Agorà Penitenziaria. Una nuova visione della salute in carcere di Maria Vittoria Arpaia L’Opinione, 20 settembre 2016 Si è conclusa nei giorni scorsi a Roma la XVII Agorà Penitenziaria 2016, Congresso nazionale degli operatori sanitari penitenziari organizzata dalla Simspe Onlus (Società italiana di medicina e sanità penitenziaria). Il congresso ha aperto i battenti il 14 settembre presso la prestigiosa sede dell’Istituto Superiore di Sanità in Roma. Interessanti corsi precongressuali hanno esaminato differenti temi riguardanti l’assistenza al detenuto e la comunicazione tra le varie discipline che si interfacciano con la realtà del carcere. "Amministratore di sostegno e carcere: tra clinica e stato di necessità" è stato il titolo di uno di questi corsi. L’avvocato Federico Marchegiani ci introduce la figura dell’amministratore di sostegno, pensata per la prima volta dal professor Paolo Cendon nella cosiddetta bozza Cendon del 1986 e che si vede concretizzata solamente con la legge n. 6 del 9 gennaio 2004 e col successivo articolo 404 del Codice civile che così si esprime: "La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio". L’amministratore di sostegno mette al centro la persona con i suoi bisogni e le sue fragilità. La sua funzione è quella di affiancare il soggetto la cui capacità d’agire risulti limitata o del tutto compromessa. Si tratta quindi non di una semplice legge, ma di una vera e propria rivoluzione istituzionale che vuole superare l’interdizione (art. 414 C.C) e l’inabilitazione (art. 415 C.C.). Trasferendo la figura di amministratore di sostegno in ambito penitenziario, si può parlare di strumento di "coazione benigna", ci spiega la dottoressa Gemma Brandi. La "coazione benigna" si distingue per delle caratteristiche specifiche: la progettualità, l’individualizzazione, la necessità, l’interdisciplinarietà e ultima, ma non per importanza, l’umanità. Può apparire strano ma nel carcere non esiste ancora la figura dell’assistente sociale e c’è una totale disfunzione della comunicazione tra dentro e fuori dal carcere, essendoci come ufficio addetto solo l’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna). Da quanto detto scaturisce la necessità di una maggiore coordinazione e interdisciplinarietà, che rappresentano l’arma vincente di una buona amministrazione. Il giorno successivo, il congresso si è aperto in sessione plenaria con l’introduzione ai lavori da parte del presidente della Simspe: dottor Luciano Lucania. La lectio magistralis del professor Mauro Palma, Garante nazionale per i Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, dal titolo "La nuova sanità in carcere alla luce degli Stati generali sull’esecuzione penale" ha dato il via a questa XVII Agorà Penitenziaria 2016. Il Garante è un organo collegiale chiamato ad affrontare varie aree della privazione della libertà, ma in questo caso specifico si parla delle persone detenute. Il soggetto in quanto persona non cessa di essere titolare di diritti, anche se si trova in stato di privazione della libertà; ma l’essere titolare di un diritto comporta anche la possibilità di esercitarlo. L’articolo 4 dell’Ordinamento penitenziario sancisce che "i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale". Tuttavia mentre l’uomo libero può contare su reti di connessione sociale e di supporto nell’esercizio effettivo dei propri diritti ciò non è possibile al detenuto data la sua condizione oggettiva e di per sé che una persona ristretta nell’esercitare personalmente i propri diritti ha bisogno di una struttura che gli dia tale possibilità. Al termine, il professor Palma riferisce come la più ampia declinazione del diritto alla salute sia incentrata sul miglioramento del rapporto con sé, sulla costruzione dei tessuti informativi e preventivi, sulla definizione di contesti ambientali volti al benessere della persona. Parla di diritto ad un ambiente salubre perché salute e vita in un ambiente insalubre sono considerati incompatibili e ancor più in quanto la vita in carcere si svolge prevalentemente in un ambiente interno. Si può quindi parlare, continua Palma, di diritto a vivere in un ambiente degno per una persona umana o più semplicemente del diritto a vivere una vita degna dell’uomo. I nuovi edifici penitenziari dovranno quindi differenziare le prescrizioni rivolte a salvaguardare la salute del detenuto. Di questi e altri problemi, conclude il Garante, si è discusso ampiamente negli Stati generali sull’esecuzione penale, che hanno constatato l’importanza di ricostruire omogeneità e questo può avvenire anche grazie all’aiuto delle tecnologie. Altro punto di riflessione che è venuto fuori dal tavolo è la tutela del diritto alla riservatezza e la sua mediazione con le esigenze di accesso da parte dell’Amministrazione penitenziaria, in questo caso il dialogo tra diritti soggettivi e il diritto complessivo della tutela della salute dell’altro devono trovare un punto di equilibrio. Infine, i relatori hanno avanzato alcune proposte di tipo normativo sulla tutela di soggetti portatori di problemi psichici. Ai fini della tutela della salute in carcere, è stata sottolineata l’imprescindibilità che gli spazi della pena siano decorosi e conformi a quei requisiti che anche le norme sovranazionali ci chiedono, oltre che quelle dei diritti fondamentali sanciti dal nostro impianto costituzionale. Dopo l’intervento del professor Palma, che è possibile ascoltare su Radio radicale, si sono succeduti altri interessanti interventi. Tra questi quello della dottoressa Isabella Mastropasqua che ci ha parlato di "minori e tutela della salute". I minori sono titolari di diritti e destinatari di tutela (ad esempio: diritto a crescere e diritto a una buona salute). L’incontro di un adolescente col sistema penale è un incontro molto complesso. Purtroppo non esiste ancora un Ordinamento penitenziario dedicato ai minori. Era presente anche Federico Caputo, ex detenuto che ha raccontato la sua testimonianza di un vissuto in carcere nel libro dal titolo "Sensi ristretti". Quattordici anni della sua vita in varie carceri italiane e in condizioni di salute precaria. "In carcere sei chiuso in una cella dove sei costretto a passare più di venti ore e l’unico modo per capire cosa sta succedendo intorno a te è quello di interrogarsi attraverso i sensi (rumori, vista, ecc.)". Tra le varie sessioni spicca quella internazionale: "Salute in carcere: Health Without Barriers". La Federazione europea per la salute in carcere (Health Without Barriers), fondata alla fine del 2013 oramai conta differenti Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Olanda, Regno Unito). La sua missione è quella di migliorare i sistemi sanitari penitenziari per creare un ambiente più sano non solo per il beneficio dei detenuti o delle persone che lavorano in carcere ma anche per la popolazione in generale. Essa si compone di diverse associazioni nazionali fatte soprattutto di esperti che lavorano a stretto contatto con il detenuto. Con il loro lavoro vogliono trasmettere alla gente che è fuori che il detenuto di oggi sarà il cittadino libero di domani e che investire sul recupero di queste persone significa investire sulla società. Sono intervenuti, inoltre, il dottor F. Meroueh (vice presidente dell’Associazione nazionale per la salute in carcere - Francia), il dottor J.M. Antolin (segretario della Sesp - società spagnola di sanità penitenziaria) e il dottor R. Morgado (responsabile del management dei servizi ai detenuti in Portogallo) che hanno riferito ognuno del caso specifico delle loro carceri. J.M. Antolin ci parla del "Progetto Rehab in Spagna: risultati e prospettive". Tale progetto ha riunito persone di differenti professionalità e ha dato loro l’opportunità di lavorare insieme su un progetto che riguardasse non solo la salute del detenuto, ma anche il benessere in generale delle persone che lavorano in carcere. Le persone che saranno formate da questo progetto saranno a loro volta responsabili della formazione di altre persone. Venerdì 16 settembre si è svolta l’ultima giornata del congresso. Il presidente del congresso, dottor Alfredo De Risio, Responsabile Uos di Psicologia Penitenziaria - Dipartimento di Salute Mentale - Asl Rm/6, ha aperto la sessione intitolata: "Disagio mentale ed esecuzione penale". Il professor Vincenzo Caretti è stato invitato a parlare della valutazione della pericolosità sociale che è un problema sconfinato, non solo psichiatrico, ma della storia della psichiatria. Caretti cerca di delineare in poco tempo la differenza tra soggetto antisociale e soggetto psicopatico. La diagnosi, ha detto Caretti, è fondamentale. Non è mancata una sessione in rosa dal titolo: "La salute delle donne detenute. Nasce Rose: Rete donne Simspe". La condizione della donna in carcere va analizzata con grande attenzione. Le donne presentano rispetto agli uomini diversi bisogni di salute che devono essere trattati da medici di diverse specializzazioni. Rose vuole proprio porre un focus sulla salute delle donne detenute, mettendo in rete dei dati e agendo insieme al personale di tutta la struttura. De Risio, in qualità di presidente del congresso, ha avuto il compito di tirare le conclusioni di questa Agorà, che è partita con una serie di provocazioni che poi verranno in parte sviscerate durante le diverse sessioni. La sollecitazione pervenuta da questa Agorà 2016, ha detto De Risio, è quella di "non fermarsi alle ‘celle realì nelle quali avviene l’incontro tra il detenuto, bisognoso di cura e d’aiuto, e il professionista operatore sanitario ma di soffermarsi anche sulla cella più grande, quella ‘culturalè, fatta di pregiudizi e ipocrisia che considera il mondo penitenziario, che è anch’esso società, meramente come pianeta-carcere". Agorà Penitenziaria. Salute dei minori, tossicodipendenze e malattie infettive di Isabel Zolli okmedicina.it, 20 settembre 2016 La salute dei minori nelle carceri - La popolazione minorile che accede nelle carceri è l’estrema espressione sociale di quella fascia di popolazione, multietnica, adolescenziale che presenta un disadattamento di crescita psicosociale, con frequenti ripercussioni sul proprio stato di salute. "Il termine fine pena, quando riferito al tempo di fine condanna, è spesso un salto nel vuoto dell’individuo - spiega la Dr.ssa Maria Merlino, Distretto 14 Asl Roma 1 - in quanto l’iter educativo/rieducativo previsto dal legislatore, deve orientarsi su scarse risorse psico-sociali esistenti, insufficienti a rispondere ad una progettualità individuale complessa di recupero come quella che viene ad essere rappresentata dalla popolazione che accede all’iter carcerario. La recente normativa legislativa che ha riqualificato il carcere Minorile in Minorile e Giovani adulti, estendendo l’accoglienza alla fascia di popolazione fino a 25 anni, sta creando notevoli problemi organizzativi assistenziali sia interni sia esterni per il sempre più riscontro di scarsità di risorse socio assistenziali". Il congresso - Se n’è discusso a Roma in conclusione della XVII Edizione del Congresso Nazionale Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria", che si è svolto per tre giorni presso la sede dell’Istituto Superiore di Sanità. Oltre 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia. "Si tratta del 17º congresso della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - spiega il Dr. Luciano Lucania, Presidente Simspe-Onlus - L’abbiamo chiamato "Agorà penitenziaria" perché intendiamo ricreare una piazza virtuale in cui dibattere su tutte le tematiche del complesso mondo della sanità penitenziaria. L’obiettivo specifico di quest’anno è quello di avviare una riflessione sul nuovo modo di vivere in carcere dopo la riforma. È un argomento su cui di discute tanto, ma rimane ancora qualcosa da definire, da approfondire, da comprendere appieno". Coinfezioni hiv/hcv - In occasione dell’ultima giornata congressuale, un’ultima analisi sulla questione tossicodipendenze e malattie infettive nelle carceri. "Le persone detenute con doppia infezione hiv/hcv - spiega il Prof. Sergio Babudieri, Associato di Malattie Infettive - Università degli Studi di Sassari - sono nella quasi totalità tossicodipendenti endovena da eroina/cocaina, di età intermedia tra i 40-50 anni, nei quali il buon controllo con i farmaci dell’infezione da hiv, ha lasciato lo spazio a più rapide progressioni della malattia epatica verso la cirrosi epatica, l’insufficienza d’organo spesso associata anche a quella renale, ed all’Epatocarcinoma. Tali situazioni di malattia epatica avanzata nei detenuti coinfetti, sono scarsamente controllabili anche con i nuovi farmaci anti-hcv Interferon-Free ed esitano sempre più spesso verso la morte". Caro Della Loggia, meno carcere per tutti di Piero Sansonetti Il Dubbio, 20 settembre 2016 Ernesto Galli della Loggia, con un editoriale sul Corriere della Sera, ha posto il problema dell’enorme distanza che separa la giustizia per i poveri e la giustizia per i ricchi. Sostenendo che l’ Italia, su questo piano, è molto indietro rispetto alle grandi democrazie. Dal momento che chi ha la possibilità economica di difendersi, usando tutti gli strumenti che la legge concede agli imputati, la fa franca e non finisce in galera. Mentre chi non ha i soldi viene messo nel macinino, e così le nostre prigioni sono affollate solo da poveracci. Usando un linguaggio un po’ antico, possiamo dire che Galli della Loggia pone il problema della "giustizia di classe". Sostenendo che negli altri paesi occidentali le cose vanno diversamente, visto che per esempio in Germania è finito in prigione, e ci è rimasto per due anni, il Presidente della squadra di calcio del Bayern di Monaco, e negli Stati Uniti il truffatore Madoff sta scontando l’ergastolo. Il problema che pone Galli della Loggia, evidentemente, esiste, ed è molto grave. Non esiste invece - a occhio - una differenza così vistosa con gli altri grandi paesi dell’Occidente. Negli Stati Uniti, per esempio, è praticamente inesistente il carcere preventivo per i ricchi: è sufficiente pagare una cauzione e si torna a piede libero in attesa del giudizio definitivo. E in nessun paese occidentale esiste un numero così grande di politici finiti in prigione - per ragioni cautelari o per scontare la pena - come in Italia. Per citare solo i casi più recenti e spettacolari, sappiamo che è in prigione a scontare una pena per un reato che nel resto del mondo non esiste (concorso esterno in associazione mafiosa) un ex senatore della Repubblica (Dell’Utri) noto per molti anni come braccio destro del premier dell’epoca. Ha scontato fino all’ultimo giorno la pena di oltre cinque anni un Presidente di Regione ed ex parlamentare (Cuffaro), sebbene ci fossero enormi dubbi sulla sua colpevolezza. È in carcere, ancora in questi giorni, un senatore in carica (Cariddi) e diversi altri parlamentari lo hanno preceduto negli ultimi cinque anni (mentre nei sessant’anni precedenti era successo solo tre volte e sempre per reati di sangue). Non si contano i sindaci e gli assessori o i consiglieri regionali finiti in cella, o in carcerazione preventiva o per scontare la pena. Parlo solo dei tempi recenti: tralascio le retate che furono realizzate in occasione di Tangentopoli, quando alcuni esponenti della politica e dell’establishment arrivarono addirittura al suicidio. E rimando a un’altra occasione la discussione sul carcere preventivo, che viene spesso usato come strumento d’indagine e di pressione psicologica sugli imputati, al di fuori della legge, e senza fare, in questo caso, nessuna distinzione di censo. E tuttavia, resta innegabile il problema che pone Galli della Loggia: la differenza tra ricchi e poveri davanti alla giustizia è grandissima. Mi limito a questo proposito a fare due osservazioni. 1) in una società dove le diseguaglianze sociali sono molto forti (e in netta crescita, da parecchi anni) le differenze dei diritti tra ricchi e poveri sono inevitabili e molto diffuse. Riguardano ogni aspetto della vita pubblica e privata. Il diritto ad abitare, il diritto a studiare, il diritto alla sanità, ai trasporti, al tempo libero, alla conoscenza, ai viaggi: tutti questi diritti sono diseguali. Naturalmente la diseguaglianza di fronte alla giustizia fa più male. Sia per le conseguenze che può avere, e cioè la distruzione (o no) della propria esistenza. Sia perché viola quel principio costituzionale e filosofico che dice espressamente: la giustizia è uguale per tutti. È difficile però combattere una diseguaglianza senza prendere in considerazione tutte le altre, o addirittura considerandole un aspetto necessario nelle società di mercato. 2) Quando esistono grandi diseguaglianze sociali, ci sono due vie per affrontare il problema: cercare di avvicinare i più sfortunati ai più fortunati, o viceversa. E così anche per la ricchezza. Per la giustizia le cose non cambiano. Galli della Loggia denuncia il problema delle differenze tra poveri e ricchi come problema di "impunità". È il titolo dell’articolo: "La grande impunità italiana". Invece probabilmente il ragionamento va rovesciato. Ci si deve chiedere in che modo si possono mettere i poveri nella condizione di difendersi e di usare tutti gli strumenti che la legge prevede, come fanno i ricchi. Per esempio rafforzando il gratuito patrocinio, e investendo delle risorse perché sia realizzato bene. Per esempio depenalizzando i reati, e non facendo a gara per aumentarli e per aumentare le pene. Per esempio ? come suggerisce oggi sulla prima pagina di questo giornale un ex magistrato prestigioso come Gherardo Colombo ? incrementando le misure alternative al carcere. Per esempio chiedendo ai politici di non inseguire la spinta giustizialista di una parte consistente dell’opinione pubblica, ma di operare per rafforzare lo stato di diritto. Le cose stanno così. Si tratta di misurarsi con la modernità. E stabilire se la modernità ha bisogno di più liberalità o di più autoritarismo. E cioè se la società moderna va organizzata attorno al diritto, e ai diritti, e alla loro difesa, e sviluppo, e allargamento, o invece deve crescere attorno al valore "moloch" della pena. L’idea di Gherardo Colombo: "Meno carcere, meno pene, più giustizia" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 settembre 2016 Gherardo Colombo fa parte di quei magistrati che hanno cambiato la storia della Repubblica. Nei primi anni ottanta, insieme a Giuliano Turone, scoprì la famosa lista degli iscritti alla P2, provocando la caduta del governo Forlani. Dieci anni dopo, nel 1992, era alla Procura di Milano quando scoppiò "Mani pulite", l’inchiesta che mandò in soffitta la prima Repubblica e che modificò per sempre il rapporto fra politica e giustizia. Colombo, insieme a Di Pietro e a D’Ambrosio, fu la punta di lancia del famoso pool di magistrati che terremotò la politica e il paese. Colombo nel 2007 si è dimesso dalla magistratura. "Per quanto ci si potesse impegnare - scrisse in una lettera - è sempre stato impossibile far funzionare la giustizia in modo perlomeno accettabile. Che la giustizia funzioni male è talmente evidente che, probabilmente, questa è l’unica cosa sulla quale sono d’accordo tutti gli italiani". Da allora si è dedicato alla scrittura e agli incontri sulla giustizia, sulla Costituzione e sul rispetto delle regole. Un suo libro di successo si intitola, appunto, Sulle Regole. "È maturata in me la convinzione - dice Colombo - che per far funzionare la giustizia fosse necessaria una profonda riflessione sulla relazione tra i cittadini e le regole. La giustizia non può funzionare se i cittadini non hanno un buon rapporto con le regole. Potevo continuare a fare il magistrato per altri quattordici anni, quando mi sono dimesso: ho deciso di smettere e di dedicarmi alla riflessione sulle regole proprio perché la ritengo indispensabile per il funzionamento della giustizia". Da allora la sua agenda è fitta di incontri. Sono centinaia ogni anno e in qualsiasi parte d’Italia. In media incontra dai 40.000 ai 50.000 ragazzi l’anno. Noi lo abbiamo incontrato a Milano, a margine di un convegno dal titolo Per una ecologia della legge, organizzato da Aboca, l’azienda italiana di prodotti fitoterapici. Dottor Colombo, la scorsa settimana il senatore dem Felice Casson sul ddl di riforma della prescrizione ha presentato diversi emendamenti. Per i reati ambientali ha proposto che la prescrizione decorra non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quando il pm ne ha notizia. Oltre a ciò, ha proposto anche lo stop definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Quale è la sua opinione? Io credo che le situazioni debbano avere una soluzione, prima o poi. Esistono dei reati che sono imprescrittibili, reati di una gravità assolutamente particolare. Sarebbe necessario che alcuni effetti non possano mai diventare definitivi: cioè se io costruisco un immobile in un luogo in cui è vietato, da adesso e per sempre quell’immobile deve essere abbattuto. Però questo è un piano diverso rispetto a quello della responsabilità personale che, secondo me, ad un certo punto, per qualsiasi reato, dovrebbe finire. E mi riferisco anche ai reati che oggi sono imprescrittibili. Quindi, anche alla luce del dettato costituzionale che prevede la giusta durata del processo, non serve a nulla allungare all’infinito questa fase? Certo. Ad un certo momento le persone cambiano, più passa il tempo e più ci si trova di fronte a persone completamente diverse da come erano quando hanno commesso il reato. È necessario intervenire per aiutare questo processo di cambiamento delle persone che hanno commesso i reati per riuscire a fare capire che quello che è stato fatto è male, è sbagliato, e non deve essere rifatto. In Italia, per qualsiasi problema l’unica soluzione è l’inasprimento delle pene. È la soluzione giusta? Non serve a nulla alzare le pene. La repressione, con l’aumento delle pene, non è lo strumento idoneo a fare in modo che le persone osservino le regole. Le regole si osservano per condivisione. Mi spiego: non è che non ci si ammazza l’uno con l’altro perché si ha paura di andare in prigione. In realtà non ci si ammazza l’uno con l’altro perché si pensa che non è certo una bella cosa ammazzarsi gli uni con gli altri. E così per qualsiasi altra cosa. È necessario operare sul piano educativo e preventivo in modo che si riesca a capire che quando le regole sono giuste devono essere osservate. Dunque più prevenzione e meno repressione? È necessario preoccuparci che certi fatti non avvengano, non preoccuparci di intervenire dopo che sono avvenuti. È necessario pensare ad una educazione che faccia in modo, per esempio, che se si beve non si guida. Poi diventa un meccanismo proprio, una condizione personale profonda che certe cose non si fanno. Questa continua produzione legislativa, invece, è il sintomo che qualcosa non va. Più aumenta il numero delle leggi, più il sistema non funziona. È il segnale della mancanza di fiducia nella sovranità dello Stato. In parallelo all’aumento delle pene e alla creazione di sempre nuovi reati c’è poi un altro aspetto. Per gran parte della classe politica e dell’opinione pubblica la soluzione ai problemi di criminalità è sempre la stessa: più polizia e più carceri. Non è il caso di fare una riflessione diversa? Io sono dell’idea che bisognerebbe ricorrere molto, e molto di più, a delle misure alternative. Il legislatore si è preoccupato ultimamente di seguire una strada diversa da quella tradizionale del carcere, per esempio indirizzando verso gli arresti domiciliari che sostituiscono la detenzione in carcere. Ma mi rendo conto che non è un percorso facile. A proposito di carcere, in Italia si abusa spesso della custodia cautelare. Più di un terzo della popolazione carceraria non ha ancora una condanna definitiva. In molti casi neppure una sentenza di primo grado. Che opinione ha? Bisognerebbe essere estremamente ligi nel verificare la sussistenza delle condizioni che secondo il codice di procedura penale giustificano e legittimano la carcerazione preventiva, cioè l’eccezione: perché la carcerazione preventiva è una eccezione, visto che toglie la libertà personale a chi ancora non è stato condannato. Bisogna stare molto attenti. Un’ultima domanda. La Costituzione è la madre di tutte le leggi. Fra poco ci sarà il referendum. Come voterà? Voterò no, un no convito. La Costituzione deve illustrare in maniera sintetica dei principi. Invito tutti a leggere il testo vigente e il testo modificato che si vorrebbe approvare. Da articoli di poche righe si è passati ad articoli di intere pagine, dei lenzuoli. Si vuol far diventare la Costituzione una legge "sovraordinata". Ma la Costituzione è un’altra cosa. Il nuovo testo va abbondantemente oltre i principi fondamentali dell’organizzazione dello Stato. Quei 1.600 orfani dei femminicidi. Studio sui bambini vittime dell’omicidio tra genitori di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 20 settembre 2016 Domani alla Camera sarà presentato il primo studio sui bambini vittime dell’omicidio tra genitori. Un fenomeno in aumento che colpisce tutte le classi sociali e che diventa sempre più violento. Sembrerebbe un altro caso di femminicidio ai danni di una donna di 40 anni, di status sociale alto, quello avvenuto a Ravenna. La violenza di genere contro le donne è un fenomeno trasversale alle classi sociali, specie se attuato da partner o ex. Non riguarda soltanto una popolazione poco istruita o che vive in ambienti degradati. I partner e gli ex sono gli autori delle violenze più gravi. La maggioranza degli stupri è opera loro e così anche delle violenze fisiche, dei tentativi di strangolamento, soffocamento e ustione, o dell’essere forzati ad attività sessuali considerate umilianti. Il momento della separazione rappresenta una particolare criticità, prima, durante e dopo, soprattutto se la decisione viene presa dalla donna. È la fine della proprietà del corpo femminile, che può rappresentare una scintilla incendiaria per l’uomo e scatenare la furia femminicida, che non è affatto un raptus, o una patologia, ma una violenza grave, efferata, frutto della volontà di dominio maschile sulla donna. Vittime sono però anche le donne che si sono prostrate, ma a cui viene rimproverato di non averlo fatto abbastanza. Gli uomini che la esercitano sono sempre più pericolosi, sì… pericolosi, aumentano le donne che hanno avuto paura per la propria vita durante la violenza da parte del partner o ex, anche se sono diminuiti i vari tipi di violenza (vedi grafico). I femminicidi sono sostanzialmente stabili e inchiodati, e così gli stupri. Per molti anni la violenza sulle donne è stata invisibile. Invisibili le donne che l’hanno subita, invisibili le forme che assumeva. Silenzio colpevole, tragico e agghiacciante, solo perché era scomoda. Solo perché il mondo era dominato da uomini superficiali, se non addirittura complici. Le donne dovevano dimostrare di non essere consenzienti, ed anche adesso succede. Dopo il danno anche la beffa, come ben presentato nel "Processo per stupro" del 1979 con l’avvocata delle donne Tina Lagostena Bassi, che sarebbe bene la Rai, tv pubblica, mandasse presto in prima serata. Ora i media ne parlano di più, e ciò aiuta a far crescere un clima di condanna sociale. Ma la strada è lunga, e c’è bisogno di una grande battaglia culturale anche da parte maschile. Tante donne riescono a uscire dall’incubo, grazie alla loro forza, all’azione dei centri antiviolenza, delle strutture sanitarie, e anche delle forze dell’ordine. I media dovrebbero raccontare di più le storie delle donne che ne sono uscite e promuovere l’aumento della coscienza femminile che ormai è visibile. Servirebbe a tante altre donne che vivono in una situazione analoga per prendere coraggio. Esiste, però, ancora una grande invisibilità non superata, quella dei figli, spesso piccoli o minori, che fanno parte della famiglia in cui viene esercitata la violenza del padre contro la propria madre. Non se ne parla. Il fenomeno è in crescita. Considerando le coppie con figli in cui è avvenuta una violenza contro la donna la percentuale di quelle in cui i figli hanno assistito alla violenza è passata dal 60,3% al 65,2%. Assistere alla violenza della propria madre oltre a compromettere il benessere dei bambini, accresce la probabilità per i figli maschi di diventare autori di violenza contro la propria futura compagna e delle figlie femmine di diventare a loro volta vittime. È un trauma difficilmente superabile. Figuriamoci se la violenza sfocia in femminicidio. Lo ha studiato a fondo la professoressa Anna Baldry negli ultimi 4 anni e presenterà i risultati della ricerca domani alla Camera dei Deputati: muore la madre e anche il padre, o perché si suicida, nel 30% dei casi, o perché in carcere. Negli ultimi 10 anni sono stati stimati dalla ricerca in 1600 circa, vengono affidati o ai nonni materni o agli zii, a volte dati in adozione. A volte rimangono nel luogo in cui sono nati laddove il diritto all’oblio è difficile. Si apre una vita costellata di difficoltà. Possibile che non ci interessiamo di loro? Quanto ci dotiamo di politiche che affrontino il loro dramma, o quanto invece, tutto ciò rimane gestito da nonni o zii a cui sono affidati, o alle famiglie che li hanno presi in adozione, soli di fronte alla tragedia? Bisogna interessarsene, è un nostro dovere, un dovere della politica, ma anche della società civile. Abbiamo tanti giovani che studiano queste tematiche e si impegnano nel volontariato, creiamo posti di lavoro su queste questioni, lavoriamo per migliorare il benessere dei bambini, delle donne, dei cittadini tutti. Sosteniamo i centri antiviolenza. Rimettiamo al centro delle nostre politiche la Cura con la C maiuscola, le relazioni umane e soprattutto facciamo tesoro dei risultati delle ricerche scientifiche che squarciano il velo del non detto, dell’invisibilità. Bancarotta semplice se i conti sono tracciabili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2016 Risponde di bancarotta semplice non solo il fallito che non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge, ma anche quello che li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta. Inoltre, per la configurabilità della bancarotta semplice documentale rileva non solo l’irregolare, ma anche, a maggiore ragione, l’omessa tenuta delle scritture contabili e non solo di quelle obbligatorie per legge. Con il risultato di non permettere la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari del fallito. Lo precisa la Corte di cassazione con la sentenza n. 38302 della Corte di cassazione, Quinta sezione penale. La Cassazione chiarisce che l’elemento di distinzione tra la bancarotta documentale fraudolenta e semplice riguarda soprattutto il profilo oggettivo della condotta del fallito. Nella bancarotta semplice a pesare è l’aspetto solo formale dell’omessa, irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, "mentre nella bancarotta fraudolenta un profilo sostanziale, atteso che, da un lato, l’illiceità della condotta non è circoscritta alle sole scritture obbligatorie per legge, riguardando tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi, e, dall’altro, è richiesto il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, estraneo invece al fatto tipico previsto dall’articolo 217 della Legge fallimentare". In particolare, osserva la Cassazione, non ci sono dubbi che la bancarotta semplice è istituita a presidio della regolarità contabile intesa in senso formale. A questo proposito, ricorda la sentenza, impone l’istituzione di libri obbligatori, come il libro giornale, i libri degli inventari, e altre scritte che sono richieste dalla natura e dalla dimensione dell’impresa. Gli articoli da 2215 a 2220 del Codice civile prescrivono poi le modalità di tenuta e conservazione di queste scritture obbligatorie. L’omessa, irregolare oppure incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, in violazione degli articoli 2214 e seguenti del Codice civile costituiscono condotte punte dalla legge fallimentare solo perché mettono in pericolo il bene giuridico tutelato, costituito dalla esigenza di una corretta informazione sulle vicende patrimoniali e contabili dell’impresa fallita. Nella prospettiva ovviamente della successiva ricostruzione e tutela del patrimonio del fallito, che rappresenta la garanzia per la massa dei creditori. La Cassazione ricorda allora che si tratta di un delitto di pericolo presunto e pura condotta, che si realizza anche se non si verifica un danno o anche solo la messa in pericolo degli interessi dei creditori. L’imprenditore fallito o l’amministratore della società fallita che anche solo per negligenza, ha omesso, sotto il profilo formale, di tenere o ha tenuto in modo irregolare o incompleto le scritture contabili obbligatorie, ma che, sotto il profilo sostanziale, ha lasciato traccia di tutte le sue operazioni di gestione, sulla base di documentazione contabile, anche se irregolare tenuta, (fatture, bolle di accompagnamento, estratti conto, annotazioni) in modo tale che è comunque possibile ricostruire sia il patrimonio sia il movimento degli affari, non risponde del reato di bancarotta fraudolenta ma di quello meno grave di bancarotta semplice. Tentata truffa per chi si finge avvocato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 19 settembre 2016 n. 38752. Scatta il reato di tentata truffa per chi spacciandosi per avvocato si faccia consegnare una somma di denaro per condurre accertamenti presso Equitalia. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 19 settembre 2016 n. 38752, assolvendo invece l’imputato dal reato di esercizio abusivo della professione con riguardo ad altre attività perché prive della necessaria "tipicità". In primo grado e poi in appello, l’imputato era stato condannato per esercizio abusivo della professione e tentata truffa. Proposto ricorso in Cassazione aveva sostenuto che l’attività posta in essere "non integrava il reato di esercizio arbitrario della professione di avvocato", in quanto "mancherebbero atti tipici (giudiziali o stragiudiziali)", dal momento che essa si è "sostanziata in una forma di pubblicità delle competenze di altri professionisti". Con riguardo alla truffa ha poi sostenuto che sarebbe stata "travisata la prova della dazione materiale della somma di denaro destinata a dirimere la vertenza con Equitalia". I giudici di Piazza Cavour chiariscono che "oggetto della tutela predisposta dall’articolo 348 del Cp, è costituito dall’interesse generale che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge". Ne deriva, continua la decisione, che la tutela si estende soltanto agli atti "propri" o "tipici" delle diverse professioni "in quanto alle stesse riservati in via esclusiva e non anche agli atti che, pur essendo in qualche modo connessi all’esercizio professionale difettano di tipicità nel senso sopra indicato, perché suscettibili di essere posti in essere da qualsiasi interessato" (42790/2007). Tornando al caso affrontato, la Suprema corte distingue dunque tra gli atti privi di tipicità e quelli idonei a creare un falso affidamento nel terzo. Per i giudici di Piazza Cavour sono da considerarsi "carenti del requisito di tipicità" sia la manifestazione di volontà di assumere quale collaboratrice di studio la presunta vittima, sia la firma di una delega, rilasciata da un altro soggetto all’imputato, per acquisire documenti contabili presso Equitalia, "trattandosi, in entrambi i casi, di attività praticabile da chiunque". Invece, prosegue la sentenza, riguardo il tentativo di truffa "non v’è dubbio che la prospettazione della propria qualità di avvocato, invero inesistente, abbia costituito il motivo per cui la vittima decideva di affidare gli accertamenti, da eseguirsi presso Equitalia, al ricorrente, trattandosi di una qualità rassicurante circa il buon esito delle verifiche, che lo induceva a consegnargli l’assegno di 1.500 euro quale acconto della maggior somma finale, corrisposta a titolo onorario". Per cui correttamente la Corte di merito ha ravvisato, nel caso in esame, il reato di truffa tentata. Mentre, il precedente specifico dimostrando la "pervicacia nel continuare a qualificarsi come avvocato" giustificava la mancata concessione delle attenuanti generiche. Spetta al Riesame validare o meno il fondo patrimoniale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2016 Spetta al giudice penale decidere sulle questioni di impignorabilità dei beni colpiti da un’ordinanza di sequestro conservativo, sia in prima battuta - se si dà spazio al contraddittorio (peraltro non previsto dalle norme) - oppure in sede di riesame. Sono le Sezioni Unite - sentenza 38670/16, depositata il 16 settembre - a mettere ordine su una questione poco arata dalla giurisprudenza di legittimità ma tuttavia con orientamenti agli antipodi. La vicenda che ha innescato la Corte riguardava la bancarotta di un’azienda piemontese, a margine della quale il tribunale di Alessandria aveva "congelato" nel marzo dello scorso anno beni per oltre sei milioni di euro, tra villette a schiera e un’autorimessa. Il tema del contendere, totalmente ignorato dal riesame dello stesso distretto, era la circostanza che tali beni erano parte di un fondo patrimoniale e come tali, secondo i difensori, non pignorabili. Sul punto il giudice di secondo grado aveva respinto il motivo di impugnazione liquidandolo, appunto, come questione appartenente semmai "alla competenza del giudice dell’esecuzione civile". Le Sezioni Unite, pur dando atto di due orientamenti opposti, e risalenti, ha bocciato la soluzione del tribunale piemontese in quanto contraria alle norme del codice di procedura penale. Per quanto profondamente intrecciati nella disciplina dello stesso codice di procedura penale, i due momenti penalistico/civilistico del sequestro conservativo sono cronologicamente ben distinti, argomentano le Sezioni unite. La Corte, in un breve excursus storico, spiega come nel codice (vigente) del 1989 il sequestro conservativo è entrato nell’area delle misure cautelari personali, perdendo tra l’altro il carattere esclusivamente pubblicistico che aveva sotto il codice Rocco (dove aveva potere di iniziativa solo il pm, a differenza di oggi), e acquistando anche l’istituto del riesame - mentre prima era esperibile la sola opposizione. Ed è lo stesso codice di procedura a segnare il momento del "passaggio di consegne" tra giudice penale e civile, in particolare nella fase dell’esecuzione, non prima. Infine, anche si vertesse in ipotesi di contestazione della proprietà del bene, il rinvio al giudice civile - previsto dall’articolo 324 del cpp - non sospende l’efficacia del sequestro. La questione torna quindi al tribunale di merito che dovrà esprimersi, tra l’altro, sui tempi di costituzione del fondo patrimoniale contestato e, inoltre, sull’adeguatezza delle sue finalità. Palermo: i genitori arrivano in carcere per il colloquio "vostro figlio è morto ieri" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2016 Era detenuto per aver coltivato marjuana. Lo ha stroncato un infarto, nessuno ha avvisato i familiari. Si presentano per il colloquio e apprendono che il loro congiunto è morto il giorno prima. La vicenda kafkiana è accaduta sabato scorso al carcere Pagliarelli di Palermo. Come di consueto, i familiari di Antonino Cangemi, arrestato un anno fa con l’accusa di coltivazione di piantagione di marjuana, si sono recati sabato all’istituto penitenziario palermitano per il colloquio abituale e gli agenti penitenziari si sono ritrovati costretti a dargli la tragica notizia: il cinquantenne in realtà è deceduto il giorno prima. A stroncarlo sarebbe stato un arresto cardiaco. Secondo la versione degli agenti penitenziari i compagni di cella avrebbero tentato di soccorrerlo, sono arrivate le guardie ma per lui non ci sarebbe stato nulla da fare. Cangemi soffriva di salute, tanto che i familiari avevano più volte chiesto che venisse trasferito ai domiciliari. Richiesta rimasta inevasa. Secondo la direzione del carcere la notizia l’avrebbero dovuta dare i carabinieri. Comunque sia, non è stata rispettata la prassi. L’ordinamento penitenziario parla chiaro: in caso di decesso, le autorità devono immediatamente informare il coniuge, il convivente o il parente più prossimo. Invece i familiari non sono stati avvertiti e hanno ricevuto la terribile "sorpresa" nel giorno del colloquio. La procura ha messo sotto sequestro la cartella clinica dell’uomo ed è stata aperta un’inchiesta disponendone l’autopsia. Non è la prima volta che gli istituti penitenziari danno in ritardo la notizia ai familiari del decesso o dell’aggravamento delle condizioni psico-fisiche del detenuto. Ancora resta oscura la morte di Cesario Antonio Fiordiso, un 31enne di San Cesario di Lecce, arrestato per rapina in concorso. Dopo un ultimo colloquio avuto nel carcere di Borgo San Nicola, nel capoluogo salentino, ad ottobre, i suoi famigliari lo hanno rivisto che era ormai in coma. Nessuno li aveva avvertiti. Fino a quando, nel giorno dell’Immacolata di quest’anno, il ragazzo è spirato presso il reparto di Rianimazione dell’ospedale "San Giuseppe Moscati" di Taranto. Senza che i suoi parenti abbiano potuto parlargli. Biella: capienza e progetti di recupero, il carcere vicino alla promozione di Andrea Formagnana La Stampa, 20 settembre 2016 Il carcere di Biella, con i suoi 300 detenuti di media e con la capacità di ospitarne fino a 500, sta diventando la seconda realtà carceraria piemontese dopo Torino. Nata come terzo livello, con i riordino dell’amministrazione penitenziaria potrebbe salire se non al primo quanto meno al secondo livello. Una classificazione attribuita in base alla capienza e alla capacità di proporre progetti per il reinserimento e il recupero dei detenuti. A darne notizia sono il deputato Mirko Busto ed il consigliere Giampaolo Andrissi del Movimento 5 Stelle, dopo una visita alla struttura: "La soluzione più efficace per garantire la massima sicurezza è proporre attività condivise tra detenuti e personale di polizia penitenziaria - dicono -. Il carcere di Biella è un esempio illuminante grazie ai vari progetti di coltivazione di frutta e ortaggi e da quest’anno della camomilla". La realtà descritta da Busto e Andrissi è quella del "Tenimento agricolo", con 9 detenuti impegnati nella coltivazione di frutta, ortaggi e camomilla. "La camomilla viene venduta attraverso la rete di Altromercato, mentre per frutta e ortaggi stiamo stringendo un accordo con Caritas - spiega la direttrice Antonella Giordano -. Abbiamo iniziato l’iter per la qualificazione del "biologico" e prossimo obiettivo è creare una struttura che ci permetta la sua trasformazione in marmellate e conserve". Anche a Biella, però, non mancano problemi, in particolare la carenza di organico. Il sindacato Sapp non nasconde la sua preoccupazione. "Se la struttura dovesse essere innalzata di livello e di conseguenza ospitare altri detenuti è nostro auspicio che venga adeguato il numero degli agenti. Altrimenti sarà impossibile gestire la situazione". Mentre il sindacato Osapp denuncia come da troppo tempo agli agenti manchino le forniture di vestiario. Venezia: le donne della Giudecca di Giulia Siviero ilpost.it, 20 settembre 2016 Storie da uno dei pochissimi carceri femminili d’Italia e delle persone che lo abitano: a volte per una "alleanza" particolare tra magistrati e mariti. La porta d’entrata, verde scuro, pesante, è all’interno di un ingresso come gli altri. Superata la guardiola (un ufficio, qualche calendario della polizia appeso a un chiodo, delle agenti penitenziarie che sbrigano le nostre pratiche e ci fanno lasciare le borse in un armadietto) si entra in un corridoio. Siamo "dentro", come si dice, anche se non sembra. Il carcere femminile della Giudecca a Venezia è un posto diverso da come ci si immagina una prigione: più volte ci si ritrova a pensare che è un posto bello e poi subito dopo a pensare che un posto così, bello non può essere. È diverso perché quasi tutte le detenute lavorano, perché c’è una sezione speciale per le madri - anche se la legge le prevede, non è facile trovarne di attive in Italia - ed è diverso perché è solo per donne. Questo significa molte cose, ma due in particolare, dicono le persone che ci lavorano: i reati commessi dalle persone qui dentro hanno una fortissima componente affettiva e molte delle condanne più lunghe nascono da uno strano incastro "tra chi usa la legge e chi invece la applica". La Casa di reclusione si trova in un antico monastero fondato nel XII secolo. Poco dopo il 1600 divenne un ospizio gestito dalle suore per prostitute "redente" e diede il nome alla calle dove ancora oggi si trova l’entrata principale: calle delle Convertite. Se ci si passa davanti non la si vede subito: poco prima ci sono un campo con una vigna e delle reti da pesca, un piccolo ponte e poi un edificio tra gli altri, solo un po’ più alto, di cui fa parte anche una chiesa. Sulla facciata c’è una targa in latino in cui si parla di Santa Maria Maddalena penitente, delle "donne convertitesi a Dio dalla bassezza dei vizi" e delle suore che "con uno straordinario esempio di pietà" ricevettero nel 1859 dal governo austriaco l’incarico di gestire le carceri. All’epoca, la Madre superiora era anche la direttrice. Le donne detenute sono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale: in Italia circa il 96 per cento dei carcerati sono maschi e le donne sono circa il 4 per cento. I dati ufficiali più aggiornati (dicembre 2015) dicono che su quasi 54 mila persone recluse, le detenute sono 2.107: di queste 1.267 hanno condanne definitive e 790 sono straniere. La maggior parte delle donne carcerate si trova in 52 reparti isolati dentro penitenziari maschili e vive una realtà che è stata progettata e costruita "da uomini per contenere uomini": in molti casi le detenute "sono lontane dalle loro famiglie", hanno necessità di salute particolari e "i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi". Questo lo scrive il ministero della Giustizia nel suo rapporto del 2015 sulla detenzione femminile. Anche l’ordinamento penitenziario le considera poco e disciplina la carcerazione delle donne solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento, però, alla sola condizione della maternità. Rispetto agli uomini, le detenute hanno anche minore possibilità di accesso alle attività lavorative: è una "discriminazione involontaria", dice sempre il ministero, causata dal numero limitato di carcerate e dall’impossibilità di condividere gli spazi con gli altri uomini per evitare situazioni di promiscuità: alle detenute, negli istituti di pena, è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, per studiare o fare dei corsi e soprattutto per lavorare. Sono più carcerate degli altri. Questo è come le cose funzionano in generale: poi ci sono alcune eccezioni. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e appunto la Giudecca. L’istituto di Venezia è costituito da vari edifici intorno al nucleo originale, formato dalla chiesa e dal convento. Al piano terra ci sono degli uffici, la sala colloqui, il magazzino e la cucina. Al primo piano la sezione detentiva con le aule scolastiche, la biblioteca, quella che chiamano "sala ricreativa", gli uffici del personale e la cappella. Al secondo piano c’è l’infermeria con una sezione detentiva e due sale. Al terzo piano c’è la "sezione semi-libere". Altre parti dell’edificio, non utilizzate e un po’ fatiscenti, si affacciano su un grande piazzale interno: è il "cortile dell’aria" con un pozzo chiuso, una vecchia rete da pallavolo e una panchina. Qui "le donne" (così le chiamano le persone che ci lavorano) possono uscire un’ora e mezza la mattina e due ore il pomeriggio. Il lavoro - Alla Giudecca ci sono 78 donne, il carcere ne può accogliere poco più di un centinaio: 42 sono italiane, 36 straniere di 14 nazionalità differenti. Tra tutte e 78, 57 (cioè il 73 per cento) ha condanne definitive e, in forte controtendenza con la media nazionale, quasi tutte lavorano. Le due o tre che non lo fanno hanno problemi di salute. Ci sono i lavori interni gestiti dall’amministrazione, i lavori di manutenzione ordinaria e poi ci sono una lavanderia, una sartoria, un laboratorio di cosmetica e un posto speciale, che in molti (giornalisti, fotografi, registi) vengono a visitare: l’orto. All’orto si arriva attraverso un piccolo corridoio dal cortile dell’aria: misura 6 mila metri quadri e ci sono diverse serre. Si coltiva un po’ di tutto, compresi gli ortaggi tipici locali: i radicchi di Treviso (e c’è una vasca per l’imbianchimento), il broccolo padovano, quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo. Girano dei gatti, ci sono anche un frutteto e una sezione "aromatica" dedicata alle erbe officinali e ai peperoncini. Ci fermiamo a parlare sotto agli alberi, è fine estate e l’orto è rigoglioso. Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che gestisce l’orto, e Vania, che ne fa parte da quindici anni, ci spiegano che la produzione è abbondante e che i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che due detenute allestiscono fuori dal carcere ogni giovedì mattina. Parte della produzione finisce invece nelle borse distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona o rifornisce alcuni ristoranti di Venezia, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione dei prodotti da bagno di alcuni alberghi: detergenti, balsami, creme. Le cose che si coltivano nell’orto non finiscono nella mensa della prigione ma le donne possono acquistarle, se vogliono: lo fanno soprattutto d’estate. Molte, ci spiegano, non mangiano in mensa, ma hanno dei fornelli da campeggio nelle stanze e con quello che possono acquistare cercano di cucinare i piatti delle loro tradizioni ("e riescono a fare delle cose incredibili"). Nell’orto lavorano sette donne e tutte hanno fatto un apposito corso di formazione. Questa è l’occupazione più ambita, ma la convalida delle richieste e la selezione dipende dal fine pena e dalla situazione di ciascuna. Quello dell’orto, che si trova vicino al perimetro dell’edificio, è infatti considerato un lavoro esterno ed è regolato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Chi sta qui lavora tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, non ci sono attrezzi complicati o particolarmente moderni e tutto viene fatto a mano: c’è un piccolo trattore parcheggiato all’interno di una serra che però può essere usato solo dall’agronomo. Insieme al tecnico di laboratorio di cosmetica, è uno dei due uomini che incontriamo dentro la prigione. Le finestre del laboratorio di cosmetica si affacciano sull’orto. Maggie lavora al laboratorio: è rom, ha 28 anni e tre figli: "La cosa migliore che ho fatto", dice. Tra macchinari e barattoli di creme ci racconta che durante i tre anni di carcere preventivo scontati altrove non ha mai lavorato e che il lavoro in carcere viene considerato un privilegio: "Per buona parte della giornata ho una vita normale, le ore in laboratorio passano veloci, i pensieri restano in cella e poi mi posso mantenere: questo è importante per la mia dignità". Dice che quando stava nell’orto era più bello e intanto guarda sorridendo la sua responsabile: "Non mi sentivo in prigione, mi sembrava di essere fuori da qualche parte e poi la sera quando finivo, mi sembrava di rientrare. I lavori esterni sono i migliori perché non sei a contatto tutto il giorno con le persone con cui già devi vivere". Quello nel laboratorio è comunque un lavoro "qualificato": servono competenze e determinati requisiti. Un’altra donna che ci lavora ci spiega con orgoglio che è necessario un minimo di istruzione: "Bisogna almeno saper leggere e scrivere per seguire le ricette e poi si ha a che fare con dei prodotti chimici, non tutte possono farlo". La cosa più bella che è successa a Maggie negli ultimi anni, dice, è stata quella di poter vedere i suoi figli su Skype. Oltre alle telefonate, che sono di soli dieci minuti la settimana, frazionabili, da quest’anno per alcune detenute che non hanno la possibilità di fare colloqui e che hanno figli minori lontani c’è l’opportunità di usare Skype. Non è ancora diventata una prassi, però, e Maggie è stata la prima. Vania, l’operatrice, ci racconta che per il loro lavoro le donne vengono retribuite, come stabilisce la legge. Ci sono una "borsa lavoro" messa a disposizione dal comune di Venezia che è fissa e poi ci sono i ricavati delle vendite che vengono suddivisi dalla cooperativa tra le lavoratrici. Con la "bella stagione" chi lavora nell’orto arriva anche a un totale di 500 euro mensili, compreso il contributo fisso. Il salario in carcere non si chiama così ma "mercede", che è una specie di residuo linguistico: la retribuzione non è ancora intesa come un corrispettivo per il lavoro svolto, quanto piuttosto come una concessione accordata dallo Stato. Le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le donne non maneggiano direttamente i soldi, ma possono disporne: mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprarsi quello di cui hanno bisogno. "Sigarette, e poi c’è un elenco di cose che possono acquistare al magazzino interno in base a una lista che compilano una volta la settimana". Oltre a Rio Terà dei Pensieri, all’interno del carcere lavora anche la cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia e la sartoria in cui lavorano sette detenute, una con contratto di formazione e sei con una "borsa lavoro" erogata dal comune. Il lavoro proviene da commissioni di ditte esterne tra cui il teatro La Fenice; parte dei vestiti sono in vendita al "Banco Lotto N° 10?, dove lavora una ex detenuta e che è stato inserito in molte guide turistiche. La convivenza - Alcune agenti penitenziarie ci raccontano che, in generale, le celle e gli spazi individuali del carcere vengono curati con particolare attenzione: le stanze sono ordinate e pulite e si tende a replicare nella stanza l’ambiente della propria casa. Le donne della Giudecca dormono in 22 camere. Il problema principale sono proprio le stanze che sono molto ampie e ospitano più o meno 5-6 detenute ciascuna: ricordano delle camerate e non permettono momenti di intimità e isolamento: "L’essere sempre in collettività viene vissuto come vincolo e limitazione. Non ci sono spazi per la solitudine", ci raccontano le operatrici. "Allora molte donne, anche non credenti, vanno in chiesa per stare da sole o per piangere". Alla Giudecca lo stare insieme ha creato però qualcosa di buono: un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea, se ne assumono la responsabilità e cercano di trovare, insieme e autonomamente, una mediazione. Questo meccanismo funziona. Le assemblee sono molto animate, ma le decisioni prese (senza l’intervento delle agenti o di altre mediazioni "esterne", se non è necessario) convivono o rendono più semplici quelle dell’amministrazione e della direzione in una relazione tra i due livelli "molto particolare e collaborativa". Il merito di questa situazione è attribuito all’attuale direttrice, Gabriella Straffi, che tra poco andrà in pensione. Tutte le persone con cui parliamo sono molto preoccupate da quello che succederà dopo. Il timore è che la Casa di reclusione della Giudecca possa essere associata alla direzione del carcere maschile: "E invece è solo una direzione autonoma che potrà mantenere viva quella sensibilità di genere che qui è indispensabile". Donne che sono anche madri - Le donne incarcerate hanno mediamente condanne più brevi rispetto a quelle degli uomini, e hanno minori probabilità di avere qualcuno a cui affidare la casa e la famiglia. A Venezia dalla fine del 2013 è attivo un Icam, un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute. Ci vivono 9 donne e 5 bambini (alcune di loro sono incinte). Due mamme lavorano nell’orto, mentre una volta non potevano: all’interno del carcere le madri erano solo madri, e non erano inserite nelle attività lavorative. E. A. preferisce che il suo nome non venga scritto per esteso, ha 32 anni che si faticano a ritrovare nell’espressione del viso, ha qualche tatuaggio ed è arrivata alla Giudecca nel febbraio del 2012. Resterà qui fino al febbraio del prossimo anno "e sembra manchi poco, ma qui il tempo non passa mai". E. è rom, lavora nell’orto dal 2014 e tiene il banchetto esterno del giovedì. Dorme nell’Icam e il bambino più grande qui alla Giudecca, che ha quasi sei anni, è suo; ha altri 5 figli che non vede e non sente da moltissimo tempo. Le chiediamo che spiegazioni ha dato al figlio quando è cresciuto e ha cominciato a fare delle domande. Dice che non gli ha detto che vive in una prigione: "Forse lui se ne rende conto, ma gli ho raccontato di dover stare qui perché ci devo lavorare". In un tema fatto a scuola il bambino di E. ha scritto di avere una macchina blu e una barca, sempre blu, che sono la macchina e la barca che la polizia usa per i vari trasferimenti. Nel cortile dell’Icam il figlio di E. ha anche festeggiato un compleanno invitando "da fuori" i compagni di scuola. Quando usciranno, tra qualche mese, E. e suo figlio andranno insieme in una casa famiglia. Ogni giorno al carcere della Giudecca arrivano dei volontari che vengono a prendere i bambini per portarli all’asilo, a scuola, o ai campi estivi. L’Icam è un ambiente creato per loro. Lo si intravede poco dopo il corridoio d’entrata: c’è un giardino verde con un’altalena e qualche gioco, le stanze e i corridoi sono colorati, le camere da letto hanno lettini o culle. Ci sono passeggini, seggioloni e quello che a una madre e a un bambino può servire. Ma l’Icam di Venezia è solo uno dei pochi che avrebbero dovuto essere aperti dopo l’approvazione della legge, nel 2011. Per amore e per una strana alleanza - Il 26 per cento delle donne che si trovano alla Giudecca è formalmente in carico al Ser.D. (il Servizio per le dipendenze), mentre il 33 per cento è seguito dal servizio di psichiatria. I reati commessi sono i più diversi: si va dai furti più banali a quelli nelle case, fino agli ergastoli per omicidio. In generale alla Giudecca vengono inviate le donne che devono scontare condanne elevate, proprio per la struttura del carcere e per come è organizzato. Sergio Steffenoni, garante per i diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del comune di Venezia, ci racconta che in molti casi le condanne elevate nelle donne hanno una spiegazione comune che ha a che fare l’articolo 146 del codice penale. L’articolo dice che "l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno". Spesso le donne incinte o madri nelle carceri italiane sono sinte o rom, sono giovanissime e consapevoli che con l’attuale legislazione in breve tempo saranno messe in libertà: la legge è stata pensata per tutelare i minori, ma si può ritorcere sulle madri che spesso sono spinte dai mariti e dalla "tradizione" a delinquere, a fare figli e poi a delinquere ancora, accumulando insieme condanne e bambini. Ci sono donne di 35 anni con 25 anni da scontare e 8 figli che spesso non hanno avuto tempo di crescere. In un documento fatto dalle donne rom e sinte della Giudecca in occasione degli Stati Generali del ministero della Giustizia c’è scritto che nei loro confronti "non c’è nessuna prevenzione, nessuna tutela, nessuna assistenza". E parlano di una specie di "alleanza" tra magistrati e mariti: i primi rispettano la legge, i secondi la usano. In entrambi i casi, loro sono le vittime: "Consapevoli ma senza strumenti economici, sociali o culturali per ribellarsi". I reati commessi dalla donne in generale, ci raccontano Steffenoni e Marina Zoppello, l’educatrice, hanno una componente "affettiva" molto alta: cosa che non avviene invece per gli uomini. Questo comporta, tra le altre cose, che le donne tendano a giustificarsi più degli uomini e quindi trovino più difficoltà nella presa di coscienza di quel che si è fatto: "C’è una specie di rivendicazione del reato", anche nella fase di esecuzione della pena. La componente emotiva crea una maggiore difficoltà nell’accettazione della detenzione; i tempi di elaborazione, del pentimento e della cosiddetta "revisione critica" sono molto complessi e dolorosi. "Il reato è stato compiuto per amore dei figli o del compagno: diventa così un incidente di percorso e non una scelta pienamente consapevole. Il sentimento prevalente è la preoccupazione per il dopo, legato non soltanto alla possibilità di un reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale: spesso molte di queste donne, prima, hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle". Marina Zoppello ci parla di persone molto complesse "che hanno lottato tanto nella vita, che hanno tenuto insieme la famiglia con un’altissima spinta protettiva, che hanno sopportato violenze e abusi e che a un certo punto sono esplose". Nei maschi, ci spiega l’educatrice con molta delicatezza e cercando di non essere fraintesa, prevale la progettualità del reato, mentre dalle donne "il reato è in un certo senso subìto". Chiediamo se intervenendo sul prima, sulle situazioni di violenza domestica o di sfruttamento per il mantenimento della famiglia, per esempio, si possa in qualche modo evitare che al reato ci si arrivi: "Sì, molto probabilmente e nella maggior parte dei casi sì". Milano: Ipm Beccaria, da istituto modello a inferno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2016 Le denuncia del cappellano, don Gino Rigoldi: "Quei minori sono umiliati e scoraggiati". Ancora problemi negli istituti penitenziari per minorenni. Questa volta riguarda il "Beccaria", carcere minorile di Milano. "Va tutto male! L’edificio è brutto, sporco, cadente. Non funziona niente, non ci sono abbastanza attività e corsi di formazione, i ragazzi sono scoraggiati, annoiati, umiliati, anche arrabbiati". È il grido d’allarme lanciato da don Gino Rigoldi, l’anziano cappellano del Beccaria che si è detto pronto ad attuare uno sciopero della fame affinché si prendano seri provvedimenti. Attualmente sono una sessantina i detenuti ristretti nel penitenziario minorile, un tempo definito "modello". I ragazzi sono finiti dentro anche con accuse gravi, alcuni per omicidio e stupro. A don Gino non interessa quello che hanno fatto nel passato, lui spera nel futuro e soprattutto per un loro recupero. "Per come è messo oggi l’istituto, c’è da mettersi a piangere, più che sperare in un recupero di questi giovani", spiega amareggiato il cappellano. La sua protesta è stata recepita dal deputato Pd Emanuele Fiano che ha prontamente segnalato il caso al ministero di Giustizia. Andrea Orlando ha quindi disposto una vista da parte del direttore del dipartimento della giustizia minorile per verificare e affrontare i diversi problemi denunciati. In Parlamento più volte è stato affrontato il degrado strutturale del Beccaria. Nel maggio scorso, la deputata Giovanna Martelli di Sinistra, ecologia e libertà ha presentato una interrogazione al ministro della Giustizia denunciando eventi critici di ogni tipo, incluse le aggressioni. I detenuti sono vittime di atti di autolesionismo e di molteplici tentativi di suicidio. L’ultimo caso è quello di un detenuto ventenne che si è verificato domenica 8 maggio. Le lavoratrici e i lavoratori del carcere Beccaria sono sotto organico e devono farsi carico di gravosi turni di lavoro. Condizioni che dipendono dalle croniche carenze strutturali del carcere, come denunciato dalla Fp Cgil Lombardia e Milano. Per questo si attende ancora l’apertura del nuovo padiglione adiacente al carcere. La deputata Martelli ha ricordato che le pessime condizioni di vita incidono anche sulla salute psicofisica dei lavoratori creando maggiore stress, meno efficienza e più assenze. Il rischio è che ci siano esiti esplosivi e incontrollabili. I ragazzi detenuti sono insofferenti e non di rado protestano. La direttrice del carcere riassicura che a breve le cose potrebbero migliorare, perché entro un mese dovrebbero avere in consegna il nuovo padiglione ristrutturato. Le risorse - un problema per tutti gli istituti minorili - sono poche ma la regione Lombardia a breve dovrebbe indire un nuovo bando e dovrebbero arrivare finanziamenti per le attività di risocializzazione. Nel frattempo però la situazione è molto grave. Trapani: apre un padiglione alle carceri di San Giuliano, ma manca personale di Luigi Todaro Giornale di Sicilia, 20 settembre 2016 L’imminente apertura, a Trapani, del nuovo padiglione detentivo denominato "Adriatico" fa riaccendere i riflettori su una atavica questione: la carenza di personale che si registra alle carceri di San Giuliano. Un problema mai risolto nonostante le prese di posizione, anche dure, delle organizzazioni sindacali di categoria che da tempo chiedono l’ invio di nuove unità per rinvigorire una pianta organica ormai datata e che non risponde più alla realtà della casa di reclusione. Istanze, tuttavia cadute nel vuoto. "Il nuovo padiglione - dice Donato Capece, segretario generale del sindaco Sappe, che potrà contenere fino a 200 detenuti, produrrà una leggera deflazione presso le altre carceri della Sicilia e migliori condizioni di vita per i reclusi. Su questo non ci sono dubbi. Quello che, però, non ci convince - aggiunge l’ esponente sindacale - è il numero di agenti penitenziari che sarà inviato a Trapani". Arezzo: in carcere a studiare filosofia con i detenuti: università dietro le sbarre di Dory d’Anzeo La Nazione, 20 settembre 2016 Una serie di seminari ai quali potranno partecipare anche studenti e cittadini: nuova iniziativa dietro le sbarre. Lezioni di filosofia in carcere, tutti insieme cittadini, studenti e ospiti della casa circondariale. È l’idea innovativa del professor Simone Zacchini, docente di filosofia al Dipartimento di Arezzo dell’Università di Siena dal titolo "Parole nomadi in un tempo sospeso". Partendo dalla domanda "come la filosofia modifica e cambia la vita quotidiana?". Zacchini, ideatore e anima del progetto, ha individuato alcune parole chiave: bellezza, solitudine, dolore, utopia, natura e fragilità sui quali i partecipanti al corso dovranno confrontarsi. I detenuti che parteciperanno al progetto hanno avuto tutta l’estate per scrivere qualcosa su ognuna di queste parole, mettendo nero su bianco il loro punto di vista. Nella seconda fase del progetto, si procederà alla discussione filosofica in sei seminari. Un progetto unico in Italia che ha trovato il pieno appoggio del direttore del carcere San Benedetto di Arezzo, Paolo Basco. Ed è proprio Simone Zacchini a parlare dell’iniziativa Avete trovato collaborazione nelle istituzioni carcerarie? "Ho trovato innanzitutto il pieno appoggio da parte della professoressa Loretta Fabbri, direttrice del dipartimento aretino. Ho poi condiviso con Paolo Basco, i contenuti del progetto in piena sintonia e collaborazione". Quali risultati vi aspettate? "In filosofia i risultati non sono immediatamente visibili. Ma alcuni riscontri sono già emersi, come ad esempio tanto entusiasmo da parte degli ospiti della casa circondariale. Mi aspetto che la filosofia intervenga nel mutamento di lettura e significazione di se stessi e del mondo circostante da parte dei fruitori". Milano: "Così dentro San Vittore viene insegnata la jihad" di Cristina Bassi e Luca Fazzo Il Giornale, 20 settembre 2016 Due ragazzi marocchini combattenti in Siria. Uno dei due si è radicalizzato nel penitenziario. "Non solo si considerava il messaggero di Allah, ma si dichiarava d’accordo con le tesi dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda; in seguito alla carcerazione presso la Casa circondariale di Milano San Vittore Monsef aveva manifestato una ulteriore radicalizzazione, tanto che i coinquilini del giovane stentavano a riconoscerlo". Sono poche righe, tratte dall’ordine di carcerazione che lo scorso 16 aprile il giudice Paolo Guidi spiccò contro Tarik Aboulala e Monsef El Mhkayar, i due ragazzi marocchini finiti in una comunità di Vimodrone, e da lì partiti per combattere in Siria. Ora l’inchiesta è chiusa: per Monsef con la richiesta di rinvio a giudizio depositata ieri dal pm Piero Basilone; per Tarik in modo più definitivo, con la archiviazione "per morte del reo": perché il ragazzo è caduto combattendo nei territori dell’Isis. E chissà se il processo a Monsef si farà mai, perché dai territori del Califfato tornano indietro in pochi. Ma quelle righe contenute nel mandato di cattura sono comunque importanti, perché aprono una finestra su uno dei pericoli maggiori che incombono oggi sulla lotta al terrorismo: il proselitismo che i predicatori della jihad realizzano dentro le carceri. In particolare a San Vittore, una delle prigioni italiane a maggior concentrazione di detenuti islamici. Quanto Tarik e Monsef, entrambi classe 1995, avessero sposato la causa della furia radicale lo ha raccontato al pm Karim, un altro ospite della comunità di accoglienza dove erano vissuti i due, e che dal luglio dello scorso anno era tornato in contatto con loro via Whatsapp: "Monsef ha tentato di convincermi a raggiungerlo poiché in quanto arabo sarebbe stato mio preciso dovere. Io ho ribattuto che la cosa non mi riguardava affatto (...) al che Monsef ha cominciato ad offendermi e a minacciarmi di morte qualora fosse rientrato in Italia". Il 4 dicembre 2015 al recalcitrante Karim arriva un messaggio da Tarik Aboulala: "Quando arrivo là ti taglio la testa". Da dove arriva tanta cieca determinazione? Cosa ha trasformato un piccolo spacciatore di quartiere come Monsef in un tagliagole? Internet, certamente; e anche le prediche nella moschea di via Padova. Ma il salto di qualità avviene nelle celle di San Vittore, nei quarantaquattro giorni - tra il 12 ottobre e il 25 novembre 2013 - in cui El Mhkayar viene rinchiuso, dopo essere stato preso a vendere droga, al quinto raggio del carcere di piazza Filangieri. È qui che si compie la mutazione definitiva. E il modo in cui avviene rispecchia in pieno l’allarme che solo di recente il ministro della giustizia Orlando ha rilanciato sul "contagio" jihadista nelle prigioni. Al quinto raggio, Monsef El Mhkayar viene accolto nella comunità dei marocchini: è la comunità più numerosa e compatta del carcere, in grado di reggere lo scontro con le altre etnie come di avanzare rivendicazioni nei confronti dei vertici dell’istituto. Tra queste, le principali riguardano i diritti legati al Corano, a partire dall’alimentazione halal; e soprattutto il diritto ad autogestire l’attività religiosa, ottenendo in uso celle, lucernari e altri spazi comuni per trasformarli in piccole moschee. A organizzare e a predicare, un detenuto che ricopre il ruolo di imam. A sceglierlo sono gli altri detenuti, ma il sospetto è che le indicazioni vengano da fuori. A San Vittore, Monsef non entra in contatto con sospettati di terrorismo islamico (che sono rinchiusi nelle carceri del circuito S2, a custodia speciale) ma solo con altri detenuti per reati comuni. Eppure è da questi che viene portato sulla strada del fanatismo religioso, quello che nel giro di poco più di un anno, il 17 gennaio 2015 lo porta a imbarcarsi insieme all’amico Tarik in un volo senza ritorno per il Califfato. Riappariranno insieme il giorno dopo, in una foto sul pullman che li porta verso i campi di addestramento. L’11 aprile, Monsef posta la sua foto con mitra in mano accanto a un guerrigliero. La metamorfosi si è compiuta. Un anno dopo, l’amico Tarik trova il "martirio" in battaglia. Vercelli: detenuto mette a fuoco la sua cella e aggredisce gli agenti di Roberto Maggio La Stampa, 20 settembre 2016 L’uomo è in carcere con l’accusa di pedofilia e ha istigato gli altri detenuti alla rivolta. Tre poliziotti sono stati feriti con un rasoio. Il Sappe: "Militari costretti a condizioni di forte stress". Ha tentato di incendiare la propria cella dando fuoco al materasso e al cuscino e ha aggredito tre agenti di polizia penitenziaria con una lametta. L’episodio è avvenuto sabato sera, attorno alle 23,30, nel carcere Billiemme di Vercelli: il detenuto, un marocchino rinchiuso in cella per il reato di pedofilia, è stato bloccato dai tre agenti, a cui ha inflitto ferite guaribili in 5-10 giorni. Oltre a lui, hanno dato in escandescenza anche altri detenuti, sempre dello stesso braccio detentivo, che si erano ubriacati con alcool autoprodotto attraverso la macerazione della frutta. A riferire l’episodio è il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "Nei primi sei mesi del 2016 nelle carceri del Piemonte - spiega il segretario Donato Capece - si sono contati 294 atti di autolesionismo, 38 tentati suicidi sventati in tempo, 1 suicidio, 162 colluttazioni e 26 ferimenti: numeri che fanno capire, più di mille parole, con quale e quanto stress operativo si confrontano quotidianamente le donne e gli uomini della polizia penitenziaria della regione". I detenuti in tutto il Piemonte sono oltre 3.670 e ognuno deve scontrarsi quotidianamente con mille difficoltà: "Invieremo una dettagliata nota sulle criticità delle carceri regionali - conclude Capece - che sarà portata all’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dei vertici dell’amministrazione penitenziaria". Bari: giudice aggredito durante l’udienza, prima gli insulti, poi un microfono in testa di Gabriella De Matteis La Repubblica, 20 settembre 2016 L’aggressore era detenuto per un altro procedimento giudiziario: l’uomo ha reagito a una domanda del magistrato dando in escandescenza. "Sconcerto" dell’Anm "per lo scarso livello di sicurezza". Prima è stato aggredito verbalmente, poi colpito in testa con un microfono. Vittima il giudice Michele Parisi, che in un’udienza del tribunale di Bari in composizione monocratica stava ascoltando un testimone detenuto per un’altra causa. Quest’ultimo ha reagito a una domanda rivoltagli dal giudice dando in escandescenza e insultandolo, poi si è alzato dalla sedia, ha afferrato il microfono collegato con la stenotipia e ha colpito Parisi. Immediatamente soccorso, il giudice è stato condotto al pronto soccorso e poi è tornato in tribunale per proseguire le udienze. Il testimone, che era scortato dalla polizia penitenziaria, è stato ricondotto in carcere. Sul caso interviene il presidente della sezione barese dell’Anm (l’Associazione nazionale magistrati), Ettore Cardinali, che a nome della giunta esprime "il proprio sconcerto per lo scarso livello di sicurezza e di tutela dell’esercizio della giurisdizione nel distretto" e rimarca "la necessità di provvedere quanto prima a risolvere la questione dell’edilizia giudiziaria barese". E ancora, la sezione dell’Anm ricorda che "infinite volte ha evidenziato l’inadeguatezza, fra l’altro, dei palazzi di giustizia e delle aule giudiziarie": richieste alle quali, però, non c’è stato alcun seguito. Anche per la Camera penale "il gravissimo episodio occorso fornisce l’ennesima prova dell’inadeguatezza della sede in cui si celebrano i processi e dei pericoli cui sono quotidianamente esposti tutti gli operatori che cercano di fornire il loro apporto per il funzionamento del servizio della giustizia per i cittadini". Migranti. Assemblea Onu, un fallimento annunciato di Marina Catucci Il Manifesto, 20 settembre 2016 Migranti. Il vertice Onu sui migranti voluto da Ban Ki moon si chiude senza neanche una dichiarazione comune di intenti e con gli Stati. Il commissario ai diritti umani: "Abbiamo fallito verso milioni di persone". Come gestire 65,3 milioni di sfollati? Il problema è al centro della discussione iniziata ieri al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite con i leader di tutto il mondo arrivati a New York per il primo vertice dedicato a rifugiati e migranti. Il summit apre la settimana dell’Assemblea generale dell’Onu che sarà l’ultima per il sudcoreano Ban ki moon e l’ultima per Barack Obama. Ma come si risolve una crisi del genere? Le Nazioni Unite devono affrontare il problema del più grande movimento di persone della Storia, dopo la fine della seconda guerra mondiale, quindi "si terranno riunioni, conferenze, tavole rotonde, si produrranno documenti finali, discorsi, promesse, maledizioni e vilipendi. Poi a fine giornata, si andrà a casa", ha amaramente dichiarato PassBlue, pubblicazione indipendente che si occupa di diritti umani attraverso la lente delle Nazioni Unite. PassBlue è un progetto fondato nel 2011 dal Ralph Bunche Institute per gli Studi Internazionali presso il Graduate Center dell’Università della Città di New York, non legato finanziariamente o in altro modo alle Nazioni Unite, e sono tutti molto scettici sull’esito di questo summit. La conferenza su rifugiati e migranti è, comunque, senza precedenti per le Nazioni Unite, i capi di Stato e di governo, i leader delle Nazioni Unite e gli esperti della società civile, dovranno intervenire e cercare di trovare un soluzione per i 65 milioni di uomini, donne e bambini che nel 2015 sono stati costretti ad abbandonare la propria casa. Per il momento hanno partorito un documento, dal titolo la Dichiarazione di New York, non vincolante, con principi e impegni da cui partire per ottenere, entro il 2018, la firma di un Global Compact, un trattato che indichi come affrontare la crisi migratoria. "È molto interessante - ha dichiarato all’Associated Press Filippo Grandi, alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati - e se saremo in grado di tradurre questo documento in una risposta concreta, in cui si impegnano molti attori politici, si potranno risolvere davvero molti problemi riguardanti situazioni di emergenza o coinvolgenti rifugiati a lungo termine, come per la situazione siriana". Gli argomenti di discussione comprendono i modi in cui si affrontano le cause profonde dei flussi dei migranti, la futura cooperazione internazionale sul problema, le responsabilità derivanti dal diritto internazionale e la vulnerabilità dei migranti mentre tentano di raggiungere le loro destinazioni. Nel corso dei lavori saranno toccate anche le questioni dei diritti umani e l’attuazione dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. I risultati al momento sembrano deludenti, viste le difficoltà a raggiungere anche solo una dichiarazione di intenti condivisi. "L’amara verità è che questo vertice è stato indetto perché abbiamo in gran parte fallito - ha detto Zeid Ràad al-Hussein, l’alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani - Non siamo riusciti a porre fine alle sofferenze delle persone in Siria, a porre fine alla guerra al suo esordio. Abbiamo fallito, nei confronti di milioni di migranti che meritano molto di più di vite segnate, dalla culla alla tomba, da umiliazione e disperazione". Un fallimento ancora più evidente se si considera quello che in origine, era l’ambizioso progetto che Ban Ki moon voleva realizzare: ovvero dividere tra gli Stati membri delle Nazioni unite una quota annua pari al dieci per cento profughi. Per il segretario generale delle Nazioni unite si trattava di un modo per gestire finalmente in maniera ordinata un fenomeno drammatico come quello di chi fugge da guerre, persecuzioni e catastrofi climatiche, riuscendo così a segnare anche la fine del suo mandato. Gli Stati però, non lo hanno permesso. Da settimane nel Palazzo di Vetro si sapeva che nessun impegno preciso sarebbe stato assunto per quanto riguarda un’eventuale spartizione dei profughi. Un rifiuto conseguenza anche del vuoto vissuto non solo all’interno delle Nazioni unite - visto che Ban è praticamente scaduto e il suo successore ancora non è neanche prevedibile - ma anche alla Casa Bianca dove il nome del futuro inquilino è segnato da altrettanta imprevedibilità. E per di più con uno dei due candidati che non perde occasione per dimostrare la sua ostilità nei confronti di profughi e migranti. Migranti. L’Europa cambia strategia e Roma resta sola di Carlo Lania Il Manifesto, 20 settembre 2016 Accantonata l’Africa, si rafforzano le frontiere con la Turchia. Matteo Renzi lo va ripetendo da giorni, da subito dopo il vertice di Bratislava dove è apparso chiaro che sull’immigrazione l’Unione europea aveva cambiato posizione. "Facciamo da soli", dice il premier italiano alludendo a una strategia per fermare i flussi di migranti provenienti dall’Africa. Lo ha ribadito anche ieri da New York dove si trova per l’assemblea dell’Onu, con un attacco mirato ai vertici delle istituzioni di Bruxelles e in particolare al presidente della Commissione europea: "Juncker dice tante cose belle, ma non vediamo i fatti. Se l’Europa continua così noi dovremo organizzarci in modo autonomo sull’immigrazione". Dietro le parole c’è la presa d’atto che lo spirito di Ventotene, con la solidarietà e le pacche sulle spalle scambiate con "Angela e François", ormai è finito, soppiantato dagli interessi nazionali. Sull’immigrazione l’Europa si sta ricollocando spinta dai risultati elettorali che hanno penalizzato la cancelliera tedesca e impaurito il presidente francese, e a palazzo Chigi la mossa non è certo sfuggita. Come se non bastasse Orban, il premier ungherese, chiede più soldi (160 milioni di euro) e mezzi per la Bulgaria in modo da garantire un ulteriore rafforzamento della frontiera con la Turchia, mentre per il 24 settembre dovrebbe essere confermato un mini-vertice a Vienna tra i capi di governo di Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, Serbia, Albania, Bulgaria e Romania, summit al quale sono stati invitati anche la cancelliera Merkel e il premier greco Alexis Tsipras e che avrà come oggetto la sicurezza delle frontiere esterne, vale a dire ancora la Turchia. Il non detto è che l’accordo sui migranti siglato a marzo con Ankara - unica vera preoccupazione di Bruxelles - potrebbe davvero non resistere a lungo, e quindi ci si organizza per fronteggiare una nuova ondata di profughi. Del resto non è un caso se, come denunciato proprio da Renzi, il documento conclusivo di Bratislava conteneva ben quattro pagine dedicate all’accordo tra Ue e Turchia e neanche una ai possibili interventi in Africa, più volte sollecitati da Roma. Il motivo è semplice: i 2,7 milioni di profughi che la Turchia potrebbe lasciare liberi di partire in caso di esito negativo della partita sulla liberalizzazione dei visti, rappresentano una minaccia forte, specie in vista di importanti scadenze elettorali come quelle previste da qui a un anno in Austria, Francia, Germania e Olanda. Poco importa, quindi, dei 150 mila migranti in arrivo sulle coste italiane dall’Africa. Insomma: ognuno corre ai ripari come può e gli interessi italiani non coincidono più con quelli degli altri 27 Stati. Grecia compresa. Renzi lo ha capito e per questo minaccia di essere pronto a muoversi senza i partner europei. Anche perché se gli altri leader hanno scadenze elettorali, lui deve fare i conti con il referendum. Il piano è già pronto, anche se rischia di provocare qualche attrito con il ministro degli Interni Alfano. Il Viminale stava infatti già predisponendo la creazione di una struttura autonoma dal Dipartimento Immigrazione che si occupasse della gestione dei Cara, i centri di accoglienza richiedenti asilo e guidata da un prefetto insieme all’Anac, l’Agenzia nazionale anticorruzione, e alla ragioneria dello Stato. Un progetto già avviato, sul quale però pende adesso la decisione del premier di riunire tutta la questione migranti a Palazzo Chigi sotto un’unica cabina di regia che insieme all’accoglienza si occupi anche di avviare accordi bilaterali con i paesi terzi per i rimpatri e che veda il coinvolgimento anche dei ministeri degli Esteri e della Difesa. Ci sono poi gli investimenti da realizzare nei paesi dell’Africa occidentale, in particolare Marocco e Tunisia, e del Corno d’Africa, ovvero quelli dai quali arriva in Italia il maggior numero di migranti. Un "Africa Act" modellato sulla proposta di migration compact già presentata dall’Italia all’Ue e che prevede un fondo iniziale di 20 milioni di euro forniti dal ministero degli Esteri e gestito dalla Cassa depositi e prestiti. Soldi che, attraverso un effetto moltiplicatore frutto di altri investimenti pubblici e privati, dovrebbero generare alcuni miliardi di euro. Previste anche agevolazioni fiscali per le imprese che investiranno in Africa e collaborazioni tra le università italiane e africane. Migranti. Il piano del governo: un "commissario" per i profughi e le strutture definitive di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 settembre 2016 Il governo ha messo a punto un piano di interventi per ricollocare chi ha chiesto lo status di rifugiato. Sei caserme già pronte per alleggerire gli enti locali. Un piano di interventi per ricollocare i profughi in strutture definitive dove possano attendere l’esito della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. È questa una delle priorità del governo, che mette a punto la nuova strategia per gestire l’emergenza legata all’arrivo dei migranti. Perché, come conferma da New York il presidente del Consiglio Matteo Renzi, "oggi abbiamo una situazione dove i ministeri che si occupano di immigrazione sono sei o sette, l’idea è quella di un coordinamento più efficace". Il commissario - La nuova struttura dipenderà direttamente dal premier e potrebbe essere affidata a una sorta di "commissario" di cui si dovrà tracciare l’identikit. Di certo avrà il compito di stabilire le nuove regole in materia di accoglienza e soprattutto di cooperazione con gli Stati africani da cui partono uomini, donne e bambini che hanno come meta l’Europa. Ma dovrà anche rivedere le procedure per l’esame delle domande in modo da snellirle ulteriormente. Le sei caserme - Di fronte alle resistenze di Regioni e Comuni per mettere a disposizione le strutture dove garantire l’assistenza degli stranieri, il governo ha già ristrutturato sei caserme. Quattro sono in Veneto, una in Friuli, una in Sicilia. Ed è proprio qui che sarà trasferita la gran parte delle persone che attualmente vivono in alloggi reperiti dalle prefetture. Sono la Cavarzerani di Udine, la Prandina e la Bagnoli di Sopra a Padova, la Serenza a Treviso e la Conetta di Cona a Venezia, oltre alla Gasparro di Messina. Nei prossimi giorni ci sarà un incontro con l’Anci, l’associazione che rappresenta i sindaci. Si cercheranno tutte le possibili soluzioni per garantire il funzionamento del sistema, ma la dichiarazione di Renzi, quando sottolinea la necessità di "evitare di lasciare queste persone a bighellonare" fa ben comprendere l’obiettivo: fare in modo che abbiano un’occupazione in attesa di conoscere il proprio destino. Gli accordi bilaterali - La missione primaria la ribadisce il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: "Investire in Africa per affrontare alla radice le cause delle migrazioni. Investiamo in Africa per investire nel nostro futuro". All’azione diplomatica sarà affiancata quella dell’intelligence, proprio questo sarà uno dei motivi che rende indispensabile il coordinamento tra le varie componenti ministeriali. La trattativa con gli Stati da cui partono i migranti dovrà prevedere un investimento in quelle aree per assicurare così gli aiuti indispensabili a convincere le persone a rimanere nelle proprie terre e avere un lavoro. Ma anche servizi essenziali come le scuole e tutto ciò che è necessario per vivere. Ecco perché si è deciso di contare anche sull’attività degli 007, soprattutto in quei Paesi dove la presenza è consolidata e anche i rapporti con i governi possono essere più agevoli. Immigrazione, quale solidarietà di Ezio Mauro La Repubblica, 20 settembre 2016 "Offrendo integrazione concreta in cambio del concreto rispetto delle nostre leggi e della Costituzione si può invece provare a coniugare una doppia responsabilità di governo per la sicurezza e per la solidarietà". Ci voleva il sindaco di una grande città come Milano, legittimato dal consenso elettorale che lo ha portato in municipio, per dire a voce alta che l’immigrazione nel nostro Paese non è più un’emergenza ma un terremoto continuo, che cambierà la storia, la geografia, il costume degli italiani, come sta già cambiando la politica. Non tanto per i numeri, che pure hanno una loro rilevanza fortissima in una regione come la Lombardia. Una regione che nella "distribuzione" dei migranti arriva al 13 per cento contro il 9 per cento della Sicilia, l’8 di Piemonte, Veneto, Lazio e Campania, il 7 di Emilia, Puglia e Toscana, il 3 del Friuli e l’1 per cento delle province di Trento e Bolzano. Ma per la dimensione simbolica, emotiva, fantasmatica e dunque politica che il fenomeno ha assunto nella discussione pubblica e nella percezione di un pezzo rilevante della nostra opinione nazionale che cerca sicurezza, tutela o almeno riconoscimento: lo chiede allo Stato, e se non lo trova si rivolge come sta facendo all’antistato. Lo Stato democratico del nuovo millennio si trova così soggetto a due spinte contrapposte, che gli impongono un doppio dovere a prima vista inconciliabile. Da un lato deve garantire solidarietà ed accoglienza al migrante che è fuggito da guerre, violenze e carestie cercando soltanto una sponda di libertà dove appoggiare il futuro dei suoi figli e ha affrontato un viaggio della disperazione verso l’immagine che noi raccontiamo di noi stessi, la terra della libertà e delle opportunità nell’uguaglianza. Dall’altro lato deve rispondere all’istinto indigeno di protezione che chiede confusamente difesa, salvaguardia, addirittura riparo e copertura rispetto al mondo di fuori che viene a bussare a casa nostra. La democrazia occidentale, fondata sui diritti, tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede solo di sopravvivere, qualcosa di sacro che viene dal profondo dei secoli. Ma la democrazia nello stesso tempo tradisce i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è comunque una richiesta di presidio e di garanzia, quindi di governo. In buona sostanza la democrazia governante si trova davanti ad un’altra prova di sè, e cioè allo scarto tra l’universalità dei nostri valori e dei principii quando li professiamo in astratto e la loro relatività, la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi. Dopo i parametri di Maastricht è come se l’Europa volesse stabilire una quota anche alla disperazione di coloro che non hanno più nulla e fuggono da tutto, uno spread tra la loro richiesta di sopravvivere e la nostra pretesa di vivere tranquilli. Potremmo dire - ed è la cifra drammatica ed estrema dell’epoca che stiamo vivendo - che siamo davanti ad un confronto inedito, che la modernità recupera dal primordiale: il confronto-scontro tra i cittadini e i dannati della terra, i primi e gli ultimi del mondo in cui viviamo. Per la prima volta nella storia, i garantiti capiscono di poter fare a meno degli esclusi, viene meno il vincolo di interdipendenza che per decenni ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti dentro un orizzonte comune che abbiamo chiamato società, e per di più democratica. La questione si complica se guardiamo dentro quel riflesso di protezione. Nasce quasi sempre non da un egoismo astratto dei nostri diritti, ma da un sentimento di inquietudine per il globale che precipita in casa nostra, frantumando la pretesa di universalità con cui noi occidentali scrivevamo da soli la storia del mondo. Tutte le storie oggi accampano gli stessi diritti, tutti i popoli della terra, come diceva Beck, hanno un presente comune, salta non solo la primazia ma anche la gerarchia occidentale, vissuta per anni come il principio ordinatore del mondo. La rivoluzione della mondializzazione e la rivoluzione tecnologica hanno sfondato la spazialità moderna e cioè lo spazio nazionale, social-culturale, politico, e di conseguenza hanno smaterializzato la sovranità popolare e quella pubblica, mandando all’aria il concetto di rappresentanza, insieme con ogni verifica di mandato politico. Resta la sensazione che il mondo si muova, ma fuori controllo, senza governo. Con il risultato di una nuova inedita frattura tra tutto ciò che è in movimento - le esperienze cosmopolite, i ragazzi di Erasmus, l’universo che vive negli spazi sovranazionali dei flussi finanziari e della tecnologia dell’informazione, dove si prendono le decisioni che contano, senza istituzioni e senza un controllo democratico - e tutto ciò che è fisso, confinato nel sottosuolo impotente degli Stati nazionali e ha paura del movimento, delle sue novità, della sua inafferrabilità nell’altrove, del suo potere senza un re e senza nemmeno un regno. Due geografie entrano in conflitto, una immateriale e virtuale, ma egemonica e comunque sovrana, una tradizionale e concreta, spossessata e svuotata di ogni potestà effettiva. Il punto è che nella seconda geografia abitano gli anziani, sempre più numerosi, i cittadini periferici dei piccoli centri estranei al circuito multiculturale dei consumi nelle metropoli, le solitudini isolate e affidate ai badanti, gli sconfitti della globalizzazione, i senza lavoro che lo hanno perso a cinquant’anni e scoprono che non lo troveranno più. In una parola, la fascia più esposta e più fragile della nostra popolazione. Persone che spesso nel loro percorso biografico non sono uscite dai confini nazionali e che oggi si trovano in casa il mondo di fuori, magari ai giardini pubblici dove accompagnano i nipoti. Un mondo rovesciato. E una nuova categoria che chiede spazio e considerazione, tra i primi e gli ultimi: i penultimi - come li abbiamo chiamati -, timorosi del confronto con altri mondi, spaventati dalla perdita di controllo personale sull’identità del loro territorio, inquieti per lo spezzarsi del filo di memorie condivise, gelosi di un welfare che non vogliono spartire, egoisti di un lavoro che non c’è, furiosi con un’accoglienza che riserva ai disperati un’attenzione pubblica che loro non sentono più. Non ho parlato con il sindaco di Milano, ma credo che chiedendo un governo dell’immigrazione pretendesse soprattutto un segnale politico di attenzione a questo gruppo sociale vastissimo, anonimo, disorganico e senza rappresentanza culturale, ma fondamentale per la tenuta morale del sistema. Soprattutto la sinistra dovrebbe sentirsi interpellata da queste inquietudini sparse, da questi fantasmi ingigantiti nella solitudine della luce televisiva del grande tinello italiano, dove arrivano soltanto gli imprenditori politici della paura, che non hanno soluzioni per nessun problema ma almeno scambiano un segnale di riconoscibilità sociale dallo schermo dei talk show. Ci dev’essere un’alternativa alla ruspa di Salvini e al silenzio di Grillo che disprezzano entrambi le istituzioni mentre invitano il cittadino impaurito e deluso non a cambiare il sistema ma ad uscire dal sistema, come se la soluzione fosse fuori, dove abita un’antipolitica sterile e feroce che non aiuta il cittadino a capire, perché fa di ogni erba un vero e proprio fascio. Offrendo integrazione concreta in cambio del concreto rispetto delle nostre leggi e della Costituzione si può invece provare a coniugare una doppia responsabilità di governo per la sicurezza e per la solidarietà. Non sono solo due obblighi della democrazia, sono anche gli unici strumenti che possono governare il fenomeno, negli obblighi congiunti e concorrenti che il potere pubblico deve sentire nei confronti dei suoi cittadini e nei confronti dei migranti. Senza sicurezza non c’è effettiva libertà, e la democrazia viene meno non solo alle sue funzioni ma alle sue promesse, consumandosi. Senza solidarietà, la stessa democrazia perde l’anima, gettando a mare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri: ciò che noi siamo, anche se spesso lo dimentichiamo. Migranti. Quei sudanesi rimpatriati e i dubbi sulla tutela dei loro diritti di Luigi Manconi L’Unità, 20 settembre 2016 Il 24 agosto scorso, alcuni i giornali riportano una notizia alquanto preoccupante: il rimpatrio di 48 cittadini sudanesi con un volo Egyptair, partito da Torino e diretto a Khartoum. I tempi brevissimi in cui si è svolta l’operazione - diversamente da quanto accade solitamente nei casi di rimpatri dai centri di identificazione e di espulsione - possono far temere la possibilità di violazioni e lasciano spazio a numerosi quesiti da me già rivolti al Ministero dell’Interno con un’interrogazione. La preoccupazione più grande è che le persone coinvolte non abbiano ricevuto un’opportuna informazione legale. E che la loro posizione giuridica non sia stata adeguatamente valutata, così da escludere il rischio di trovarsi un una situazione di pericolo una volta rientrati in Sudan. E va detto che, purtroppo, un simile rischio è tutt’altro che escluso. Insieme a Valentina Brinis e a Vitaliana Curigliano, infatti, grazie ad alcune segnalazioni, abbiamo potuto ricostruire quanto avvenuto dal 19 agosto in poi. I sudanesi, una volta giunti in Italia e transitati nell’hotspot di Taranto, successivamente si sono diretti a Ventimiglia. Un percorso che compiono in molti nel tentativo di superare il confine tra Italia e Francia. Qui, il 19 agosto, sono stati foto-segnalati dalla polizia. Da Ventimiglia, dopo due giorni di viaggio, sono stati riportati esattamente laddove era iniziato il loro cammino: ovvero all’hotspot di Taranto dove sono rimasti ancora per qualche giorno ed è stato loro notificato un decreto di espulsione e accompagnamento alla frontiera. L’intero gruppo è poi ripartito alla volta di Torino. Alcuni di loro sono saliti sul volo diretto a Kahrtoum, una piccola parte è stata trasferita al Cie di corso Brunelleschi con un decreto di trattenimento. Da Taranto a Torino pare che ci sia stata un’unica tappa a Ventimiglia (di nuovo!) per il cambio del pullman. Pacchi postali, merci viaggianti, bagagli in transito. E c’è da chiedersi, di conseguenza, perché mai far attraversare per ben due volte l’Italia, in lungo e largo, 2.200 chilometri, se poi quelle stesse persone devono imbarcarsi dall’aeroporto di Torino, che si trova ad appena 200 chilometri da Ventimiglia? E, soprattutto, su quale base giuridica il gruppo di oltre cinquanta persone è stato trasferito da Ventimiglia a Taranto e di fatto privato della libertà per alcuni giorni, prima di procedere all’operazione di rimpatrio? Il centro di Taranto è un hotspot o funge anche da centro di trattenimento? Infine, in che momento e in che forma le autorità sudanesi hanno confermato l’appartenenza nazionale dei membri di quel gruppo? Le procedure di rimpatrio si sarebbero svolte sulla base di quanto definito nel memorandum d’intesa su rimpatri e gestione delle frontiere sottoscritto dalle forze di polizia italiane e sudanesi il 4 agosto scorso. Un tipo di accordo che non richiede il vaglio e l’approvazione del Parlamento. A questo punto si considerino alcuni dati: il numero di sudanesi sbarcati negli ultimi mesi sulle nostre coste è alto; sono aumentate le richieste d’asilo e, tra quanti hanno fatto domanda di protezione, circa il 60% ha ottenuto un esito positivo. Indice certo, quest’ultimo, dell’alto grado di insicurezza che domina tuttora quel paese. Per non parlare delle numerose segnalazioni da parte delle principali organizzazioni internazionali, in merito alla fragilità dell’intero sistema democratico e di tutela dei diritti umani in Sudan, e alla figura fosca di Bashir oggetto di indagini da parte della Corte penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, e nei cui confronti è già stato spiccato un mandato di cattura. In un contesto del genere, il rimpatrio anche di uno solo di quei cittadini sudanesi avvenuto in tempi rapidissimi e con l’intervento di autorità consolari o funzionari sudanesi non può che destare fortissime preoccupazioni. Di quali garanzie disponiamo sul fatto che in un lasso di tempo tanto breve, e nel corso di spostamenti così frenetici, quelle persone abbiano avuto modo di essere adeguatamente informate sui propri diritti, a cominciare da quello di chiedere protezione in Italia? Ed è stato appurato da parte del ministero dell’Interno che nessuno di loro corresse alcun rischio per la propria incolumità una volta tornato in Sudan? Ecco, tutto questo, può celarsi dietro quella notizia, enfaticamente comunicata a fine agosto, sul "rimpatrio di decine di clandestini". Libia. Assalto all’alba, due italiani rapiti di Francesca Schianchi e Giordano Stabile La Stampa, 20 settembre 2016 Sequestrati a Ghat, in una zona controllata da tribù vicine al governo. Catturato anche un italo-canadese. Corsa contro il tempo per liberarli. Erano partiti di prima mattina, diretti alla sede della loro azienda, nella località di Bir Tahala, qualche decina di chilometri a Nord di Ghat. Un viaggio di routine fra l’aeroporto della città, dove la Con.I.Cos di Mondovì cura i lavori di manutenzione, e gli uffici. Ma lungo il percorso li aspettavano i sequestratori. Appoggiati ai loro fuoristrada, come se fossero in panne. La macchina con a bordo i due tecnici italiani, l’autista e un italo-canadese di un’altra azienda che aveva chiesto un passaggio, ha rallentato. I rapitori hanno tirato fuori le armi, sparato per costringerla a fermarsi e fatto salire i quattro sulla loro auto. L’autista è stato lasciato per strada poco dopo, con le mani legate. Per Bruno Cacace, 56 anni, residente a Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo, Danilo Calonego, 68enne della provincia di Belluno, e l’italo-canadese Frank Boccia è cominciato invece un incubo che si spera finisca presto. Iniziato all’alba ma tenuto riservato dalla Farnesina fino a sera, in una serrata corsa contro il tempo per tentare la liberazione prima che - l’ipotesi più temuta dalle nostre autorità - gli operai rapiti possano essere "venduti" a milizie islamiste. Il distretto di Ghat si trova una zona desertica, un rifugio perfetto per trafficanti, banditi e anche gruppi di terroristi che attraversano il Sahara lungo le antiche piste. Nel distretto si trovano anche importanti giacimenti di gas: quelli di Wafa e Bahr Essalam, poco distante da Ghat, alimentano il gasdotto Greenstream dell’Eni, che da lì arriva sulla costa Mellitah e poi attraversa il Mediterraneo fino a Gela, in Sicilia. L’aeroporto di Ghat ha quindi un ruolo strategico. È stato costruito con un contributo importante della Con.I.Cos (Contratti Internazionali Costruzioni), presente in Libia dal 1982 e attiva in tutto il Paese, con uffici a Tripoli, Derna, Bengasi e appunto Ghat. Per i lavori di manutenzione devono essere presenti alcuni tecnici italiani, ma finora non c’erano stati problemi. Anche se dopo il sequestro dei quattro tecnici della Bonatti le aziende italiane sono state invitate a usare di preferenza mano d’opera locale. Ora il caso è seguito direttamente dal premier Matteo Renzi. Il sindaco di Ghat, Komani Mohamed Saleh, ha confermato le circostanze: "Sono stati presi da sconosciuti. Stiamo lavorando per risalire al gruppo dei rapitori e al luogo dove sono stati portati". Fonti locali propendono più per la pista del rapimento a scopo di riscatto che per quella terroristica. La zona è formalmente sotto il controllo del governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj. Ma, come tutto l’entroterra libico, è contesa fra tribù locali: un’area "incontrollabile", secondo fonti della Difesa, che neppure durante il periodo coloniale è stata mai al sicuro. Le tribù più importanti sono quelle dei Tuareg. Durante la rivoluzione del 2011 i Tuareg si sono schierati contro Gheddafi e quindi sono più propensi ad appoggiare Al-Sarraj rispetto al generale Khalifa Haftar, considerato un gheddafiano. Ma la pressione delle forze filo-Haftar si sta facendo sentire su tutta la provincia del Fezzan, grande come la Francia e con appena mezzo milione di abitanti. Il capoluogo Sebha sembra passato con il generale, anche per il ruolo di un’altra grande tribù del deserto, i Tebu. Le montagne attorno a Ghat sono anche rifugio di gruppi islamisti, prima di tutto Al-Qaeda, che le ha usate come punto di passaggio per le scorribande che dopo la caduta di Gheddafi l’hanno portata a conquistare mezzo Mali, all’inizio del 2013. Ora però sono investite, assieme a tutto il Fezzan, "da altri flussi", come testimonia Abdel Majid, leader di una delle più importanti milizie di Sebha: combattenti dei Boko Haram; altri dell’Isis in fuga in direzione opposta; islamisti di Derna pronti a rafforzare le file dei qaedisti. Il tutto mentre a Sebha, capitale del deserto libico, con 27 milizie a caccia di potere e soldi, la situazione è fluida e pronta cambiare da un momento all’altro. In meglio come in peggio. Siria. Colpito convoglio di aiuti umanitari "almeno 12 le vittime" di Carlo Baroni Corriere della Sera, 20 settembre 2016 Un raid aereo congiunto di russi e siriani ha colpito i mezzi che stavano trasportando aiuti alla popolazione. Non confermato ufficialmente il bilancio dei morti. La Siria non riesce ad uscire dalla guerra. La fragile tregua, concordata una settimana fa, è "clinicamente morta" come ha detto un dirigente dell’opposizione siriana. Scontri si sono già registrati nell’area di Aleppo. L’episodio più grave, e inquietante, un raid contro un convoglio umanitario. Dodici le vittime del bombardamento, per la maggior parte gli autisti dei camion. I 18 mezzi colpiti facevano parte di un convoglio di 31 mezzi. Erano diretti ad Urm al-Kubra. L’attacco è avvenuto mentre si stavano scaricando le scorte con i viveri per la popolazione assediate da settimane. "Siamo scioccati - ha detto la portavoce della Croce Rossa Ingy Sedky - per la brutalità contro una missione umanitaria". Ed anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria, Staffan de Mistura, ha espresso "indignazione" per il raid e ribadito che solo Mosca e Washington possono dichiarare che la tregua è saltata. Ma governativi e ribelli si accusano a vicenda per la violazione del cessate il fuoco. Secondo il regime di Assad sarebbe stata l’opposizione ad aver boicottato l’intesa. I ribelli replicano ed accusano Damasco "di aver violato più volte la tregua per poterne annunciare la fine". E nuovi scontri si sono registrati proprio nella zona di Aleppo. Le forze armate di Assad hanno ripreso i bombardamenti sulla città più martoriata del Paese, ancora controllata dai ribelli anti Assad. L’attacco al convoglio umanitario, secondo la denuncia degli osservatori di Human Rights, è stato condotto dall’aviazione di Assad e dai russi. Solo poche ore il segretario di Stato americano, John Kerry, si era detto fiducioso sull’arrivo degli aiuti umanitari alle popolazioni assediate. Anche George Sabra, dell’Alto comitato per i negoziati, ha denunciato che il cessate il fuoco continua ad essere violato in diverse regioni del Paese e che le principali strade per l’arrivo degli aiuti umanitari alle popolazioni non sono state aperte. Subito dopo la proclamazione della fine della tregua, intensi raid aerei governativi siriani si sono abbattuti su Aleppo est, la parte controllata dagli insorti dove rimangono circa 300 mila civili. Gli attacchi hanno preso di mira i quartieri di Sukkari e Amiriyah. L’opposizione ha accusato le forze governative di avere violato la tregua 254 volte dal suo inizio. I media governativi di Damasco affermano che i ribelli l’hanno violata 32 volte solo due giorni fa. E sull’attacco americano, che nei giorni scorsi aveva provocato più di novanta militari siriani morti e che Washington aveva attribuito ad un errore, è intervenuto il vescovo di Aleppo, George Abou Khazen, "di certo - ha detto - qui nessuno crede che la strage sulla caserma sia stata un errore". Polemica anche sugli aiuti umanitari che la Mezzaluna rossa siriana (Sarc), ente controllato dal governo, aveva distribuito a un sobborgo di Damasco. Sui social network attivisti e medici hanno denunciato l’Onu e la Sarc perché negli scatoloni giunti a destinazione gli alimenti sono avariati, altri sono stati saccheggiati e resi inservibili ai posti di blocco militari. Stati Uniti. L’America e la sicurezza, i ripensamenti di Hillary di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 20 settembre 2016 Continuano gli appelli alla razionalità e all’approccio moderato. Ma contro il terrorismo il presidente degli Stati Uniti ha chiamato in aiuto i giganti digitali della Silicon Valley per contrastare la propaganda degli integralisti sul web. Una regia orchestrata da Donald Trump non avrebbe potuto fare di meglio: la foto segnaletica di Ahmad Khan Rahami, l’afghano naturalizzato americano appena identificato come possibile autore dell’attentato di sabato a New York, campeggia su tutti i teleschermi d’America proprio mentre Barack Obama sta per proporre una più ampia accoglienza di rifugiati alla conferenza dell’Onu sui migranti. Negli stessi minuti viene identificato anche l’estremista islamico che sabato ha pugnalato nove persone in un mall del Minnesota: Dahir Adan, un ragazzo somalo integrato nella società americana, studi al St. Cloud College, un lavoro come guardia giurata. Polizia e intelligence negli Usa funzionano: grandi trame terroristiche sono state intercettate e sventate, i lupi solitari vengono quasi sempre neutralizzati (Rahami catturato dopo una fulminea caccia all’uomo). Ma l’Isis, nonostante l’offensiva Usa che gli ha sottratto metà del territorio controllato in Iraq e una bella fetta di quello siriano, è riuscito a moltiplicare gli attacchi individuali. E, nell’infuocato clima della vigilia elettorale, con un Trump scatenato, per il presidente americano è sempre più difficile difendere la società senza steccati e l’accoglienza di profughi dei conflitti. La ragione dice che l’America non deve chiudersi, non deve discriminare la sua minoranza musulmana. La cui integrazione nella cultura e nel tessuto sociale degli Stati Uniti è un bene prezioso, da coltivare con cura. No al conflitto di civiltà, non si stanca di ripetere Obama. Ma Trump gioca sulle emozioni, parla all’America spaventata: "Stiamo lasciando crescere un cancro nella nostra società, dobbiamo essere molto più duri: sotto la leadership Obama-Clinton abbiamo avuto più attacchi in Patria che vittorie all’estero". Hillary Clinton replica che gli irresponsabili proclami di Trump vengono usati dall’Isis come strumenti di reclutamento, ma adesso è costretta a ammettere che l’accoglienza dei rifugiati in America va fatta con grande prudenza, dopo controlli severissimi. La comunità musulmana degli Stati Uniti è sicuramente più integrata e patriottica di quelle europee (oltre a essere di dimensioni più ridotte). Ci sono infermiere e ingegneri islamici, molti musulmani sono nelle forze armate e alcuni lavorano negli snodi più delicati dell’Amministrazione. Lo stile incendiario della predicazione di molti imam del Vecchio continente è pressoché sconosciuto in America dove spesso i leader religiosi collaborano attivamente con le autorità quando c’è da isolare qualche estremista pericoloso. Obama non vuole rinunciare a questa preziosa cooperazione. Perciò fin dalla strage di San Bernardino, quasi un anno fa, ha continuato a ripetere ossessivamente che pochi casi di americani che abbracciano la causa del jihad non deve in alcun modo portare la società a emarginare o, addirittura, discriminare la sua comunità musulmana. Ma uno slittamento dello stato d’animo dei cittadini ha cominciato a manifestarsi in varie parti del Paese man mano che gli attacchi dei "lupi solitari" si sono moltiplicati anche negli Stati Uniti e mentre in campo repubblicano emergeva con sempre maggior forza la candidatura di Trump con la sua promessa di sostituire la tolleranza col pugno di ferro. Quaranta giorni fa, dopo l’assassinio del loro imam nel quartiere di Queens, i musulmani immigrati dal Bangladesh hanno denunciato di essere da tempo esposti a minacce e discriminazioni come non era avvenuto nemmeno dopo le stragi di Al Qaeda dell’11 settembre 2001. La struttura multiculturale e multireligiosa della società americana tiene, ma scricchiola nell’eccitazione di una corsa alla Casa Bianca nella quale gli appelli alla moderazione e i richiami ai comportamenti responsabili sono molto meno efficaci delle invettive e delle promesse di "cambiare registro" tanto nella lotta contro il terrorismo quanto nella gestione delle questioni relative all’immigrazione. Ieri il candidato repubblicano ha introdotto un nuovo elemento di controversia sostenendo che, per svolgere il loro compito in modo più efficace, le polizie dovrebbero fare profiling: cioè sottoporre a un regime di sorveglianza speciale i gruppi etnici o religiosi considerati potenzialmente più pericolosi. "Lo fa Israele, perché non possiamo farlo noi?" ha chiesto il miliardario di New York. La risposta della Clinton non si è fatta attendere: dietro le invettive del candidato repubblicano non c’è un piano, lui non ha alcuna idea su come intervenire efficacemente. L’ex segretario di Stato rivendica la sua esperienza nella lotta al terrorismo e il sostegno ricevuto da molti dei responsabili di maggior spicco delle strutture Usa responsabili per la sicurezza del Paese. Uomini delle istituzioni, tanto democratici quanto repubblicani. L’appello alla razionalità, l’approccio istituzionale, la continuità rispetto alla gestione Obama, non hanno pagato per la Clinton quando si è parlato di economia. Nonostante l’America cresca più dell’Europa come reddito e, soprattutto, occupazione, a giudicare dai sondaggi pare che Trump sia riuscito a convincere metà del Paese che questo bilancio è fallimentare. La speranza di Obama e di Hillary è che la sfiducia verso le istituzioni, l’insofferenza che alimenta il vento del cambiamento comunque, senza chiedersi cosa verrà dopo, non si estenda a questioni vitali come quelle della sicurezza. Ma intanto cambiano rotta anche loro chiamando i giganti digitali della Silicon Valley a partecipare alla lotta contro la propaganda terrorista via Internet. Guatemala. Carceri allo sbando: morti violente e sovraffollamento del 300% di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 20 settembre 2016 Attualmente nelle carceri guatemalteche risiedono oltre 20 mila reclusi, superando del 300% la capienza disponibile. Il collasso del sistema penitenziario favorisce l’anarchia. Un mondo parallelo, dove la legge la impone il più forte minacciando, estorcendo e uccidendo, nel caso in cui il controllo sia messo in discussione. A patire lo strapotere delle bande che gestiscono le carceri guatemalteche non sono soltanto i detenuti, ma anche le guardie carcerarie, il cui numero è di gran lunga inferiore. Armi pesanti, granate, droga sono solo alcuni degli oggetti che usualmente circolano nei 21 penitenziari del paese latinoamericano. Se la condizione degli adulti appare critica e allo sbando, quella dei minori al seguito delle madri è agghiacciante. 20 mila sotto il giogo della "talacha". Di "collasso e abbandono" ha parlato il ministro degli Interni, Francisco Rivas. Dall’inchiesta condotta da El Mundo emerge che qualunque detenuto, in Guatemala, può conseguire con facilità un’arma e, altrettanto facilmente, può consumare delitti efferati in un contesto di omertà e corruzione. Sono solo 3.469 le guardie carcerarie, al cospetto dei 20.729 detenuti: il 300% in più della capienza prevista. Infatti, i penitenziari guatemaltechi possono ospitare un massimo di 6.908 persone. Delle 20 mila presenti, 18.731 sono uomini e 1.998 donne, in alcuni casi accompagnate dai minori. La cosiddetta "talacha" è il prezzo da pagare per non essere uccisi: i leader delle pandillas garantiscono sicurezza a patto che ricevano denaro. Estorsione e prostituzione. Le vittime dell’estorsione ricorrono, quando possibile, al sostegno economico delle famiglie. Laddove, invece, non si dispone del denaro necessario non gli resta che vendere il corpo delle donne più care. Le mogli e le sorelle dei detenuti, vittime di estorsione, sono obbligate a prestare servizi sessuali in cambio della vita dei loro parenti. Il tutto avviene nella noncuranza degli agenti, che talvolta risultano persino invischiati. Il procuratore dei Diritti Umani del Guatemala, León Duque, ha dichiarato a El Mundo che il sistema penitenziario del suo paese è "il peggiore del mondo", a causa del totale stato di abbandono. E lo ha qualificato come il luogo in cui "si stanno pianificando e compiendo azioni delittuose contro la popolazione". Byron Lima: l’assassinio del "re". Cinque sono le carceri in cui si concentra il 71% degli omicidi ai danni dei detenuti: al primo posto c’è la Granja Penal Canadá di Escuintla dove sono morte 34 persone nell’ultimo anno. Il rapporto pubblicato dal Cien, Centro di Ricerche Economiche Nazionali (cien.org.gt), rivela che sono 146 i detenuti uccisi da luglio 2015 a luglio 2016. Nel secondo penitenziario con maggior numero di omicidi, ovvero il Pavón, è deceduto lo scorso 18 luglio il "re" delle carceri guatemalteche, Byron Lima, ex-capitano dell’esercito condannato a 20 anni di reclusione per l’assassinio del vescovo Juan José Gerardi. Nel 1998 Gerardi aveva pubblicato un documento intitolato "Nunca más" ("Mai più"), che denunciava le violazioni commesse dall’esercito, di cui Lima, suo padre e suo nonno erano membri onorari, durante i 36 anni di guerra civile. Omicidi in aumento. L’assassinio del più potente dei detenuti, il cui movente secondo InSight Crime sarebbe legato ai segreti di Stato di cui Lima era detentore, piuttosto che alla contesa di un ingente quantitativo di droga, non è stato il solo. Il 18 luglio, infatti, sono morte altre 12 persone, fra le quali una giovane volontaria argentina. Lo studio condotto dal CIEN pone l’accento sull’incidenza delle morti nei penitenziari con maggior numero di detenuti, denunciando che sono circa 12 gli omicidi che si consumano ogni mese. Il drastico aumento è dovuto alla diminuzione delle perquisizioni, che favorisce l’introduzione di ogni sorta di oggetto - incluse le armi - all’interno delle carceri. La violenza cresce durante le rivolte. I tumulti, organizzati dai detenuti per affermare il loro potere, spesso degenerano in conflitti a fuoco, strangolamenti e decapitazioni. Minori: instabilità e malnutrizione. In questo contesto vengono ospitati i familiari in visita. In alcuni penitenziari guatemaltechi, donne e bambini convivono con i reclusi durante il fine settimana. E, nonostante il Governo assicuri di inaugurare con i fondi europei, entro la fine dell’anno, una nuova struttura per donne con prole al seguito, il ministro degli Interni ha reso noto a El Mundo che "il problema del sistema penitenziario non si risolverà in quattro anni". A suo avviso, ne serviranno 12. Nel frattempo, la condizione dei minori che vivono nelle carceri con le madri, fino all’età di 4 anni, è disastrosa. Sono 86 in tutto e crescono in celle sovraffollate, manifestando instabilità psicologiche e carenze alimentari. Passano direttamente dal latte materno ai cibi solidi. Meno di due dollari al giorno, secondo El País, è il costo speso per alimentare madri e figli, costretti a dividere i pasti. Nelle succursali dell’inferno. Inoltre, i minorenni reclusi, una volta liberi, riescono a reintegrarsi nella legalità soltanto quando non affiliati alle pandillas. E risulta difficile che ciò avvenga, dato che le carceri sono gestite dalle pandillas e dai narcotrafficanti in condizioni deplorevoli. A questo proposito, María Fernanda Galán di Asíes, Associazione di Ricerca e Studi Sociali (asies.org.gt), ha dichiarato a El País che "i detenuti sono costretti a fare a turno per sdraiarsi per terra, senza materassi, senza coperte, né cuscini. E i pochi che li hanno a disposizione, data la sporcizia, contraggono malattie della pelle". Non c’è definizione più calzante di quella usata dal popolo guatemalteco: se si vuole conoscere l’inferno, basta andare nelle sue succursali. Pakistan. Pronto il patibolo per un malato mentale di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 20 settembre 2016 Mentre si susseguono gli appelli per la grazia delle organizzazioni umanitarie internazionale il Pakistan sembra deciso a eseguire oggi, martedì 20 settembre, la condanna a morte di Imdad Ali, un detenuto affetto da schizofrenia paranoide. Ali, 50 anni, è stato condannato a morte nel 2002 per l’assassinio di uno studioso di religione ed una richiesta di grazia è stata respinta dal presidente del Pakistan nel novembre 2015, così come lo è stata il 26 agosto scorso un’istanza per sospendere la sua esecuzione in base all’infermità mentale presentata all’Alta Corte di Lahore dalla Ong Justice Project Pakistan (JPP). Nei giorni scorsi le autorità della prigione in cui è detenuto Ali hanno scritto ai parenti chiedendo se volevano incontrarlo un’ultima volta. "Imdad Ali è malato di mente e ha sofferto per anni a causa delle mancate cure. Metterlo a morte non fare altro che rendere più palese la violazione dei trattati internazionali che impediscono l’esecuzione di persone con handicap mentali" ha detto Sarah Belal, la direttrice esecutiva del JPP. Anche Human Rights Watch ha lanciato un appello per la sospensione dell’esecuzione. "Allorché la pena di morte è intrinsecamente crudele, mettere a morte un individuo con handicap mentali psicosociali o di altro genere viola anche gli obblighi legali internazionali del Pakistan" si legge in un comunicato dell’organizzazione umanitaria. La Convenzione per i diritti delle persone con disabilità (Crpd), che è stata ratificata dal Pakistan nel 2011, garantisce "il diritto inalienabile alla dignità" dei malati mentali. Nel 2014 il Pakistan ha annullato la moratoria sulle esecuzioni dopo il massacro di 136 bambini commesso dai talebani nella scuola dell’esercito di Peshawar. Da allora la pena di morte viene applicata su scala industriale. Da dicembre del 2014 ad oggi nel Paese sono state impiccate oltre 400 persone. Eritrea. Si allunga la lista delle sparizioni dei dissidenti del regime di Giacomo Zandonini La Repubblica, 20 settembre 2016 Ministri e giornalisti scomparsi per sempre, mentre la stampa indipendente veniva abolita. Era Il 18 settembre 2001, una data simbolo per gli Eritrei di tutto il mondo. Segna la fine delle speranze di democratizzazione, e l’inizio delle fughe dal paese. Quindici anni dopo, la lista di "desaparecidos" è ancora più lunga. Le testimonianze. "A partire da oggi, 18 settembre 2001, il governo ha ordinato a tutti i media privati di fermare le pubblicazioni". Un comunicato secco e senza diritto di replica, diffuso dalla radio di stato verso le otto del mattino e ripreso immediatamente dalle stazioni private, ormai sull’orlo del baratro. Mentre i cittadini di Asmara e delle città principali assistevano increduli alla fine di una breve stagione di dibattito pubblico, la polizia del regime rastrellava case e redazioni. Undici alti esponenti del partito, fra ministri e segretari, erano stati arrestati in poche ore. Con loro otto giornalisti. Prime vittime di una catena di epurazioni proseguita nei giorni e negli anni seguenti, che avrebbe aperto la strada dell’esilio a decine di migliaia di persone. Fine delle speranze democratiche. "Sapevamo che il regime utilizzava la violenza anche prima, e oggi lo sappiamo ancora meglio", spiega Tsedal Yohannes, lo sguardo intenso e una voce profonda, controllata. "Conosciamo gli abusi compiuti prima del 2001 - le persecuzioni dei Testimoni di Geova e dei leader musulmani, la scomparsa degli ex-guerriglieri disabili che chiedevano di avere la pensione - ma il 18 settembre ha segnato una presa di coscienza, un’accelerazione tragica: qualsiasi speranza democratica era morta, e chi aveva lottato per anni per questo, non aveva più spazio". Fra loro proprio i famigliari della donna, oggi residente nel Regno Unito. La storia di Aster. Yohannes racconta la sua, e la loro, storia, in una pausa del simposio dell’Eritrean Women Network, organizzato nei giorni scorsi a Roma dalla scrittrice italo-eritrea Ribka Sibathu. Un vortice di impunità, dolore, e morte che ha assorbito la sua vita, rischiando di trascinarla nel silenzio, e che ha legami inscindibili con la storia italiana. "Per prima cosa devo parlare di mia sorella", spiega però, soppesando con drammatica incertezza verbi declinati al passato e al presente. "Aster Yohannes era, o meglio è, una sorella maggiore affettuosa, sempre pronta a aiutare il prossimo". Lotta per l’indipendenza. "Nel 1979 Aster interruppe gli studi di ingegneria per unirsi ai movimenti di guerriglia, convinta che la liberazione dell’Eritrea dalla presenza etiopica avrebbe portato progresso e diritti". Anni di clandestinità nelle montagne fra Sudan e Eritrea, fino alla presa di Keren e Asmara, ai trattati di pace e al referendum per l’indipendenza del 1993. È durante la guerriglia che Aster conosce Petros Solomon, comandante del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, e futuro ministro della Difesa, degli Esteri e delle risorse marine. Un uomo carismatico, ben presto inviso a Isaias Afewerki, primo e unico presidente del giovane stato africano. Il primo arresto. Nel maggio 2001, Solomon è fra i quindici firmatari di una lettera aperta all’ex-movimento di guerriglia, diventato nel frattempo partito unico. Chiedono l’entrata in vigore della costituzione, promessa eternamente mancata, ed elezioni multipartitiche. Per Afewerki è una sfida intollerabile. "Quando mio cognato venne arrestato, quel 18 settembre, mia sorella era negli Stati Uniti; aveva lasciato i quattro figli a lui e ai nonni, per concludere gli studi interrotti vent’anni prima". La donna chiede subito che i bambini la raggiungano oltreoceano, ma senza risultato. "È allora che si è rivolta all’ambasciata, che le ha rinnovato il passaporto e promesso che non avrebbe avuto problemi a tornare". Scomparsa di Aster. Le cose non andarono così e quella sera, ad attenderla sulla pista d’atterraggio, Aster Yohannes trovò gli uomini del regime. "Mia madre e i bambini erano andati all’aeroporto, con dei mazzi di fiori, felici di poter riabbracciare Aster, ma quei fiori si seccarono". "Da quel giorno - scandisce Yohannes passandosi una mano sulla capelli ricci - siamo rimasti tutti orfani". Come per il marito e per gli altri arrestati prima di lei, nessuno seppe più nulla di Aster Yohannes. "Nessun processo, nessuna informazione, nessun modo di sapere se mia sorella era viva, e dove si trovasse". La fuga. Sui famigliari cadde invece una cortina di paura e isolamento. "Gli stessi parenti mi evitavano", spiega Yohannes, "e i miei nipoti venivano derisi e emarginati a scuola, talmente è forte il timore verso l’apparato di Afewerki". Dopo aver abbandonato il paese, Yohannes ha aiutato anche la madre e i nipoti a scappare, "con grandi difficoltà, perché anche loro sono stati arrestati mentre cercavano di andarsene, torturati e tenuti per mesi in una delle numerose prigioni eritree". Nell’arcipelago gulag di Asmara. "Quando dico carcere", ci tiene a sottolineare, "non intendo quello a cui si pensa in Europa: in Eritrea le carceri sono luoghi privi di tutto, sotterranei o nel deserto, in cui se va bene ricevi una tazza di lenticchie bollite al giorno". Un "arcipelago gulag" denunciato da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, e per cui il regime di Afewerki, secondo una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, è responsabile di crimini contro l’umanità. "La tortura è pratica quotidiana e scientifica: le più note sono l’elicottero, il diamante, il ferro, l’otto, l’annegamento… Si simulano seppellimenti, si usa l’elettroshock e gli abusi sessuali sono continui". Torture "italiane". Nella conversazione, in inglese, emergono due parole italiane, "ferro" e "otto". Così, ancora oggi, gli aguzzini chiamano due pratiche di tortura, tramandate molto probabilmente dagli occupanti italiani. Che, sottolinea la scrittrice Ribka Sibathu a margine dell’incontro, "hanno lasciato un’altra eredità al paese, proprio le carceri, che prima della colonizzazione non esistevano". 34 i centri di detenzione segreti mappati da Amnesty International, e almeno 10mila i prigionieri politici secondo l’organizzazione inglese. Un sistema di repressione totale, che confina l’Eritrea nell’ultima posizione, per il 2016, dell’indice sulla la libertà di stampa di Reporters Senza Frontiere. E fondi europei. "Gli eritrei che arrivano sulle nostre coste, quelli bloccati oggi in Italia da un piano di relocation che non funziona, quelli morti il 3 ottobre 2013 a Lampedusa, e in molti altri naufragi, sono figli di questa storia, e di questa data", denuncia Sibathu, rimproverando un’Europa che "continua a finanziare il regime eritreo, nonostante queste vicende". Un riferimento ai 200 milioni di euro stanziati da Bruxelles all’interno del Fondo per lo Sviluppo, per i prossimi quattro anni. Un contributo criticato dallo stesso Parlamento Europeo ma di cui la prima tranche, di 18,7 milioni, è già stata concessa. Filippine. Il Presidente Duterte: "I trafficanti? Datemi il tempo di ucciderli tutti" La Repubblica, 20 settembre 2016 Il presidente delle Filippine, già accusato di non rispettare i diritti umani, chiede una proroga di altri sei mesi per completare la lotta al narcotraffico. Ma nella lista dei nomi ci sono molti esponenti politici delle opposizioni. Sono due le cose alle quali il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte non vuole rinunciare. La prima è la lotta ai narcotrafficanti. La seconda sono le sue parole inappropriate. Dopo aver definito il presidente Obama un "figlio di...", Duterte era finito al centro delle attenzioni internazionali per le dichiarazioni di un suo sicario che aveva rivelato i metodi sanguinari di Duterte nei confronti dei suoi oppositori. Ma nulla può fermare le affermazioni di Duterte che oggi dichiara di aver ancora bosogno di altri sei mesi per portare a termine la sua lotta alla droga. Rodrigo Roa Duterte, detto anche Rodi o Digong, è alla presidenza delle Filippine dal 30 giugno e da allora sembra che questo Stato insulare non voglia uscire dalle polemiche. L’uomo forte che le governa non frena la lingua durante le conferenze stampa e dopo gli epiteti riservati a Obama, e le successive scuse, ha anche attaccato il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, "è un pazzo" ha detto ai giornalisti e poi se l’è presa anche con l’ambasciatore americano a Manila, Philip Goldberg, "un gay figlio di..." secondo le parole del presidente. Non lo fermano neppure le accuse di Edgar Matobato. L’uomo ha rivelato di fronte a una commissione del Senato sui crimini commessi dalle forze di sicurezza dal 1998 al 2013, che il presidente filippino, quando era sindaco di Davao, ordinava la morte dei suoi oppositori. Duterte va avanti e nella conferenza stampa di domenica si rammarica di non aver potuto porre fine al problema della droga. Human Rights Watch ha dichiarato che la nazione dovrebbe essere sottoposta ad attente indagini da parte della comunità internazionale. Il presidente va avanti, forte del supporto dei suoi cittadini, entusiasti del giro di vite imposto dalla politica di Duterte. "Il problema è che non ho potuto ucciderli tutti, anche se avrei voluto. Non sapevo che ci fossero così tante persone immischiate nel narcotraffico e che avessero anche contatti con membri del governo". Così Duterte ha riferito ai giornalisti presenti alla conferenze stampa di ieri a Davao. La lista delle persone coinvolte nel traffico della droga è ancora molto lunga e contiene diversi nomi di politici, spesso all’opposizione. "Non avevo capito quanto fosse grave e seria la minaccia in questa repubblica. Ora, che sono presidente, ho capito e chiedo altri sei mesi per continuare la lotta". Dalle dichiarazioni della polizia sembra che siano state uccise 1.105 persone sospettate di narcotraffico. Aggressioni non commesse ufficialmente dalla sicurezza hanno, invece, causato la morte di altre 2.035 persone, ma l’obiettivo di Duterte era di riuscire ad eliminarne almeno 100mila, offrendo anche delle taglie per chi consegna i cadaveri dei trafficanti. Le parole e le iniziative di Rodrigo Duterte hanno già inasprito il suo rapporto con Stati Uniti e Australia, entrambi alleati chiave e gli sono valsi anche il richiamo formale da parte delle Nazioni Unite al rispetto dei diritti umani. Ma il presidente non si ferma.