Nasce "Rose", network per tutelare la salute delle donne Redattore Sociale, 21 settembre 2016 Dal 60 all’80 per cento delle persone in stato di detenzione ha presentato almeno una malattia. Di queste una su due è di tipo infettivo (48% dei casi), seguono i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), malattie cardiovascolari (16%), i problemi metabolici (11%), le malattie dermatologiche (10%). Il carcere non è il ritratto della salute. Dai dati diffusi durante il XVII Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria emerge un quadro preoccupante. Nel corso del 2015 sono transitate all'interno dei 195 istituti penitenziari italiani quasi centomila detenuti, per l’esattezza 99.446 individui. Si stima possano essere circa 5 mila gli Hiv positivi, circa 6.500 i portatori attivi del virus dell'epatite B e circa 25 mila i positivi per il virus dell'epatite C. Ma la metà di questi sono ignari della propria malattia e rischiano di contagiare altre persone. Quando si parla di salute in carcere non si può ignorare il problema della tossicodipendenza: un detenuto su tre è tossicodipendente. "Le persone detenute con doppia infezione Hiv/Hcv - spiega Sergio Babudieri, professore di Malattie Infettive all’Università di Sassari- sono nella quasi totalità tossicodipendenti endovena da eroina/cocaina, di età intermedia tra i 40-50 anni, nei quali il buon controllo con i farmaci dell'infezione da HIV, ha lasciato lo spazio a più rapide progressioni della malattia epatica verso la cirrosi epatica, l'insufficienza d'organo spesso associata anche a quella renale, ed all'epatocarcinoma. Tali situazioni di malattia epatica avanzata nei detenuti coinfetti, sono scarsamente controllabili anche con i nuovi farmaci anti-Hcv Interferon-Free ed esitano sempre più spesso verso la morte". Le infezioni da Hiv, Hcv riguardano anche le donne. Le detenute presentano maggiori fattori di rischio per le infezioni da papillomavirus. Per tutelare, informare, correggere i comportamenti sbagliati e curare, è nata Rose, Rete dOnne SimspE. L’obiettivo è realizzare un network, una rete di operatori sanitari per la conoscenza dello stato di salute delle donne detenute in Italia, al fine di promuovere con azioni di screening, informazione, formazione e trattamento, la salute stessa di questa popolazione che rappresenta caratteristiche biologiche, psicologiche, culturali e sociali differenti rispetto a quella maschile. Il congresso ha dedicato un focus alle malattie mentali nelle carceri e alla salute dei minori detenuti. Riforma del processo penale, il premier decide sulla fiducia di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Il ddl in Aula al Senato. Aspettando Renzi, l’Aula del Senato continuerà anche in mattinata la discussione generale sulla riforma del processo penale (che contiene anche le nuove norme su prescrizione e intercettazioni) ma già nel pomeriggio si dovrebbe sapere se il governo ha deciso di mettere la fiducia sul provvedimento. Decisione politica, del tutto avulsa dai contenuti tecnici del disegno di legge, ma, semmai, legata al referendum: il premier Renzi deve decidere se gli conviene forzare la mano sull’approvazione di una riforma che scontenta molti, anche nella maggioranza (in particolare Ap) ma che è pur sempre una medaglia da esibire nella campagna referendaria per il sì, diventata ormai una questione personale. Il suo principale alleato di governo, Angelino Alfano, non vede invece di buon occhio la fiducia su un testo che lascia il suo elettorato perplesso, per non dire critico, soprattutto sulle nuove norme che allungano la prescrizione (in particolare per i reati di corruzione) che, seppure concordate, sono ritenuta troppo proPm e troppo poco favorevoli ai cittadini-imputati. Laddove il Movimento 5 Stelle le considera invece blande e inefficaci ed è pronto a sparere bordate contro il testo e la fiducia, insieme a Forza Italia, per motivi opposti. Infine, ieri anche Ala ha fatto sapere che non voterà la legge, perché "piega i cittadini al maggior abuso e al maggior arbitrio dello Stato perché aumenta del 50% i termini di prescrizione, rischiando così di tenere un cittadino sulla graticola per altri 20 anni". In questo contesto il presidente del Consiglio deve stabilire quale sia, per lui, il male minore. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando vorrebbe chiudere: più volte nei mesi scorsi aveva assicurato che la riforma avrebbe tagliato il traguardo di Palazzo Madama "entro l’estate" e in vista di questa scadenza ha lavorato per cercare l’accordo nella maggioranza. Oggi è l’ultimo giorno d’estate e se Matteo Renzi, di ritorno da New York, deciderà (convincendo gli alleati) di mettere subito la fiducia sul provvedimento, la previsione di Orlando si realizzerà poiché si potrebbe votare tra oggi e domani il testo uscito dalla commissione, saltando così gli oltre 400 emendamenti presentati. E puntando alla Camera per il sì definitivo entro la prima metà di ottobre. La decisione sull’andamento della riforma è, appunto, di natura politica. L’alternativa è andare avanti con i ritmi e i tempi ordinari, in attesa di vedere che cosa succede con il referendum. In tal caso, si voteranno gli emendamenti, blindando di volta in volta la maggioranza per evitare scivolate su alcuni punti critici, tra cui la prescrizione, sulla quale incombe l’emendamento Casson (Pd), che blocca definitivamente i termini dopo la condanna di primo grado. Un emendamento "devastante" lo hanno già definito gli avvocati penalisti, che pure hanno visto accolte dal Parlamento molte delle loro proposte, ma che tuonano contro la modifica proposta da Casson (condivisa dai 5 Stelle ma non dalla maggioranza del Pd) e contro il cosiddetto "emendamento Gratteri" (dal nome del Procuratore di Catanzaro nominato da Renzi presidente della commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alle mafie) che estende la partecipazione a distanza dell’imputato nel processo, facendone quasi la regola. Molti dei 40 articoli del Ddl contengono norme di delega al governo, come quella sulle intercettazioni, integrata in commissione prevedendo criteri direttivi anche per l’uso dei captatori informatici (i cosiddetti Trojan) installati su smartphone e pc. Sono invece immediatamente operative (da quando la riforma entrerà in vigore) le norme che aumentano le pene per i reati di strada (furti, rapine, scippi) e per il voto di scambio elettorale politico mafioso. Quanto alla prescrizione, rispetto al testo della Camera, si prevede che, dopo la condanna di primo grado, i termini siano sospesi per 18 mesi in appello e per altrettanti in Cassazione e che, per i reati di corruzione, nei casi di interruzione vi sia un aumento della metà dei termini di prescrizione. La fatwa di Davigo sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 21 settembre 2016 La riforma va in Aula e gli uomini del presidente Anm attaccano. Il disegno di legge sul processo penale rischia di trasformarsi in un campo di battaglia, con schieramenti sempre più confusi. E a complicare il quadro è arrivato anche l'anatema lanciato da "Autonomia & Indipendenza", la corrente dell'Anm nata per iniziativa di Piecamillo Davigo. Mentre l'Aula di Palazzo Madama si accingeva a riprendere la discussione generale sul testo, iniziata finalmente ieri dopo la bocciatura delle pregiudiziali, il gruppo guidato dal presidente del sindacato dei giudici ha infatti diffuso una nota durissima: vi si esprime "gravissima preoccupazione per il contenuto di riforme che, ancora una volta, appaiono disfunzionali rispetto all'efficienza della giustizia, senza apportare alcuna semplificazione". Non si salva nulla: rasa al suolo la nuova prescrizione, critiche nette alla "disciplina delle intercettazioni ambientali con captatore informatico", definita "inutilmente complicata". Era già una riforma difficile, controversa. Ma all'ultimo giro il disegno di legge sul processo penale rischia di trasformarsi in un campo di battaglia, con schieramenti sempre più confusi. A complicare il quadro arriva anche un vero e proprio anatema lanciato da "Autonomia & Indipendenza", la corrente dell'Anm nata per iniziativa di Piecamillo Davigo. Mentre l'Aula di Palazzo Madama si accingeva a riprendere la discussione generale sul testo, iniziata finalmente ieri dopo la bocciatura delle pregiudiziali, il gruppo guidato dal presidente del sindacato dei giudici ha diffuso una nota durissima: vi si esprime "gravissima preoccupazione per il contenuto di riforme che, ancora una volta, appaiono disfunzionali rispetto all'efficienza della giustizia, senza apportare alcuna semplificazione". Non si salva nulla: rasa al suolo la nuova prescrizione, critiche nette alla "disciplina delle intercettazioni ambientali con captatore informatico", definita "inutilmente complicata, ed in definitiva limitativa". È considerata così esiziale questa riforma, che Autonomia & Indipendenza si rivolge all'Anm e a "tutta la magistratura" affinché "intervengano per denunciare le conseguenze gravissime" della sua possibile approvazione. Neppure i grillini avevano usato toni così catastrofici. In apparenza potrebbe trattarsi di un semplice manifesto propagandistico: la corrente di Davigo infatti ha organizzato per domenica prossima un "convegno nazionale". Vi parteciperanno le figure più in vista del movimento, a cominciare dall'unico esponente che A&I vanta in seno all'attuale Csm, Aldo Morgigni. Invitato anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che della tanto criticata riforma è pur sempre il padre putativo. Certo, al di là dei prevedibili attacchi contro il ddl, compresa la delega sul carcere che prefigura un superamento dell'ergastolo ostativo, il furore della corrente di Davigo si spiega anche con aspetti che vanno a toccare direttamente la libertà d'azione dei pm. Viene definita, in particolare, "gravemente disfunzionale e foriera di ulteriori contenziosi la previsione dell'obbligo di esercizio dell'azione penale entro tre mesi dal decorso delle indagini preliminari". Misura in effetti assai contesta dalle toghe già durante l'esame a Montecitorio. Si tratta di tasti a cui la magistratura inquirente è, in generale, sensibilissima: l'attacco della corrente di Davigo contiene dunque anche un messaggio di natura sindacale. Ma questo non attenua gli effetti che le accuse possono produrre sulla discussione a Palazzo Madama. Già ci sono forti tensioni nella maggioranza, provocate dagli emendamenti di Felice Casson sui tempi del processo. Il più dirompente propone di sospendere in via definitiva il decorso della prescrizione all'eventuale condanna di primo grado. Su questo i margini paiono inesistenti. Ma un'altra modifica sembra aver già conquistato il favore dell'intero Pd: è quella che prevede un regime diverso per i reati ambientali, con il calcolo della prescrizione che parte dall'acquisizione della notizia di reato da parte del pm e non, come avviene quasi sempre, dal momento in cui il delitto è commesso. A Renzi l'idea non dispiace: fu proprio il premier a impegnarsi per una riforma simile con i familiari delle vittime dell'Eternit. Ma l'Ncd è radicalmente contrario: "Non accetteremo che le intese raggiunte in commissione Giustizia vengano ribaltate", avverte Nico D'Ascola. Si rischia il cortocircuito totale. Anche perché la fatwa lanciata da Davigo contro la riforma promette di ridare coraggio al partito giustizialista, assai trasversale in Senato. Nelle ultime ore si è cercato di guadagnare tempo, e pare averne risentito la durata della discussione generale, che si chiuderà solo oggi. Torna d'attualità l'ipotesi fiducia. Che però i grillini cavalcherebbero come prova che "il Pd è pronto a tutto pur di fare un regalo ai corrotti". L'alternativa è la fiducia ad hoc, limitata alla parte del ddl che riforma la prescrizione. Si deciderà in extremis. Fatto sta che l'odissea dalla riforma penale non è finita e Davigo pare in grado di contribuire a prolungarla. Senza prescrizione il sistema giustizia andrebbe in frantumi di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 settembre 2016 "Il sistema sanzionatorio deve smettere di essere solo penale. La soluzione carceraria non porterà le persone a condividere dei valori o comportamenti in cui non si riconoscono. Bisogna pensare a delle soluzioni di tipo amministrativo e civile che mettano seriamente in difficoltà il cittadino e lo costringano ad adeguarsi". Alberto Cisterna è un giudice senza fede cieca nel potere educativo delle manette. Gip a Tivoli da quattro anni, Cisterna è stato a lungo un pm: prima sostituto procuratore alla Dda di Reggio Calabria, poi vice di Piero Grasso alla Direzione nazionale antimafia. "La moralità pubblica non si può imporre attraverso le aule di giustizia", dice convinto. Eppure gran parte del Paese crede che i giudici siano l'unico argine a un sistema generalmente corrotto. È così? L'idea che la società civile sia migliore della politica è un'illusione da cui bisogna liberarsi al più presto. Se poi per società civile intendiamo un gruppo di pasdaran che pretende dalla politica una super legalità imposta a colpi di una super proliferazione di norme che generano reati, che poi generano processi è chiaro che c'è qualcosa che non funziona. Per uscire da questo imbuto, la politica deve farsi carico non solo della prevenzione ma anche della sanzione senza intasare i tribunali. È inutile portare l'abusivismo edilizio in aula - salvo i grandi lottizzatori che ovviamente meritano di essere processati - perché quasi sempre si tratta di cittadini incensurati che commettono quel reato perché, ahimè, è nello spirito dei tempi da 40 anni a queste parti. Il fatto che chi ha commesso un abuso meriti una sanzione è fuori da ogni dubbio, che questa sanzione debba essere penale è discutibile. Anche perché tutto si conclude con pene pressoché simboliche. Sta dicendo che una depenalizzazione dei reati renderebbe le sanzioni più efficaci? Ci sono settori in cui moltissimi procedimenti si concludono con la pena sospesa, il che significa che nessuno sconterà mai questa pena. Formalmente, possiamo dirci soddisfatti perché abbiamo accertato la verità. Ma è poca cosa. Il problema è che si "concedono" nuovi reati al partito della super legalità e poi non si fa nulla sul piano amministrativo, che è il versante del concreto soddisfacimento dell'interesse pubblico. Se un writer viene punito formalmente con la galera - e mi pare assurdo -, ma nessuno va a pulire il muro, siamo davanti a un trucco. Un sistema bilanciato dovrebbe avere al centro la politica che gestisca il contrasto all'illegalità alternando tra processo penale e procedimenti amministrativi e civili in un'ottica di saggezza e di attenzione alle forze in campo. Perché la politica non si assume questa responsabilità? Quest'operazione non va in porto perché si cede alle lobby della super legalità che vogliono le manette a tutto spiano. Così, il processo diventa il contentino che ammansisce tutti. Nessuno però si preoccupa di rimediare davvero al danno e ovviare ai torti. Allungare i tempi per la prescrizione non aiuterebbe gli inquirenti ad accertare le responsabilità? Bisogna ricordare che il 70 per cento dei processi si prescrive nella fase delle indagini. Questo significa che è tardivo l'accertamento dei reati. E perché è tardivo? O perché si tratta di reati silenti, che dunque non si riesce a scoprire, o perché si tratta di reati talmente diffusi che la macchina della polizia giudiziaria non riesce ad accertare. Ma, ripeto: il processo non è il luogo della prescrizione. Il luogo della prescrizione sono le indagini. Mi lasci dire una cosa: ancora oggi la prescrizione è la valvola di salvezza del sistema. Se tutti i reati anziché prescriverli venissero portati a giudizio, il sistema sarebbe alla paralisi completa anche per i fatti più gravi. Ma così non si rischia di svilire il desiderio di giustizia? Negli Stati Uniti, un Paese con oltre 300 milioni di abitanti, vengono arrestati ogni anno circa due milioni di cittadini. Rimangono in galera 12, 48 o 96 ore e poi escono. Perché esistono altre forme di sanzione efficaci come i lavori socialmente utili o le multe Ovviamente il sistema si regge sulla celerità dell'accertamento. L'efficienza spinge i colpevoli a riconoscersi come tali. Da noi, mancando l'efficienza nella fase iniziale, nessuno è indotto a concordare la pena, a dichiararsi colpevole o a procedere con riti alternativi. Il nostro sistema invita i cittadini a perder tempo. Può darsi dunque che l'allungamento dei termini di prescrizione possa in qualche modo correggere il tiro. Ma un prolungamento stabile della prescrizione non è vantaggioso per nessuno. Spesso accade che le prove non siano più acquisibili, difesa e accusa operano in condizione di cecità, con i testimoni che non ricordano più, le carte che non si trovano, i luoghi mutati, per non parlare delle parti offese a cui nessuno pensa davvero le vere vittime della lunghezza dei processi. Perché allora molti suoi colleghi pensano che allungare i termini della prescrizione sia utile? Perché guardano a una soluzione tampone come se fosse una soluzione definitiva. Io riconosco che il prolungamento della prescrizione possa essere ormai un doloroso, ma necessario provvedimento d'emergenza. Ma serve stabilire un tempo ragionevole per questo allungamento e intervenire sul sistema, migliorandolo da un punto di vista ordinamentale, organizzativo e processuale. Tre migliorie legate tra loro che competono a soggetti distinti (il Csm, il Ministero della giustizia e il Parlamento), nessuno dei quali adempie al proprio dovere fino in fondo in questo momento. La prescrizione è un toppa per sopperire a queste carenze. Ma è come dare l'aspirina a una persona con la tubercolosi: magari gli passa la febbre ma non la stai curando. Per la cura serve anche che Csm si autoriformi? Bisogna abbandonare l'idea che siano possibili le autoriforme. L'unica istituzione che ai mie occhi si autoriforma in maniera credibile è la Chiesa ed anche lì lo Spirito Santo dà una grossa mano. Bulli e cyberbulli, "stretta" anche sulle molestie online di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Stretta sui cyberbulli. Ottenuto ieri il via libera dall’aula di Montecitorio la legge sulla prevenzione del bullismo e del cyberbullismo torna al Senato, dopo le modifiche che ne hanno esteso le previsioni anche ai maggiorenni. Molte le novità contenute negli articoli che puntano alla prevenzione del fenomeno. Per la prima volta fa il suo ingresso nell’ordinamento italiano una precisa definizione legislativa del bullismo anche on line. Per il legislatore il bullismo è l’aggressione o la molestia ripetuta che crea nella vittima uno stato di ansia, oltre a isolarla ed emarginarla. La fattispecie si configura con una vasta gamma di azioni, dalle vessazioni alla violenza fisica o psicologica, dalle minacce ai furti fino alle derisioni. Quando tutto questo avviene on line si ha il bullismo telematico. In tal caso uno strumento di difesa offerto dalla norma è l’oscuramento del web. Chiunque, anche il minore preso di mira purché ultraquattordicenne, o i genitori di una vittima di atti di bullismo, possono chiedere al titolare del trattamento, al gestore del sito o del social media di oscurare, rimuovere o bloccare i contenuti in rete. Se nulla accade entro 48 ore ci si può rivolgere al Garante della privacy che interviene entro i successivi due giorni. A chiedere l’oscuramento, questa volta a titolo riparativo, può essere anche lo stesso "bullo". Nella definizione di gestore, che è il fornitore di contenuti su internet, non rientrano gli access provider, i cache provider e i motori di ricerca. Per combattere il bullismo con la cultura la legge prevede che in ogni istituto venga individuato tra gli insegnanti un referente anti-bullismo. Spetterà poi al preside informare le famiglie dei ragazzi su eventuali atti di cui viene a conoscenza, convocando vittime e persecutori, per attivare percorsi di assistenza per le prime e rieducativi per i secondi. Il Miur dovrà predisporre linee di orientamento, prevenzione e contrasto, puntando sulla formazione del personale e sul ruolo attivo degli studenti, mentre i singoli istituti dovranno "educare" alla legalità e all’uso consapevole di internet, coadiuvati anche dalla polizia postale e dalle associazioni territoriali. Giro di vite anche sull’attuale aggravante di atti persecutori on line, rafforzata specificandone meglio i contorni. Per lo stalker informatico la pena sarà la reclusione da uno a sei anni: stesso trattamento se il reato è commesso con scambio di identità, divulgazione dei dati sensibili, diffusione di registrazioni di fatti di violenza o minaccia. Con la condanna scatta la confisca obbligatoria degli strumenti informatici usati per commettere il reato. Come per lo stalking anche per il bullismo è previsto l’ammonimento del questore, quando non si può procedere d’ufficio. Se l’invito a non ripetere gli atti vessatori resta inascoltato la pena è aumentata. Per il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri "Le nuove disposizioni rappresentano una novità per il nostro ordinamento e hanno il merito di affrontare un fenomeno che, come dimostra la cronaca anche recente, assume aspetti preoccupanti". Respinge le accuse di bavaglio alla rete la presidente della Commissione giustizia della Camera Donatella Ferranti, che assicura: "Nessuna deriva repressiva solo una tutela più stringente per le vittime". Cyberbullismo, sì della Camera alla legge: da uno a sei anni di carcere Il Gazzettino, 21 settembre 2016 Via libera della Camera con 242 sì, 73 no e 48 astensioni, alla legge sulla "Tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo". Attesa da oltre un anno, la seconda lettura riconsegna il testo per il terzo passaggio al Senato, dove nel maggio 2015 era stato approvato all'unanimità, una normativa profondamente modificata, che ha cambiato l'impostazione del provvedimento, nato, come ha ricordato la relatrice a palazzo Madama Elena Ferrara (Pd), per tutelare i minorenni, puntando sulla prevenzione dei fenomeni di bullismo informatico e sulla responsabilizzazione degli adolescenti, piuttosto che sull'aspetto punitivo. A Montecitorio la 'plateà dei destinatari è stata allargata anche ai maggiorenni. Nel primo articolo è definisce l'identikit del bullo e la relativa estensione in cyberbullismo (quando si realizza con strumenti informatici) che prevedono un atteggiamento aggressivo o la molestia ripetuta a danno di una vittima, in grado di provocarle ansia, isolarla o emarginarla, attraverso vessazioni, violenze fisiche o psicologiche, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni. Chi è vittima di atti di cyberbullismo (o in caso il genitore o il tutore del minorenne), può chiedere al gestore del sito internet o del social media di oscurare, rimuovere o bloccare i contenuti diffusi in rete. Se il gestore non provvede all'esecuzione della richiesta entro 48 ore, il danneggiato può rivolgersi al Garante per la privacy che interviene direttamente entro le 48 ore successive. Anche chi danneggia - ovvero il bullo - può avvalersi della stessa procedura con una sorta di "ravvedimento operoso". Dalla definizione di "gestore" che è il fornitore del servizio su internet, sono esclusi gli access provider, i cache provider e i motori di ricerca. Giro di vite sullo stalking: viene rafforzata l'attuale aggravante per gli atti persecutori online, specificandone in modo più definito i contorni. In sostanza lo stalker sarà punito con la reclusione da uno a sei anni. Pena analoga sarà comminata se il reato è commesso con uno scambio di identità, divulgazione dei dati sensibili, diffusione di registrazioni carpite con violenza o minaccia. In caso di condanna scatta la confisca obbligatoria del computer, telefono o tablet con cui il reato è stato consumato La legge sostiene l'attività della Polizia postale e prevede un finanziamento di 220.000 euro nel triennio 2016-2018 a favore del Fondo per il contrasto alla pedopornografia su Internet. Fino a quando non sia stata presentata querela o denuncia, il questore potrà convocare il responsabile della condotta illecita, ammonendolo oralmente e invitandolo rispettare la legge, sulla falsariga di quanto viene previsto nelle norme contro lo stalking. Se l'ammonito è minorenne dovrà essere accompagnato dal genitore. Viene istituito presso la presidenza del Consiglio, un tavolo tecnico per la prevenzione e il contrasto del fenomeno, il cui compito è elaborare un piano d'azione integrato e realizzare una banca dati specifica per il monitoraggio del fenomeno. Al Miur, l'articolo 4 affida il compito di elaborare le "linee di orientamento" per combattere il fenomeno nelle scuole attraverso la formazione del personale scolastico, misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti e l'istituzione, in ogni istituto, di un docente con funzioni di referente per le iniziative contro bulli e cyberbulli. Sì al permesso "di necessità" se il detenuto ha un familiare con grave malattia psichica di Emanuele Nicosia (Magistrato) quotidianogiuridico.it, 21 settembre 2016 La Cassazione, con sentenza n. 36329 del 1 settembre 2016, respinge il ricorso della procura generale territoriale fondato sull’insussistenza di un singolo "evento" eccezionale. Secondo l’ordinamento penitenziario (art. 30), il Magistrato di Sorveglianza può concedere al detenuto permessi di uscita dal carcere (c.d. "di necessità") in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o convivente, nonché, eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità. La Cassazione amplia la portata della norma affermando che, ai fini della concessione del permesso, non è necessario il verificarsi di un singolo grave evento, unico e irripetibile, ma è sufficiente anche una grave situazione cronica perdurante nel tempo, quale la grave malattia psichica di un familiare. Per la corruzione non basta il denaro di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 20 settembre 2016 n. 39008. Non basta la dazione di denaro dal privato al pubblico ufficiale per provare il reato di corruzione propria: il passaggio di soldi è solo un indizio, da solo non sufficiente a reggere una condanna per i protagonisti se non corredato dalla finalizzazione - dimostrata - dell’erogazione verso un comportamento - passato o futuro - contrario ai doveri di ufficio. Con una corposissima motivazione la Sesta penale della Cassazione (sentenza 39008, depositata ieri) smonta gran parte del processo sull’operazione "Castello" di Firenze, un intervento urbanistico del valore stimato di un miliardo di euro che aveva coinvolto, tra gli altri, un assessore della giunta comunale fiorentina. L’operazione edilizia prevedeva, alla fine del decennio scorso, la realizzazione di un grande insediamento residenziale e, contestuale, la nuova sede della provincia - all’epoca amministrata da Matteo Renzi, operazione che, secondo la prospettiva accusatoria, aveva previsto anche l’incarico professionale ad architetti vicini all’assessore, incarichi non necessari vista l’organizzazione dell’impresa committente (gruppo Ligresti). A giudizio della Sesta le due corti di merito hanno applicato scorrettamente i principi sulla prova indiziaria (articolo 192 del codice di procedura: "L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti"). L’accordo presunto criminoso tra l’assessore fiorentino, gli architetti beneficiari dell’incarico e il patron del gruppo Ligresti - che avrebbe beneficiato, tra l’altro, dell’acquisto da parte del la Provincia del nuovo insediamento per uffici - scrive la Corte, è dimostrato nella sentenza solo dal trasferimento di denaro, in particolare dall’incarico professionale ricevuto dai due architetti vicini all’assessore. Ma proprio l’assessore, aggiunge la Corte, non risulta in atti aver ricevuto alcuna utilità diretta, tale da giustificare una remunerazione per atti contrari a doveri d’ufficio, atti che, inoltre risulterebbero di molto precedenti rispetto al primo preliminare sull’operazione edilizia (l’assessore era sospettato di aver ostacolato la ricerca di siti alternativi per i muovi uffici della Provincia, favorendo in tal modo il gruppo Ligresti). Da qui il principio, peraltro ripescato dalla sentenza di merito, secondo cui "non vi è dubbio che un assessore all’urbanistica che suggerisse al privato il nome di un professionista cui rivolgersi per la progettazione di un immobile, in relazione al quale non siano ancora stati rilasciati i premessi di costruzione, non commetterebbe per ciò solo alcun reato, al di là dei profili deontologici, che non interessano in questa sede processuale". Questa considerazione mette in dubbio, chiosa la Sesta, la stessa tenuta del nesso tra presunto corrotto e corruttore, poiché "la sentenza è priva di qualunque indicazione in ordine all’asserito rapporto di corrispettività tra l’incarico di redazione del masterplan (...) e l’attività di ufficio" dell’assessore indagato. Società schermo, sequestro preventivo "misto" e ad ampio raggio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 settembre 2016 n. 38858. In materia di reati tributari, quando la società di appartenenza costituisca un "mero schermo formale", il sequestro eseguito sui conti correnti intestati agli amministratori è pienamente legittimo "in quanto costituente profitto diretto dei reati". Ma è anche consentito il "sequestro per equivalente effettuato sui beni della società, come del resto su quelli degli amministratori". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 20 settembre 2016 n. 38858. La III sezione penale, infatti, richiamando i principi affermati dalle Sezioni Unite (n. 10561/2014), ha stabilito che "è sempre consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti del beni di una persona giuridica, quando essa costituisca uno schermo fittizio dietro al quale si celi l'attività illecita degli amministratori". E ancora, prosegue la sentenza, il sequestro preventivo per equivalente può essere disposto anche sui beni degli amministratori non costituenti profitto diretto, "quando non sia possibile il sequestro di denaro o di altri beni fungibili o di altri beni comunque direttamente riconducibili al profitto di reato tributario". E tale impossibilità "può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata del beni costituenti il profitto di reato". Respinto dunque il ricorso di due fratelli contro il decreto di sequestro "misto" emesso dal Gip del tribunale di Brindisi e sostanzialmente confermato in sede di riesame. Secondo l'accusa, gli imputati avevano creato, con la consulenza di un fiscalista, "una situazione di apparenza contabile finalizzata a dissimulare i maggiori introiti conseguiti dalle vendite aziendali, in modo da sottrarli a tassazione". In questo quadro, la società "priva di autonomia" avrebbe rappresentato "uno schermo fittizio" al servizio dei ricorrenti. Per i giudici di Cassazione nell'ordinanza impugnata si dà pienamente conto della situazione "caratterizzata da una sostanziale osmosi tra la sfera giuridico-patrimoniale della società e quelle dei due amministratori, con l'ingresso e l'uscita di risorse economiche anche significative dai rispettivi patrimoni". Per cui si versava proprio in quella condizione di "opacità" che, determinando la temporanea impossibilità di eseguire il sequestro in forma diretta, autorizzava, "onde evitare la dispersione dei beni da sottoporre a cautela, il ricorso al sequestro preventivo per equivalente". Riguardo poi alla contestata sproporzione delle misure adottate, la Cassazione ricorda che il sequestro per equivalente deve essere calibrato sul valore reale dei beni e non su quello nominale. Tuttavia, salvo casi di "manifesta sproporzione", la stima non spetta al Tribunale del riesame ma è rimessa alla fase esecutiva della confisca. Per cui, conclude la sentenza, quando, come nel caso affrontato, "sia controverso il valore dei beni sottoposti alla cautela reale, il destinatario del provvedimento deve presentare apposita istanza di riduzione della garanzia al pubblico ministero e, in caso di provvedimento negativo del giudice, può impugnare l'eventuale decisione sfavorevole con l'appello cautelare". Responsabilità medica: i criteri di accertamento della causalità omissiva Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Responsabilità medica - Mancato approfondimento di esami radiologici - Nesso eziologico - Mancato accertamento del giudice dell'Appello - Imputazione causale dell'evento nelle fattispecie omissive - Verifica circa l'evitabilità dell'evento per effetto delle condotte doverose mancate - Fattispecie relativa a neoplasia mammaria. In tema di responsabilità medica, ai fini dell'accertamento della causalità omissiva il giudice deve procedere alla ricostruzione controfattuale del nesso causale interrogandosi sulla evitabilità dell'evento per effetto delle condotte doverose mancate. Il giudizio di certezza sul ruolo salvifico della condotta omessa si fonda sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel giudizio di elevata "probabilità logica" superando così le incertezze alimentate dalle generalizzazioni probabilistiche. • Corte cassazione, sezione V, sentenza del 5 maggio 2016 n. 18757. Responsabilità medica - Somministrazione di terapia non idonea - Causalità omissiva - Sussistenza dei presupposti - Colpa professionale medica - Errore diagnostico - Configurazione - Fattispecie relativa a infarto. L'errore diagnostico da cui deriva la colpa professionale medica nelle fattispecie di causalità omissiva si configura, non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca a inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga a un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 1 aprile 2016 n. 13127. Responsabilità medica - Causalità omissiva - Regola di giudizio della ragionevole umana certezza - Fattispecie relativa a mancata diagnosi tempestiva di meningite batterica. La regola di giudizio della ragionevole, umana certezza vale anche per la causalità omissiva in ambito di responsabilità medica. Tale apprezzamento va compiuto tenendo conto da un lato delle informazioni di carattere generale relative al coefficiente probabilistico che assiste il carattere salvifico delle misure doverose appropriate, e dall'altro delle contingenze del caso concreto. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 28 luglio 2015 n. 33342. Responsabilità medica -Decesso del paziente - Causalità omissiva (presupposti) - Carattere condizionalistico della causalità omissiva - Itinerario probatorio da seguire - Fattispecie relativa a diagnosi di linfoma di Hodgkin. Il carattere condizionalistico della causalità omissiva emerge dal seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta medica omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata probabilità logica. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 4 dicembre 2015 n. 48239. Da noi, ergastolani ostativi, un appello: l'Europa ci sottragga a questa tortura Il Dubbio, 21 settembre 2016 Pubblichiamo qui di seguito la lettera inviata da 47 detenuti del carcere di Opera, tutti condannati all'ergastolo "ostativo", al Comitato europeo per la prevenzione della tortura. La lettera è stata fatta pervenire al Comitato di Strasburgo per il tramite dell'associazione radicale Nessuno tocchi Caino. Siamo un gruppo di detenuti "ergastolani ostativi" e ci rivolgiamo a Voi per denunciare non soltanto quello che consideriamo un trattamento inumano e degradante nei nostri confronti, ma anche per denunciare un vero e proprio "tradimento" da parte dell'Italia la quale, secondo noi, viola i principi sanciti dalle Convenzioni del Consiglio d'Europa, dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, oltre che dalle raccomandazioni di questo Comitato. Noi, sicuri di quanto affermiamo perché lo viviamo sulla nostra pelle tutti i giorni, riteniamo con assoluta certezza che la pena del cosiddetto ergastolo ostativo, cui siamo sottoposti, sia stata e continui a essere una violazione in atto dell'articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo. Sappiamo bene che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ammette l'irrogazione dell'ergastolo, purché però l'ordinamento nazionale preveda un momento certo, conoscibile fin dall'inizio della detenzione, entro il quale vi sia la possibilità concreta ed effettiva per il condannato di ottenere il riesame della pena ai fini della eventuale rimessione in libertà. Sappiamo altresì che la Corte costituzionale italiana riconosce una pluralità di funzioni alla pena, quale la funzione retributiva e quella di difesa sociale, purché però la finalità rieducativa ? l'unica espressamente prevista dall'art. 27, comma 3, della Costituzione ? non sia mai integralmente paralizzata. Naturalmente siamo d'accordo su questi principi; come anche quando la stessa Corte costituzionale sostiene che l'Italia include nel suo ordinamento misure attenuative del regime detentivo, fino alla concessione della liberazione condizionale estintiva della pena, misura alla quale anche l'ergastolano può accedere dopo 26 anni di espiazione. Tutto ciò, però, è vero soltanto sulla carta. Nella realtà esistono categorie di detenuti che, in ragione dei reati che hanno commesso (reati cosiddetti ostativi), questa possibilità non ce l'hanno ove non collaborino alle indagini di giustizia, non certo al percorso trattamentale penitenziario! Non hanno cioè le opportunità concrete ed effettive per fruirne. La verità è che in Italia esiste "l'ergastolo ostativo", cioè uno sbarramento automatico che l'ordinamento penitenziario ha frapposto fra l'ergastolano non collaborante ed i benefici penitenziari. Infatti, l'art. 2 del decreto legge 152 del 1991 preclude ai condannati per i reati indicati nell'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario la possibilità di accedere (anche) alla richiesta di liberazione condizionale di cui all'art. 176 del codice penale, salvo che non "collaborino con la giustizia" ai sensi dell'art. 58-ter dell'ordinamento penitenziario, fornendo cioè, a carico di altri, indicazioni di accusa che si rivelino di aiuto all'attività giudiziaria (collaborazione esigibile e utilmente prestata). Di più. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Grande Camera, Vinter c. Regno Unito, 9 luglio 2013) riconosce al condannato all'ergastolo il diritto di conoscere il momento certo in cui il riesame della sua pena avrà luogo o potrà essere richiesto, manifestando una netta propensione a favore di una prima revisione entro un termine massimo di 25 anni da quando la pena perpetua è stata inflitta. Eppure alcuni di noi sono in carcere da oltre venticinque anni, e -non avendo collaborato con la giustizia - non hanno alcuna prospettiva di riesame della pena perpetua cui sono stati condannati. La nostra, dunque, è una pena fino alla morte. Siamo così stritolati da un meccanismo analogo a quello operante nei Paesi mantenitori della pena capitale, laddove essa è obbligatoria per certe categorie di reati, così esautorando il magistrato di ogni facoltà discrezionale di decidere caso per caso l'entità della pena. (...) Nei confronti degli di ergastolani ostativi lo sbarramento automatico preclude loro ogni beneficio. Anche se il detenuto è radicalmente cambiato; anche se ha seguito con volontà fattiva e coscienza matura i percorsi di rieducazione proposti dal personale del carcere; anche se ha preso definitivamente le distanze da ogni scelta criminale: tutto ciò non conta, perché il meccanismo astratto ed assiomatico dell'art. 4-bis non gli consente di aspirare ad un progressivo ritorno alla libertà. Il risultato è che i detenuti gravati dalle preclusioni ex art. 4-bis scontano una pena perpetua, rigida, immodificabile e senza speranza, quindi non conforme ai principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo oltre che da questo Comitato. Ad oggi, per l'ergastolano ostativo non esiste alcun rimedio, nessuna possibilità di recupero qualunque cosa faccia, a meno che non collabori con la Giustizia. Consentiteci una domanda: questa non è tortura? Quando una tortura è tale? Ci sembra paradossale che un principio fondamentale sancito in tutti gli ordinamenti, compreso il nostro, cioè il diritto al silenzio, possa valere nella fase processuale, quella preposta all'accertamento della verità, mentre diventi ragione di un regime detentivo integralmente intramurario e privo di alternative, trasformando così l'esecuzione della pena da percorso rieducativo a strumento di prosecuzione delle indagini. Noi siamo ben consapevoli di essere stati dei carnefici. Sono stati colpiti dei deboli attraverso le nostre azioni violente: è vero! Abbiamo procurato l'ergastolo del dolore ai familiari delle nostre vittime: è vero! Tutto ciò ci addolora infinitamente. E sarebbe superfluo aggiungere che sia i carnefici che le vittime avrebbero voluto e desiderato un destino diverso: purtroppo, però, indietro non si torna. Abbiamo colpito dei deboli: è vero! Ma anche noi siamo dei deboli e lo siamo proprio perché siamo colpevoli, ma siamo altresì consapevoli che nessun uomo resta per sempre quello che è stato una volta. (...) Se la finalità del Comitato è la tutela dei diritti dell'uomo noi vi dimostreremo, documentalmente, che in Italia è in atto una "pena di morte nascosta" - come Papa Francesco ha definito l'ergastolo - comminata di fatto in base all'articolo 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Siamo condannati a una pena perpetua non riducibile, dunque illegittima. In questa nostra convinzione siamo confortati dalle analoghe, recenti prese di posizione del capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (dottor Santi Consolo) che si è chiarissimamente e pubblicamente espresso contro l'ergastolo ostativo, così come hanno fatto alcuni Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale (i professori Giovanni Maria Flick e Gaetano Silvestri) e, a titolo personale, il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura (avvocato Giovanni Legnini). Ci auguriamo che anche questo Comitato, al termine dell'ispezione che Vi chiediamo di svolgere, voglia prendere posizione in tal senso. Con sentita stima. Alfonso Agnello, Antonio Albanese, Giovanni Alfano, Franco Ambrosio, Antonio Antonucci, Vito Baglio, Bernardo Bommarito, Francesco Bruno, Mario Buda, Salvatore Busco, Salvatore Calafato, Roberto Cannavò, Maurizio Campanotta, Angelo Caruso, Rosario Casciana, Giuseppe Castaldi, Alessandro Crisafulli, Marcello D'Agata, Tommaso Depace, Francesco Di Dio, Luigi Di Martino, Giuseppe Farao, Paolo Furnò, Salvatore Galati, Francesco Gattini, Pasquale Genovese, Costanzo Girolamo, Giuseppe Grassonelli, Giuseppe Lucchese, Orazio Paolello, Dragomir Petrovic, Antonio Pulli, Gaetano Puzzangaro, Emanuele Radosta, Antonino Rodà, Diego Rosmini, Giuseppe Saraceno, Alfredo Sole, Francesco Squillaci, Lorenzo Tinnirello, Antonio Trigila, Antonino Troia, Pasquale Trubia. Lampedusa, l’Isis, il carcere, le Rems e la fine della psichiatria di Mario Iannucci* quotidianosanita.it, 21 settembre 2016 Gentile direttore, in Conversazione con l’uomo nell’armadio Ian McEwan ci fornisce un affresco straordinariamente efficace e realistico della quantità e della varietà impressionante del disagio mentale ospitato nelle prigioni, rendendo al contempo ragione della spinta esclusiva di molte persone sofferenti. Anch’io voglio cimentarmi con un racconto fantastico, che non ha alcun riferimento con fatti realmente accaduti, ma potrebbe accadere nell’oggi o nel domani delle nostre prigioni, così come potrebbe essere accaduto nell’ieri. Adam, un giovane esile uomo appena maggiorenne, sbarca a Lampedusa. Proviene dal Togo, è passato per il Benin e il Niger, è arrivato il Libia. Sale su un barcone poi, verso il sogno europeo. Da Lampedusa la solita trafila: un centro di primo soccorso, uno di accoglienza e, infine, una casa famiglia. Non se la passa male, c’è anche un suo connazionale e gli operatori parlano in inglese con lui. È giovane, è straniero, non ha parenti in Italia e nemmeno un amico, forse fuma anche un po’ di hashish. Sia come sia, finisce per andare incontro a gravi turbe psichiche. La Polizia lo ferma per strada, si accorge del suo disagio e lo accompagna in un servizio psichiatrico ospedaliero. Gli psichiatri constatano la presenza di un grave scompenso psicotico, gli danno farmaci per pochi giorni e poi, quando lui dice che vuole andarsene dall’ospedale, gli fanno firmare le dimissioni volontarie e lo dimettono. Adam se ne va per strada, sporco, delirante, allucinato e subconfuso. Sopravvive per pochi giorni. Le voci, poi, lo incitano a salire su una macchina e a scappare lontano. Traffica attorno a quella macchina, che magari non sa nemmeno guidare. I passanti hanno tutto il tempo di avvertire la Polizia, che arriva e ferma lo stupefatto Adam. Tentato furto in flagranza: processo per direttissima. Il giudice è persona di esperienza e di buon senso. Anche se non lo fosse, si accorgerebbe subito delle disastrose condizioni mentali di Adam. Il 118 interviene in aula e il giovane viene accompagnato presso il PS ospedaliero più vicino. Immediata consulenza psichiatrica: la diagnosi è di crisi psicotica acuta; la descrizione del comportamento è di una grave agitazione psicomotoria; la terapia è a base di neurolettici in puntura; l’indicazione terapeutica è quella della …custodia cautelare in carcere. Adam, circondato da una decina di poliziotti penitenziari, viene chiuso nella sua cella. I medici e gli psichiatri del carcere tentano invano di comunicare con lui. Adam allaga subito la cella, si denuda completamente, urina sul pavimento, si cosparge il corpo di dentifricio, lancia piccoli oggetti contro chiunque cerchi di parlargli attraverso il cancello. Non resta che proporre un TSO ospedaliero. Siccome siamo in Italia ed è pomeriggio, l’ordinanza per il TSO non arriva che il giorno dopo. Adam sopravvive a quella nottata terribile, sorvegliato per fortuna da poliziotti e da infermieri abituati e comprensivi. Tutti sanno d’altronde che, anche qui in Italia, esiste il pity arrest e lo psychiatric boarding. Il TSO viene infine eseguito il giorno successivo e dura due settimane, durante le quali capita che Adam, anche se sorvegliato da due poliziotti, debba anche essere contenuto per motivi sanitari. Poi si calma un po’. Parla in inglese con uno psichiatra comprensivo, dal quale capisce che potrebbe essere aiutato. Accetta le terapie farmacologiche che erano dapprima somministrate contro il suo volere. I deliri e le allucinazioni sono meno pressanti, anche se tutt’altro che esauriti. Pur continuando a delirare e a sentire le voci, secondo taluni potrebbe essere dimesso dall’Ospedale: d’altronde occupa un’intera stanza con diversi letti! Può essere dimesso: ma dove lo si manda? Se fosse un cittadino italiano, al primo arresto per un tentato furto durante una grave crisi psicotica; se avesse dei familiari e un bravo avvocato difensore; se questi familiari si fossero subito recati presso i servizi sociali e sanitari, una soluzione diversa dalla custodia cautelare in carcere la si sarebbe subito trovata. Difficile immaginare, anzi, che per una persona in simili condizioni si sarebbe ricorsi alla custodia cautelare in carcere. Ma Adam viene dal Togo, dove le persone con gravi disturbi mentali vengono lascate a pregare incatenate agli alberi. Non dovrebbe subire un gran danno se lo mettessimo in carcere invece che legato a un albero. Allora lo mandiamo in carcere. Adam torna in effetti in cella. A pochi metri da lui, in una cella diversa, è ristretto Abdallah, nordafricano che ha già alle spalle alcune carcerazioni per reati minori. In preda a gravi alterazioni psichiche, a torso nudo e in pieno giorno, impugnando un piccone ha minacciato una vecchietta per strada e le ha rapinato sette euro. Il giudice, avendo notato lo stato mentale gravemente alterato di Abdallah, ha disposto una osservazione psichiatrica. Poi, delirante e aggressivo, anche Abdallah, come Adam, è stato ricoverato in TSO ospedaliero: durante la notte precedente al ricovero aveva aggredito un compagno di cella, come lui nordafricano, accusandolo di non essere un militante dell’ISIS. In ospedale Abdallah, dopo alcuni giorni di cure, è migliorato. Anche la sua "appartenenza all’ISIS" è regredita. Dimesso dall’ospedale, Abdallah è tornato in carcere. Ora i giudici si chiedono dove possono mandare i molti Adam e Abdallah che abitano il carcere. Mi è giunta voce -ma è sicuramente una mia fantasia di desiderio, frutto dall’immaginario come tutto questo racconto - che a Volterra, nei diroccati reparti "Charcot" e "Ferri" dell’ex Ospedale Psichiatrico, un sindaco, un uomo di fede e un sociologo illuminati stanno allestendo un "Centro di deradicalizzazione". Sono andati a spiare cosa hanno fatto in Francia, a Pontourny, dove è accaduto qualcosa di analogo. A Pontourny, Marie-Alphonse Gréban de Pontourny, nel 1895, creò una fondazione per ospitare orfani e donne, poi riconvertita in ospedale psichiatrico agli inizi del Novecento. Ora a Ponturny ci stanno andando i giovani "sbandati" approdati all’ISIS. Ho sentito anch’io una voce, come Adam e Abdallah: mi diceva che al "Ferri" di Volterra, già sezione giudiziaria di quell’OP, stavano già iniziando i lavori di restauro dei graffiti di Oreste Nannetti (N.O.F. 4), ingegnere e pittore già prosciolto, molti anni addietro, dal gravissimo reato di oltraggio e resistenza a PU. In compagnia dei graffiti di Oreste Nannetti, da giovane, ho trascorso, in estate, qualche momento sereno, fra le chiacchiere lontane degli infermieri, il sussurro dei pazienti e il frinito delle cicale. *Psichiatra psicoanalista. Fondatore e Responsabile, dal 2001, della Comunità "Le Querce" di Firenze, per pazienti psichiatrici autori di reato Le esistenze anonime risucchiate dalla camorra 2.0 di Antonio Mattone Il Mattino, 21 settembre 2016 Giovani perduti, adolescenti spietati, finiti nel vortice della violenza e della delinquenza. Corrotti per l’ ossessione di essere qualcuno e di ostentare un potere cinico e crudele. Sono i figli di Napoli. Sono quelli che abbiamo visto nelle cronache di questi giorni, dai disordini di Airola, alle azioni terroristiche a cui ci stiamo assuefacendo chiamandole in modo familiare "stese", dai raid teppistici contro clochard, stranieri e minori indifesi, non ultimo l’episodio di cui è stata protagonista la gang dei coltelli in azione sul Lungomare. Ragazzi che come altri sono appassionati di rap, musica, sport, ma che poi cercano di uscire dall’anonimato e decidono di farsi risucchiare da quel buco nero che è la camorra 2.0. Se l’80% dei giovani che sono rinchiusi nelle carceri minorili italiane sono del Sud, e tra questi tanti i napoletani, vuol dire che dalle nostre parti esiste un enorme problema sociale, con il territorio marcato dalla malavita, la scuola che perde i ragazzi per strada, il lavoro che manca ma anche con scarse opportunità di recupero. Tuttavia, credo ci sia qualcosa di più da indagare. È un fenomeno trasversale che riguarda i ragazzi fragili delle grandi periferie anonime e delle città globali, alla ricerca di identità, di senso. Un po’ narcisisti, un po’ abbandonati, pensano che sia venuto il momento di riscattarsi e di sentirsi qualcuno. Una generazione che ha interrotto la comunicazione con il mondo degli adulti e con gli educatori e, con l’avvento della rete si è direttamente proiettata nella realtà dei "grandi". Esistenze anonime che si sentono scarto e che si sottomettono ad appartenenze perverse e disumane pur di poter contare qualcosa. Ci sono dei tratti molto simili tra i giovani del Sud Italia attratti dalle mafie e quelli delle grandi città del centro Europa che intraprendono la strada del radicalismo islamico. Una crisi di riferimenti culturali e affettivi di vite frustrate e percepite prive di sbocchi che diventano obiettivo di reclutatori senza scrupoli o che incarnano modelli dove il potere è direttamente legato alla violenza che si è capaci di esprimere. Alcuni mesi fa, dopo esserci interrogati con il direttore della Casa Circondariale "Giuseppe Salvia" sulla violenza giovanile che imperversava in città, decidemmo di fare un incontro con i ragazzi finiti per la prima volta in carcere, prendendo spunto da una lettera di alcuni detenuti che dopo aver fatto un percorso di revisione decisero di scrivere una accorata lettera ai baby boss per indurli a cambiare vita. Il più loquace fu un giovane che non fece altro che giustificare con la mancanza di lavoro e di opportunità la deriva delinquenziale degli adolescenti napoletani. Poi, finito l’incontro chiese di parlarmi e cominciammo a intessere un dialogo che si interruppe quando finì agli arresti domiciliari. Dopo pochi mesi terminò di scontare la pena e tornò libero, ma qualche giorno dopo lo vedemmo di nuovo a Poggioreale. Quando lo rincontrai aveva perso tutta la sua spavalderia, era visibilmente imbarazzato e non riusciva a spiegarsi e a spiegarmi perché avesse continuato a commettere reati. Eppure apparteneva a una famiglia di onesti lavoratori e nel frattempo aveva trovato anche una brava ragazza che si era legata a lui. Mi parlava solo di un disagio e di un’ ansia che non riusciva a decifrare. C’è spesso un filo diretto tra malessere inespresso e violenza. Di fronte ai gravi fatti dei giorni scorsi la città continua ostinatamente a non guardarsi dentro, a non volere fare i conti con il male oscuro, tante volte senza volto, di una aggressività brutale e sanguinaria. E allora prevalgono il vittimismo e il fatalismo di sempre e ce la si prende con lo Stato assente o con la mancanza di opportunità. Oppure si invocano misure eccezionali, ed ecco che esercito e scuole aperte diventano la panacea di tutti i mali, mentre si torna ciclicamente a parlare di abbassare l’età punibile. Qualcun altro censura la borghesia inoperosa, anche se dobbiamo capire bene se esiste ancora e che cosa è oggi la borghesia a Napoli. È una vecchia abitudine della città, quella di cincischiare con i propri mali senza mai affrontarli veramente. Indubbiamente servirebbe un controllo maggiore del territorio, allora perché non impiegare l’esercito per liberare alcune piazze occupate dal business malavitoso dei parcheggiatori abusivi? Sarebbe un piccolo segnale che restituirebbe ai militari quella funzione di presidio vero, dopo la provocazione del parroco di Forcella che ha paragonato i soldati ad "arredo urbano", come delle statuine natalizie. Sicuramente ci sarebbe bisogno di una scuola che funzioni tutti i mesi dell’anno e che sappia vigilare sui minori che lasciano gli studi o che hanno una frequenza saltuaria. Occorrerebbero servizi sociali che sappiano interagire con gli istituti per monitorare e prevenire la dispersione scolastica. Alla violenza diffusa non ci sono risposte facili. Ma quello che manca è soprattutto una ribellione interiore dei napoletani che sappia attivare questi processi. Un ragazzo che finisce ad Airola o a Nisida è la sconfitta di ieri e di oggi. Il futuro di Napoli si costruirà a partire dai bambini e dall’identità e dalle passioni che saremo in grado di trasmettergli. Lombardia: la Commissione Carceri presenta le iniziative Giubileo per i detenuti newsagielle.it, 21 settembre 2016 Incontri, dibattiti, spettacoli teatrali, ma soprattutto storie personali di vittime e colpevoli, testimonianze dirette di riconciliazione per capire i percorsi della giustizia, della riabilitazione personale e del perdono. Questo il senso del programma che l'Associazione "Sesta Opera San fedele Onlus", in collaborazione con la Fondazione culturale "San Fedele" di Milano, propone in occasione del Giubileo della Misericordia per i detenuti, che si celebra domenica 6 novembre. L'iniziativa, che è sostenuta dalla Commissione speciale sulla situazione carceraria, presieduta da Fabio Fanetti, è stata presentata questa mattina a Palazzo Pirelli, alla presenza del Presidente della Commissione, dei consiglieri Fabio Pizzul e Michele Busi, del Presidente dell'Associazione "Sesta Opera San Fedele", Guido Chiaretti e di Gherardo Colombo, che da oltre nove anni, insieme anche all'Associazione Sulle Regole si occupa dei temi della legalità e della risposta alla devianza. "Sono molto soddisfatto dell'iniziativa - ha commentato il Presidente Fanetti - perché, come ci ha ricordato Papa Francesco, bisogna sempre più rendere il carcere uno strumento di rieducazione più che un sistema punitivo". Gli appuntamenti, proposti sotto il titolo "Amore e giustizia voglio cantare", prendono il via lunedì 26 settembre (ore 18) con la presentazione del libro "La giustizia capovolta", di P. Francesco Occhetta SJ, scrittore de "La Civiltà Cattolica", presso l'Università Statale di Milano (Dipartimento di Filosofia, Via Festa del Perdono 7). All'incontro, moderato dal giornalista Massimo Bernardini, parteciperanno Romano Cappelletto, Responsabile ufficio stampa Paoline, Guido Chiaretti, Presidente Sesta Opera San Fedele, Grazia Mannozzi, docente di Diritto Penale del Dipartimento di Diritto, economia e culture dell'Università degli Studi dell'Insubria, Gian Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale, Daniela Marcone, Vice Presidente Associazione Libera. Si prosegue poi mercoledì 12 ottobre, presso l'Auditorium San Fedele, Via Hoepli, 3b, Milano, con alcuni protagonisti del testo "Il libro dell'incontro" che porteranno la loro testimonianza del lungo cammino che ha fatto incontrare ex-terroristi e le loro vittime. Due gli eventi in prossimità della celebrazione del Giubileo per i detenuti. Sabato 5 novembre, vigilia della giornata, sempre presso l'Auditorium di San Fedele, Via Hoepli, 3b, Milano ci sarà testimonianza del percorso personale di riconciliazione di Claudia Francardi e Irene Sisi, cui seguirà dibattito. Domenica 6 novembre si terrà un incontro di preghiera presso la chiesa di San Fedele, in cui saranno gli stessi detenuti a proporre spunti di meditazione, a partire dai testi biblici su cui hanno pregato in carcere. Infine, lunedì 19 dicembre concluderà la serie di incontri uno spettacolo teatrale sulla Misericordia nella Divina Commedia e nei Promessi Sposi presso l'Auditorium "San Fedele", in via Hoepli 3. "Il Giubileo per i detenuti - ha rimarcato Fabio Pizzul - è un'occasione preziosa per contribuire a diffondere una maggiore sensibilità sui temi della giustizia, della riabilitazione dei detenuti e della Misericordia e dell'importanza del volontariato sociale in tale àmbito". Grosseto: suicida in carcere detenuto italiano di 47 anni Comunicato Sappe, 21 settembre 2016 Ha deciso di togliersi la vita impiccandosi alla finestra della cella della Casa circondariale di Grosseto dov’era detenuto per i reati di lesioni e maltrattamenti in famiglia. È accaduto questa notte, protagonista un italiano originario della provincia di Lecce ma da anni residente a Grosseto. La notizia è diffusa dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria a margine del XIII Consiglio Regionale Sappe della Toscana, in corso di svolgimento a Montale (PT). Pasquale Salemme, segretario nazionale Sappe per la Toscana: "L’uomo, L.C., si è tolto la vita nella notte. Aveva 47 anni, era indagato per i reati di lesioni e maltrattamenti in famiglia, ed era già stato detenuto a Grosseto per altri reati. L’Agente di Polizia Penitenziaria di servizio aveva fatto il giro di controllo alle 3.00 e l’uomo dormiva (o almeno così sembrava); al successivo passaggio, alle 3.15 circa, l’ha trovato impiccato alla finestra. Subito si è intervenuti ma purtroppo non c’è stato nulla da fare". Il Sappe evidenzia che, alla data del 30 agosto scorso, "nella Casa circondariale di Grosseto erano detenute 17 persone rispetto ai 15 posti letto regolamentari: 9 erano gli imputati, 8 i condannati". Ma evidenzia le "criticità gestionali ed organizzative del carcere grossetano da parte del Comandante di Reparto" e sollecita per tanto un’ispezione ministeriale. "È necessario intervenire con urgenza sulla gestione e l’organizzazione della Casa Circondariale di Grosseto, caratterizzata da significative disfunzioni e inconvenienti che riflettono sulla sicurezza e sulla operatività del personale di Polizia Penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una grave carenza di organico ed una organizzazione del lavoro assolutamente precaria e fatiscente". Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: "Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione". "Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze", conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. "Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata!" Milano: la richiesta degli avvocati "vanno tolte dal Tribunale le gabbie per gli imputati" milanotoday.it, 21 settembre 2016 La camera penale di Milano: "Sono il simbolo di una colpevolezza già accertata". Sono, sottolineano gli avvocati, "l’orribile oggetto simbolico di una colpevolezza già accertata". E per questo, senza troppi giri di parole, vanno abolite. La camera penale di Milano dichiara guerra alle gabbie che "ospitano" i detenuti al Tribunale durante i processi. "Il Dottor Bruti Liberati - scrivono i legali in un comunicato - ha esortato magistrati e avvocati a mobilitarsi affinché vengano eliminate. Il tema - hanno continuato gli avvocati - era già stato toccato qualche anno fa, quando, in occasione dell’inizio del processo Ruby, l’allora Presidente del Tribunale, Livia Pomodoro, fece coprire con tendoni bianchi le ampie gabbie dell’aula Calabresi. La Camera Penale di Milano, allora, commentò la decisione, sottolineando che il meccanismo di rimozione visiva metteva ancor più in risalto le modalità ordinarie di celebrazione dei processi con detenuti. Ora il problema viene posto in termini generali. Senza dubbio, non possiamo che concordare sulla necessità di modificare lo stato delle cose". "Nelle aule milanesi - fanno notare i legali, in particolare negli inferi del piano terra nella zona dedicata alle direttissime, si assiste alla celebrazione dei processi con moltissimi imputati detenuti accalcati nelle gabbie. Solo negli ultimi anni si registra una maggiore sensibilità, che porta ad ingressi scaglionati e quindi ad un minore affollamento". "Tutto ciò - evidenzia la camera penale di Milano -, oltre ad essere contrario ad un principio generale di dignità, ostacola in modo significativo una effettiva partecipazione consapevole dell’imputato al proprio processo e una utile comunicazione con il proprio difensore. Non solo. Perché gli stessi avvocati si scagliano anche contro alcuni paletti - li definiscono "gabbie ideali" -, che rendono "illegali" i processi. "A partire - spiegano gli avvocati - dall’articolo 42 bis che vieta per le traduzioni individuali dei detenuti l’uso delle manette, se non in caso di pericolo di fuga o di condizioni particolarmente difficili. Per proseguire con l’articolo 474, secondo cui l’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza". Torino: chiudono gli Opg, a San Maurizio Canavese struttura di accoglienza per detenuti di Cinzia Gatti torinoggi.it, 21 settembre 2016 Una delle prossime sfide per Palazzo Lascaris sarà trovare quindi nuovi spazi adatti ad accogliere detenuti psichiatrici. Mario, nome di fantasia, ha 45 anni, ed è l'ultimo piemontese che lascerà l'ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino, uno degli ultimi due ancora aperti in Italia. La legge 81 del 2014 ha infatti decretato la chiusura degli O.P.G. e il trasferimento nelle Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza. Attualmente in Piemonte ne esiste solo una, la San Michele di Bra in provincia di Cuneo, con 18 posti letto suddivisi tra stanze singole e doppie. Entro la fine di ottobre è prevista l'apertura di una nuova struttura, a San Maurizio Canavese, all'interno del complesso del Presidio Sanitario "Beata Vergine della Consolata". Qui troveranno posto altri 20 detenuti psichiatrici piemontesi, ospitati attualmente a Castiglione delle Stiviere e in altre strutture. Soggetti prosciolti ai sensi di legge, per i quali vengono creati percorsi specifici per il reinserimento in società, obiettivo finale delle R.E.M.S. Il problema attuale, per la Regione Piemonte, è che la normativa prevede strutture per l'accoglienza pubbliche, mentre sia Bra che San Maurizio Canavese sono private. Una delle prossime sfide per Palazzo Lascaris sarà trovare quindi nuovi spazi adatti ad accogliere detenuti psichiatrici. Primo passo per consentire loro di tornare ad avere una vita. Lecce: apre reparto per detenuti psichiatrici, protestano sindacati di polizia penitenziaria quotidianodipuglia.it, 21 settembre 2016 Protestano i sindacati di polizia penitenziaria perché nel carcere di Lecce è imminente l'apertura di una sezione detentiva che dovrebbe ospitare detenuti affetti da patologie psichiatriche, struttura che dovrebbe essere gestita dalla Asl di Lecce. Lo rende noto il segretario del Sappe, Federico Pilagatti, che insieme ad altre sei sigle sindacali (Osapp, Uil, Sinappe, Uspp, Cgil e Cisl) invita il Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria a non aprire la sezione "fino a quando - si legge in una nota congiunta - non verrà disposto l'incremento dell'organico di polizia penitenziaria di almeno 50 unità". Nel comunicato i sindacati sottolineano che l'organico degli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Lecce ha una carenza di 150 unità. Nel frattempo, prosegue la nota, "a breve si aggiungerà la beffa dell'apertura di un nuovo padiglione da 200 posti, a cui si aggiungeranno i 30 della sezione psichiatrica, per finire con i 300 detenuti ospitati oltre la capienza regolamentare". I sindacati chiedono di aprire una trattativa a livello regionale "per la discussione e la condivisione di un progetto comune, focalizzato su tempi di apertura" del nuovo reparto, nonché "organizzazione del lavoro, piante organiche da destinare a tale reparto e, poiché gestito dall'Asl, compiti del personale di polizia penitenziaria all'interno del reparto". Benevento: cinque detenuti lavoreranno per il Comune di Mariateresa De Lucia ottopagine.it, 21 settembre 2016 È il progetto lavoro all'esterno illustrato dal direttore Palma e dal vicedirettore Adanti. Cinque detenuti della casa circondariale di Benevento lavoreranno per il Comune di Benevento. È il progetto "Il lavoro all'esterno" che nasce sulla scorta di una convenzione nazionale tra il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e l'Anci, per fare in modo che il tempo della pena abbia un'utilità sociale. "Il Comune di Benevento affiderà parte dei lavori di verde pubblico e di archiviazione e catalogazione di libri a un gruppo di detenuti. Il loro tempo di detenzione sarà un tempo utilmente impiegato per ritornare nella società da persone che hanno fatto un percorso di rieducazione. La società li vedrà come persone che vogliono recuperarsi e riscattarsi e loro sentiranno questa possibilità di essere riaccolti". Così ne parla Maria Luisa Palma, direttore Casa Circondariale Benevento. Il direttore Palma specifica che la prima fase del progetto durerà sei mesi e annuncia anche che il carcere di Benevento è in fase di riorganizzazione: "Salirà il numero delle detenute e si abbasserà quello dei detenuti". A Benevento il progetto "Il lavoro all'esterno" nasce da un'idea del vicedirettore del carcere Marianna Adanti che ha già condotto la stessa iniziativa in altre realtà come Arienzo e San Felice a Cancello. "Da quattro o cinque mesi abbiamo sperimentato questa iniziativa ad Arienzo e San Felice e sia i sindaci e che la società dei due Comuni è particolarmente soddisfatti della riuscita del progetto". A sostenere l'iniziativa il sindaco Clemente Mastella: "Da ex Ministro della Giustizia e da cristiano ne sono felice - commenta e aggiunge - e poi noi risparmiamo un po’ che vista la situazione del Comune non è affatto male". Messina: progetti teatrali a Gazzi, la cultura per il riscatto e il reinserimento dei detenuti messinaora.it, 21 settembre 2016 L’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Carlo Vermiglio in un incontro con il vice presidente del CePaS (Centro Prima accoglienza Savio di Messina), Raffaella Lombardi, ha ribadito il suo impegno affinché la cultura possa diventare un bene primario essenziale per il recupero e il miglioramento della qualità della vita delle persone soprattutto di quelle più ai margini della società. Nell’apprezzare il "Progetto carcere", promosso dal CePaS, l’assessore Vermiglio si è detto disponibile a una collaborazione costruttiva per la realizzazione di iniziative volte al reinserimento dei detenuti nella vita sociale attraverso un approccio diverso ai temi della cultura. Il CePas, presieduto dal salesiano don Umberto Romeo, in stretta collaborazione con il direttore della Casa Circondariale Calogero Tessitore, ha realizzato un laboratorio teatrale che si è concluso con l’allestimento di uno spettacolo in cui i detenuti sono stati i veri protagonisti. Nei prossimi mesi, oltre alla scuola di recitazione si attiveranno dei corsi volti a formare operatori teatrali specialisti del palcoscenico. Nell’ambito del progetto si è realizzato anche un video dal titolo "Il Tempo fermato" che illustra la realtà dell’Istituto penitenziario di Gazzi e i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. Il documentario verrà presentato all’assessore Vermiglio alla presenza del presidente del Tribunale di Sorveglianza, Nicola Mazzamuto e delle autorità cittadine. "Questo Assessorato ha promosso e sostenuto altri progetti realizzati in collaborazione con gli Istituti penitenziari per minori e adulti - sottolinea l’Assessore Vermiglio - tra questi, l’iniziativa "Fatti un giro bellezza. Musei senza barriere", che ha visto i ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni Malaspina di Palermo coinvolti in un progetto di valorizzazione del Castello a mare, uno dei monumenti più significativi della città. È sempre più importante nella società contemporanea avviare nuove forme di valorizzazione sociale del patrimonio che aiutino a trasformare i luoghi della cultura in spazi vivi in cui tutti i cittadini possano sentirsi protagonisti, colmando quella distanza profonda che spesso ancora oggi separa il mondo della cultura da ampi strati della società". Milano: il docufilm "Spes Contra Spem" verrà presentato domani nel carcere di Opera di Francesca Donnarumma contattonews.it, 21 settembre 2016 Dopo la premiere al Festival di Venezia, nella sezione Eventi Speciali, IndexWay presenta il docufilm Spes Contra Spem di Ambrogio Crespi che verrà presentato nel Carcere di Opera di Milano, giovedì 22 settembre alle ore 16, alla presenza del capo del Dap Santi Consolo, del direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano e degli stessi detenuti. Spes contra Spem è un film sull’ergastolo ostativo, sul "fine pena mai", che vede protagonisti gli stessi ergastolani e gli uomini delle istituzioni. La trama di Spes contra Spem di mbrogio Crespi. "Criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi ci accompagnano in un viaggio inimmaginabile; un viaggio dentro ad anime oscure, un viaggio nel buio profondo attraverso squarci di luce che come dei lampi accecano chi li guarda. Nessuna clemenza, nessun buonismo, nessuna posizione ideologica. Un uomo non è il reato che compie. Un docufilm politico, che pone attraverso la voce del condannato e dell’amministrazione penitenziaria la prospettiva, il senso della pena e la sua espiazione; la questione della redenzione ma non certo il perdono. Vita e morte, morte e speranza. Parole ed emozioni che si incontrano e si intrecciano tra loro. Un manifesto contro la criminalità, scritto da criminali che sgretolano il mito del criminale stesso. Uomini con un ergastolo ostativo, un "fine pena mai" che oggi sono un manifesto delle istituzioni e che ringraziano senza dubbi chi li ha sottratti alle loro vite "libere" perdute. I poliziotti penitenziari emergono come eroi consapevoli e guardiani delle nostre coscienze; umani e maturi, protettori dello Stato. Un viaggio nella nostra anima nera, uno specchio opaco e sfregiato senza fronzoli. Una voce potente che ti lascia domande e che rompe il silenzio. La speranza contro ogni speranza, anche dove non ha ragione di esistere". Il Papa: "La guerra è peggio del terrorismo" di Luca Kocci Il Manifesto, 21 settembre 2016 Ad Assisi per celebrare la Giornata mondiale per la pace, papa Bergoglio condanna i conflitti in corso. "Giorno e notte le bombe cadono e uccidono bambini, anziani, uomini e donne". "Tutti, con la guerra, sono perdenti, anche i vincitori". Si è conclusa con una severa condanna della guerra, sottoscritta dai leader religiosi di tutto il mondo, la Giornata mondiale di preghiera per la pace che si è svolta ieri ad Assisi, a conclusione di un meeting di tre giorni promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dai francescani. Cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti (ma non c’era il Dalai Lama, non invitato evidentemente per non turbare il percorso di riavvicinamento fra Santa Sede e Pechino), oltre 500 rappresentanti delle diverse religioni del mondo si sono ritrovati trent’anni dopo il primo incontro convocato sempre ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986, quando il mondo era diviso in due blocchi, e papa Wojtyla voleva issare più in alto di tutti il vessillo della pace, anche in funzione anticomunista. Oggi la guerra fredda non c’è più, ma c’è una "terza guerra mondiale a pezzi", come papa Francesco ha più volte chiamato l’insieme dei conflitti che devastano il mondo. E allora le religioni, sostiene il pontefice, possono collaborare per la pace, perché "mai il nome di Dio può giustificare la guerra, solo la pace è santa e non la guerra", condannando implicitamente secoli di "guerre sante" fatte pretendendo di avere Dio - anche e soprattutto il Dio dei cristiani - dalla propria parte ("dobbiamo essere capaci fare autocritica", ha detto nel suo intervento finale il patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo). La guerra, più che il terrorismo. Non perché il terrorismo non vada condannato, ma perché la guerra è molto più grave. "Ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo", ma "questo non ha niente a che fare con quello che succede in quei Paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e cadono" e "uccidono bambini, anziani, uomini, donne", ai quasi "non può arrivare l’aiuto umanitario per mangiare, non possono arrivare le medicine, perché le bombe lo impediscono", ha detto Bergoglio durante la messa mattutina a Santa Marta, prima di lasciare il Vaticano per Assisi, dove è arrivato poco dopo le 11. Al convento della basilica di San Francesco ad attenderlo c’erano Bartolomeo, il primate anglicano Justin Welby, il patriarca siro ortodosso di Antiochia Ignatius Aphrem II, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni, il vicepresidente dell’università islamica di Al Azhar Abbas Shuman e gli altri leader religiosi. Pranzo nel refettorio del convento, a cui hanno partecipato anche 12 rifugiati provenienti da zone di guerra. Nel pomeriggio i rappresentanti delle fedi si sono riuniti in preghiera in luoghi separati, anche per allontanare quelle accuse di "sincretismo" e di "relativismo" rivolte dai settori cattolici più conservatori a papa Francesco - e trent’anni fa a Wojtyla - ma anche agli altri leader religiosi, perché gli integralisti non sono un’esclusiva di nessuno. I cristiani (cattolici, ortodossi, luterani e anglicani) si sono ritrovati nella basilica inferiore di San Francesco. "Le vittime delle guerre implorano pace", ha detto il papa, "implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto", ma "incontrano troppe volte il silenzio assordante dell’indifferenza, l’egoismo di chi è infastidito, la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia un canale in televisione". Quindi una lunga preghiera per 27 territori dilaniati dai conflitti: dall’Afghanistan al Congo, dall’Iraq alla Libia, dal Sud Sudan allo Yemen, la Palestina, la Siria. Tutti insieme poi - vescovi, patriarchi, pastori, rabbini, imam e tutti gli altri - in piazza San Francesco per i messaggi conclusivi. "Non ci può essere pace senza giustizia, una rinnovata economia mondiale attenta ai bisogni dei più poveri" e la "salvaguardia dell’ambiente", ha detto Bartolomeo. "La storia ci ha mostrato che la pace conseguita con la forza sarà rovesciata con la forza", ha ammonito Morikawa Tendaizasu, leader del buddhismo Tendai. "L’islam è una religione di pace, oggi ci sono gruppi che usano il nome dell’islam per perpetrare azioni violente, è responsabilità di noi musulmani mostrare il vero volto della nostra fede", ha esortato il presidente del Consiglio degli Ulema indonesiani Din Syamsuddin. La pace "non può scaturire dai deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi", dalle "chiusure che non sono strategie di sicurezza ma ponti sul vuoto", ha detto papa Francesco. Infine l’appello conclusivo, sottoscritto dai leader religiosi e inviato agli ambasciatori di tutto il mondo. "Imploriamo i responsabili delle Nazioni perché siano disinnescati i moventi delle guerre: l’avidità di potere e denaro, la cupidigia di chi commercia armi, gli interessi di parte, le vendette per il passato. Aumenti l’impegno concreto per rimuovere le cause soggiacenti ai conflitti: le situazioni di povertà, ingiustizia e disuguaglianza, lo sfruttamento e il disprezzo della vita umana". La guerra rivelata di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 21 settembre 2016 Era già accaduto nel settembre 2013. Quasi un botta e risposta a distanza tra papa Francesco e Obama. Mentre i cacciabombardieri Usa scaldavano i motori per colpire la Siria di Assad di fronte all’ennesima e immotivata denuncia sull’uso di armi chimiche, Bergoglio chiamò il mondo alla preghiera. Ieri il gesto si è ripetuto, non solo con l’invito alla preghiera per la pace perché "dio non vuole la guerra". Ma soprattutto nella parola di verità che ha capovolto, finalmente. l’asimmetria del conflitto armato nella nostra epoca. Ha cominciato Barack Obama nel suo ultimo saluto all’Assemblea dell’Onu da presidente Usa. A dichiarare che la globalizzazione deve essere corretta, che vanno rifiutati nazionalismi, populismi, razzismi e fondamentalismi, soccorrendo chi fugge, contro i nuovi muri a cominciare da quello messicano di Trump. Ma mettendo, come al solito, in riga il mondo, dalla Russia che si rivale con la forza del suo passato, alla Cina con la sua crescita poco ecologica, al Medio Oriente dove l’oppressione delle minoranze "ha prodotto l’Isis" - l’Occidente e le alleate petromonarchie no?; e dove in Siria è "improponibile una soluzione militare" e - mentre i palestinesi "non devono incitare alla violenza" - Israele deve scegliere la diplomazia perché "non deve sminuire gli altri e occupare in via permanente la terra palestinese". Deve essere per questo che gli Stati uniti hanno deciso solo sei giorni fa che forniranno aiuti militari al governo israeliano di Netanyahu per 38 miliardi di dollari: è il più dispendioso accordo militare mai approvato da Washington. Consapevolezza e troppa falsa coscienza. Perché non è dato capire come sia possibile - anche citando Occupy e l’1% che controlla il 99% della ricchezza mondiale - raggiungere gli obiettivi enunciati e sempre contraddetti dalle nuove guerre avviate o mai realmente concluse. A questa ambiguità di fondo che rende vulnerabile e surreale la governance del mondo, ha risposto ancora una volta papa Francesco. Non con la profezia ma con la rivelazione del concreto: "Noi - ha insistito Bergoglio da Assisi - ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo ma questo è nulla rispetto a quello che succede in quei paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e uccidono bambini, anziani, uomini, donne. La guerra è lontana? No! È vicinissima". Ogni nostro atto di guerra, anche con l’uso di tecnologie sofisticate e armi micidiali, è il vero terrorismo. La nostra volontà di sopraffazione economica ha esportato la guerra e quella ci torna in casa. La parte umana, concreta non profetica, di questo ritorno è quella dei rifugiati. Solo l’accoglienza e l’ascolto chiudono il circolo vizioso della menzogna affluente e della guerra. E invece cambiamo canale tv. Cyberbullismo. Serve anche Agcom per sconfiggere questa piaga di Antonio Preto Il Dubbio, 21 settembre 2016 Il recente caso del suicidio di Tiziana Cantone, causato dalla presenza di un video hard che la riguardava diffuso dalla rete, riporta nuovamente alla ribalta la necessità di un'azione legislativa che contrasti non solo il fenomeno del cyberbullismo in senso stretto, già da tempo all'attenzione del legislatore, ma tutte le manifestazioni che integrino incitamento all'odio razziale, sessuale, etnico e religioso e violino in tal modo la dignità umana. Il disegno di legge che il Parlamento sta esaminando recante "Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo" può rappresentare, se opportunamente ampliato nell'oggetto e nelle modalità di tutela, il giusto veicolo per affrontare e risolvere una questione di primaria importanza per la società, quale è la tutela dei diritti fondamentali della persona in Internet, pur nel dovuto bilanciamento con la libertà di espressione. Occorre infatti estendere la definizione di cyberbullismo, ora prevista nel documento in discussione, a tutte quelle forme di comportamento - realizzate per via telematica e mediante diffusione di contenuti online - che integrano gli estremi di incitamento all'odio razziale, sessuale, etnico e religioso e di violazione della dignità umana. L'obiettivo deve essere, inoltre, quello di rafforzare l'azione di tutela della dignità del minore anche attraverso l'intervento aggiuntivo di Agcom, quale soggetto a cui, al pari del Garante della Privacy, può essere rivolta dal soggetto interessato la richiesta di rimozione dalla rete di contenuti e comunicazioni lesivi che lo riguardano. L'intervento dell'Agcom in tale settore è legittimato in primis dalla legge n. 249 del 1997 che le affida specificamente il compito di garantire la tutela dei minori e della dignità della persona sui mezzi di comunicazione di massa. L'estensione di tale tutela ad Internet le deriva dai poteri conferiti alle autorità amministrative indipendenti dall'articolo 5 del d. Lgs. n. 70 del 2003, in base al quale l'Autorità di settore può imporre la rimozione di contenuti lesivi, veicolati dai servizi della società dell'informazione, quando è in gioco la violazione dei diritti fondamentali della persona. Si dirà, ma c'è già l'azione inibitoria del Giudice e la presenza del Garante della Privacy che garantisce la correttezza dell'uso dei dati personali, perché dobbiamo ricorrere all'apporto di un'altra Autorità di settore? In realtà l'intervento di Agcom può solo rafforzare, non certo indebolire, l'azione di contrasto a fenomeni gravi come quello in questione. La dolorosa vicenda alla ribalta della cronaca dimostra, infatti, che la violazione della dignità di una persona, a causa di un video che per troppo tempo ha "girato" in rete amplificando a dismisura i suoi effetti lesivi, supera i confini del trattamento illecito dei dati personali e del "diritto all'oblio", per arrivare in una lesione ancor più grave che richiede l'azione sinergica di tutte le istituzioni che, per competenza ed esperienza, hanno titolo ad intervenire. Infatti, da un lato l'azione giudiziaria (da sola) non sempre è in grado di far fronte alla rapidità e pervasività con cui i comportamenti nocivi si realizzano, dall'altro la mera tutela del dato personale non consente (da sola) di pervenire ad una soluzione pienamente satisfattiva del bene che si intende tutelare - cioè la tutela della dignità della persona - come i fatti hanno ampiamente dimostrato. La tutela effettiva della dignità umana avrebbe richiesto la rimozione tempestiva e permanente dalla rete del video in questione, Il semplice trattamento "non autorizzato" del proprio dato personale consente infatti una protezione certamente più attenuata. Nel nostro ordinamento la tutela della "dignità della persona" è affidata all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e quella della "privacy" al Garante per la tutela e la protezione dei dati personali. L'azione di cooperazione e coordinamento tra il Garante Privacy e l'Agcom è una costante allorquando in televisione o in radio si verificano episodi lesivi che coinvolgono sia la privacy che la tutela della dignità del minore e l'una azione rafforza l'altra, non il contrario. Perché questo meccanismo non potrebbe essere replicato in Internet, realtà oltretutto ben più complessa e difficile da regolare? E a tal proposito vale la pena di sottolineare che la complessiva azione di garanzia e tutela dell'utenza posta in essere dall'Agcom nel campo delle comunicazioni si avvale di una realtà territoriale unica nel Paese: quella dei Comitati regionali delle comunicazioni (Corecom) che fungono da sportello di prossimità per i cittadini. Alcuni Corecom hanno già sperimentato con successo la messa a disposizione di servizi di "web reputation" agli utenti del proprio territorio, che consentono di segnalare contenuti nocivi e forniscono un servizio di "prima assistenza". Sarebbe dunque quanto mai opportuno che l'oggetto del disegno di legge fosse ampliato alla tutela in rete della dignità delle persone e che, a rafforzamento dell'incisività dell'azione di contrasto a fenomeni di grave violazione come quello di recente accaduto, fosse previsto l'intervento di Agcom quale soggetto deputato, per legge e per expertise, alla tutela del minore e della dignità umana, anche attraverso le più idonee forme di coordinamento con il Garante privacy. Migranti. Nella giungla di Calais è arrivato il cemento per il "Grande muro" di Paolo Levi La Stampa, 21 settembre 2016 Dovrebbe fermare chi fugge per andare nel Regno Unito. Un altro muro nel cuore dell’Europa: nel giorno in cui a New York si sono riuniti i leader mondiali per affrontare la crisi dei rifugiati dall’altra parte dell’Atlantico, nel nord della Francia, sono cominciati i lavori per la costruzione del "Great Wall", il grande muro di Calais il cui obiettivo è impedire ai migranti di passare in Gran Bretagna. Un cantiere, quello avviato ieri, ad alta portata simbolica, tra due delle principali nazioni di quello stesso Occidente che tanto aveva criticato...continua Un altro muro nel cuore dell’Europa: nel giorno in cui a New York si sono riuniti i leader mondiali per affrontare la crisi dei rifugiati dall’altra parte dell’Atlantico, nel nord della Francia, sono cominciati i lavori per la costruzione del "Great Wall", il grande muro di Calais il cui obiettivo è impedire ai migranti di passare in Gran Bretagna. Un cantiere, quello avviato ieri, ad alta portata simbolica, tra due delle principali nazioni di quello stesso Occidente che tanto aveva criticato iniziative analoghe partorite ai confini sud-orientali del continente, a cominciare dall’Ungheria. Alto quattro metri per un chilometro di lunghezza, il muro in cemento armato dotato di telecamere di sorveglianza e di un sistema "anti-intrusione di tipo Nato" sorgerà lungo l’autostrada che costeggia la cosiddetta "Jungle", il campo profughi più grande dell’Ue che il governo di Parigi si è impegnato a smantellare entro fine anno. Dopo i lavori preparatori, a fine agosto, una prima betoniera ha lavorato ieri su una trincea di 50 metri su cui verranno sistemati i blocchi amovibili di cemento armato. Secondo alcuni tecnici di Dir-Nord, l’organismo incaricato del cantiere, il muro verrà coperto da una "superficie vegetale" dal lato dell’autostrada ma rimarrà spoglio dall’altra parte per "evitare che i migranti riescano ad arrampicarsi". Obiettivo del muro è impedire ai disperati di introdursi nei camion diretti in Inghilterra. Interamente finanziata a Londra, la struttura - che dovrebbe essere pronta entro "fine anno" - completerà il recinto di protezione già eretto nella zona per bloccare l’accesso al porto. Il progetto da 3,2 milioni di euro fa parte di un pacchetto di misure britanniche per meglio controllare la frontiera "condivisa" con Parigi. Secondo le ultime stime sono oltre 10 mila i migranti della Giungla, accampati in condizioni disperate a poche centinaia di metri dalla più importante arteria che conduce al porto e agli imbarchi per Dover. A decine ogni giorno tentano di salire sui Tir diretti in Gran Bretagna, spesso incolonnati in attesa di raggiungere i ferry. La costruzione del "Grande Muro" suscita le critiche non solo delle Ong, ma anche degli autotrasportatori britannici contrari a questo "spreco di denaro pubblico" e chiedono che i fondi vengano usati per migliorare i controlli direttamente sulle strade. Nei giorni scorsi, Parigi ha presentato un piano per suddividere i migranti di Calais su tutto il territorio nazionale. A otto mesi dalle elezioni presidenziali del 2017, il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, ha inviato una lettera ai prefetti per indurli a trovare entro fine anno 12.000 posti per accogliere i profughi evacuati dalla "Jungle". Il muro franco-britannico si aggiungerà ad una mappa dell’Europa ormai costellata dal filo spinato. Dopo aver annunciato il rafforzamento dei controlli al Brennero, a Tarvisio e in diversi punti al confine con la Slovenia, l’Austria prepara nuove barriere e controlli ai valichi con l’Ungheria. A un anno dalla costruzione del primo "muro difensivo" al confine con la Serbia (175 km di filo spinato, alto 4 metri), lo stesso premier ungherese Viktor Orban ha annunciato una nuova barriera fortificata anti-migranti lungo la frontiera meridionale. Droghe. Epatite C, diritto alle cure per chi usa sostanze di Andrea Fallarini e Maria Teresa Ninni* Il Manifesto, 21 settembre 2016 Secondo stime Onu, nel mondo le persone che usano droghe per via iniettiva ammontano a 12 milioni; di queste, ben il 52% è Hcv positivo a fronte del 13% di persone affette da Hiv/Aids. "La scienza è chiara. Abbiamo ora bisogno di concentrarci sul superamento delle barriere all’accesso alle cure, e sfruttare le più recenti ricerche per attuare programmi che funzionino. Un ulteriore ritardo non è etico e mina la salute pubblica", questo il messaggio dell’incontro. Così il professor Jason Grebely, del Kirby Institute, Australia, intervenendo al quinto simposio Inhsu (International Network on Hepatitis in Substance Users), organizzazione internazionale che si prefigge lo scambio, la divulgazione di conoscenze scientifiche e la promozione dell’advocacy in merito alla prevenzione e alla cura dell’epatite C (Hcv) per le persone che usano droghe, tenutosi dal 6 al 9 settembre ad Oslo (inhsu2016.com ). Quattro giorni intensi dove accanto alle ultime ricerche scientifiche non si è mai dimenticata la valenza politica della materia. Un dato su tutti: secondo stime Onu, nel mondo le persone che usano droghe per via iniettiva ammontano a 12 milioni (World Drug Report 2015); di queste, ben il 52% è Hcv positivo a fronte del 13% di persone affette da Hiv/Aids; 700.000 sono i morti ogni anno. L’incontro di Oslo ha consentito uno sguardo sul fenomeno a livello mondiale: erano presenti rappresentanti delle Pwud (People who use drugs) di tutti i continenti, che hanno attuato un confronto esaustivo sui modelli organizzativi, i problemi relativi all’accesso al farmaco, le norme che lo regolano e i progetti portati avanti per la riduzione delle infezioni. Erano presenti le Unions del Nord Europa, supportate dai propri governi, così come organizzazioni di pari del Sud Europa, ma anche del Sud-est asiatico, come l’Indonesia, dove ancora esiste la pena di morte per chi fa uso di droghe: differenze che ben fanno capire il lavoro che ancora rimane da fare a livello mondiale per i diritti fondamentali. Purtroppo in molti paesi i protocolli medici alzano barriere all’accesso al trattamento di chi usa sostanze e il convegno ha voluto sfatare il luogo comune che vede le Pwud come pessimi pazienti; anche considerando le nuove cure basate sugli antivirali ad accesso diretto, si è dimostrato che il consumo è fattore trascurabile dal punto di vista scientifico. Purtroppo, non dal punto di vista del giudizio morale. Un limite, a nostro avviso, la scarsa attenzione alle problematiche relative ai trapianti di fegato: se esistono difficoltà nell’accesso alle terapie, per le Pwud il trapianto è addirittura impossibile. L’intervento dell’americano Ethan Nadelmann ha centrato con acutezza e ironia un tema tutt’altro che comico: il rapporto tra la war on drugs e le pandemie droga-correlate. Il messaggio è chiaro: a fronte di interessi economici e politici si alimenta lo stigma e la discriminazione e di conseguenza la diffusione di malattie; basterebbe far ricorso al buon senso e applicare serie politiche di riduzione del danno. Se le norme non cambieranno, se non ci sarà un’unità d’intenti nell’affrontare la diffusione delle malattie, la dimensione globale potrebbe giocare addirittura a sfavore nel caso in cui l’adozione di programmi di contrasto alla malattia riguardassero soltanto alcuni territori: tutti i paesi, compresi quelli a medio e basso reddito, devono essere inclusi in un serio programma di accesso alle cure garantito. Per noi attivisti italiani Oslo è stata l’occasione di un nuovo incontro dei membri della rete delle pwud Europud, network nato da poco, ma ricco di potenzialità, che si prefigge di essere sempre più presente in tutta Europa nei luoghi dove si decidono le politiche sulla salute e la vita di chi usa sostanze. *Isola di Arran - Indifference Busters, Torino Libia. Italiani rapiti, la pista dei predoni e il giallo della scorta revocata di Cristiana Mangani Il Messaggero, 21 settembre 2016 Probabilmente doveva essere un sequestro lampo. Simile a molti altri avvenuti nella zona. E così ora per Bruno Cacace e Danilo Calonego, i due tecnici della società di costruzioni Con.I.Cos rapiti con un collega canadese, da uomini armati a Ghat, nel sud-ovest della Libia, aumentano le preoccupazioni. Il blitz è avvenuto due giorni fa, ma la conferma da parte della Farnesina si è avuta in serata. Forse perché si sperava di chiudere la questione in tempi più rapidi, visto che gli italiani vantano in quella zona una grande collaborazione da parte delle autorità locali. A cominciare dal sindaco Komani Mohamed Saleh che ha già predisposto dei controlli sul territorio molto serrati, e mantiene continui rapporti con l'Italia. Il rischio è che, con il passare delle ore, una eventuale trattativa possa complicarsi. Va scongiurata la possibilità che gli ostaggi vengano ceduti ad altri gruppi, di matrice jihadista, che potrebbero utilizzarli per rivendicazioni politiche contro la presenza dei nostri corpi speciali in Libia. La soffiata - Del resto, nella zona di Ghat, pur non essendoci una situazione simile a quella di Sabratha dove vennero rapiti i quattro tecnici della società Bonatti, la guerra tra bande e la fuga dai combattimenti di Sirte di affiliati del Califfo nero, rendono necessario un intervento rapido e concordato anche con l'Intelligence locale. Il sospetto degli 007 è che qualcuno possa avere venduto i nostri connazionali, proprio approfittando del fatto che non avevano la scorta. Forse una talpa interna alla società dove lavorano. Lo stesso pensiero avevano avuto i magistrati italiani dopo i sequestri dei dipendenti della Bonatti. Anche in quel caso il gruppo viaggiava senza scorta. Nel caso degli esperti della Con.I.Cos., poi, il sospetto si fa ancora più forte se si pensa che, stando ai racconti di alcuni colleghi, fino a due giorni fa, Calonego e Cacace si muovevano protetti. Chi poteva sapere che ora erano accompagnati soltanto dall'autista? Per conoscere i particolari sull'aggressione, il pm romano Sergio Colaiocco vorrebbe chiedere alla Libia di poter sentire la loro guida che è stata trovata nella zona senza macchina e con i polsi legati. I due rapiti italiani sono dei veterani di quei luoghi, il primo praticamente risiede lì da 15 anni, vive con una donna marocchina ed è diventato musulmano. Un particolare che lo ha salvato da un precedente tentativo di rapimento già nel 2014. Anche se la loro presenza non era stata comunicata alla Farnesina. Tanto che ieri il capo dell'Unità di crisi, Claudio Taffuri, ha chiarito: "Quando una società italiana opera in Libia la esortiamo a dotarsi di un sistema di sicurezza. Per noi è un paese a rischio, ma capisco le imprese che hanno interesse sul posto e dunque sono invitate a dotarsi di sistemi di sicurezza". Anche quando Pollicardo e Calcagno, i due rapiti della Bonatti, avevano fatto rientro in Italia, si erano scatenate le polemiche. Ed era stato proprio il presidente del Con.I.Cos. Giorgio Vinai a replicare al premier che chiedeva alle aziende italiane di fare rientrare i lavoratori. "Tornerò presto, per tutelare i miei interessi - aveva detto - L'Italia lascia sole le piccole e medie imprese rivolgendo tutti gli sforzi a tutela degli interessi dei colossi". L'audizione - Intanto il Copasir ha convocato per il 4 ottobre il direttore dell'Aise Alberto Manenti, visto che, dopo il caso Bonatti, molti degli uomini che seguono da vicino il Paese africano sono stati sostituiti. E un team del servizio segreto estero, guidato da un vicedirettore, è partito per Ghat. Le operazioni sono seguite dal premier Matteo Renzi e dal sottosegretario con delega al terrorismo, Marco Minniti. "Su queste cose lavoro, silenzio e prudenza", ha dichiarato Renzi. Sono molte le preoccupazioni di queste ore. Le autorità locali fanno sapere che i rapitori sono personaggi già noti perché hanno commesso rapine e imboscate contro auto. L'area è dominata dall'etnia tuareg. Nella zona del sud-ovest della Libia al confine con l'Algeria, così come in tutta l'area del Paese confinante a sud con Niger e Ciad, è molto forte la presenza di predoni e di gruppi armati. Uno di questi, al-Murabitun, è guidato dal famoso criminale Mokhtar Belmokhtar e ha legami con Al Qaeda. Ma qui, negli ultimi mesi, hanno anche riparato molti miliziani legati a Isis, in fuga da Sirte e da altre zone del nord della Libia. Siria. L’Onu costretta a sospendere gli aiuti umanitari di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2016 Dopo il bombardamento di un convoglio e l’uccisione di volontari. Entrato in vigore otto giorni fa, l’accordo di cessate il fuoco per fermare le ostilità in Siria, e consentire il transito dei convogli umanitari, sembra irrimediabilmente destinato a cadere. Se non è già caduto. I pesanti bombardamenti aerei avvenuti lunedì sui quartieri di Aleppo e contro un convoglio umanitario dell’Onu (continuati ieri) non lasciano molte speranze. Gli Usa, dopo un’inchiesta, hanno concluso che ad aver bombardato il convoglio è stata la Russia. "Tutti i convogli sono fermi in attesa di una valutazione della situazione di sicurezza in Siria" ha dichiarato da Ginevra Jens Laerke, portavoce dell’Ufficio per il coordinamento dell’assistenza umanitaria (Ocha). Una notizia drammatica per i 13 milioni e mezzo di siriani, tra cui sei milioni di bambini, che secondo l’Onu necessitano di soccorsi. Le cose si erano messe male lunedì, quando Damasco ha annunciato la "fine del regime di calma". Subito dopo Mosca, alleata del regime siriano, ha difeso la sua scelta accusando i ribelli di numerose violazioni. Poco dopo, nel pomeriggio di lunedì, i caccia dell’esercito siriano hanno ricominciato a bombardare i quartieri orientali di Aleppo, ancora sotto il controllo dei ribelli. Diverse fazioni dell’opposizione armata avevano peraltro già avvertito: "La tregua è clinicamente morta". E da ieri sono ripresi i combattimenti ad Aleppo, a Homs, e nella periferia di Damasco. La drammatica vicenda del convoglio colpito - ancora da chiarire - è avvenuta nei dintorni di Urum al-Kubra, nella regione di Aleppo. Diciotto dei 31 mezzi che formavano il convoglio sono stati distrutti. Il bilancio diffuso dall’Osservatorio siriano sui diritti umani parla di 40 vittime tra civili e operatori umanitari. L’Onu non ha specificato chi sia stato a colpire il convoglio, precisando di non essere ancora in grado di stabilire se sia avvenuto dal cielo. Molti testimoni oculari hanno tuttavia dichiarato di aver visto elicotteri e aerei bombardare il convoglio. Immediata la replica di Damasco e Mosca che hanno negato ogni responsabilità. "Abbiamo studiato con accuratezza - ha detto il portavoce del ministero russo della Difesa, Igor Konashenkov - il video registrato dai cosiddetti attivisti sulla scena e non abbiamo trovato segni di attacchi al convoglio con munizioni. Tutto quello che si vede nel video è la conseguenza diretta del fatto che il cargo ha preso fuoco e questo è cominciato in un modo strano, simultaneamente all’inizio di una massiccia offensiva dei militanti ad Aleppo". Una versione che non ha convinto molti Paesi, e ancora meno gli Stati Uniti. "Non è stata certo la coalizione internazionale che ha bombardato dal cielo; ma sembra proprio un raid aereo. Le sole altre entità che effettuano voli in Siria sono la Russia e Damasco", ha precisato il colonnello John Tomas, portavoce del Comando centrale militare americano. Citando testimoni locali, Amnesty International ha parlato di raid compiuti da "elicotteri e jet di fabbricazione russa". E ciò, ha aggiunto, "accresce i sospetti che le forze del governo siriano abbiano deliberatamente attaccato l’operazione di soccorso". L’impressione è che i Paesi occidentali e la comunità internazionale abbiano rotto gli indugi e preso una posizione molto dura contro il presidente siriano Bashar al-Assad. Aprendo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha parlato di attacco "selvaggio e apparentemente deliberato". E sebbene non abbia incolpato esplicitamente Damasco, il suo somiglia a un attacco frontale: "Tanti gruppi hanno ucciso molti civili in Siria, ma nessuno ne ha uccisi di più del governo siriano, che continua a bombardare quartieri e a torturare migliaia di detenuti". "Migliaia di bambini sono morti nei bombardamenti, intere popolazioni soffrono la fame, i convogli umanitari sono attaccati, armi chimiche sono utilizzate", ha protestato il presidente francese François Hollande, Rivolgendosi a Russia e Iran, alleati di Damasco, Hollande ha invitato i due Paesi a persuadere il presidente Assad a imboccare la strada della pace. "Se non sarà così anche loro, al fianco del regime, avranno la responsabilità della divisione e del caos che regnano in Siria". Già lunedì Damasco aveva denunciato 300 violazioni della tregua per mano dell’opposizione. Che a sua volta ha accusato il regime di 254 violazioni. Il segretario di Stato americano John Kerry non dispera. "La tregua non è morta", ha detto ieri dopo un incontro con Serghej Lavrov, con cui ha lavorato per mesi sull’accordo, e dopo aver visto i ministri degli Esteri di 20 Paesi, tra cui Arabia Saudita e Iran. Sin dall’inizio, la tregua voluta da Kerry e Lavrov era apparsa fragile. Troppi erano i punti irrisolti, troppe le fazioni coinvolte, troppi gli interessi divergenti dei confinanti. Siria. Diluvio di bombe, accuse e nuovi fronti di Giordano Stabile La Stampa, 21 settembre 2016 Kerry: la tregua c’è ancora. Ma il raid sul convoglio umanitario ad Aleppo riapre le ostilità. La furia di Ban Ki-moon contro Assad: "È il principale responsabile di 300 mila morti". Le carcasse annerite dei camion degli aiuti umanitari, i venti operatori inceneriti dal diluvio di bombe e fuoco alle porte di Aleppo assediata, sono una porta in faccia a ogni tentativo di soluzione politica in Siria. Se non fosse per le vite umane spazzate via, compresa quella del direttore della Mezzaluna rossa siriana, Omar Barakat, sembrerebbe un colpo di teatro. Un gesto eccessivo per imporre la propria posizione. In Siria la guerra è totale, non ci sarà pietà per nessuno. Uno schiaffo soprattutto all’Onu. Il segretario generale Ban Ki-moon lo ha sentito in pieno. E ha reagito. Denuncia dal Palazzo di Vetro l’attacco "disgustoso, barbaro e deliberato". Accusa Assad di essere il "principale responsabile" dei 300 mila morti della guerra civile. Ma è di fronte a questa realtà che la tregua concordata fra Russia e Usa, fra John Kerry e Serghei Lavrov, è finita nel peggiore dei modi. In una settimana è successo di tutto. Si sono aperti nuovi fronti, inseriti altri attori a complicare la trama. Errori clamorosi, per negligenza o dolo, hanno spalancato il via alle dietrologie più nefaste. Damasco e Mosca negano di aver compiuto i raid che, nella notte fra lunedì e ieri, hanno distrutto i 38 camion di aiuti diretti ad Aleppo. Accusano i ribelli di aver incendiato i mezzi apposta, "per dare la colpa a loro". Ma immagini di fori causati dalle deflagrazioni fanno propendere per un bombardamento aereo, e lì volano solo jet governativi e russi. Washington accusa la Russia. Almeno sono queste le conclusioni preliminari cui è giunta un’inchiesta. La tregua voluta da Kerry, Lavrov e l’inviato dell’Onu De Mistura dava fastidio a molti. In particolare al fronte islamista, che sente vicina la creazione di un Emirato retto dalla sharia nel Nord. E al regime di Bashar al-Assad, in possesso per la prima volta in 5 anni dell’iniziativa sul campo. Sono progetti opposti ma in questo momento complementari. Assad ha continuato anche durante la tregua nella sua strategia delle evacuazioni forzate. Dopo i sobborghi damasceni di Dayyara e Moadamiya, lunedì è cominciata quella del quartiere Waer di Homs, un tempo multiculturale e dinamico, diventato il feudo degli islamisti di Jaysh al-Islam. I combattenti sunniti con le famiglie sono stati trasferiti a Idlib. La provincia del Nord-Ovest diventa sempre più jihadista, dominata da Jabat al-Fatah al-Sham, l’ultima sigla di facciata che nasconde il volto di Al-Qaeda in Siria. La "Siria utile", la spina dorsale che va da Damasco ad Aleppo, è invece più alawita e cristiana, con associati i sunniti lealisti. Cambiano le percentuali fra le confessioni. Osservatori libanesi notano che si va verso "un terzo, un terzo e un terzo" fra sciiti, cristiani e sunniti. Assad, anche se dice di "voler riconquistare ogni centimetro quadrato di territorio", diventerebbe il garante di questa Siria occidentale simile al Libano. Mancano ancora però parte di Hama e i quartieri Est di Aleppo. È qui che i ribelli hanno compiuto la maggior parte delle "trecento violazioni" denunciate da Damasco e Mosca. E che sono continuati imperterriti i raid. La strategia di Assad ha quasi cancellato i ribelli moderati. Un dato di fatto che sembrava accettato da Kerry, attaccato a una tregua che "non è ancora morta", che cerca di resuscitare con Lavrov, mentre gli alleati, a partire dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni, incitano a "non arrendersi alla guerra". Ma forse non convinceva il Pentagono. I raid americani che domenica hanno ucciso 90 soldati governativi a Deir ez-Zour sono frutto di un errore al limite dell’incredibile. Le mazzate di Aleppo e Deir ez-Zour hanno seppellito la fiducia reciproca fra russi e americani e la war-room in comune che doveva coordinare i raid contro l’Isis. È stato probabilmente Assad a trascinare i russi. Ma anche all’America mancano alleati affidabili. Il New Syrian Army, che deve conquistare il Sud, conta 300 combattenti. L’alleanza curdo-araba al Nord è stata messa fuori gioco dall’intervento della Turchia. I ribelli filo-turchi hanno accolto con insulti e minacce le forze speciali Usa al confine fra Turchia e Siria. Ad Aleppo, Hama, Damasco sono le forze islamiste a guidare la lotta. A Quneitra, fronte a ridosso del Golan l’iniziativa è in mano a Jabat al-Fatah al-Sham. Anche i missili anti-aerei S-200 lanciati dai siriani contro i jet israeliani che compivano una rappresaglia dopo i colpi di artiglieria arrivati sul Golan, segnano un cambio di passo. Assad si sente più forte e reclama i suoi diritti. Più che mai vuole Aleppo dove, secondo le testimonianze dei ribelli, le bombe-barile "cadono come pioggia", peggio di prima. I cento morti nella settimana di tregua "sulla carta" sono comunque meno della media. Trecentomila vittime in cinque anni fanno mille a settimana. Stati Uniti. Detenuti costretti a lavorare gratis per Starbucks e Victoriàs Secret di Mirko Bellis fanpage.it, 21 settembre 2016 In 40 penitenziari americani i reclusi hanno iniziato uno sciopero coordinato. Denunciano le condizioni di "semi-schiavitù" in cui sono costretti a lavorare per pochi centesimi l’ora o addirittura gratis. Wal-Mart, Victoriàs Secret, Starbucks, AT&T, sono solo alcune delle multinazionali che realizzano profitti incalcolabili grazie al lavoro dei carcerati. Da una settimana i detenuti nordamericani hanno iniziato uno sciopero coordinato contro ciò che descrivono come una "moderna forma di schiavitù". Negli Usa i reclusi sono costretti a lavorare per pochi centesimi all'ora o addirittura gratis. Nelle prigioni federali la "paga" oscilla tra i 12 e i 40 centesimi all'ora. In Texas, Arkansas e Georgia, non vengono nemmeno pagati. La data che i detenuti hanno scelto per iniziare lo sciopero non è causale. Il 9 settembre di quarantacinque anni fa ci fu la rivolta di Attica nello Stato di New York; la più grande sollevazione carceraria degli Stati Uniti che portò poi alla chiusura di quel penitenziario. La protesta - organizzata dal Comitato dei lavoratori detenuti (Iwoc) - si è diffusa in quaranta carceri di ventiquattro Stati. In un comunicato, il gruppo afferma: "Quarantacinque anni dopo Attica, l’ondata di cambiamento torna nelle prigioni statunitensi. Speriamo - prosegue il documento - di mettere fine alla schiavitù carceraria rendendola impossibile, rifiutando di continuare a essere schiavi". Sono 900.000 i reclusi considerati idonei al lavoro, su un popolazione carceraria di quasi due milioni e mezzo (la più alta al mondo). E i detenuti non vengono occupati solo per dipingere o riparare le infrastrutture, pulire le latrine o servire i pasti agli altri carcerati ma del loro lavoro si avvantaggiano le grandi multinazionali che hanno fatto accordi con le prigioni, sia pubbliche che private. Ed è così che mentre scontano la loro pena, i detenuti puliscono i prodotti di Wal-Mart, impacchettano il caffè di Starbucks, cuciono i vestiti di Victoriàs Secret e gestiscono i call center di AT&T. "Il sistema è arricchito grazie alla manodopera gratuita dei prigionieri", denuncia il Free Alabama Movement, un gruppo per i diritti umani delle persone in carcere. E ai detenuti non è permesso aderire a un sindacato, dato che le leggi sul lavoro non li classifica come dipendenti. Il giro d’affari legato al lavoro dei carcerati è enorme. Signature Packaging Solutions - una ditta che lavora per il gruppo Starbucks - utilizza i detenuti di Washington per confezionare caffè e i Game Boy di Nintendo. In Texas, invece, i reclusi producono scope e spazzole, biancheria da letto e materassi, water, lavandini e docce. E ancora: Federal Prison Industries, un’azienda governativa, ha ammesso che oltre alle uniformi e alle scarpe dei soldati, i detenuti si sono occupati anche della componentistica dei missili Patriot. Nonostante l'uso dei telefoni cellulari in carcere sia vietato, il coordinamento dello sciopero è stato reso possibile grazie alle nuove tecnologie. E da fuori, parenti e amici sostengono le rivendicazioni dei detenuti utilizzando Facebook e Youtube. Non si conosce il grado di adesione allo sciopero in quanto le autorità carcerarie non hanno diffuso nessun dato. È emerso però che la protesta ha costretto i funzionari del penitenziario di Holman in Alabama a farsi carico dei lavori svolti normalmente dai reclusi. Come ha ricordato il Comitato organizzativo: "Non possono far funzionare queste strutture senza di noi". Negli ultimi mesi nelle carceri degli Stati Uniti ci sono state diverse proteste. L’ultima in ordine di tempo il 7 settembre in Florida, all’Holmes Correctional, dove quattrocento reclusi si sono ribellati contro il trattamento inumano a cui erano sottoposti. Anche alcune sigle sindacali che rappresentano le guardie carcerarie sono preoccupate per la situazione e riconoscono che il malcontento che regna nelle carceri rende il loro lavoro più pericoloso. Svezia. Ecco perché nelle carceri si insegna lo yoga di Ivano Abbadessa west-info.eu, 21 settembre 2016 È anche grazie allo yoga se i detenuti nelle carceri svedesi sono meno aggressivi che in passato. Le lezioni dell’antica arte indiana introdotte nel 2008 in via sperimentale in una trentina di penitenziari, hanno infatti portato i risultati sperati. Tra i 6 mila che hanno partecipato a questo progetto, si è registrato, dopo appena tre mesi di lezioni settimanali, come certifica un recente studio, una sensibile riduzione della propensione a commettere atti violenti e anti-sociali. Tutto merito dell’effetto calmante e rilassante dei ripetuti "saluti al sole" che, insieme ad altri asana, hanno imparato e studiato nelle palestre delle carceri. Con tanto di possibilità di rivedere e ripassare, attraverso un canale Youtube specializzato, le vecchie lezioni.