentario inedito Rai Storia ricorderà Goliarda Sapienza, ispiratrice del concorso, della quale ricorre quest’anno il ventennale della morte. Il Premio Goliarda Sapienza gode del patrocinio del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Giustizia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, e della Rai - Radiotelevisione Italiana. Lo scopo è di concorrere a dare concreta espressione alle finalità rieducative della pena contemplate dall’art. 27 della Carta Costituzionale. FINALISTI E TUTOR Adulti Michele Maggio CEMENTO URLANTE Tutor Sandro Rotolo Stefano Lemma L’ORTO DELLE FATE Tutor Ricky Tognazzi e Simona Izzo Salvatore Prino LA CASA DEL PADRE Tutor Emilia Costantini "Fanfarù" DEJA VU Tutor Cinzia Tani Biagio Crisafulli UN ALTRO IO Tutor Pino Corrias Massimo Armando Raganato U SANGU FACI U MURMURU Tutor Bianca Stancanelli Adelmo Battistini LA PARTITA DEL CUORE Tutor Massimo Lugli "Zazza" UN BIGLIETTINO D’AUGURI Tutor Paolo Di Paolo Francesco Fusano UNA VITA FUORI DAL TANGO Tutor Roberto Pazzi Salvatore Torre PARAFRASI DI UN LUTTO DIVERSAMENTE ELABORATO Tutor Alessandro D’Alatri "Olga Amosova" IL CERCHIETTO DI SOFFIONI - CONFESSIONI DI UNA ASSASSINA Tutor Silvana Mazzocchi Giuseppe Rampello CI VUOLE CORAGGIO Tutor Mogol Gianluca Migliaccio (GUARDARE IL MONDO) SENZA IL MIO VELENO Tutor Antonio Pascale Antonello Carraro SOLO BLU Tutor Gloria Satta "Ossumi" GLI RICORDAVA QUALCOSA… Tutor Marco Franzelli Mario Musardo I CAMPI DELLE CASE BIANCHE Tutori Marco Buticchi Minori e giovani adulti "Antonio" IL BIGLIETTO DI ROSA PARKS Tutor Erri De Luca "Josefh" TUTTA LA MIA RABBIA NELLE VENE Tutor Andrea Vianello "Letixia" DENTRO DI ME IL NASCONDIGLIO PERFETTO Tutor Fiamma Satta "Mattia" LA PAURA NEGLI OCCHI Tutor Andrea Purgatori "Hit Man" DIMMI CHE MI VUOI BENE Tutor Carolina Raspanti "Valia" MI SENTO PETALOSO Tutor Guido Barlozzetti "Butterfly" NON SO BENE CHI SONO Tutor Costanza Quatriglio "Raffaele Amabile" C’È ANNA Tutor Federico Moccia "Unknown" PERDONATE L’EMOZIONE Tutor Luca Barbarossa Fra i numerosi che hanno aderito nel corso delle diverse edizioni: Eraldo Affinati, Barbara Alberti, Edoardo Albinati, Luca Argentero, Corrado Augias, Giulia Carcasi, Massimo Carlotto, Vincenzo Consolo, Franco Cordelli, Maurizio Costanzo, Gaetano Curreri, Alessandro D’Alatri, Giancarlo De Cataldo, Maurizio De Giovanni, Franco Di Mare, Valerio Evangelisti, Marcello Fois, Giordano Bruno Guerri, Margherita Hack, Nicola Lagioia, Antonella Lattanzi, Carlo Lucarelli, Francesca Melandri, Michele Mirabella, Francesco Pannofino, Valeria Parrella, Sandra Petrignani, Luisa Ranieri, Lidia Ravera, Roberto Riccardi, Luca Ricci, Giuseppe Scaraffia, Antonio Scurati, Mirella Serri, Susanna Tamaro, Walter Veltroni, Marcello Veneziani, Carlo Verdone, Renato Zero, Luca Zingaretti. La legge sul cyberbullismo che non avrà effetti sul cyberbullismo di Stefano Epifani Il Foglio, 22 settembre 2016 La norma approvata limita solo la libertà di espressione. Ci provano da anni, ogni anno. Che siano le ferie di agosto o le feste di Natale, che si tratti di tutela del diritto d’autore o di qualsiasi altro tema, ci provano ogni anno a imbavagliare internet. E stavolta, se il Senato non metterà una vera e propria pezza, ci saranno riusciti. Questa volta il pretesto è stato quello di una malfatta legge sul cyberbullismo approvata ieri alla Camera e in attesa dell’ultimo passaggio al Senato. Malfatta in partenza, pensando che fosse possibile e sensato distinguere un bullismo "uno punto zero" e un bullismo "virtuale". Un bullismo da strada e uno online, senza rendersi conto che il problema non è la rete, ma le persone che la usano. Senza rendersi conto che distinguere online ed offline non solo è inutile, ma è dannoso. Lo è in quanto si basa su una rappresentazione della realtà spezzata in due che, nell’era dei social media, non esiste più. Una legge nata male insomma e - se possibile - peggiorata dall’iter parlamentare. Al punto che la stessa relatrice della prima versione, Elena Ferrara del Partito Democratico, ne ha criticato l’evoluzione. Al punto che persino Cory Doctorow - uno dei più autorevoli commentatori d’oltreoceano - l’ha definita la "legge censoria più stupida d’Europa". Ed è questo il punto più grave. Non stiamo parlando (solo) di una legge sul cyberbullismo che non avrà alcun effetto sul cyberbullismo, ma di una legge sul cyberbullismo che non è diventata altro se non un cavallo di troia. Come si fa a trasformare una malfatta legge in una potenziale "norma bavaglio" di carattere censorio per la libertà d’espressione in rete? Semplice, si taglia e incolla a furia di emendamenti finché il danno è fatto. Basta partire dalle definizioni - ossia dal "di cosa stiamo parlando" - che arriva a includere qualsiasi fattispecie di reato che va dal bullismo alla violazione della privacy allo stalking a non meglio identificate azioni svolte online "che possano offendere l’onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime". Basta poi cancellare il riferimento ai minorenni, ed estendere la validità del provvedimento a cittadini di qualunque età. E il gioco è fatto. Il risultato è che la legge prevede che chiunque si senta offeso da qualsiasi cosa venga scritta in rete possa richiederne la rimozione immediata. Che sia satira o critica, che sia un blog o un giornale, che sia un post su Facebook o una foto su Instagram, tutto potrà essere rimosso senza appello. Rimozione la cui responsabilità sarà in capo al gestore del servizio - ancora una volta costretto a trasformarsi in un vero e proprio sceriffo virtuale - che, se non dovesse agire prontamente, vedrebbe l’intervento del Garante per la privacy per l’oscuramento del contenuto incriminato. Il tutto - col pretesto dell’urgenza - senza alcuna possibilità di dibattimento o di opposizione all’oscuramento da parte dell’accusato. La pena? Sino a sei anni di reclusione. Mica male. Se non fosse che i contenuti che colpiscono le vittime di bullismo quasi mai sono presenti in un "luogo" identificato, seppur virtuale. Viaggiano subdoli nelle chat, attraverso i sistemi di messaggistica istantanea come WhatsApp, nei post privati lasciati sui social media. Se non fosse che chi pensa di oscurare i siti non si rende conto (o finge di non rendersi conto) che nell’era del peer to peer e del web liquido oscurare un sito è del tutto inutile. E viene da chiedersi se tutto ciò dipenda dalla crassa ignoranza di una classe politica i cui esponenti - fatta eccezione per pochi esemplari da tutelare come i panda - non comprendono affatto le dinamiche della tecnologia, o piuttosto se ciò non sia, semplicemente, un disegno preordinato. Un disegno preordinato che ha l’obiettivo di imbavagliare quel po’ di libertà che è rimasta e che viaggia in rete: una rete che è nata libera e che libera deve rimanere. Perché il valore della libertà non lo si comprende sino a che non si rischia di perderla. E perderla, talvolta, è più facile di quanto si pensi. Perché il diritto all’oblio non deve diventare censura di Francesco Paolo Micozzi Il Dubbio, 22 settembre 2016 Ieri alla Camera è stata approvata la legge sul cyberbullismo, ma con definizioni normative indeterminate che rischiano di limitare la libertà d’espressione. Di recente la cronaca ha puntato i propri riflettori sull’argomento del cyberbullismo e sulle aggressioni online alle vittime mediante diffusione di video o immagini relativi alla loro vita intima. Da un lato, infatti, l’interesse per il cyberbullismo è stato rinnovato dalla approvazione alla Camera, del ddl C. 3139. Dall’altro troviamo il recentissimo caso delle immagini intime carpite dallo smartphone di una nota giornalista Sky, o quello della ragazza morta suicida a causa della insopportabile pressione determinata dalla diffusione sul web di un video che la vedeva coinvolta in un rapporto sessuale o, ancora, il caso dei minorenni ripresi durante rapporti sessuali e diffuso dapprima mediante whatsapp. Ma i casi sono molto più numerosi rispetto a quelli che salgono ai "disonori" della cronaca. Da un punto di vista statistico sono rari i casi in cui il soggetto ripreso sia inconsapevole o contrario alla ripresa video. Molto più frequenti le ipotesi in cui le riprese audiovisive avvengano nella consapevolezza del soggetto ripreso o, addirittura, sia quest’ultimo l’autore del video o della fotografia. I problemi sorgono, sempre, quando il materiale audiovisivo si diffonde in rete. E quando la situazione fugge di mano è spesso molto difficile tornare indietro. La diffusione di questi materiali può avvenire per i più svariati motivi: vi è, ad esempio, chi per vendicarsi della fine di una storia d’amore o di un tradimento, mette online dei video "intimi" dell’ex-partner (revenge porn), o chi, dopo aver violato un qualche sistema informatico, reperisce e distribuisce contenuti riservati delle vittime, o casi di diffamazione mediante pubblicazione di testo o audiovisivi privati, o di cyberbullismo veri e propri, o ancora, di sexting (ossia di comunicazioni aventi ad oggetto testi o immagini sessualmente esplicite) che poi sfuggono di mano. Una volta che questi contenuti "delicati" diventino virali gli effetti sono indefiniti e le pubblicazioni incontrollabili. Ed è a questo punto che, talora impropriamente, si invoca il diritto all’oblio come panacea per sanare ipotesi da far west del web, o se si vuole, da "far web". Bisogna, però, comprendere cosa si intenda per diritto all’oblio ed è necessario capire se e quali possibilità vi siano di rimuovere, effettivamente, dal web quei video sconvenienti che spesso portano ad epiloghi nefasti. Di diritto alla cancellazione di dati personali (una sorta di diritto all’oblio ante litteram) si parla già nella direttiva europea sul trattamento dei dati personali 95/46/CE in cui si prevede che gli Stati membri sono tenuti a garantire la cancellazione dei dati nelle ipotesi di trattamento non conforme alle disposizioni della direttiva stessa. Nel corso degli anni, poi, si forma una giurisprudenza (soprattutto riguardante pubblicazioni da parte di quotidiani online e relative a personaggi pubblici) che ha riconosciuto che, una volta trascorso un apprezzabile lasso di tempo, non è più giustificato che determinate notizie continuino a permanere sul web. La mancanza di giustificazione a questa diffusione online viene meno quando le situazioni oggetto degli articoli sono radicalmente mutate o è venuto meno l’interesse pubblico che, inizialmente, legittimava la pubblicazione. In Italia, ad esempio, la questione viene trattata dalla sentenza della Cassazione civile n. 5525 del 2012 la quale precisa che se è vero che da un lato il diritto all’informazione può legittimamente limitare il diritto del singolo alla riservatezza è anche vero che quest’ultimo conserverà un diritto all’oblio, ossia "a che non vengano ulteriormente divulgate notizie che per il trascorrere del tempo risultino ormai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati". La Cassazione, in quest’ipotesi, attribuendo al web l’immagine di un "oceano di memoria" in cui gli internauti "navigano" riconosce nel diritto all’oblio - ricavato dai principi generali del Codice della privacy - la capacità di salvaguardare la proiezione individuale nel tempo di ciascun individuo. Riconosce, cioè, la necessità di tutelare l’individuo dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive della sua immagine in ragione della perdita di attualità delle stesse (per il notevole lasso di tempo trascorso dalla pubblicazione originaria), così che "il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell’esplicazione e nel godimento della propria personalità". Nel 2014 la Corte Europea di Giustizia con la nota sentenza del caso Google Spain (causa C-131/12) individuando nel gestore del motore di ricerca un titolare del trattamento dei dati personali estende, di fatto, la possibilità per gli interessati di veder riconosciuto il proprio diritto all’oblio anche nei confronti dei motori di ricerca. Da ultimo, con l’art. 17 del Regolamento europeo sul trattamento dei dati personali si disciplina espressamente il diritto all’oblio come "diritto alla cancellazione". In particolare si prevede che l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei suoi dati personali, in particolare, se i dati personali non siano più necessari rispetto alle finalità per le quali erano stati raccolti; se l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento; o se l’interessato si oppone al trattamento e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente; o, ancora, se i dati personali siano trattati illecitamente. Ovviamente non si tratta di un diritto assoluto alla cancellazione posto che questo diritto non si avrà, tra l’altro, quando i dati personali dell’interessato siano necessari per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione. Le ipotesi in cui il diritto all’oblio è riconosciuto, quindi, sono molto estese. Ma in molti casi la rimozione dei contenuti non discende e non deriva dal fatto che l’interessato decida di far valere il proprio diritto all’oblio. In ipotesi come, ad esempio, la diffusione di materiale pedopornografico la rimozione da parte dell’autorità giudiziaria avverrà a causa della natura stessa dei contenuti diffusi in rete. Quando i contenuti siano diffusi attraverso importanti piattaforme, i cui titolari siano identificabili (e si abbia un effettivo interlocutore), allora sarà più semplice ottenerne la rimozione. Ma quando la diffusione dei contenuti in rete avvenga attraverso innumerevoli fonti per le quali sia difficile anche solo identificare il titolare allora la situazione tende a diventare irreversibile. In questi casi, infatti, potremmo parlare di un "danno digitale permanente" per la vittima della diffusione. L’errore maggiore che si possa commettere, tuttavia, è quello di ritenere che in tutti i casi di diffusione di contenuti illeciti, che sono stati oggetto dei recenti fatti di cronaca, la responsabilità sia da attribuire al mezzo utilizzato (il web o singoli strumenti di messaggistica istantanea) piuttosto che all’utilizzatore. Si rischia, in sostanza, di ritenere accettabile - ritenendo così scongiurato il pericolo che gli stessi fatti di cronaca si ripetano in futuro - qualsiasi forma di censura o di controllo sui mezzi impiegati per comunicare in rete. Si rischia, in ultima analisi, di suscitare un tam tam mediatico che porterebbe alla introduzione di norme liberticide e censorie senza precedenti accompagnate, paradossalmente, dal consenso dell’opinione pubblica. Se pensiamo, ad esempio, al disegno di legge sul cyberbullismo di cui si è accennato sopra, troviamo delle definizioni e delle previsioni normative talmente indeterminate che consentirebbero di ricorrere alla censura oltre ogni più nera previsione. Non a caso il noto giornalista canadese Cory Doctorow parla della "più stupida legge censoria nella storia europea". E non a caso Save the Children Italia ha espresso "forti preoccupazioni sulla proposta di legge approvata alla Camera". La soluzione a ipotesi come quelle che abbiamo visto non può essere ricercata nella repressione quanto, piuttosto, nella prevenzione. Si potrebbe pensare, ad esempio, alla reintroduzione di un’educazione civica del cittadino digitale. Il cyberbullo può redimersi (con una domanda al gestore) di Claudia Morelli Italia Oggi, 22 settembre 2016 Il cyberbullo può redimersi e mettere personalmente in atto una condotta riparativa, inoltrando al gestore della rete, lui stesso o anche tramite i genitori, l’istanza di oscuramento, rimozione e blocco del contenuto pubblicato e offensivo. È questa una delle principali novità che l’aula della camera ha approvato al provvedimento che introduce nell’ordinamento una tutela per le persone offese da fenomeni di bullismo e cyberbullismo. La previsione di una condotta "riparativa" è in linea con il principio di responsabilizzazione dei minori nell’uso di internet e social network che il provvedimento mira a sviluppare, se pur con qualche contraddizione. Il riferimento, in particolare, è a un altro emendamento approvato in aula, questa volta alla norma che impegna il ministero dell’istruzione a varare le linee di orientamento per la prevenzione e il contrasto in ambito scolastico (senza maggiori oneri per lo stato), con particolare attenzione alla formazione del personale scolastico, all’individuazione di un proprio referente per ogni autonomia scolastica; alla promozione di un ruolo attivo degli studenti nella prevenzione e nel contrasto del bullismo e del cyberbullismo nelle scuole; alla previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti. La modifica approvata in aula dispone il carattere "sperimentale" di questa azione educativa per il prossimo biennio. Poi si vedrà. Per contro, Montecitorio ha previsto che 50 mila euro l’anno a partire dal 2017 dovranno essere impiegati per campagne di comunicazione media, informative di prevenzione e di sensibilizzazione. Va invece nel senso di una tutela nei confronti della persona che in età minore si è reso responsabile di atti di cyberullismo, il far cessare gli effetti dell’ammonimento del questore al compimento dei 21 anni di età. Un modo per non stigmatizzare "per la vita" un errore, se pur grave, compiuto in giovane età. La scelta del parlamento colma un vuoto normativo, ma il testo così come formulato durante l’esame alla camera desta perplessità tra gli addetti ai lavori e anche distinguo politici, soprattutto per l’estensione dell’applicazione della legge agli atti di bullismo e alla tutela di persone maggiorenni. La Ong Terre des Hommes ha segnalato che non solo si rischia di ledere la libertà di stampa e di pensiero, ma si sacrifica l’efficacia della protezione dei soggetti più vulnerabili. Il Pd difende la legge ed esclude che si tratti di un "bavaglio"; il giudizio del M5s pubblicato ieri sul blog di Grillo era tranchant: "È diventato prevalente l’aspetto repressivo e di oscuramento del web, a vantaggio di coloro che vogliono cancellare le opinioni loro avverse". Stragi occultate in nome del profitto di Moni Ovadia Il Manifesto, 22 settembre 2016 "Amianto: morti di Progresso" di Michele Michelino e di Daniela Trollio. Una rigorosa inchiesta che non riguarda solo il passato ma anche il presente. E il prossimo futuro. L’ultimo sabato del mese di Aprile, ogni anno, se precedenti impegni professionali non me lo impediscono, partecipo ad una marcia a Sesto San Giovanni che parte dalla sede del "Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio" e arriva, dopo un tragitto relativamente breve, a piazza Carducci, prospiciente al terreno dove un tempo sorgeva la Breda, una delle celebri fabbriche della Milano industriale. Sopra un fazzoletto di spazio verde sottratto ai nuovi edifici delle attività commerciali e di servizi che hanno sostituito le strutture industriali, è stato collocato un cippo a memoria delle vittime dello sfruttamento capitalistico, queste le precise parole dell’iscrizione. Che cosa intende rappresentare questa marcia che termina con una breve celebrazione intesa ad onorare le vittime menzionate nella scritta del modesto monumento privo di ogni prosopopea? Forse il rito di un pugno di nostalgici veterocomunisti dei quali faccio parte anch’io? Osservato superficialmente, tutto sembra confermarlo, ma in realtà si tratta di ben altro. Le persone che ogni anno partecipano alla marcia, ricordano le vittime dell’amianto. Non solo le decine e decine di migliaia di vittime di un lontano tempo passato, ma anche quelle di un passato recente, recentissimo, quelle che stanno diventando vittime nel tempo presente, nel prossimo futuro e quelle che lo diventeranno in un futuro meno prossimo ma che sono già condannate. I sostenitori dello sviluppo capitalistico e dei suoi benefici forse penseranno che i morti sono il prezzo indiretto e involontario pagato al valore del progresso con le sue straordinarie innovazioni. Non è così! I lavoratori e gli abitanti dei territori inquinati sono stati sacrificati deliberatamente alla logica dei profitti ipertrofici di un capitalismo indifferente alla salute, alla dignità e perfino alla vita degli esseri umani. La nocività dell’asbesto, materia da cui si ricava l’amianto, fu osservata empiricamente già da Plinio il Vecchio sugli schiavi di Roma addetti al trattamento di quella materia. Le prime evidenze scientifiche furono rilevate già a metà del diciottesimo secolo e, nel corso del Novecento, analisi scientifiche hanno comprovato una diretta relazione fra l’amianto e alcune patologie esiziali come il mesotelioma della pleura. Fu negli anni Sessanta del secondo dopoguerra che le ipotesi scientifiche diventano certezza. Malgrado ciò, le lavorazioni dell’amianto continuano massicciamente e gli operai, la gente dei territori e tutti coloro che in vario modo vengono a contatto con il micidiale elemento, sono sottoposti al rischio di malattie terribili che spesso portano alla morte. Se la definizione di "sfruttamento capitalistico" ferisce le orecchie delicate delle anime belle della sottocultura iper liberista, lo trovino loro il termine per chiamare questa infamia. Oggi i molti che hanno sentito parlare dei devastanti effetti dell’amianto, ma solo nel modo generico dei media, possono documentarsi in profondità e capire la portata e la diffusione del fenomeno grazie all’uscita di un libro fondamentale di Michele Michelino e di Daniela Trollio per le Edizioni del Faro dal titolo Amianto: Morti di Progresso. Il contenuto è annunciato già in copertina: "La lotta per la difesa della salute nelle fabbriche e nel territorio attraverso le testimonianze degli operai, i documenti e gli atti processuali del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio". Percorrere le testimonianze, le storie, gli atti processuali e i documenti contenuti in questo volume, permette anche ad un lettore non familiarizzato con la materia delle devastazioni prodotte dalla lavorazione dell’amianto, di prendere coscienza di quanti danni siano stati prodotti con spietata e feroce indifferenza, ad esseri umani impegnati nell’esercizio del diritto più naturale: il sostentamento di se stesso e della propria famiglia attraverso il lavoro. Questo diritto primario, grazie a decenni di lotte e sacrifici, aveva conquistato una titolarità nel quadro dell’unica forma di giustizia che non ne sia una caricatura, la giustizia sociale. I lavoratori e le loro organizzazioni, con lo strumento delle loro lotte esemplari, avevano conquistato fra gli altri il diritto alla tutela della salute nei luoghi di lavoro, ma avevano anche edificato una cultura ed un’etica che aveva fatto del lavoro, il fondamento sacrale della democrazia stessa. Il turbo capitalismo iperliberista selvaggio e senza scrupoli, per l’arricchimento smisurato di un pugno di padroni con la complicità di yes men della sedicente politica, ha fatto e continua a fare strame di tutto il patrimonio di diritto edificato dalla classe operaia. Ma lo spirito che anima l’aspirazione a creare una società di giustizia e dignità non si è sopito ed è questa la parte più emozionante e stimolante dell’impegno di Michele Michelino e Daniela Trollio, narrare anche le vittorie conseguite per virtù di una tenacia ultra quarantennale che non ha conosciuto battute di arresto né la tentazione di cedere, con la consapevolezza che lottare è già il principio di un risarcimento alle vittime e l’apertura di un orizzonte di prosperità per le generazioni a venire. Migranti. Naufragato un barcone in Egitto. Centinaia a bordo, almeno 42 i morti di Raffaella Cagnazzo Corriere della Sera, 22 settembre 2016 Un barcone carico di migranti diretti in Italia si è ribaltato nel delta del Nilo, a Rosetta: almeno 42 i morti, decine i dispersi. Secondo le autorità egiziane, a bordo c’erano circa 600 migranti. Almeno 42 morti, centinaia di dispersi. È il bilancio ancora provvisorio del naufragio di un barcone carico di migranti salpato mercoledì 21 settembre dalla città di Kafr el Sheikh, nel Delta del Nilo, e diretto in Italia. Ma i numeri potrebbero raccontare un’ecatombe. Tra le vittime cittadini di diverse nazionalità africane - L’imbarcazione si è ribaltata poco dopo essere salpata, nei pressi di Rosetta alla foce del Nilo, per cause ancora da chiarire. Secondo l’agenzia di stampa locale Mena, a bordo c’erano circa 600 migranti: tra le vittime ci sarebbero cittadini di nazionalità egiziana, sudanese e di molti altri paesi africani. Le autorità egiziane hanno tratto in salvo 150 migranti che erano a bordo dell’imbarcazione capovolta e continuano in corso le operazioni per trovare i sopravvissuti. Il mare ha inghiottito decine di persone che non ce l’hanno fatta. Alle operazioni di ricerca e salvataggio stanno partecipando operatori subacquei ed altri soccorritori. Incerto il numero dei dispersi - I numeri però non sono ancora quelli definitivi. È cauto il portavoce del ministro della Salute, Khaled Megahed, che ha spiegato come il numero delle persone disperse non può essere certo: a bordo del barcone c’erano più persone della capienza massima dell’imbarcazione. Almeno 600 riferiscono fonti locali. E le autorità temono che il numero dei morti possa salire vertiginosamente facendo registrare una delle peggiori catastrofi del mare. Nel porto di Al-Beheira sulla costa egiziana, hanno iniziato a radunarsi i parenti delle persone imbarcate con la speranza di trovare una nuova vita in Europa. "Governo lavora a disegno di legge sull’immigrazione clandestina" - L’incidente al largo delle coste egiziane si è verificato due giorni dopo che il presidente del Paese, Abdul Fatah al Sisi, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York è intervenuto sulla questione dell’immigrazione, spiegando che l’Egitto offre assistenza umanitaria a circa cinque milioni di rifugiati per lo più siriani. "L’Egitto ha messo la legislazione sull’accoglienza dei rifugiati in cima alle proprie priorità" ha spiegato Al Sisi parlando di un disegno di legge allo studio del governo che dovrebbe avere effetto il prima possibile: "La questione dei migranti pone una seria sfida per la nostra comunità. Le forze armate egiziane stanno compiendo sforzi ingenti per affrontare l’immigrazione clandestina, il traffico di esseri umani e il contrabbando". I dati di Frontex - Il numero dei migranti che hanno tentato di lasciare l’Africa e solcare il Mediterraneo per trovare una nuova vita in Italia, e quindi in Europa, è aumentato vertiginosamente nell’ultimo anno: 117.900 il numero totale dei migranti nei primi 8 mesi dell’anno, secondo i dati dell’agenzia Frontex. Sono più di 12.000 i migranti arrivati in Italia dall’Egitto tra gennaio e settembre; nel 2015, erano stati 7.000 nello stesso periodo. Egitto. La verità sul caso Regeni, le ragioni della prudenza di Francesco Maria Greco Corriere della Sera, 22 settembre 2016 La vicenda della morte di Giulio ha assunto contorni particolari e le nostre autorità giudiziarie si sono trovate a condividere la gestione di una crisi politico-diplomatica. È comprensibile che il governo italiano si muova con cautela: di fronte a troppe pressioni gli interlocutori si chiuderanno a riccio. I recenti colloqui fra i vertici della Procura generale egiziana e della Procura di Roma sono stati definiti nel comunicato congiunto "utili e proficui" e negli stessi termini si è espresso il ministro degli Esteri Gentiloni parlando con la famiglia Regeni. La vicenda è particolarmente dolorosa per le atroci circostanze nelle quali si è materializzata ma anche emblematica per l’ammirevole comportamento dei genitori che non si sono lasciati sopraffare dal dolore ed hanno reagito con fermezza pur senza mai abbandonare una straordinaria compostezza di fondo. E tuttavia, anche attenendoci al dovuto rispetto umano, dobbiamo almeno provare ad esaminare la questione con onestà intellettuale in vista di decisioni che, presto o tardi, non sarà possibile eludere. In apparenza ci stiamo confrontando con un caso di studio ricorrente nella politica estera di ogni Paese: lasciarsi guidare dal puro realismo degli interessi nazionali o far prevalere principi e valori. In realtà la vicenda è andata assumendo connotati molto particolari e le nostre autorità giudiziarie si sono trovate non diciamo a gestire ma almeno a condividere la gestione di una crisi politico-diplomatica. Gli investigatori italiani, è ovvio, possono cercare la verità entro i limiti dei dati che, "spontaneamente" e in assenza di un trattato di cooperazione bilaterale, vengono loro forniti dai colleghi egiziani. È comunque vero che la semplice disponibilità egiziana ad incontri tecnici sta almeno contribuendo a migliorare il clima politico. Sarebbe peraltro difficile fare una contabilità precisa dei danni che i due Paesi avrebbero - e chi ci perderebbe di più - se la crisi bilaterale arrivasse alle estreme conseguenze: i rispettivi mezzi di pressione (politici, strategici, economici e migratori) andranno quindi valutati realisticamente. Prendiamo le mosse dai pochi punti fermi disponibili: innanzitutto i molteplici apparati di sicurezza egiziani sono caratterizzati da frammentazione se non da lotte intestine e questo complicherà certamente il rinvenimento dei colpevoli. Tuttavia, dopo il grottesco balletto di versioni fornite inizialmente, c’è stata una svolta - quanto sincera andrà appurato - con il ridimensionamento egiziano della tesi che i responsabili sarebbero criminali comuni (la cosiddetta "banda criminale"). Oltre a questo appare evidente che in un Paese come l’Egitto solo una forte volontà del governo o meglio del presidente può consentire il proseguimento di questi incontri "tecnici". È altrettanto evidente - e questo varrebbe anche in Paesi a forte tradizione democratica - che più muscolari e sbandierate saranno le nostre pressioni, più gli interlocutori si chiuderanno a riccio. È comprensibile che il nostro governo sia muova con estrema prudenza perché, al di là dei legittimi interessati e di chi si batte genuinamente per certi valori, ci sono parti politiche pronte a strumentalizzare ogni "tentennamento" dimenticando quante concessioni siano state fatte negli anni da nostri governi di ogni colore alle esigenze della realpolitik. Ma la domanda finale non può essere aggirata: il mancato invio dell’ambasciatore designato è veramente un mezzo di pressione e non un autogol, privandoci di chi in loco dovrebbe con discrezione adoperarsi per stabilire un clima più favorevole alla ricerca della verità? E, infine, qual è il nostro obiettivo ultimo? Ammesso che gli egiziani condannassero gli esecutori materiali dell’eccidio, ci accontenteremmo del loro giudizio o chiederemmo la testa dei presunti mandanti politici o militari a prescindere dal loro livello? E con quali conseguenze? Siria. La tregua sabotata: l’accordo contestato da chi lo ha sottoscritto di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 22 settembre 2016 Quello che è successo in pochi giorni giustifica interrogativi e sospetti: l’accordo è apparso contestato delle stesse parti che lo avevano sottoscritto. Errori o un vero e proprio sabotaggio della precaria tregua siriana, magari alimentato anche da chi quell’accordo l’aveva sottoscritto? Viviamo in un’era in cui le teorie dei complotti fioriscono in modo indiscriminato sotto ogni cielo. Con tanta gente che preferisce le suggestioni di narrative accattivanti alla verifica concreta dei fatti. Meglio, quindi, stare sempre coi piedi per terra. Ma quello che è successo in pochi giorni attorno al negoziato e poi sui cieli della Siria giustifica interrogativi e sospetti. Alle cinque del pomeriggio di sabato scorso due cacciabombardieri F-16 americani e due A-10, aerei corazzati, specializzati nell’attacco al suolo, hanno bombardato postazioni militari di Deir Ezzor, nella parte orientale della Siria. I piloti della US Air Force erano convinti di colpire postazioni dell’Isis e invece hanno ucciso 62 soldati dell’esercito di Assad ferendone altri 100. Ira dei russi, scuse degli americani per l’errore, ma anche il sospetto di essere stati in qualche modo spinti a sbagliare. Martedì un convoglio di aiuti per la popolazione assediata nella regione di Aleppo messo in campo dall’Onu dopo l’accordo Usa-Russia per una tregua, è stato bombardato da misteriosi aerei che hanno distruttori 18 dei 31 camion autorizzati a raggiungere le zone controllate dai ribelli. I primi sospetti sono caduti sull’aviazione di Damasco, tristemente famosa per i bombardamenti coi quali ha massacrato la popolazione civile di un Paese che in cinque anni di guerra ha già contato più di mezzo milione di morti. Poi, però, gli americani hanno messo sotto accusa i russi. E mentre Mosca proclamava la sua innocenza, sostenendo che al momento dell’attacco nella zona volava anche un drone Usa, l’intelligence degli Stati Uniti ha cominciato a fornire dati più precisi: come le immagini di un bombardiere russo Su-24 ripreso a brevissima distanza dal convoglio un minuto prima dell’attacco. Fin dal momento della sua sigla tutti, anche a Washington e a Mosca, avevano riconosciuto che l’accordo per una sospensione delle ostilità in Siria era molto fragile: troppo esteso e feroce il conflitto, troppi attori in campo. E poi l’impossibilità di verificare i comportamenti sul terreno e di sanzionare le violazioni. Ma ci si immaginava soprattutto una difficoltà dei firmatari, i ministri degli Esteri degli Stati Uniti e della Russia, di condizionare davvero il comportamento dei militari di Damasco e dei gruppi di ribelli anti-Assad. Invece fin dal primo momento l’accordo è apparso soggetto alle contestazioni delle stesse parti che l’avevano sottoscritto: appena firmata la tregua i russi hanno mostrato di non credere alla sua tenuta, mentre molti in America hanno considerato l’intesa più una trappola che un’opportunità. Clamorosa, soprattutto, l’opposizione esplicita del Pentagono e dei servizi segreti Usa a un accordo firmato da un esponente dello stesso governo, John Kerry: l’obiezione non riguardava la tregua, ma la cooperazione Usa-Russia per le missioni anti-Isis prevista dall’accordo. I militari americani non volevano essere costretti a fornire informazioni sul loro modo di intercettare i ribelli dello Stato Islamico dalle quali i russi avrebbero potuto capire il modo di operare dell’intelligence americana quando guida i droni armati anche in altri scacchieri del mondo. Sospetti, accuse incrociate, gli americani infuriati con Mosca che continuava ad accusarli anche dopo che si erano scusati. Se non è saltato per un sabotaggio, il fallimento della tregua in Siria è la dimostrazione che l’influenza di Stati Uniti e Russia nell’area è molto inferiore a quanto fin qui immaginato. Ad appena dodici giorni dall’accordo, di quella tregua rimane solo l’ennesima resa dell’Onu e la rabbia impotente del segretario generale Ban Ki-moon: "Quando pensi che non possa andare peggio di così ecco che c’è qualcuno che porta ancora più in basso il livello della depravazione". Yemen. Un terzo dei raid sauditi è contro siti civili di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 settembre 2016 Degli 8.557 bombardamenti in 18 mesi 3.158 hanno colpito ospedali, scuole, moschee, mercati, ma non hanno la stessa attenzione dei convogli di aiuti in Siria. I parlamenti di Usa e Gran Bretagna mettono in discussione la vendita di armi. Mentre il mondo si indigna per i convogli umanitari e le cliniche bombardate in Siria, mentre l’Onu accusa il presidente Assad di stragi e massacri, poco più a sud è in corso da un anno e mezzo una carneficina di civili e il regolare bombardamento di scuole, ospedali, moschee, fabbriche, siti archeologici. Eppure non ci si indigna perché la carneficina in questione è guidata da uno Stato considerato alleato occidentale e meritevole dell’omertà globale, l’Arabia Saudita. E perché è realizzata con il sostegno decisivo di chi le armi le vende, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia in prima linea: Riyadh spende ogni anno 87,2 miliardi di dollari in armi, primo importatore di equipaggiamento militare al mondo con un +275% negli ultimi quattro anni. A 18 mesi dal lancio dell’operazione "Tempesta decisiva" contro lo Yemen il bilancio è terrificante. In mancanza di inchieste internazionali sull’operato della coalizione sunnita a guida saudita impegnata contro il movimento ribelle Houthi, ci si affida alle denunce costanti seppur inascoltate delle organizzazioni internazionali. Che svelano una strategia ben precisa: in Yemen i siti civili non vengono colpiti per errore, ma sono parte della campagna militare. Disintegrare il paese per farlo tornare ad essere quel che era, il cortile di casa di Riyadh. I numeri della guerra li dà l’organizzazione non governativa Yemen Data Project, associazione indipendente che dal marzo 2015 monitora il conflitto: un terzo degli attacchi sauditi ha avuto come target dei civili. Degli 8.557 raid compiuti in Yemen, 3.577 hanno colpito obiettivi militari e 3.158 siti civili. I restanti 1.822 non sono stati identificati. Tra gli altri sono stati centrati 114 mercati, 34 moschee, 147 scuole, 942 zone residenziali, 26 università e 378 mezzi di trasporto. I morti totali superano di gran lunga le 10mila vittime, oltre un terzo civili. La risposta saudita è tanto laconica quanto imbarazzante: "Che interesse avremmo nell’uccidere i bambini yemeniti?", ha commentato ieri il ministro degli Esteri al-Jubeir, arrivando a negare certi raid definendoli impossibili per il tipo di equipaggiamento di cui gode Riyadh. La stessa Riyadh che spende buona parte del suo budget in armi, acquistandole dai migliori produttori sul mercato. Ma non ci sono solo le vittime. A dare la misura della devastazione del paese è il bilancio degli sfollati: ieri l’organizzazione Oxfam ha pubblicato il suo ultimo rapporto che ha contato oltre tre milioni di Idp, Internally displaced people, ovvero civili costretti ad abbandonare le loro case seppur siano rimasti all’interno dello Yemen. Un quinto dei tre milioni non hanno più nemmeno una casa, distrutta dai bombardamenti, e due terzi hanno perso nel conflitto almeno un congiunto. L’80% della popolazione totale, 20 milioni di persone, non ha abbastanza cibo. I numeri parlano da soli, tanto gravi da mettere in seria discussione il ruolo degli alleati più stretti: Amnesty pochi giorni fa ha denunciato l’utilizzo di bombe di fabbricazione Usa per colpire, il 15 agosto, l’ospedale di Medici Senza Frontiere nella provincia di Hajjah. Negli Stati Uniti una campagna bipartisan, democratica e repubblicana, ha presentato una mozione al Congresso che chiede di bloccare l’ultimo accordo di vendita a Riyadh, 1,15 miliardi di dollari in armi, mentre 60 parlamentari scrivevano direttamente alla Casa Bianca senza per ora ricevere risposta. A Londra il clima è simile: due commissioni parlamentari (quella agli Affari e Innovazione e quella per lo Sviluppo Internazionale) hanno pubblicato insieme un rapporto nel quale si raccomanda la sospensione della vendita di armi a Riyadh a causa dei crimini commessi in Yemen. Ma a bloccare per ora il voto parlamentare è un fronte misto, laburisti e conservatori, che hanno presentato oltre 130 emendamenti, tra cui uno che elimina proprio lo stop all’export militare ai Saud.