Chiusura Opg: tra pochi giorni in Senato sarà battaglia di Gabriella Meroni Vita, 1 settembre 2016 Dovevano chiudere lo scorso marzo, e invece in Italia due ospedali psichiatrici giudiziari sono ancora aperti e attivi. Non basta: un emendamento al Disegno di legge sulla durata dei processi, con cui si riaprono i lavori a Palazzo Madama, rischia di vanificare tutto. L’appello al governo Chiusura degli Opg: non è finita. La denuncia è arrivata subito dopo la fine dei lavori parlamentari da parte del Comitato Stop Opg, che ha scovato tra le pieghe del Disegno di Legge 2067 (su garanzie difensive, durata dei processi, finalità della pena) in discussione a Palazzo Madama (perché già approvato dalla camera) un emendamento che rischia "di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e che moltiplicando strutture sanitarie di tipo detentivo, dedicate solo ai malati di mente, riprodurrebbe all’infinito la logica manicomiale", come hanno scritto i responsabili del Comitato in una lettera. Ora, i lavori del Senato riprenderanno il giorno 13 settembre ripartendo proprio dalla discussione di quel Disegno di legge, presentato dal governo e di cui è relatore il senatore nonché ex magistrato Felice Casson. "L’emendamento in questione ripristina la vecchia normativa, precedente alla Legge 81/14 che ha chiuso di fatto gli Opg", spiegano dal Comitato. "E dispone il ricovero nelle strutture regionali Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), esattamente come se fossero i vecchi Opg. Se non si rimedia, saranno inviati nelle strutture regionali, già sature, i detenuti con sopravvenuta infermità mentale e addirittura quelli in osservazione psichiatrica. Un disastro cui bisogna porre riparo". Come si ricorderà, le Rems sono state istituite per accogliere i pochi detenuti psichiatrici in cui le misure di sicurezza alternative alla detenzione si ritiene non possano essere assolutamente praticabili, mentre due degli Opg che dovevano chiudere tutti entro lo scorso 31 marzo sono ancora aperti, a Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Se passasse l’emendamento, le Rems sarebbero "inondate" di detenuti con sopravvenuta infermità mentale, e sarebbe reso vano l’intento della legge sulla chiusura degli Opg che intendeva far prevalere, per la cura e la riabilitazione di queste persone, progetti individuali con misure non detentive. "Il problema che vuol risolvere quell’emendamento è garantire le cure troppo spesso ostacolate o negate dalle drammatiche condizioni delle carceri? Ma il diritto alla salute e alle cure dei detenuti non si risolve così", continua il Comitato, che ha scritto una lettera al ministro Orlando chiedendo un suo intervento sull’iter del provvedimento al Senato. "Occorre che si rafforzino e si qualifichino i programmi di tutela della salute mentale in carcere e che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di Osservazione Psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche". Tra pochi giorni la discussione riprenderà in Aula, e l’obiettivo è chiaro: evitare l’invio di persone con misura di sicurezza provvisoria nelle Rems, destinandole ai prosciolti definitivi, e quindi chiudere definitivamente in Italia il capitolo degli Opg. Carceri: i Radicali fanno loro il precetto evangelico di Valter Vecellio lindro.it, 1 settembre 2016 Emergenza carceri e giustizia che non funziona come dovrebbe tra i primi punti di cui si occupa. "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi". Così si legge nel 25esimo capitolo del Vangelo di Matteo. C’è un partito, quello radicale, che di questo evangelico precetto fa il suo programma politico; non da ora: negli anni 80 si è mobilitato, pungolato incessantemente da Marco Pannella, in una lunga campagna contro lo sterminio per la fame nel mondo, definito il nuovo ‘Olocausto dei nostri tempì (e si ricorderanno le marce di Pasqua da Porta Pia a Piazza San Pietro, culminate con gli incontri con l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, e l’allora pontefice Giovanni Paolo II). "Ero straniero e mi avete accolto". È il partito che con pre-veggenza, almeno vent’anni fa, ha indicato l’urgenza e la necessità di volgere uno sguardo politico concreto anche su questo fronte: ed è infatti scritto da Pannella un "manifesto-appello" sottoscritto da oltre cento premi Nobel, con proposte operative elencate con puntigliosità, una sorta di "hic et nunc" che se fosse stato accolto, ci avrebbe, probabilmente, evitato tanto di quello che oggi accade. "Ero in carcere e siete venuti a trovarmi". Pannella, Rita Bernardini, tanti altri dirigenti radicali, da sempre, trascorrono i loro Natali, Capodanni e Ferragosto in cella, con i detenuti e la comunità penitenziaria. Non paghi, ora hanno deciso di convocare il loro 40esimo congresso all’interno del carcere romano di Rebibbia. L’assemblea inizierà alle 14 di giovedì 1 settembre e proseguirà fino a sabato pomeriggio, 3 settembre. Hanno assicurato la loro presenza, in apertura dei lavori il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo, e il direttore del penitenziario Rebibbia Mauro Mariani. Spiega il tesoriere del Partito Radicale Maurizio Turco: "È un congresso straordinario, è convocato per la prima volta da un terzo degli iscritti da almeno sei mesi al Partito come previsto dallo Statuto; è il primo senza Pannella che il partito ha concepito e fatto vivere per sessant’anni; è il primo che si tiene in un carcere". Perché il carcere: "Il carcere quale epifenomeno del problema giustizia causa della ‘peste italianà. Ma anche il carcere nel quale Pannella e i radicali sono stati costretti: i cittadini non hanno potuto e non devono poter conoscere proposte, iniziative, lotte. Mentre il mondo è in fiamme, le ‘democraziè languono, la gente muore per il dissesto del territorio e dell’ambiente, il centro delle lotte radicali è la transizione verso lo Stato di Diritto, l’affermazione del diritto umano alla conoscenza, l’universalità dei diritti umani, gli Stati Uniti d’Europa, e a partire dall’Italia per un’amnistia prodromo di una riforma della Giustizia". Sentiamo ora Rita Bernardini, presidente onorario di ‘Nessuno tocchi Cainò: "Nei tre giorni del Congresso straordinario a Rebibbia gli iscritti, si assumeranno grandi responsabilità rispetto al futuro delle idee, delle speranze e delle lotte radicali. Penso che proprio dal carcere e da chi lo vive ogni giorno, da detenuto o da detenente, possa arrivare quella risposta di politica alta a quanto, anche in questi giorni, ci troviamo a vivere in termini di assenza di Stato di Diritto, di conoscenza dei cittadini, in ultimo, di affermazione della democrazia". Bernardini ricorda che Pannella frequentava le carceri "perché lo aiutavano a capire quel che accadeva e sarebbe accaduto fuori, nel mondo dei cosiddetti ‘liberì. Andiamo a Rebibbia per discutere, scegliere, agire, combattere, vivere, far vivere. Qui e subito, per quel che non è più rinviabile". Emergenza carceri, giustizia che non funziona come dovrebbe: ferite che ancora sanguinano copiosamente. Ce lo ricorda, per esempio, l’ennesima condanna collezionata dall’Italia da parte di una Corte di giustizia europea. L’altro giorno, presso il Comitato europeo di prevenzione della tortura (un organismo del Consiglio d’Europa) si è discusso il caso di un detenuto di 62 anni: fra il 2010 e il 2014 ha avuto a disposizione uno spazio vitale anche inferiore a tre metri quadri, misura ben sotto il minimo vitale di quattro metri quadri pro capite indicato dal Comitato europeo di prevenzione della tortura. Se la scarcerazione diventa un’odissea di Stefano Zurlo Il Giornale, 1 settembre 2016 Storia di Danilo: le ferie rallentano i controlli e resta in cella. Sperava di trascorrere l’estate a casa. Libero. È ancora in cella, a San Vittore. Anche se ogni giorno potrebbe essere quello buono per varcare il portone del carcere. Così dal 17 giugno: un’attesa interminabile in cui la roulette della giustizia deve fare i conti con il rallentamento del periodo estivo, con le ferie dei magistrati, con la farraginosità della macchina burocratica. Danilo M. ha sulle spalle una condanna a 4 anni per spaccio. Una pena che potrebbe scontare, almeno in parte, in modo soft. Lontano dalle sbarre. Libertà, ma con alcuni obblighi e prescrizioni, come prevede la legge sull’affidamento in prova che pure tiene conto della perenne emergenza carceraria italiana. Dunque il legislatore cerca in tutti i modi strade alternative, così da decongestionare le prigioni. Ma i buoni propositi si scontrano con la realtà, con le pile di pratiche da sbrigare, con il calendario che non fa sconti a nessuno: nemmeno a chi il cielo lo vede solo nell’ora d’aria. Danilo è in cella ormai da un anno e ci sono tutte le condizioni per imboccare la corsia preferenziale. Il 17 giugno la direttrice di San Vittore Gloria Manzelli scrive al giudice di sorveglianza, trasmettendogli la richiesta di scarcerazione. La concessione dell’affidamento in prova non è automatica, anzi il magistrato potrebbe pure respingere la domanda. Il punto è uno solo: quanto tempo ci vuole per rispondere con un si o con un no? Naturalmente servono alcuni accertamenti, delegati alla polizia: la verifica dell’alloggio in cui Danilo andrà e uno screening delle persone con cui vivrà. Controlli necessari per scongiurare eventuali ricadute della persona in questione nella rete della criminalità. Accertamenti che sulla carta si possono svolgere in pochi giorni. Tant’è che Danilo, ottimista, regala in giro ai compagni di sventura buona parte del suo vestiario. Invece i giorni si allungano come un elastico, diventano settimane e poi mesi. Il commissariato incaricato, quello di Milano Mecenate, ha i suoi tempi e i controlli slittano. Danilo attende ma resta sempre dentro. Chiede allora aiuto a Mario Mantovani, uno dei big di Forza Italia, a sua volta arrestato per tangenti e chiuso a San Vittore, nella cella di fronte a quella di Danilo, per 42 giorni nell’autunno del 2015. Mantovani, oggi consigliere regionale impegnato per i diritti dei detenuti, torna il 19 luglio in piazza Filangieri. Va a trovare Danilo, poi si dà da fare per sollecitare la decisione che tarda: telefona al commissariato Mecenate e porta il caso all’attenzione del presidente della Repubblica. Ma l’iter va avanti a rilento. Fra luglio e agosto anche i magistrati vanno in vacanza e pure le istituzioni tirano il fiato. Tutto diventa più lento e complicato: ritardi come quello di questa storia, fanno notare a Palazzo di giustizia, sono tutto sommato routine e se poi si considera qualche altro disguido, più un pizzico di sfortuna, la vicenda diventa ordinaria. La libertà è a un passo, ma il circuito burocratico-giudiziario può tenerti sospeso per 60, 70, 100 giorni. Ora la pratica è andata avanti e la risposta, in un senso o nell’altro, dovrebbe essere vicina. Danilo potrebbe tornare a casa, dove lo aspetta la sua compagna. Altri detenuti devono pazientare con buona pace di tutte le norme svuota carceri che devono fare i conti con la realtà. E spesso restano prigioniere della trafila burocratica. Come i carcerati che dovrebbero liberare. Giustizia, l’ira dei magistrati sulla proroga delle pensioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 settembre 2016 L’Anm attacca per la disparità di trattamento: incostituzionale. La minaccia di sciopero. È certo un giudizio critico sul decreto anche da parte di Palazzo dei Marescialli. Per l’Associazione magistrati è "una scelta incostituzionale e discriminatoria, che per la prima volta nella storia repubblicana crea una distinzione tra magistrati di serie A e di serie B"; un giudizio che più duro non poteva essere, sottoscritto dalla Giunta esecutiva che rappresenta tutte le correnti. Poi la sinistra di Area ha aggiunto il proprio "sconcerto" per il fatto che il governo abbia "del tutto ignorato" le opinioni contrarie dei giudici, e la destra di Magistratura indipendente ha chiesto un incontro con il presidente della Repubblica. Autonomia e indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo che guida l’Anm, ipotizza addirittura lo sciopero. E siamo solo all’inizio del nuovo conflitto tra potere esecutivo e potere giudiziario, perché a breve il decreto legge con cui il Consiglio dei ministri ha concesso un altro anno di lavoro ai vertici della Corte di cassazione destinati al pensionamento a fine 2016 approderà al Consiglio superiore della magistratura. Dove si respira un certo imbarazzo, visto che due dei circa venti giudici beneficiari della proroga - il primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo - sono membri di diritto dell’organo di autogoverno. È prevedibile che nelle riunioni riservate già cominciate e nella discussione generale da cui scaturirà un parere formale, i rappresentanti togati sosterranno le posizioni critiche delle correnti da cui provengono. Ma difficilmente potranno arrivare ad affermazioni così nette. Per esempio sulla presunta illegittimità incostituzionale del provvedimento. Se il Capo dello Stato lo firmerà, come tutto lascia pensare, vorrà dire che non avrà rilevato un evidente contrasto con la Costituzione; improbabile che il Csm sconfessi la valutazione del suo stesso presidente. Qualcuno potrebbe provare a forzare la mano, ma a quel punto la questione diventerebbe ancor più dirompente. Tuttavia è pressoché certo che da Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio, giunga un giudizio critico sul decreto. Con suggerimenti di modifiche che potrebbero essere accolti dal Parlamento durante la conversione in legge; come un’eventuale estensione della proroga ai capi e vicecapi degli altri uffici, o a tutti i magistrati settantunenni. Erano le ipotesi alternative che a palazzo Chigi sono state scartate, anche contro l’opinione del ministro della Giustizia Orlando. Per il premier sarebbe stata l’ammissione dell’errore compiuto due anni fa, quando fece la riforma senza scaglionamenti o altre soluzioni che pure vennero sollecitate per evitare la scopertura improvvisa di molti posti direttivi e semi direttivi. Soprattutto in Cassazione. Ma la voglia di imporre il ricambio generazionale anche tra i giudici, fissando il tetto massimo a 70 anni d’età senza più la possibilità di restare in servizio fino a 72 si rivelò più forte di qualsiasi razionalizzazione di una riforma che avrebbe inciso profondamente sulla funzionamento delle strutture, e imposto al Csm un tour de force di nomine che ancora continua. Dopodiché lo scorso anno fu concessa la prima deroga di un anno, e ora eccoci alla seconda marcia indietro, sebbene parziale proprio perché limitata agli "incarichi apicali" della corte suprema. Giustificata perché il 31 dicembre sarebbero andati via non solo i capi ma anche i vice e quasi i due terzi dei presidenti di sezione sia nel settore penale che civile. Il decreto fa esplicito riferimento alle "molteplici iniziative di riforma" sul piano organizzativo avviate dal presidente Canzio e altri magistrati arrivati al limite dell’età lavorativa, ma è la disparità di trattamento con gli altri colleghi nella stessa situazione che non va giù alla stragrande maggioranza delle toghe. Oltre alla disinvoltura con cui il governo mostra di influire sulla dirigenza degli uffici giudiziari. Pensioni, toghe in rivolta "pronti allo sciopero!" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 settembre 2016 I sindacati dei magistrati contro la proroga. Morgigni (Csm): "Plenum straordinario". La proroga della pensione per le figure apicali della magistratura approvata martedì dal Consiglio dei ministri ha mandato su tutte le furie i pm di mezza Italia. A cominciare dall’Associazione nazionale magistrati che ieri ha inviato alle egenzie di stampa un comunicato di fuoco: "Il governo ha dimostrato una scarsa lungimiranza nella politica giudiziaria, producendo chiare situazioni di disparità di trattamento, viziate da profili di illegittimità costituzionale, che saranno certamente fatti valere da chi non beneficerà della norma". Ma Area è ancora più arrabbiata: i magistrati della lista progressista, infatti, hanno chiesto a Davigo di iniziare la mobilitazione: "È una proroga inutile e foriera di gravi ingiustizie, disposta con un decreto legge di dubbia costituzionalità, privo dei requisiti d’urgenza, che esautora il Parlamento e lo stesso Csm". Il colpo finale è arrivato da Aldo Morgigni, il componente togato ha chiesto al comitato di presidenza del Csm di fissare un Plenum straordinario, proponendosi fin da subito come relatore della pratica, in cui "esprimere l’incostituzionalità di questo decreto". Non è come per il taglio delle ferie o la riforma della responsabilità civile. Questa volta, per le toghe, la misura è colma. E l’unica soluzione possibile è quella di proclamare una giornata di sciopero se non ci saranno modifiche al decreto legge con cui il governo ha deciso martedì scorso di prorogare di un anno il trattenimento in servizio dei vertici della Corte di Cassazione e delle altre magistrature superiori. Questa la cronaca di una giornata convulsa per la magistratura italiana. Di quelle che non si vedevano dai tempi dei governi berlusconiani. Erano trascorse poche ore dall’approvazione del decreto con cui l’esecutivo garantiva a circa 30 alti magistrati che sarebbero dovuti andare in pensione quest’anno, fra cui il presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione, di rimanere invece in servizio fino al 31 dicembre 2017, che Area, la corrente progressista della magistratura, diramava un comunicato stampa di fuoco in cui si esprimeva "sconcerto" per quanto accaduto. "Una proroga inutile e foriera di gravi ingiustizie, disposta con un decreto legge di dubbia costituzionalità, privo dei requisiti d’urgenza, che esautora il Parlamento e lo stesso Csm". E poi: "Il governo interviene in spregio alla contraria opinione espressa dalla magistratura associata, in tutte le sue componenti, ed appare come un rimedio improvvisato ed inutile - a beneficio di pochi - ad una riforma attuata nel peggiore dei modi, facendo inutile sfoggio di una logica di vuoto rinnovamento". A stretto giro, arrivava anche la nota di Magistratura indipendente, la corrente che riunisce le toghe più conservatrici, in cui si evidenziava come questa proroga fosse percepita come un provvedimento "ad personas, con conseguente appannamento dell’immagine e dell’indipendenza della magistratura". Un provvedimento di fatto inutile e che non risolve il problema della scopertura degli organici. Nel sottolineare gli aspetti di incostituzionalità del decreto veniva richiesto "un Plenum straordinario e un incontro urgente con il Capo dello Stato". Anche l’Anm, nel caos che si stava creando, dopo una iniziale fase di attesa, inviava un proprio comunicato in cui si sottolineava come il governo oltre a "dimostrare una scarsa lungimiranza nella politica giudiziaria, produce chiare situazioni di disparità di trattamento, viziate da profili di illegittimità costituzionale, che saranno certamente fatti valere da chi non beneficerà della norma". Ribadendo, poi, che "per la prima volta nella storia repubblicana, si crea la distinzione, peraltro decisa dall’esecutivo, tra magistrati di serie A e magistrati di serie B, trattandosi di un provvedimento che, come tutti gli atti legislativi destinati a pochi, pone in essere un grave vulnus costituzionale, auspicando un immediato ripensamento nell’interesse dell’intera magistratura, disorientata e quantomeno sdegnata da questa politica dei due pesi e due misure, e di tutti i cittadini, i quali con difficoltà comprenderanno le ragioni di questa scelta". Il colpo finale era, però, di Aldo Morgigni, il componente togato di Autonomia & Indipendenza. La corrente del Presidente dell’Anm Piercamillo Davigo. Il quale richiedeva al comitato di presidenza del Csm di fissare un Plenum straordinario, proponendosi fin da subito come relatore della pratica, in cui "esprimere l’incostituzionalità di questo decreto con cui il governo, di fatto, oltre a "scegliersi" i vertici della Cassazione si era scelto anche i membri di diritto del Csm". Insomma, uno scontro durissimo che vede il sindacato dei magistrati e una fetta dei togati del Csm sulle barricate. Nei prossimi giorni si capirà se a Matteo Renzi, per salvare per un anno ancora dalla pensione alcuni alti magistrati, converrà avere contro tutta la magistratura. Sempre che il presidente Sergio Mattarella decida di non firmare il decreto. Magistrati: le valutazioni e il rischio di diventare burocrati di Giovanni Pascuzzi Il Dubbio, 1 settembre 2016 Circa un decennio è trascorso da quando è stata introdotta la "valutazione della professionalità" per i magistrati. L’articolo 11 del decreto legislativo 160 del 2006 (modificato dalla legge 111/2007) stabilisce che essa avvenga sulla base di quattro parametri: la capacità, la laboriosità, la diligenza e l’impegno. Numerose circolari del Consiglio superiore della Magistratura (oltre ad individuare la documentazione utilizzabile ai fini della formulazione del giudizio: rapporti del Capo dell’ufficio, pareri dei Consigli giudiziari, provvedimenti e verbali a campione, statistiche, produzioni spontanee) hanno specificato gli indicatori da prendere in considerazione per ciascun parametro. Ad esempio, per valutare la "capacità" tra i parametri da considerare ci sono: la tecnica redazionale ed espositiva; l’uso dello strumento informatico; l’aggiornamento dottrinale e giurisprudenziale; le conoscenze interdisciplinari e la cultura ordinamentale; la capacità decisionale. Ma si deve guardare anche alle modalità di gestione dell’udienza, al livello di contributi forniti in camera di consiglio, all’attitudine del magistrato ad organizzare il proprio lavoro e così via. Per quel che riguarda la "laboriosità" diventano rilevanti dati come il numero dei procedimenti definiti e il rispetto degli standard medi di definizione dei procedimenti. La "diligenza" viene valutata sul rispetto degli impegni prefissati (numero di udienze, termini per il deposito dei provvedimenti, etc.), sulla tempestività del compimento delle funzioni di direzione amministrativa e, ancora, sulla partecipazione alle riunioni previste dall’ordinamento giudiziario per la discussione e l’approfondimento delle innovazioni legislative nonché per la conoscenza e l’evoluzione della giurisprudenza. Per valutare l’"impegno" si considerano elementi come la disponibilità alle sostituzioni o la partecipazione a corsi di aggiornamento. Si tratta di un sistema molto complesso che induce alcune riflessioni. Ogni sistema di valutazione retroagisce sui comportamenti del soggetto valutato. Provo a fare un esempio noto a chi ha frequentato l’Università. Spesso gli studenti che devono sostenere un esame seguono intere sessioni di quell’esame e trascrivono le domande poste dai professori e il tipo di risposte considerate soddisfacenti. Si cerca, attraverso questa defatigante attività, di affinare la preparazione alla luce delle domande che vengono chieste. Insomma, poiché l’obiettivo è superare l’esame, l’insieme degli sforzi tesi all’apprendimento si riduce a conoscere tutto ciò che permette di raggiungere quel risultato. Ecco, allora, che le modalità di verifica della preparazione retroagiscono sui contenuti della preparazione stessa. Un altro esempio si ricava proprio dalla storia della valutazione dei magistrati. Per molto tempo (dagli anni 40 a metà degli anni 60 in poi del secolo scorso) il concorso per ottenere l’avanzamento di carriera si articolava intorno a prove scritte ed orali ed alla valutazione dei titoli (provvedimenti redatti o altri scritti), da parte di una commissione composta da consiglieri di Cassazione o equiparati. Ne derivava che i magistrati focalizzavano la propria attenzione più che sull’obiettivo di amministrare la giustizia sullo studio per l’esame e sulla tecnica di redazione del singolo provvedimento (a tacere della tendenza a uniformare i propri orientamenti a quelli della Cassazione, i cui membri erano chiamati a valutare i "candidati" alla promozione). Un sistema di valutazione è necessario: esempi di persone non all’altezza del ruolo o inclini a disattendere i propri doveri esistono in ogni categoria professionale. Ma quello attualmente in vigore per i magistrati sembra da una parte privilegiare l’aspetto quantitativo rispetto a quello qualitativo (si veda lo spasmodico ricorso alle cosiddette statistiche) e, dall’altra, attingere a criteri di difficile interpretazione/applicazione: come si valuta, ad esempio, la "capacità decisionale"? Il rischio è quello di trasformare il magistrato in un burocrate senza più alcuna motivazione ideale per il quale le cause sono solo pratiche da sbrigare. Una serie di fenomeni (sui quali si tornerà un’altra volta) induce molti a credere che l’importante sia avere una sentenza indipendentemente da quale essa sia. Una idea che non coincide con quella di giustizia. Un sistema di valutazione non appagante rischia di demotivare i magistrati migliori e di rendere appetibile la professione unicamente a quelli che cercano un "buon impiego". Garante della Privacy: niente diritto all’oblio se c’è interesse pubblico La Stampa, 1 settembre 2016 Non viola la privacy il quotidiano che riattualizza un fatto di cronaca giudiziaria risalente nel tempo per dare notizia del rinvio a giudizio delle persone all’epoca indagate. In questo caso il diritto di cronaca prevale sul diritto all’oblio. Il principio è stato affermato dal Garante privacy - ne dà notizia la newsletter - nel dichiarare infondato il ricorso di un imprenditore che chiedeva la deindicizzazione di un articolo pubblicato nell’edizione on line di una testata e rinvenibile attraverso i motori di ricerca esterni al sito. A parere del ricorrente, la reperibilità in rete dell’articolo avrebbe arrecato un danno alla sua reputazione personale e professionale riportando all’attenzione dell’opinione pubblica una vicenda giudiziaria, a suo dire non più attuale e priva di interesse pubblico, che lo aveva visto coinvolto tra il 2005 e il 2009. Di diverso avviso, invece, il quotidiano, secondo il quale l’articolo non riattualizzava un evento superato, ma dava conto degli sviluppi di quella stessa vicenda, in particolare della richiesta di rinvio a giudizio di un certo numero di persone, tra cui il ricorrente. Questa tesi è stata condivisa dall’Autorità che non ha ritenuto illecito l’operato del quotidiano ed ha quindi dichiarato infondato il ricorso. Secondo il Garante, infatti, il trattamento dei dati dell’imprenditore è "riferito a fatti rispetto ai quali può ritenersi ancora sussistente l’interesse pubblico alla conoscibilità della notizia in quanto, pur traendo origine ad una vicenda risalente nel tempo, i successivi sviluppi processuali, oggetto della recente pubblicazione, ne hanno rinnovato l’attualità". Qualora la vicenda si dovesse concludere in modo favorevole per il ricorrente, quest’ultimo potrà, se lo ritiene, chiedere all’editore di aggiornare o integrare i dati contenuti nell’articolo, presentando una idonea documentazione. La condanna agli arresti domiciliari non può condizionare il gip sul Mae di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2016 Il Mae può essere emesso dal giudice anche nel caso in cui l’imputato sia stato condannato in Italia alla misura cautelare domiciliare. Unica condizione da rispettare consiste nella verifica da effettuare se il provvedimento trovi una fattispecie analoga nel Paese di destinazione. Questo chiarisce la Cassazione - con la sentenza n. 35879/2016 - per evitare che il soggetto una volta giunto a destinazione si trovi a scontare una conseguenza più afflittiva rispetto agli arresti domiciliari come potrebbe essere la custodia in carcere. Accolto il ricorso della Procura - La Corte ha accolto il ricorso effettuato dalla procura contro un provvedimento di diniego all’emissione del Mae perché - a parere del gip - in caso di dubbio o comunque di incertezza sulla presenza di una misura equivalente nel Paese dove inviare il soggetto era consigliabile non emettere ex se la misura. La procura ha trovato il provvedimento di diniego al Mae affetto da evidente abnormità. Il gip dalla sua aveva evidenziato come secondo il Vademecum emesso al riguardo dal ministero della Giustizia suggerisse particolari cautele nell’emanare un Mae per l’esecuzione della misura domiciliare atteso che non tutti i Paesi dell’Unione riconoscessero a quest’ultima la stessa efficacia della custodia in carcere tanto da non aver eseguito in passato analoghi mandati. La Cassazione - di fronte a una situazione così spinosa - e senza chiedere un intervento delle Sezioni unite per dirimere la controversia ha seguito un ragionamento razionale. E in particolare ha evidenziato come il Vademecum avesse natura di semplice atto amministrativo e non potesse assurgere, così, in nessun caso a norma nazionale. Si trattava perciò di una serie di consigli non vincolanti per la decisione da prendere dal gip. La censura della Cassazione - Nel caso di specie, si legge nella decisione, il giudice ha paralizzato l’istanza proposta in ragione di un’asserita situazione di dubbio sull’applicabilità ex se del Mae degli arresti domiciliari che per contro avrebbe dovuto comunque procedere a risolvere, in funzione dei principi di diritto richiamati. Si trattava, pertanto, di una pronuncia reiettiva basata su una incerta interpretazione normativa, quindi un’inammissibile decisione espressamente prudenziale ("Non appare opportuno emettere il Mae"), peraltro fondata su indicazioni provenienti da un provvedimento non vincolante (il Vademecum), tale dunque da porre la decisione al di fuori del sistema processuale. Annullata pertanto l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Brindisi. I registri di cancelleria non fanno fede di Marco Bellinazzo Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 35864/2016. I registri di cancelleria sono tenuti in luogo non accessibile al pubblico e possono essere consultati solo da persone autorizzate. Ma non hanno per le parti e i loro difensori carattere di ufficialità. Con la sentenza n. 35864, depositata ieri, la Cassazione fissa un preciso principio di diritto, ribaltando un’opposta conclusione cui era giunta la Seconda sezione della Suprema Corte nel 2007 (sentenza n. 35616). La vicenda riguardava un’annotazione errata sul cosiddetto Registro mod. 16 circa la data di rinvio di un’udienza, invece correttamente indicata nel verbale di udienza. Il ricorso alla Cassazione derivava dal fatto che il difensore di fiducia dell’imputato condannato non aveva presenziato all’udienza finale, in quanto aveva fatto affidamento sul registro di cancelleria delle udienze dibattimentali che riportava un data errata, posteriore a quella in cui la sentenza era stata pronunciata. Ma, per i giudici di legittimità, "i registri di cancelleria previsti dal Dm 334 del 1989, poiché per espressa previsione di legge sono tenuti in luogo non accessibile al pubblico e possono essere consultati solo dal personale autorizzato, non rivestono per le parti e i loro difensori carattere di ufficialità né possono essere considerati fidefacienti circa il loro contenuto, attesa la loro valenza meramente interna e l’assenza del carattere di pubblicità". In effetti, l’espressa limitazione all’accessibilità ai registri di cancelleria al solo personale autorizzato, amministrativo o giudiziario, con esclusione del pubblico, delle parti e dei loro difensori, esclude l’ufficialità del registro mod. 16 e la ostensibilità a soggetti diversi dal personale di cancellaria e giudiziario. Ne consegue che l’errore di trascrizione operato dal cancelliere sul registro non ha alcun rilievo, "posto che - spiega la Cassazione - l’unico atto dotato di pubblica fede è costituito dal verbale di udienza, unico atto processuale liberamente accessibile dalla parte interessata, nel quale risulta riportata la corretta annotazione nella data del rinvio". La Corte quindi non condivide l’opposta conclusione raggiunta nel precedente del 2007 secondo cui il registro utilizzato dalle cancellerie giudiziarie per l’annotazione delle minute delle sentenze, benché sia un registro non obbligatorio, è un atto pubblico che fa fede ed ha anche valore di prova documentale. Infatti, le limitazioni alla consultazione del registro poste dal Dm 334 del 1989 (articolo 2, comma terzo), escludono la pubblicità dei registri e la finalità meramente "interna" delle annotazioni in essi riportate. Per tutti questi motivi la Cassazione ha respinto il ricorso ed escluso che possa configurarsi una ipotesi di nullità come disciplinata dall’articolo 178 del Codice di procedura penale. Liguria: condannati con problemi psichici, la Regione cerca una struttura a Ponente Il Secolo XIX, 1 settembre 2016 La comunità terapeutica di Creto A Creto 15 "detenuti" con malattie mentali: "Soluzione provvisoria". "È finita l’era degli Ospedali psichiatrici giudiziari", la preoccupazione dei medici. La soluzione pareva ideale e l’ufficialità a un passo, ma la sollevazione del territorio e qualche mal di pancia interno alla Lega hanno convinto a fare marcia indietro. Adesso il mirino della Regione per l’installazione di una Rems (Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza alternative) temporanea, dopo aver puntato su Creto, in Valbisagno, si è spostato sul ponente di Genova. Così, nei prossimi giorni, il vicepresidente della Regione con delega alla Sanità, la leghista Sonia Viale, incontrerà il presidente del Municipio Mauro Avvenente per presentare una proposta. L’eventuale collocazione al momento è top secret, ma la Regione ha sempre più fretta di chiudere. Dall’altra parte il Municipio ha già suggerito di guardare altrove, ad esempio all’ex, enorme manicomio di Pratozanino, sulle alture di Cogoleto. Percorso però difficilmente praticabile, visto che la struttura di trattamento deve rispondere a determinate caratteristiche, rigidamente elencate nella legge che ha abolito gli ex Opg. Il provvedimento, dopo numerose proroghe è diventato definitivo il 31 marzo 2015. Il problema è che si contano sulle dita di una mano le regioni che si sono fatte trovare pronte, allestendo la struttura richiesta dalla norma. Che, in ambito regionale, deve essere una sola, ospitare non più di 20 pazienti, seguiti da 65 persone tra medici, infermieri e personale ausiliario. La Liguria è messa meglio di altre Regioni, perché almeno, fin dal 2012, ha scelto il luogo e la struttura. Troverà posto a Calice al Cornoviglio, un piccolo centro nello Spezzino, nell’ex colonia del Centro italiano femminile. Quindi, la soluzione genovese sarebbe in ogni caso temporanea. Se tutto va bene, non più di qualche mese, visto che si ipotizza che i lavori a Calice possano terminare nel febbraio del 2017. Non è bastato, però, per placare le proteste. Umbria: le carceri funzionano bene, criticità per la carenza di personale di Sara Minciaroni tuttoggi.info, 1 settembre 2016 Parlare del carcere dissolvendo il tabù di cosa avviene dentro quelle mura. Ragionare su percorsi si reinserimento e di collaborazione dei detenuti con le strutture regionali e con la società civile. Coinvolgere sempre di più le associazioni. Perché il sistema carcerario in Umbria funziona relativamente bene, i dati danno conforto alle politiche nazionali, i reati sono in diminuzione e di conseguenza il sovraffollamento si è ridimensionato. Ma di lavoro da fare ce n’è ancora tantissimo. Il personale è in numero ridotto a quello previsto, servono presidi sanitari specifici, vanno migliorate le infrastrutture. Non solo rose, ma molte meno spine rispetto a qualche tempo fa. È questo in sintesi il quadro tratteggiato nel pomeriggio dal sottosegretario alla Giustizia, con delega al sistema carcerario, nel corso della sua visita alle tre prigioni dell’Umbria, quella di Terni nella mattinata e poi Perugia e in esito all’incontro con la stampa con capolinea Spoleto. A Perugia, dove il regime è di media sicurezza ed è previsto anche il settore femminile, le cose vanno meglio, i detenuti sono 371 su un organico di 364 eppure il personale dovrebbe essere di 297 unità mentre attualmente è di 233. Mancano dunque 64 agenti di cui il 60 per cento in ruolo di ispettori e soprintendenti. Carenza di apicali, anche a Terni dove scoperto è il 44 per cento delle posizioni previste. Nel corso dell’incontro si è parlato appunto dei temi legati a sovraffollamento, carenza e qualità del personale (definita ottima) e rapporto con il territorio. Il sottosegretario ha comunque promesso "una maggiore attenzione verso la realtà umbra. Queste visite - è stato spiegato - hanno proseguito il lavoro iniziato a ferragosto dai deputati umbri, come ha ricordato il capogruppo Pd in Commissione Giustizia, Walter Verini, affiancato dalla vicepresidente della Camera Marina Sereni. "Rispetto ad altre situazioni il sovraffollamento in Umbria è contenuto", ha detto Migliore. Concetto ribadito anche da Giuseppe Martone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria di Umbria e Toscana. "Grande sovraffollamento in Umbria non c’è - ha sostenuto, mentre invece ci sono più detenuti di quelli che si dovrebbero avere per quanto riguarda l’alta sicurezza e quindi la situazione più critica è a Terni e Spoleto". L’onorevole Verini, ha parlato di "una situazione migliore rispetto a quella di tre anni fa. Quando i detenuti per cella erano il doppio del previsto e nelle stanza comuni venivano allestiti dei letti". "Dopo avere vinto la battaglia del sovraffollamento - ha aggiunto - ora va consolidata la tendenza a rendere la pena umana e rieducativa anche perché questo significa investire in sicurezza se si considera che chi esce dopo aver fatto percorsi di recupero difficilmente torna a delinquere". Migliore si è quindi detto fiducioso sulla possibilità "di incrementare e rafforzare la presenza di personale oltre che di rafforzare quelle strutture che consentono le attività di trattamento". Si è poi impegnato "a coinvolgere ancora più la Regione Umbria, che negli anni ha dato comunque sempre un contributo importante, e a migliorare i collegamenti fra istituzioni". Per il sottosegretario, il primo problema, registrato soprattutto a Terni, è quello del personale. "Non solo per una questione di quantità - ha detto - ma soprattutto per garantire la qualità del lavoro data la carenza delle strutture". Gli "elementi da rafforzare", secondo il sottosegretario, sono inoltre quelli che possono permettere "di incrementare i rapporti con il territorio", come "le strutture sanitarie e le attività culturali e imprenditoriali interne per consentire cosi" di vincere la diffidenza tra dentro e fuori". Ad accogliere a Capanne la delegazione guidata dal sottosegretario è stata la direttrice della casa circondariale di Perugia, Bernardina Di Mario, insieme al comandante della polizia penitenziaria, Fulvio Brillo. Reggio Calabria: il Forum Nazionale dei Giovani in visita alla Casa circondariale newz.it, 1 settembre 2016 Reggio Calabria. Una delegazione del Gruppo Carceri del Forum Nazionale dei Giovani composta da Francesco Danisi, Serena Minniti, Andrea Messina, Caterina Epifano ed i consiglieri comunali di Reggio Calabria Nancy Iachino ed Antonino Castorina si è recata presso la casa circondariale di San Pietro alla presenza del Garante dei Diritti dei Detenuti Agostino Siviglia per incontrare la direttrice Maria Carmela Longo e vedere da vicino la condizione dei detenuti nell’istituto penitenziario. La delegazione ha portato in dono diversi volumi e videocassette raccolte dall’Associazione Leonardo e dal consigliere comunale del Pd Enzo Marra in occasione dell’importante manifestazione sportiva "Memorial Ciccio Gatto" organizzata con il patrocinio morale della Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria. I volumi e i dvd raccolti afferma Serena Minniti Presidente dell’associazione "Leonardo" destinati ad arricchire la biblioteca dell’istituto rientrano pienamente nelle attività organizzate dall’associazione che da tempo ha tra i suoi principali obiettivi quelli di approfondire il tema della Riforma della Giustizia e del sistema penitenziario nel nostro Paese. Una visita importante afferma Antonino Castorina consigliere Metropolitano di Reggio Calabria, non la prima che facciamo, che ci fa vedere da vicino la condizione dei detenuti ed i miglioramenti progressivi che vengono fatti all’interno dell’istituto tra cui, come confermatoci dalla direttrice Longo, la ristrutturazione del campo di calcio in corso d’opera e che sarà pronta con il nuovo anno. Nuoro: i detenuti di Badu e Carros donano 700 euro ai terremotati di Francesco Cabras La Nuova Sardegna, 1 settembre 2016 Raccolta fondi all’interno del penitenziario barbaricino tra i reclusi in regime di alta sicurezza. Possono 630 euro raccolti in favore delle popolazioni terremotate del Centro Italia valerne più di 500mila? Sì, molto di più, se si va oltre il valore nominale delle banconote e si scopre che una cifra che può apparire una goccia nel mare è frutto di una colletta promossa all’interno del carcere di Badu ‘e Carros tra i detenuti in regime di alta sicurezza. Una settantina di loro hanno aderito all’iniziativa di solidarietà donando ognuno quanto poteva. Chi un euro, chi due. Chi, forse, meno. Ma ognuno di quegli euro (628 per l’esattezza quelli raccolti) se paragonato al mezzo milione donato dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. Per la validità sociale che riveste. Per tanti di loro rinunciare a quella moneta ha significato precludersi la possibilità di acquistare un pacchetto di sigarette o qualche genere alimentare all’interno del penitenziario. "Un atto notevole di attenzione per la sofferenza altrui", lo definisce Gianfranco Oppo, Garante dei diritti dei detenuti. "La controprova che anche le persone che hanno commesso reati molto gravi, conservano quella parte sana che è in noi, che andrebbe valorizzata per riuscire compiere quel percorso di rieducazione, che poi dovrebbe essere la finalità ultima del carcere". Roma: Madre Teresa, un modello anche al Regina Coeli Avvenire, 1 settembre 2016 Un incontro nel carcere romano sulla futura santa. Quando lo spirito religioso di Madre Teresa supera qualsiasi barriera, anche quelle del carcere Regina Coeli. Come? Attraverso il linguaggio universale della pace e i valori di solidarietà, partecipazione e condivisione, che Madre Teresa ha promosso nel mondo: sono stati questi i temi affrontati nell’incontro seminariale che si è tenuto all’interno del carcere romano di Regina Coeli. Nell’anno giubilare l’iniziativa ha rappresentato uno dei momenti forti di promozione del valore della misericordia anche a coloro che vivono in regime di detenzione. Interesse e commozione hanno caratterizzato l’incontro a cui hanno preso parte i detenuti che, insieme alle autorità dell’Istituto di pena, alle religiose, al Cappellano e ai volontari, hanno assistito alla proiezione di un documentario sugli aspetti salienti della vita della fondatrice delle Missionarie della Carità. Le motivazioni dell’incontro, che ha visto la partecipazione di tanti ospiti di etnie e religioni diverse sono state spiegate in un’intervista alla Radio Vaticana da Maria Falcone, docente del penitenziario e organizzatrice dell’evento. "Abbiamo voluto organizzare questo evento per dare forza al valore della pace in un luogo come il carcere, dove la pace ha necessità e bisogno di essere rafforzata, ribadita, riproposta su più livelli e in varie forme. Dall’altra parte, abbiamo voluto fare un omaggio a Madre Teresa di Calcutta" ha spiegato Falcone. "Questi incontri hanno essenzialmente una funzione pedagogica, perché mettono le persone - ha proseguito la docente - nella condizione di apprendere i valori universali di umanità, di solidarietà, partecipazione e condivisione che Madre Teresa di Calcutta ha esteso a tutti. All’incontro erano presenti detenuti di tutte le etnie e di tutti i credo religiosi, tutti pronti ad abbracciare quello che è stato per noi il linguaggio universale della pace. Per loro è stato particolarmente toccante, particolarmente commovente. Quello che più mi ha colpito è stato il fatto che si avvicinassero spontaneamente a salutare le suore di Madre Teresa, in segno di devozione, e questo è stato importante, perché i detenuti partono da un percorso di sofferenza". "Il cielo tra le sbarre", di Emanuela Nava recensione di Silvia Casini direttanews.it, 1 settembre 2016 Preparatevi perché la potente sensibilità di Emanuela Nava ha di nuovo dato alla luce un libro bellissimo, poetico e intenso. Un romanzo breve per ragazzi, che si legge tutto d’un fiato; una sequela di righe dal fascino prodigioso, dove il protagonista ha una storia così commovente, così dolente e così forte che brucia in un attimo e resta inevitabilmente attaccata al cuore. Ovviamente lo sapevamo sin dall’inizio, sin dall’incipit che non avremmo avuto scampo e che il saliscendi emotivo sarebbe entrato immediatamente in gioco, perché è un dato di fatto: Emanuela Nava è magica al pari dei racconti che inventa, al pari dei mondi che crea. E ne Il cielo tra le sbarre c’è un universo che scalcia; c’è chi urge di venire fuori, in tutti i sensi. Di fatto, il personaggio principale, Felice, è un ragazzo tranquillo, che cerca il suono della vita in ogni cosa, soprattutto nelle pietre cave che si trasformano per lui in draghi e giganti, ma quando viene morso dall’argia, il ragno della vita e della morte, le sagge donne del paese riescono a farlo "partorire" per eliminare tutto il veleno dal suo corpo e farlo rinascere. Non stiamo farneticando. Si tratta di un antico rituale di guarigione della Sardegna. Proprio come nel rito della taranta anche il ballo dell’argia ha un forte potere simbolico: ribaltare il momento di crisi grazie all’impegno collettivo che divampa in danze e canti. Di fatto, l’argia è un’anima-mala che per i suoi peccati è trattenuta in questo mondo, e se qualcuno viene infettato dal suo veleno, tocca ai membri della comunità aiutarlo con musiche e balli liberatori. L’evento drammatico viene così tramutato in un’occasione di festa carnevalesca, in una sorta di momento ludico-espressivo, dove le canzoni dei suonatori, le domande incalzanti dei partecipanti al rito, il ritmo vivace delle melodie e la danza disordinata e rumorosa, accentuano la dimensione spettacolare, tragica e grottesca della cerimonia. Ed è proprio con la celebrazione del rito dell’argia partoriente, dove tutti iniziano a mimare i dolori del parto, che Felice torna di nuovo alla luce. E rinasce pastore, protettore degli agnelli. Per questo spara una notte come tante. Spara contro chi vuole derubarlo. Per questo uccide un suo simile, un ragazzo come lui e per questo finisce in carcere. Al buio, lotta a muso duro tra muri e ferite, tra accusa e perdono, ma rinchiuso, privo della sua anima gitana, Felice si spegne come una candela: all’interno, è rotto. C’è cura per lui, nomade dei pascoli, che da sempre vive all’aria aperta, ma che ha un cuore macchiato dalla colpa? C’è speranza in chi possiede mani mortali? C’è un’altra possibilità per chi ha commesso un atroce delitto? C’è salvezza per chi ha uno spirito assassino? Felice non lo sa, sa solo che non sopporta il grigiore delle sbarre e vuole farla finita, ma quando scopre, nella biblioteca del penitenziario, che esiste un libro scritto da un veterinario che racconta di un’isola-carcere, di una prigione a cielo aperto, allora decide di inviare lettere di trasferimento. Brama la galera senza sbarre e il suo desiderio diviene realtà. La pena infatti la sconterà proprio lì, sull’isola-carcere. Lì lo scotto è un fardello tollerabile. Si darà da fare per accudire gli animali, ma quando nel suo animo si agiterà di nuovo l’istinto omicida, finirà in isolamento, e apprenderà che se il male non può essere estirpato, può comunque essere allontanato. Il suo percorso formativo sarà intenso, ma fiducioso, perché tutti hanno diritto a una vita degna di questo nome, non segnata dalla violenza. Tutti devono avere rispetto per se stessi e per il prossimo. Tutti devono apprendere disciplina e autocontrollo. Il messaggio qui è chiarissimo: anche dopo la detenzione è possibile avere una nuova esistenza ed avere rispetto per la vita. Ed è con uno stile poetico e graffiante che Emanuela Nava regala al lettore una vicenda umana vista dalla parte di Caino, tant’è che il libro è patrocinato dall’associazione "Antigone" che si batte per l’equità nel sistema penale. Ed è proprio il suo tono magicamente fuso all’essenza del mondo crudele, che ammalia il lettore. Il suo è un potente resoconto che vibra tra riti antichi di una Sardegna inedita, tra umane debolezze e sublimi ispirazioni favolistiche. Qui il dolore è un tunnel nero, ma si intravede sempre uno spiraglio di luce. Qui le suggestioni sono reali, ad esempio l’isola-carcere è un chiaro riferimento all’isola di Gorgona, che si trova nel mar ligure, l’ultima isola-penitenziario italiana, dove tra l’altro lavorò Marco Verdone, il medico veterinario grazie a cui Felice troverà la forza di reagire. Insomma, qui, struggimento compreso, c’è l’idea che i libri sono in grado di salvarci, di offrirci nuovi mondi, nuovi modi di viaggiare con la fantasia. Infatti, quando Felice entrerà in contatto con il detenuto bibliotecario, gli si apriranno nuovi orizzonti. E quando leggerà il libro redatto del medico veterinario che presta servizio di consulenza nella colonia penale "verde" e che ritrae un altro modello detentivo, dove uomini e animali vivono in libertà e in armonia, il suo cuore tornerà a battere di nuovo. In definitiva, Il cielo tra le sbarre è un’opera altamente educativa, perché ci insegna che tutto è possibile e che è doveroso amare la vita sempre, in ogni circostanza, perché dal male può sempre scaturire una forza benefica. È una fola moderna, toccante e irresistibile. Leggerla, sarà fonte di riflessione, perché l’universo in cui abitiamo ha delle zone d’ombra, delle crepe, delle storture che a volte vediamo e basta, altre volte invece le sentiamo dentro di noi. Solo affrontandole potremmo un giorno accarezzare le nostre ferite e quelle altrui, ma soprattutto avere clemenza per chi è riuscito a sopravvivere, per chi si è pentito di gesti orrendi e ha incendiato le fibre del miocardio torturandosi senza tregua, per chi alla fine ha scelto di non modificare l’irreparabile, ma di allontanare quell’errore incorreggibile, per chi si è dato un’altra opportunità di puntare dritto al cuore e di contagiare se stesso e gli altri con grazia, attenzione, amore. Perché al mondo serve questo. Nient’altro. "Il terrorismo spiegato ai ragazzi" di Cecilia Tosi recensione di Daniela Preziosi Il Manifesto, 1 settembre 2016 "Omar porta sempre con sé un po’ di Monaco. Da piccolo si è fatto raccontare mille volte com’è andato quell’attacco. Gli piaceva tanto l’idea che alcuni dei terroristi si fossero salvati e poi fossero stati accolti come eroi. Ma forse c’era qualcosa che gli piaceva anche di più: che tutti gli ostaggi fossero stati uccisi". Omar è il capo di una cellula di Al Qaeda nell’Africa settentrionale e dalla Libia organizza attentati; ma è anche un faccendiere è un trafficante. Ahmed è un reclutatore, gran smanettone in rete e infatti addetto alla propaganda; vive a Raqqa, capitale dell’autoproclamato Stato islamico. Omar e Ahmed sono due personaggi inventati ma costruiti sulla base dello studio di un gran numero di biografie reali. Seguendo le loro storie, attraverso dialoghi, email e telefonate Cecilia Tosi, giornalista di Limes, ha scritto Il terrorismo spiegato ai ragazzi (Imprimatur, pp.162, 15 euro), insieme un saggio e un racconto a due voci, quelle appunto di Omar e Ahmed, che si cimenta con il non facile compito di spiegare ai giovani che cosa sta succedendo nel mondo jihadista. Una spiegazione che dobbiamo ai giovani, e che ormai diventata urgente perché, scrive l’autrice, se raccontassimo loro - come talvolta accade sui media - i terroristi "come animali senza nessun raziocinio, non faremmo che alimentare le paure dei ragazzi e li indurremmo a credere che il mondo è governato da forze irrazionali che loro non possono capire". E se un fenomeno non ha una ragione, non ha neanche una soluzione. Il libro è dunque pensato per un lettore giovane. Ma lo sforzo di chiarezza che l’autrice è utile esercizio per tutti. Tosi mette in sequenza ragionata i principali episodi di terrorismo degli ultimi 40 anni, quelli che poi sono diventati i "miti fondativi" degli jihadisti, da Monaco ‘72 all’11 settembre 2001, passando il "vecchio" conflitto israelo-palestinese, per la guerra in Afghanistan, l’invasione dell’Iraq del 2003 fino a Bruxelles e Parigi. Mentre procede il racconto, nelle pagine troviamo cartine e schede su questioni, organizzazioni, definizioni. Lo sforzo di mettere ordine in una vicenda complessa costringe il lettore a tornare sui luoghi comuni dello "scontro di civiltà" e della "guerra di religione", concetti spesso rifiutati con eleganza ma poi maneggiati nel linguaggio quotidiano. Di fronte alle tragedie di questi tempi, spiega l’autrice, ai ragazzi dobbiamo dimostrare "che c’è un motivo per cui accadono queste cose orribili, che non c’è nessun Dio che pretende l’annientamento di chi non crede in lui e che i terroristi non sono mostri provenienti da un altro pianeta". Risalire a quel "motivo", a quei motivi, imparare a distinguere fra la "vecchia" Al Qaeda e l’avanguardistico Isis, ma anche fra gli episodi drammatici che colpiscono le città europee e ben di più quelle mediorientali, calarsi nelle differenze religiose dell’Islam attraverso dialoghi di ragazzi è un lavoro tutt’altro che da ragazzi. Ma fondamentale per dar loro gli strumenti non solo per orientarsi, ma anche per praticare quel tipo di lotta al terrorismo jihadista che compete a tutti noi, e cioè la lotta al razzismo e al pregiudizio antislamico. "Il turista", di Massimo Carlotto. L’impossibile gioco di ruolo tra il bene e il male recensione di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 1 settembre 2016 "Il turista" di Massimo Carlotto per Rizzoli. Da oggi nelle librerie. Serial killer, mercenari, servizi segreti e sbirri idealisti si scontrano a Venezia invasa da vacanzieri sbadati. Venezia assalita da turisti mordi e fuggi, ma anche meta chi non ha problemi con il conto in banca. In laguna ci sono certo omicidi, furti, ma sono crimini che non devono superare mai una soglia di allarme. Limite imposto dalla polizia e condiviso anche da servizi segreti e criminalità organizzata old style, che per i suoi traffici ha bisogno di una città tranquilla per inoltrarsi nel mare agitato della globalizzazione. Per un "esperto" di nord-est come Massimo Carlotto misurarsi con Venezia non è però semplice. Non può fare leva sul vischioso sottofondo sociale efficacemente descritto in molti suoi noir che hanno avuto proprio il nord-est come location; non può neppure facilmente immergersi nell’abisso della crisi economica, che ha cambiato radicalmente il panorama sociale, economico e politico di quella che un tempo è stata chiamata la Terza Italia, modello di uno sviluppo atipico rispetto a quello industriale basato sulla grande fabbrica. Venezia ha sì subito la crisi, ma rimane comunque una città-museo che attira milioni di persone. Ha tuttavia studiato a fondo come è cambiata la criminalità organizzata e come i servizi di intelligence siano stati investiti dalla caduta del Muro di Berlino. La scelta di ambientare un noir a Venezia ha quindi il sapore della sfida, che Carlotto gioca forzando, come spesso fa, i canoni del noir in questo Il turista, in uscita oggi per Rizzoli (pp. 297, euro 18. Il volume sarà presentato a Taormina all’interno del "Taobuk festival" il 15 settembre, ore 21, Piazza IX Aprile). Il romanzo ha un avvio adrenalinico. Una donna viene strangolata da un uomo piacente ma freddo, glaciale come solo i serial killer sanno essere. È il turista, ricercato dalle polizia di tutta Europa perché uccide donne in città dove forte è il flusso dei vacanzieri. Le sceglie per le borse che hanno: griffate ed esclusive. Il suo godimento viene dagli oggetti che contengono, scampoli e simboli di vite seriali, sempre con qualche segreto. Ma quella che uccide a Venezia ha un segreto troppo grande per lui: è una agente segreta in missione. Una misera vita - Il cadavere della donna viene fatto sparire. I giornali non segnalano nessun omicidio efferato. Manca quella visibilità mediatica che fa impazzire di piacere il turista, il quale ritorna sul luogo del delitto per essere ripreso da una micro-camera collegata tramite Wi-Fi con chissà chi. Qui la prima deviazione da un cliché prestabilito non tanto dai romanzi, ma dalle serie televisive di genere, che stanno sostituendo i romanzi fantasy, gialli e horror nell’immaginario collettivo. Viene introdotto infatti un nuovo personaggio, Pietro Sambo, cacciato dalla polizia per una storia d’amore che ha avuto con una donna implicata in un traffico di stupefacenti. L’unica colpa che ha è di averla avvertita che la polizia è alle sue costole. L’ex-poliziotto perde tutto, lavoro, famiglia e reputazione. E in una città piccola come quella lagunare, la sua storia non rimane certo ignota. È divorato dal senso di colpa. Conduce una vita misera, l’unica àncora che ha è il lavoro in un negozio di chincaglieria per turisti. Viene però ingaggiato da due personaggi - un francese e uno spagnolo - per trovare l’assassino della donna. Irrompono nel romanzo sbirri corrotti e puliti, i "Liberi professionisti", associazione di ex-agenti segreti e soldati che hanno passato il confine tra legalità e illegalità, diventando mercenari al soldo di mafie, narcos e chi più ne ha più ne metta. Il ritmo della narrazione diventa quella dell’hard boiled. Il terreno di scontro - Pietro Sambo diventa l’investigatore privato che conosce la città e sa dunque come muoversi nella zona grigia tra legalità e illegalità. Sa che dietro la storia di una donna o di un uomo rispettabile c’è sempre qualcosa di indicibile, di non presentabile in società. Qui interviene, magistralmente, una nuova deviazione verso una destinazione sconosciuta. O forse è una biforcazione come accade spesso nella vita. Massimo Carlotto abbandona cioè la strada del già noto, scegliendo come guida proprio "il turista". Individuato dai "Liberi professionisti", viene costretto a diventare un loro killer. Da questo momento in poi le pagine scandiscono colpi di scena su colpi di scena. Omicidi più o meno efferati, gioco di ruolo tra servizi segreti e liberi professionisti, dove è difficile prendere posizione. I "buoni" hanno infatti il loro lato oscuro, violano le regole, fanno carne da macello dei malcapitati di turno. Solo l’ex poliziotto e un suo compagno di avventure provano a mantenere la barra dritta. Sono veneziani e non vogliono che la loro città diventi il terreno di scontro tra servizi segreti, criminalità organizzata e apprendisti stregoni del terrore. Ma c’è sempre il turista che scompagina i giochi. Sono alcuni anni che Carlotto non concede un lieto fine alle sue storie. Il male non può essere sconfitto, lascia intendere, perché ha le sue radici in un mondo che lo alimenta continuamente. I "cattivi" possono quindi salvare la pelle, cambiando bandiera o sgusciando tra i tortuosi budelli stabiliti dai rapporti di forza maturati sul campo. I "buoni" possono invece vincere una battaglia, ma non la guerra, Fino a quando cioè le relazioni sociali non saranno cambiate, sovvertite. Non è questo un noir classico. E per fortuna, perché se il noir non cambia, facendo i conti con un mondo in continuo divenire, diventa lettura di maniera della realtà. Deve cioè misurarsi con i conflitti che lo agitano, lo attraversano. E questo romanzo si inoltra proprio sul sentiero della sperimentazione e dell’innovazione. Con risultati convincenti. E avvincenti. La fabbrica del consenso - A differenza di altre volte, la politicità non sta nella descrizione delle relazioni tra economia legale e illegale, ma nel tratteggiare una formazione sociale orfana di una analisi critica. La rappresentazione del 1 per cento della popolazione mondiale che si accaparra le ricchezze naturali e quelle prodotte dal restante 99 per cento degli abitanti del pianeta è una semplificazione, manda a dire proprio il turista. Una efficace semplificazione, si può aggiungere, ma che illumina ciò che tutti già sanno. Il problema è allora scardinare il consenso che il "sistema" ha. Questo romanzo di Carlotto prova a farlo. Indica una possibilità di azione. Non è detto che sia quella giusta, ma per saperlo basta seguirla. Terremoto. La mappa degli interventi mancati. Così i finanziamenti sono spariti di Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 settembre 2016 L’imprenditore in Procura accusa il Comune: "Sulla scuola non ci chiesero l’adeguamento sismico". Nessun appalto è stato assegnato con i finanziamenti erogati nel 2009. Ci sono interventi antisismici finanziati dalla Regione Lazio dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, che non sono mai stati fatti. Lavori nei paesi di Amatrice e Accumoli ritenuti urgenti, che non risultano realizzati nonostante l’erogazione dei soldi: cinque milioni di euro stanziati proprio per cercare di evitare nuovi disastri dopo la tragedia in Abruzzo. I documenti che ricostruiscono la storia di questi edifici crollati dopo la scossa del 24 agosto scorso, sono stati acquisiti ieri nella sede della Pisana dagli investigatori del Guardia di Finanza. E l’attenzione di magistrati e autorità anticorruzione si concentra sulla scuola di Amatrice visto che il costruttore accusa formalmente il Comune di non aver mai disposto le attività di "adeguamento" - come invece risulta dai documenti ufficiali - ma soltanto un "miglioramento". Sono centinaia i palazzi oggetto dell’inchiesta dei pubblici ministeri di Rieti - Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Maruotti - coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva. E i primi accertamenti confermano le gravi irregolarità compiute con certificati falsi e fondi destinati alla sicurezza dei quali si ignora la reale destinazione. I soldi spariti - Dopo il sisma di sette anni fa, l’allora presidente della Provincia di Rieti Fabio Melilli, chiede e ottiene cinque milioni dal governatore Piero Marrazzo. Vengono dunque individuati gli stabili sui quali si deve intervenire con urgenza. Il denaro viene erogato nel 2012 ai Comuni interessati. Nell’elenco ci sono decine e decine di edifici. Tra questi: la scuola elementare di Accumoli alla quale furono destinati 150 mila euro; la caserma dei carabinieri di Amatrice: 300 mila euro; la casa comunale di Amatrice, 150 mila euro; l’istituto alberghiero dello stesso paese per cui si ritennero necessari 600 mila euro. Gli interventi in realtà non sono mai stati eseguiti, come risulta dalle relazioni ufficiali del 2015. Un anno fa per la scuola era stato compiuto soltanto lo studio di fattibilità mentre per la caserma risulta approvato il progetto definitivo ma nessun altro passo era stato compiuto. Mistero sull’istituto alberghiero per cui il sindaco Sergio Perozzi decise di usare anche i soldi destinati alla casa comunale: nel 2014 risulta depositato lo studio di fattibilità. Poi più nulla. La scuola mai adeguata - Sempre più complessa appare la storia dell’appalto per la scuola "Romolo Capranica" di Amatrice. Sono le relazioni programmatiche della Provincia di Rieti a confermare che l’Istituto doveva essere sottoposto a "lavori di adeguamento sismico". Ieri l’imprenditore Gianfranco Truffarelli, titolare dell’impresa "Edilqualità" che doveva eseguire l’appalto, ha depositato per mano del suo avvocato, Massimo Biffa, una memoria ai magistrati e si è presentato negli uffici dell’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, titolare di un fascicolo su quella commessa. Ha confermato che, con una delibera firmata il 3 agosto 2012, il Comune si limitò a chiedere solo un "miglioramento sismico". Tra i documenti consegnati ai pm c’è la relazione del collaudatore Vittorio Coccia che il 13 settembre 2013 certifica: "Buona riuscita dei lavori fatti ad esclusione di un intervento previsto in copertura che per lo stato delle strutture è stato ritenuto opportuno non effettuare. La mancata esecuzione di tale intervento non ha pregiudicato in alcun modo l’ottimo risultato ottenuto sia sul fronte del miglioramento sismico che del risanamento strutturale complessivo di cui sicuramente le strutture in cemento avevano necessità per la presenza di parte di calcestruzzo e ferro soprattutto nel cavedio in sotterro per la presenza di acqua e della forte umidità causata da quest’ultima". L’indagine su tecnici e politici - Saranno proprio i progettisti, i collaudatori e i politici che gestivano il denaro a dover spiegare che cosa sia davvero accaduto in una zona che - già dopo il terremoto dell’Umbria del 1997 - fu ritenuta ad altissimo rischio. Qualche giorno fa il presidente della Provincia di Rieti Giuseppe Rinaldi ha rivelato che alcuni accordi di programma furono stilati con le amministrazioni comunali per accelerare i lavori. Ora bisognerà verificare le cause di ritardi che in svariati casi hanno determinato il crollo degli edifici e la morte di moltissime persone. Saranno i magistrati a chiederne conto ai responsabili tecnici e politici, contestando omissioni e abusi che si sono rivelati fatali. Terrorismo. Isis, i massacri in Siria e Iraq. 15 mila corpi nelle fosse comuni di Davide Frattini Corriere della Sera, 1 settembre 2016 Vittime dei jihadisti senza nome e senza sepoltura. I primi 72 luoghi sono stati ritrovati nelle aree sottratte al dominio del Califfato in ritirata o dove ancora si combatte. La fossa più piccola contiene tre corpi, la voragine più grande ne ha inghiottiti migliaia. I miliziani dello Stato Islamico hanno lasciato dietro di loro una scia di orrore e terra rimossa, di buche scavate in fretta e ricoperte con noncuranza: le uccisioni no, quelle sono state meticolose e prolungate, come sulle pendici del monte Sinjar dove gli uomini del villaggio di Hardan sono stati massacrati durante sei giorni, gli estremisti si sono presi tutto il tempo che serviva, anche di notte, le luci delle ruspe a illuminare le esecuzioni. 72 fosse comuni - L’Associated Pressha localizzato 72 fosse comuni tra l’Iraq e la Siria nelle aree sottratte al dominio del Califfato in ritirata o in quelle dove ancora si combatte e non possono essere raggiunte. Le vittime - calcola l’agenzia di stampa americana - sono tra le 5.200 e le 15 mila, una contabilità della morte che non si ferma: ieri 13 persone sono state ammazzate nella provincia di Kirkuk, erano accusate di aver aiutato alcune famiglie a fuggire dai possedimenti dei fondamentalisti. A Sinjar - Attorno a Sinjar, preso d’assalto nell’agosto del 2014, le fosse restano coperte dalla poca sabbia ributtata con le scavatrici, circondate dal nastro della polizia e dell’esercito, mancano i soldi o la volontà politica per raccogliere le prove che contengono. "Vorremmo recuperare i nostri cari o quel che è rimasto di loro: là dentro sono solo ossa - dice Rasho Qassim all’Ap -. Le autorità ripetono che bisogna aspettare, deve arrivare un comitato per esumarli. Sono passati due anni e non è venuto nessuno". Due dei suoi figli sono seppelliti dall’altra parte della fettuccia di plastica colorata. Atrocità esaltate dalla propaganda - L’eccidio contro gli yazidi è stato annunciato e proclamato, gli ideologi dello Stato Islamico non nascondono le atrocità, le esaltano per la loro propaganda. La popolazione è considerata blasfema dagli estremisti islamici, è perseguitata da sempre, i massacri nei secoli sarebbero stati almeno 72. Sulla rivista "Dabiq" i predicatori del Califfato si chiedono come i musulmani possano ancora permettere a questi "adoratori del diavolo" di vivere in mezzo a loro. "Non provano neppure a cancellare le tracce dei crimini", commenta Sirwan Jalal, incaricato dal governo del Kurdistan iracheno di portare avanti l’indagine. Stragi di sciiti e sunniti - Nessuno al di fuori degli assassini ha potuto vedere il terreno, grande più o meno come due campi da calcio messi uno vicino all’altro, dove i prigionieri sono stati freddati e i loro cadaveri bruciati. Steve Wood dell’organizzazione AllSource ha cercato di incrociare le testimonianze dei pochi sopravvissuti con le immagini scattate dai satelliti. Ed è riuscito a individuare l’area dove gli sciiti, separati dagli altri musulmani, sono stati fatti inginocchiare con le mani legate: era il 10 giugno del 2014. "Io ero il numero 43 - racconta a Human Rights Watch un uomo che è riuscito a scampare la carneficina -, ho sentito qualcuno dire dietro di me "615". E poi: "siete pronti?" Hanno cominciato a sparare con la mitragliatrice e tutto quello che avevano. Mi sono finto morto e sono rimasto tra i cadaveri fino a quando non se ne sono andati". Il lavoro di Wood e dei pochi altri che cercano di raccogliere le prove rischia di rimanere senza colpevoli, almeno fino a quando la Siria sarà devastata dal caos della guerra e l’Iraq con aree fuori dal controllo del governo di Bagdad. Che è riuscito a processare e condannare 36 estremisti per il massacro di Camp Speicher: sono stati impiccati il 21 agosto, avevano costretto 1.700 soldati iracheni a stendersi con la faccia per terra e li avevano falcidiati. Secondo gli attivisti le fosse comuni in Siria sarebbero centinaia. Gli abitanti della provincia di Deir ez-Zor, a oriente verso il confine con l’Iraq, hanno individuato quella dove sono stati buttati 400 membri della tribù Shaitat, in totale le vittime del massacro sarebbero almeno un migliaio: quando lo Stato Islamico ha invaso le loro terre, hanno osato ribellarsi. Terrorismo. L’uso politico della forza contro i massacri è il nostro grande tabù di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 1 settembre 2016 Di fronte alla scoperta delle fosse comuni nelle aree occupate dall’Isis, dovremmo porci qualche interrogativo senza ipocrisie: ne saremmo venuti a conoscenza senza un’azione militare per smantellare le basi del Califfato? Hanno trovato fosse comuni con quasi 15 mila cadaveri occultati nelle zone liberate dal terrore dell’Isis. Un massacro immane, o meglio la prova provata di un massacro immane, che dovrebbe scuotere le coscienze di chi ha a cuore il rispetto dei diritti umani più elementari. E che dovrebbe suggerire qualche interrogativo, fuori dalle ipocrisie, dai non detti, dai proclami magniloquenti, dagli stentorei "mai più" nel ricordo di carneficine consumate nel silenzio e nell’indifferenza delle democrazie occidentali. Per esempio: avremmo mai scoperto queste fosse comuni senza un’azione militare decisa per smantellare le basi del Califfato? Si sarebbe "liberata" Palmira (le virgolette sono necessarie visto che a Palmira erano in funzione i lager sotterranei del tiranno Assad) senza l’intervento massiccio dell’aviazione russa? L’uso della forza è il grande tabù che non sappiamo affrontare nella guerra simmetrica contro la centrale del terrorismo jihadista. Però non c’è bisogno di intonare la fanfara del bellicismo irresponsabile e superficiale per rendersi conto che sono atti bellici quelli che hanno concretamente consentito l’arretramento del Califfato. E soprattutto che dove non c’è intervento (un tempo si sarebbe definito "ingerenza umanitaria") non ci sarebbe interruzione di fosse comuni, stragi, popolazioni intere vessate, donne yazide uccise o fatte schiave, cristiani ammazzati e crocefissi, musulmani di altra confessione massacrati. Noi invece, e l’Europa sempre più impotente e paralizzata in particolare, ammantiamo le nostre indecisioni con nobili motivazioni, con il rifiuto sdegnato della guerra, cancellando persino dai nostri discorsi la dimensione fastidiosa e imbarazzante della forza. Chi è sopravvissuto al terrore dell’Isis però non sarebbe molto d’accordo. "Mai più Srebrenica", quando i militari dell’Onu girarono la testa per non vedere la violenza genocida di Ratko Mladic. Ma Srebrenica si è ripetuta, e si è interrotta solo quando le forze militari della coalizione anti-Califfato si sono imposte sulla forza militare di quei nemici dell’umanità. E non sarebbero d’accordo nemmeno i curdi, che oggi sono costretti a subire la tempesta di fuoco di Erdogan, il sultano turco che dopo il fallito golpe dei suoi oppositori nello scorso luglio, di fronte al silenzio ipocrita dell’Europa, sembra liberato da ogni vincolo, libero di fare quel che vuole senza la paura di sanzioni o di reazioni significative con il tacito appoggio persino di Putin e della Russia alla Turchia strategicamente ostile). Oggi i curdi vengono vessati ancora di più, ma non risuonano più le lodi alle eroiche donne peshmerga che hanno combattuto e combattono ancora contro l’Isis. Non ci commuoviamo più per le meravigliose ragazze che andavano a Kobane e che sorridevano dietro a un selfie prima di essere sterminate in un attentato terroristico. E non guardiamo più a Kobane come alla frontiera della nostra civiltà, all’avamposto armato che ha arginato l’avanzata del Califfato. Abbiamo dato un minimo appoggio ai curdi considerati come le nostre forze di terra, visto che non avremmo saputo affrontare un impegno militare di terra dei soldati dell’Occidente e dell’Europa. Oggi nemmeno quello. Ma continuiamo con la solita litania "Mai più Srebrenica". Sarebbe il caso di non pronunciarla più, questo impegno solenne così svilito dal suo abuso velleitario e vanaglorioso. Facciamo pochissimo perché non ci siano nuove Srebrenica, perché le ragazze della Nigeria ridotte in schiavitù siano liberate, perché ad Aleppo si possa continuare a vivere. E quando impediamo un’altra Srebrenica dell’Isis non sappiamo dire come mai, con quali meriti, con quali strumenti, con quale forza, forza militare anche. È bellicismo ricordarlo? È un cedimento alla retorica guerrafondaia? Ma ci sono altri mezzi, altri strumenti sufficientemente adeguati, per liberare gli oppressi dall’Isis? E per dare un sostegno concreto ai curdi, stretti nella tenaglia tra Isis e la Turchia di Erdogan? Migranti. Record di richieste d’asilo respinte, diventa rifugiato solo uno su venti di Gabriele Martini La Stampa, 1 settembre 2016 Sempre più difficile ottenere lo status. Oltre sei su dieci non ricevono alcuna protezione. Uno su venti. In Italia solo il 5% dei richiedenti asilo ottiene lo status di rifugiato. Il 13% riceve il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, che dura 5 anni e viene rilasciato a chi rischia di subire un danno grave nel caso di rientro nel proprio Paese. Mentre il 19% consegue la protezione per motivi umanitari (24 mesi, prorogabili). Ma negli ultimi anni, a fronte dell’aumento dei flussi, il Viminale ha imposto una stretta rendendo i criteri più stringenti. Il risultato è che la quota di domande respinte si è impennata: 22% nel 2012, 39% nel biennio successivo, 59% nel 2015, fino a toccare il 63% nei primi otto mesi del 2016. La caccia al foglio di carta - Il migrante che vuole richiedere asilo in Italia presenta una domanda di protezione internazionale alla questura o alla polizia di frontiera. La richiesta viene esaminata da una delle 40 commissioni territoriali del dipartimento delle libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, che decidono in base a interviste individuali. Nel 2012 tre richiedenti asilo su quattro ottenevano il permesso di rimanere in Italia. Ma negli anni la fetta di coloro che hanno diritto a una qualche forma di protezione è precipitata: 61% nel 2013 e nel 2014, 41% nel 2015, 37% nel 2016. Boom di domande - Le richieste di asilo, invece, sono in aumento: 70 mila da inizio anno. Nel 2012 furono 17 mila, 26 mila nel 2013. Il 2014 è stato l’anno del boom con 63 mila domande, poi cresciute a 83 mila nel 2015. Quest’anno - se la tendenza registrata finora si manterrà costante - supereranno le 100 mila. Comunque molte meno rispetto ad altri Paesi europei. In Germania, dopo il milione di domande pervenute nel 2015, si aspettano 300 mila richieste entro fine anno. Quel che è certo è che dei quasi 58mila migranti che da inizio 2016 hanno ricevuto risposta alla domanda di asilo in Italia, la maggioranza non può restare: oltre 34 mila stranieri hanno ricevuto un foglio di via con l’obbligo di lasciare il territorio nazionale entro dieci giorni. Cosa che quasi mai accade: il documento, spesso, è il preludio a una vita da fantasma nel mondo della clandestinità. Ricorsi e riforme - Per i migranti che si vedono respinta la richiesta d’asilo resta la possibilità di presentare ricorso in un tribunale ordinario, le cui sentenze possono essere a loro volta impugnate davanti alla corte di appello e, in ultima istanza, in Cassazione. Nei primi cinque mesi dell’anno i migranti ad aver presentato ricorso sono stati 3500 al mese, circa la metà di coloro che si erano visti rigettare la domanda d’asilo. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha proposto di creare tribunali specializzati con giudici dedicati e di sopprimere l’appello. Pochi siriani - Ma qual è l’identikit dei richiedenti asilo in Italia? Nove su dieci sono maschi, l’88% ha meno di 35 anni, quasi il 60% arriva dall’Africa. La Nigeria guida la classifica dei Paesi di provenienza (11 mila domande), seguita da Pakistan (7100), Gambia (6000), Mali (4700), Senegal (4300), Bangladesh (4100) e Afghanistan (2500). I siriani che nel 2016 hanno cercato protezione in Italia sono meno di 800, nonostante le richieste siano state quasi tutte accettate. Migranti. Sbarchi, l’assalto di fine estate: salvati anche mille minori soli di Niccolò Zancan La Stampa, 1 settembre 2016 In pochi giorni il 10% degli arrivi del 2016. I centri della Sicilia al collasso. È alta stagione per i trafficanti di uomini. Anche l’anno scorso era successo proprio adesso. Alle fine di agosto e prima dell’inizio dell’autunno, durante l’ultimo mese di bel tempo con le condizioni del mare favorevoli. "È incominciato il grande assalto di settembre", dice un esperto del Viminale. "Temiamo un record di sbarchi". Il record c’è già stato, a dire il vero. Ed è quello registrato fra la mattina di lunedì 29 e la notte di martedì 30 agosto. Quando nel giro di quarantott’ore sono stati soccorsi 13.500 migranti fra le coste siciliane e la Libia. Cioè in due giorni sono sbarcati più del 10 per cento di tutti i migranti arrivati in Italia nel 2016. Erano 105.628 al 28 agosto, sono diventati 119.128 adesso. Così, per la prima volta, ed è un altro record, l’andamento complessivo di quest’anno supera quello dell’anno scorso. Alla fine di agosto del 2015, infatti, i migranti sbarcati in Italia erano stati in tutto 116.141. C’è un fatto nuovo che potrebbe spiegare bene questo sorpasso. La prima ad essersene accorta è stata il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini: "L’altra notte sull’isola sono sbarcate più di mille persone, portate a terra da diverse motovedette della capitaneria di porto, molte donne e bambini. Una di queste motovedette era piena di migranti in arrivo dal Bangladesh". Non era mai successo o quasi. In Italia, in genere, sbarcano nigeriani e eritrei, arrivano persone provenienti dal Gambia, dal Sudan e dalla Costa d’Avorio. I migranti bengalesi avevano sempre cercato di raggiungere l’Europa attraverso la Turchia, passando per la Grecia e poi risalendo la cosiddetta rotta balcanica. Ma l’accordo firmato a marzo fra l’Unione Europea e il presidente turco Erdogan ha di fatto, sul lungo periodo, cambiato le grandi direttrici migratorie. Teoricamente chiusa la rotta balcanica, anche se non praticamente, visto che sono comunque passati oltre 24 mila migranti dal momento della firma dell’accordo, i trafficanti di uomini si sono già riorganizzati. In alta stagione si fanno affari d’oro. Ora le partenze di massa passano dalla Libia o dall’Egitto. L’unica via possibile, la lunga attraversata del Mediterraneo. Molto pericolosa. Ed ecco, infatti, un altro record del 2016: quello dei morti affogati, oppure morti per le esalazioni dei motori e dispersi. Sulla rotta del Mediterraneo centrale si registra l’85 per cento di tutti i decessi in mare. Sono 3167 solo i morti di quest’anno. "Un aumento di oltre un terzo" spiega Frank Laczko dell’Oim, l’organizzazione mondiale per le migrazioni. "Nel 2016 è morto un migrante ogni 85, rispetto a un migrante ogni 276 nel 2015". Record di arrivi, record di morti. Record anche di minorenni non accompagnati che oggi si trovano in Italia. Più di mille arrivati solo con l’ultima ondata, 11.797 al 15 luglio scorso. Cinquemila si trovano in Sicilia. Le strutture per l’accoglienza, soprattutto quelle del Sud Italia, sono vicine al collasso. A Lampedusa il centro di registrazione e identificazione può ospitare 400 migranti. Ieri sera erano accampati in più di 1600. "È la prima vera emergenza dall’inizio dell’anno", dice il sindaco Nicolini. Martedì notte il rimorchiatore Asso 25, che in genere si occupa di rifornimento alle basi petrolifere, aveva a bordo 1100 migranti. Secondo le indicazioni, avrebbero dovuto sbarcare a Palermo. Ma poi alcuni momenti di tensione a bordo hanno costretto il comandante a chiedere l’attracco nella più vicina Lampedusa. Ecco il motivo del sovraffollamento. "Mi hanno detto che le navi impegnate nei soccorsi in questo momento sono tutte impegnate, fra Sicilia, Campania e Sardegna", dice ancora il sindaco Nicolini. Sono nati bambini a bordo, c’è stato un battesimo. Stanno per sbarcare anche due salme. Lampedusa è abituata all’emergenze, passerà anche questa. Ma è sempre più chiaro che l’Europa sia divisa in due. Grecia e Italia a Sud, tutto il resto a Nord, dietro frontiere blindate. È quello che si vede a Ventimiglia, oppure al confine con la Svizzera. Tentativi di passare e andare oltre. Due giorni fa ad Atene c’è stata una manifestazione dei profughi bloccati in Grecia. Sono 65 mila e chiedono di poter proseguire il viaggio o almeno condizioni di vita più dignitose. Migranti. Umiliazioni e abusi, l’estate dei diritti sospesi per i migranti bloccati a Como di Simone Gorla La Stampa, 1 settembre 2016 Violazioni diritti alla frontiera elvetica, con respingimenti di massa e controlli illegali in base al colore della pelle. Il record è stato raggiunto il 19 agosto. In una sola giornata, 45 minorenni soli in cerca delle loro famiglie in Germania e Svizzera sono stati respinti senza assistenza legale alla frontiera di Chiasso. Affidati alla Caritas di Como, sono fuggiti alla prima occasione per riprovare a passare verso nord. Per loro, come per tutti i migranti somali, eritrei e centrafricani bloccati da mesi a Como, a due passi dalla frontiera elvetica, quella che sta finendo sarà ricordata come l’estate dei diritti sospesi. Respingimenti di massa e controlli illegali in base al colore della pelle alla dogana. Perquisizioni umilianti e abusi, con uomini e donne che raccontano di essere stati denudati e tenuti per ore in strutture simili a "bunker sotterranei". Diritto d’asilo e ricongiungimenti familiari negati. Tutte violazioni gravi delle norme europee e internazionali - dal trattato di Schengen alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, dagli Accordi di Dublino alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo. Dopo mesi di voci e racconti sui duri metodi delle guardie di frontiera svizzere, ora la denuncia arriva da un report della onlus italiana Asgi, l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione, e della svizzera Firdaus. Negli ultimi mesi quasi 7 mila persone sono state bloccate sul confine senza possibilità di richiedere protezione internazionale per mancanza di informazioni e di un mediatore linguistico in grado di spiegare le procedure. "Il diritto di chiedere asilo non è stato e non sarà garantito se ciascuna delle persone respinte non potrà esprimersi sulla propria volontà di chiedere protezione internazionale alla Svizzera", ha commentato la deputata ticinese Lisa Bosia Mirra. Particolarmente gravi, per le associazioni, le violazioni dei diritti dei minori non accompagnati. Dal 14 luglio al 23 agosto, 454 minorenni soli che volevano raggiungere i parenti sono stati respinti. La portavoce di Amnesty International Denise Graf accusa: "La Svizzera non rispetta i diritti dei bambini e dei giovani che si presentano alle sue frontiere". Quasi tutti hanno meno di 16 anni, molti sono in viaggio da mesi senza tutele e facile preda dei trafficanti di esseri umani. Ragazzini come Ismail, 17 anni. Nato in Eritrea e sbarcato in Italia ad aprile, viaggia con i fratelli di 10 e 14 anni. Insieme hanno provato a entrare in Svizzera attraverso il valico di Chiasso per cinque volte, ma sono sempre stati identificati e respinti. Ora vogliono aderire al programma europeo di "relocation" per raggiungere il fratello maggiorenne in Svizzera. Ma non sarà facile. Il 73 per cento dei minorenni presenti a Como sono eritrei: per gli accordi europei del settembre 2015 avrebbero diritto ad essere accolti e ricollocati, in base a quote stabilite, nei vari paesi Ue. Ma la "relocation", prevista anche per siriani e iracheni, è di fatto negata a tutti. E i dati forniti dalla Guardia di frontiera ticinese dicono che in quattro mesi è aumentata di dieci volte la percentuale di stranieri irregolari rispediti in Italia. Il nostro Paese è così costretto a fare fronte da solo all’accoglienza. "Sei Stati si fanno carico dell’80 per cento delle richieste di asilo", spiega Elly Schlein, europarlamentare di Possibile, che chiede una maggiore divisione delle responsabilità e un ripensamento delle norme Ue sull’accoglienza. "A settembre 2015 furono promessi 160 mila ricollocamenti, ma ne sono stati attuati solo 3 mila. Era un impegno di tutti gli Stati membri e del Consiglio, una delle soluzioni per creare corridoi umanitari ed evitare situazioni come quelle viste a Como e Milano nelle ultime settimane". Migranti. LinosArt, viaggio nel dramma dei profughi di Alice Scialoja Il Manifesto, 1 settembre 2016 Dal 3 al 10 settembre un Festival sull’isola delle Pelagie. "Gli animali del Daesh", "Il sole del Kurdistan", "In viaggio verso l’ignoto", "Alì che vende il pane", "Aprite la frontiera con la Macedonia", "La fame non tornerà" sono alcuni dei titoli delle tavole di Sheradzade, una bambina di otto anni che disegna la guerra in Siria e il viaggio che l’ha portata in Grecia insieme alla sua famiglia. Un viaggio verso la speranza di milioni di profughi e centinaia di migliaia di bambini come lei che fuggono dalla devastazione delle loro case da ormai più di cinque anni. I disegni di Sheradzade saranno esposti dal 3 al 10 settembre a Linosa, in occasione di LinosArt 2016. La migrazione e il viaggio sono infatti al centro di questo festival internazionale, organizzato per il secondo anno consecutivo sulla seconda isola delle Pelagie, poco più a nord di Lampedusa, da Federicapaola Capecchi, Fabio Sanfilippo, Salvatore Tuccio e Fabio Tuccio. Un appuntamento di danza, musica, teatro, cinema e letteratura che vuole essere una testimonianza di fratellanza e di pace attraverso artisti dalle sonorità, le voci, i colori e i talenti diversi, uniti dal linguaggio universale dell’arte, e caratterizzati, tuttavia, da un forte senso di appartenenza alla propria terra. A cominciare dalla bambina curdo-siriana costretta a scappare. Per proseguire con l’inno all’identità femminile della Sicilia e un omaggio a tutte le sue donne - "eroine, fimmini assassine, fimmini madri, fimmini figlie, fimmini puttane e sante, fimmini pazze, fimmini sole, fimmini maschio, fimmini feroci, fimmini dolci e materne, fimmini di tutti i culuri e di tutti i sapuri" - dello spettacolo Fimmine e fimminazze dell’attrice catanese Alice Ferlito, della cantante polistrumentista sarda Nicoletta Fiorina e del batterista palermitano Giampaolo Terranova, che aprono la prima serata. Diversa la voce, simile l’attaccamento all’isola della band agrigentina Siciliano Sono: ska, reggae e pop a richiamare voci e suoni che si mescolano, come nella storia della Sicilia si sono succeduti culture e popoli diversi. Ancora, per la sezione spettacolo, serata di cabaret con i linosani di Tempu Nivuru; un gruppo selezionato a sorpresa di artisti del festival in una JAM che unisce danza, canto e musica dal titolo Uscita di sicurezza; Peppino Marabita, artista ragusano, con Malleabile uno spettacolo che è anche lo stile di vita dell’artista, e che mescola teatro fisico e circo; Giorgia Palombi, attrice napoletana, con lo spettacolo Per la Grazia, accompagnata dal Duo Marlì, Margherita Franceschini al violoncello e Lisa Rieder al violino; Giacomo Sferlazzo, artista lampedusano, in concerto; Fikri Tallih, artista parigino di origini Berbere, con una performance rappresentativa del suo Cirqùen Liberté, un ampio progetto di impegno artistico, umano e sociale; chiude il Festival OpificioTrame Physical Dance Theatre di Federicapaola Capecchi con lo spettacolo E Ancora: un viaggio verso il possibile, verso un’umanità possibile. Sheradzade-La bambina che disegna la guerra è il titolo di una performance che andrà in scena martedì 6 settembre con Giorgia Palombi, Fabio Sanfilippo, Valentina Falavigna, Margherita Franceschini e i bambini di Linosa. Per la sezione documentari, si comincia con Mediterraneo, la nostra frontiera liquida di Rosalba Ferba e Gabriella Guido con le fotografie di Massimo Sestini e un testo di Erri De Luca. Nei giorni successivi, La polvere di Kabul del giovane regista afghano Morteza Khaleghi, l’inedito XII.8.44 di Diego Bonuccelli originale visione dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, Il grand tour a Palermo sulle bellezze del capoluogo siciliano. Da segnalare, mercoledì 7 settembre, la presentazione del volume edito dal Mulino L’età del transito e del conflito-bambini e adolescenti tra guerra e dopoguerra. Per tutta la settimana sarà aperta la mostra dello scultore agrigentino Pietro Zambuto. Droghe. Gli spinelli sintetici spaventano l’Europa: "mettere Black Mamba al bando" di Emanuele Bonini La Stampa, 1 settembre 2016 La droga, versione sintetica della cannabis, è già stata collegata a decine di morti in Russia. Il suo nome chimico, Mdmb-Chmica, non dice molto. Ma il suo nome commerciale, Black Mamba, sì: è la versione sintetica della cannabis, più potente dello spinello tradizionale, e per questo più dannosa per la salute umana. Il problema è che ha già preso piede. La Commissione europea ha deciso quindi una stretta, proponendo nuove competenze per l’Osservatorio europeo delle droghe e le tossicodipendenze (Emcdda) al fine di consentire un’azione più rapida ed efficace in materia di contrasto alla nuove sostanze psicoattive che caratterizzano prodotti come il Black Mamba. Un problema - Lo spinello sintetico è sempre più diffuso in Europa. Ha già invaso le strade di oltre mezza Unione europea. È in vendita in 23 Stati membri dal 2014, proveniente dalla Cina. Nel rapporto consegnato lo scorso luglio alla Commissione europea, l’Emcdda, rileva che la sostanza "si vende sia in polvere sia come prodotto di marca commerciale da aziende chimiche e punti vendite al dettaglio on-line". Non è oggetto di divieti e si trova su internet, è usato per "modificare" gli spinelli tradizionali. Solo che, una volta fumati, le nuove sostanze psicoattive hanno conseguenze diverse. L’Emcdda ha registrato 71 casi seri per la salute associati al Mdmb-Chmica, di cui 29 decessi. Tra questi, "in almeno 12 casi (43%) la sostanza sembra aver giocato un ruolo nella morte". Nuovi controlli - Tra il 2014 e il 2016 circa 3.600 sequestri sono stati condotti in tredici Stati membri dell’Ue (Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Romania, Spagna, Svezia e Ungheria). Non basta. L’Osservatorio europeo delle droghe e le tossicodipendenze già nel documento del 28 luglio ha suggerito "la decisione di controllare l’Mdmb-Chmica". Anche perché 13 Stati membri, tra cui l’Italia, hanno ammesso che a livello nazionale la sostanza "non è soggetta a misure di controllo". Da qui l’esigenza di introdurne a livello europeo, così da "ridurre i livelli di disponibilità e quindi di utilizzo". La Commissione ha preso oggi "la decisione", come suggerito, proponendo una modifica al regolamento dell’Emcdda per rafforzare ulteriormente il sistema di allarme e di valutazione del rischio UE precoce sulle nuove sostanze psicoattive, semplificando e velocizzando la raccolta dei dati e le procedure di valutazione. "La nostra proposta per mettere sotto controllo il cosiddetto Black Mamba rientra nei nostri sforzi per rispondere in modo efficace alla minaccia rappresentante dalla nuove sostanze psicoattive", ha detto il commissario europeo per gli Affari interni, Dimitris Avramopoulos, preoccupato per "la continua crescita del numero, dei tipi e della disponibilità di droghe dannose" per la salute dei cittadini. Stati Uniti. Sovraffollamento carceri, Obama commuta 111 sentenze per reati minori di Carolina Garcia interris.it, 1 settembre 2016 Con il nuovo provvedimento salgono a 673 le pene commutate da quando Obama è alla Casa Bianca. Il presidente Barack Obama ha deciso di commutare altre 111 sentenze di condanna per reati minori, portando a 673 il totale delle pene commutate da quando è alla Casa Bianca: una clemenza senza pari tra i suoi predecessori. A renderlo noto con un comunicato è la Casa Bianca, spiegando che alcuni dei detenuti hanno beneficiato di questa azione, perché quando subirono la condanna, le leggi erano molto più severe rispetto a quelle in vigore oggi. Anche lo scorso 3 agosto il presidente Obama aveva deciso di commutare la sentenza di ben 214 detenuti. La sua decisione rientra nel cosiddetto Clemency Project, un’iniziativa mirata a tutti quei detenuti condannati per reati che oggi sono stati depenalizzati. La maggior parte di questi sono legati al possesso o al consumo di sostanze stupefacenti e che il più delle volte riguardano persone giovani delle comunità più disagiate del Paese. Inoltre, agli inizia di agosto, in una nota la Casa Bianca aveva sottolineato che la decisione di Obama, non solo simboleggiava un passo avanti per chi avrebbe beneficiato del provvedimento, ma segnava un punto di svolta anche per tutte quelle che persone che nel futura lavoreranno per porre rimedio alle molte ingiustizie ancora presenti nell’ordinamento statunitense. Alcuni di questi detenuti potranno uscire subito di prigione, mentre altri dovranno restare reclusi ancora per qualche tempo o saranno scarcerati solo se seguiranno dei trattamenti di disintossicazione. Il Clemency Project è inquadrato nel piano di Obama per la riforma del sistema penale, alle prese con un problema di sovraffollamento delle carceri. Repubblica Ceca. I detenuti del carcere di Vinarice lavoreranno in un call center sputniknews.com, 1 settembre 2016 La prigione di Vinarice, città della Boemia centrale, apre un call center, che darà lavoro a decine di detenuti, segnala la radio locale Ceský rozhlas. Al telefono i detenuti potranno offrire beni e servizi, ad esempio dell’operatore telefonico T-Mobile che, insieme con la società A-Giga partecipa al progetto preparato dall’amministrazione della struttura penitenziaria e dal ministero della Giustizia. "Questo lavoro è un’occasione adatta per chi vuole fare qualcosa. Sarò in grado di pagare i miei debiti e non passare seduto il tempo davanti alle telecamere di sorveglianza, sbadigliando dalla noia. In passato per la maggior parte ho fatto lavori fisici in cantiere, ma ora è possibile acquistare una nuova esperienza. Posso fare qualcosa di utile per sè stesso, come per altre persone e le imprese", - ha detto il detenuto Jirí Galos, che deve ancora scontare un anno e mezzo di carcere. In precedenza nella stessa struttura penitenziaria di Vinarice era stato attivo per un breve periodo il call center, tuttavia per paura che durante il lavoro un detenuto potesse venire a conoscenza dei dati personali dei clienti, il progetto è stato bloccato. Dopo l’introduzione di alcune modifiche il programma è stato messo a punto e ancora una volta ha ricevuto "semaforo verde". Sugli schermi dei computer il detenuto ora vede solo il cognome del cliente che si rivolge al call center. il numero di telefono dell’abbonato viene composto automaticamente senza l’intervento dell’operatore detenuto. "Alla fine della conversazione il detenuto avverte il potenziale cliente che per la notifica dei dati personali necessari per la registrazione del contratto l’abbonato verrà contattato da un altro dipendente. Dopo viene condotta la verifica, si controlla se l’accordo con il cliente resta valido e la telefonata viene passata ad un altro dipendente. Tutto ciò che riguarda la preparazione e l’elaborazione dei dati personali viene effettuato ovviamente al di fuori del carcere", - ha assicurato Vera Babišová, rappresentante della società di telecomunicazione partner del progetto. La direzione del carcere ritiene che il lavoro aiuterà a mantenere economicamente i detenuti durante la loro condanna. Attualmente un detenuto costa ai contribuenti della Repubblica Ceca 40mila corone al mese (1.480 euro). Egitto. Desaparecido e torturato per 122 giorni, ma l’incubo non è ancora finito di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 settembre 2016 Questa notte l’incubo è finito. Doveva essere già il 24 agosto il giorno buono per Islam Khalil, il 27enne egiziano desaparecido per 122 giorni e sottoposto a brutali torture. Tre giorni prima, la procura di Alessandria Est aveva fatto decadere la maggior parte delle accuse nei suoi confronti e ne aveva disposto il rilascio su cauzione, in attesa del processo per l’unica rimasta in piedi: appartenenza a organizzazione illegale, un "reato" confessato sotto tortura per il quale rischia tuttora fino a cinque anni di carcere. Il 23 agosto, secondo quanto disposto dalla procura alessandrina, la famiglia di Islam Khalil aveva pagato la cauzione di 50.000 sterline egiziane (circa 5030 euro). Il giorno dopo, Islam è stato trasferito dalla prigione Borg al-Arab agli uffici dell’Agenzia per la sicurezza nazionale di Alessandria e da qui alla seconda stazione di polizia di al-Raml, per completare le procedure per il rilascio. Qui le cose sono andate all’opposto di come si sperava. Secondo quanto ha raccontato il fratello, gli agenti hanno iniziato a picchiare Islam Khalil con dei tubi di gomma per innaffiare (un medico ha confermato le ferite conseguenti al pestaggio). Uno di loro ha urlato "Che è tutto questo casino per la tua scarcerazione? Non uscirai se non quando sarai morto!". Infatti, invece di essere scarcerato, Islam Khalil è stato raggiunto da una nuova accusa: aggressione a pubblico ufficiale. La procura di Alessandria Est ha disposto nuovamente la scarcerazione in attesa dell’esito delle indagini su questo sviluppo. A quel punto, un pezzo dello stato egiziano è entrato in conflitto con un altro: disobbedendo alla decisione della procura, l’Agenzia per la sicurezza nazionale ha praticamente sequestrato Islam Khalil. Così, il 29 agosto Islam Khalil è stato trasferito in una struttura del ministero dell’Interno a Sibirbay, nella provincia di Gharbeya, a nord-ovest del Cairo. Da qui, il giorno dopo, è stato nuovamente spostato alla stazione di polizia di al-Santa, la sua città natale. Come raccontato in un rapporto sulle sparizioni forzate in Egitto, pubblicato da Amnesty International a luglio, Islam Khalil è stato arrestato ad al-Santa da uomini dell’Agenzia per la sicurezza nazionale il 24 maggio 2015. Per 122 giorni, le autorità hanno negato la sua detenzione. Nei documenti ufficiali, la data d’arresto risulta essere il 20 settembre. Durante quei quattro mesi da desaparecido, Islam Khalil è stato tenuto sempre bendato e ammanettato e trasferito da un centro di detenzione a un altro, compresa la sede dell’Agenzia per la sicurezza nazionale del quartiere cairota di Lazoughly, a due passi da piazza Tahrir. Lo hanno sottoposto a ogni forma di tortura, dalle sospensioni per i polsi o le caviglie fino alle scariche elettriche sui genitali. Il 21 settembre, Islam Khalil è reaparecido (come abbiamo visto, ufficialmente arrestato 24 ore prima) negli uffici della procura di Alessandria Est. Da qui è stato portato alla prigione di Borg al-Arab e posto in una cella di sei metri per quattro dove già si trovavano 25 detenuti. Ha protestato e per punizione è stato picchiato per mezzora e posto in isolamento per otto giorni. Sulle torture che ha denunciato di aver subito, non è mai stata aperta alcuna indagine. Iran. Arriva la grazia per lo scienziato che rifiutò di collaborare al nucleare Il Dubbio, 1 settembre 2016 Il 34enne Omid Kokabee è in carcere dal 2011. Ha subito un’operazione per l’asportazione di un rene a causa di un tumore. Ha ottenuto svariati premi internazionali. Il ministero iraniano della Giustizia ha concesso la grazia al giovane scienziato iraniano Omid Kokabee, detenuto nelle carceri iraniane dal 2011. Lo riferisce l’agenzia di stampa Dpa. Lo scienziato, 34 anni, non dovrà tornare nella prigione di Evin a Teheran, ha affermato il legale Saeid Khalili. Kokabee è in ospedale dallo scorso aprile dopo aver subito un’operazione per l’asportazione di un rene a causa di un tumore. Il giovane dottorando alla University of Texas di Austin era rientrato in Iran nel gennaio del 2011 per una visita alla sua famiglia ed era stato arrestato all’aeroporto di Teheran il mese successivo mentre cercava di lasciare il Paese. Secondo l’avvocato, Kokabee si rifiutò di collaborare al programma nucleare iraniano come richiesto dal governo dell’epoca, venne arrestato, accusato di contatti "con governo ostile" e condannato a 10 anni di carcere. Kokabee è stato insignito di importanti premi internazionali, il Premio Andrei Sakharov nel 2013 e il Premio dell’American Association for Advancament of Science conferito nel 2014 per "l’esemplare libertà scientifica e responsabilità" dimostrata. Cina. Processi lampo, condanne esemplari, repressione per gli avvocati di Nello Del Gatto Il Dubbio, 1 settembre 2016 Nel paese del dragone sono all’ordine del giorno gli arresti dei difensori dei diritti civili. In un paese dove il concetto di democrazia è abbastanza aleatorio, dove i tribunali completano l’iter giudiziario a tempi record (poche ore di processo con confessioni degli imputati e annunci di non ricorrere in appello), dove i sistemi giuridico e giudiziario sono totalmente sotto il controllo di quello politico, il ruolo degli avvocati assume connotati diversi dal normale. Non a caso, lo stesso governo cinese più volte ha detto che sostiene l’avvocatura come professione, ma che non può tollerare chi usa la legge per minare il sistema giuridico e politico del paese. Molti avvocati per i diritti umani in Cina, per questo ricevono finanziamenti e formazione da parte dei governi stranieri e organizzazioni no profit: per riuscire a fornire una parvenza di giusto processo ai molti oppositori considerati dissidenti e minacce alla stabilità dello Stato. Su questo solco, dopo ondate di repressione contro ogni tipo di dissidenza, da qualche tempo il governo cinese ha scagliato la sua furia contro la schiera degli avvocati difensori dei diritti civili, nel segno dell’intransigenza e della repressione senza alcuna tolleranza della linea politica del governo del presidente e segretario del partito Xi Jinping. È ormai infatti da oltre un anno, dal 9 luglio del 2015, che nel paese del dragone sono all’ordine del giorno gli arresti che riguardano per lo più avvocati. Arresti che poi vengono seguiti da processi lampo e da condanne esemplari. Nei giorni scorsi un tribunale della città di Tianjin, nel nord est della Cina, ha condannato per sovversione a tre anni di carcere l’avvocato Gou Hongguo. Nella stessa settimana era finito in carcere, nella stessa città, con una condanna a sette anni anche Zhou Shifeng, direttore di uno studio legale (difensore tra gli altri dei fedeli del Falung Gong, dell’architetto attivista Ai Weiwei e dell’intellettuale uighuro Ilham Tohti condannato nel 2014 a morte per separatismo), accusato di diffondere notizie in modo sensazionalistico allo scopo di rovesciare il partito comunista. Oltre ai legali, nei giorni scorsi condannati anche due attivisti, Hu Shingen (condannato a 7 anni e mezzo dopo una precedente condanna a 16 anni per la commemorazione della strage di Tiananmen del 1989) e Zhai Yanmin (3 anni), accusati di aver organizzato e partecipato a manifestazioni considerati sovversive. "Il loro destino ? ha dichiarato Roseann Rife, direttore per l’Asia dell’est di Amnesty International ? era segnato e deciso ancora prima che entrassero nell’aula del tribunale, non c’era alcuna possibilità che ricevessero un processo equo" Secondo gruppi che si battono per i diritti in Cina, in particolare il China Human Rights Lawyers Concern Group (Chrlcg) a seguito del "709 crackdown", l’ondata di arresti contro avvocati cominciata appunto il 7 luglio dell’anno scorso, 319 tra avvocati, dipendenti di studi legali, attivisti e familiari di tutti questi sono stati interessati dalla retata anti opposizione del presidente Xi Jinping. In particolare, 24 sono stati arrestati e lo sono ancora, a 39 è stato impedito di lasciare il paese, uno è posto agli arresti domiciliari, 264 sono stati detenuti in maniera temporanea o scomparsi o interrogati o convocati dalla polizia per accertamenti, 16 invece i rilasciati su cauzione. In molti casi, inoltre, le famiglie degli arrestati lamentano di non riuscire nemmeno ad avere notizie dei loro cari, di non sapere esattamente dove si trovano, in che condizioni di salute sono e di non avere il permesso di visitarli in carcere. Coloro che riescono ad essere rilasciati negoziano la libertà con confessioni forzate, imposte con violenze e torture dalla polizia cinese. È questa la nuova frontiera mediatica del governo cinese, usata anche pochi giorni fa. Wang Yu, avvocato legata anche allo studio di Zhou Shifeng, era stata arrestata anch’essa il 9 luglio dell’anno scorso con la solita accusa di "sovversione dei poteri dello stato", che in politichese e giudiziario cinese significa essere bollato come un dissidente (è la formula normalmente usata dalla "giustizia" inquirente e giudicante del paese del dragone). Dopo un anno, il primo agosto scorso è stata ufficialmente rilasciata su cauzione (anche se è ancora di fatto sotto controllo delle forse dell’ordine cinese) dopo aver pubblicamente fatto ammenda in una intervista televisiva, accusando i suoi colleghi e forze politiche straniere. Quella della reprimenda pubblica, delle scuse televisive, della dichiarazione di sostegno ali vertici di Pechino, è lo strumento più utilizzato ultimamente dal governo cinese che ha capito l’importanza del messaggio mediatico e del suo impatto nella popolazione, dimostrando la bontà della giustizia e della polizia di quel paese. Uno strumento che, in una cornice diversa, ha usato anche il vescovo di Shanghai Taddheus Ma Daquin: consacrato vescovo ausiliario di Shanghai nel luglio 2012, durante l’omelia della stessa messa dichiarò la sua vicinanza al Vaticano e da allora è agli "esercizi spirituali", di fatto arresti domiciliari, nel seminario di Shanghai. Ma il mese scorso ha rilasciato una intervista su internet nella quale chiede scusa per il suo gesto e si dichiara nel solco della chiesa patriottica cinese contraria alla chiesa di Roma. Sicuramente, come denunciano le organizzazioni umanitarie, sono confessioni forzate, ottenute dietro minacce di repressioni e ritorsioni personali e nei confronti dei familiari, così come sono forzate anche le confessioni durante i processi o gli annunci di non ricorrere in appello. Nonostante questi gesti di buona volontà, anche una volta fuori sono guardati a vista, messi in una sorta di arresti domiciliari, viene loro impedito di comunicare liberamente, vengono controllati i loro spostamenti e registrate le loro conversazioni telefoniche o i loro movimenti via internet. Una situazione che non accenna a migliorare e che anzi negli ultimi tempi sta registrando una nuova recrudescenza. Tutta la comunità internazionale intanto sta condannando la posizione del gigante asiatico. Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Elizabeth Trudeau, ha dichiarato che "gli Stati Uniti chiedono alle autorità cinesi di rilasciare immediatamente gli avvocati e gli attivisti in carcere, inclusi quelli già condannati. Auspichiamo che abbiano finalmente fine le restrizioni della loro libertà di movimento e quelle relative allo svolgimento delle loro attività professionali" Dura la condanna anche dell’Unione Europea, per la quale la Cina deve rispettare la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Secondo le autorità di Bruxelles il modo di condurre questi arresti e questi processi da parte della Cina è contrario sia allo stesso codice penale cinese che alle leggi internazionali. Spesso agli imputati infatti non è nemmeno consentito di scegliere un avvocato di loro fiducia e alle loro famiglie non è consentito di assistere al processo. Brasile. Dilma ha perso: destituita. Il Senato approva l’impeachment della presidente di Geraldina Colotti Il Manifesto, 1 settembre 2016 Il senato brasiliano ha destituito la presidente Dilma Rousseff per 61 voti a 20. A governare fino al 2018 sarà ora il suo vice, Michel Temer: un golpista, per le sinistre mobilitate dal 12 maggio, quando Dilma è stata sospesa dall’incarico. Un corrotto manovrato dai grandi poteri internazionali, decisi a riappropriarsi delle risorse del paese. È andata in scena una replica in più grande stile del "golpe istituzionale" messo in atto in Paraguay contro Fernando Lugo, nel 2012. Anche allora, a capo di una variegata e traballante maggioranza, Lugo venne disarcionato dal suo vice, Federico Franco. Lì, il pretesto fu un’occupazione di terre repressa violentemente e strumentalizzata a fini politici (il massacro di Curuguaty). In Brasile, si è utilizzato la "pedalata fiscale". Viene definita così una pratica in uso a tutti i livelli di governo, da quello federale al municipale, che consiste nel farsi anticipare i soldi dalle banche per coprire la spesa sociale e farvi fronte in un secondo tempo. Una modalità che, per quanto incongrua, non giustifica la destituzione di un presidente. Per ben altri interessi privati in atti pubblici è stato aperto un impeachment contro il presidente Fernando Collor de Mello, il primo nella storia del Brasile e dell’America latina. Lo scandalo scoppiò nel 1992 a seguito delle dichiarazioni del fratello di Collor che svelò uno schema di riciclaggio di denaro e tangenti diretto dal tesoriere della campagna elettorale del presidente. Collor fu obbligato a dimettersi da una folle inferocita e vestita di nero: 750.000 persone che sfilarono al grido di "Impeachment subito". Dopo la destituzione, Collor se ne andò a Miami, ma dal 1994 iniziò la sua riabilitazione giudiziaria, fino alla ripresa totale degli incarichi pubblici. Il suo nome compare nuovamente nella mega-inchiesta Lava Jato, che indaga sull’intreccio tra affari e politica dell’impresa petrolifera di Stato, Petrobras. Un’indagine dal taglio politico che ha messo soprattutto alla berlina il governativo Partito dei lavoratori (Pt), lasciando in ombra il grosso della corruzione, che coinvolge un altissimo numero di parlamentari e senatori, pronti a giudicare Rousseff. La presidente non è mai stata coinvolta in alcuna inchiesta e ha professato la sua innocenza anche dalle accuse di aver truccato il bilancio. La sua appassionata autodifesa in Senato ha suscitato applausi e commozione, ma non ha scalfito la decisione dei senatori, né potuto cambiare un copione già scritto. "È un golpe parlamentare che rientra nella strategia del governo degli Stati uniti di destabilizzare le democrazie popolari dell’America Latina", ha dettoFrei Betto, uno dei principali esponenti della Teologia della liberazione brasiliana. Betto, amico di lunga data di papa Bergoglio, ha trasmesso a Dilma un messaggio di sostegno del papa, evidentemente caduto nel vuoto. "Prima - ha ricordato il teologo - hanno deposto Zelaya in Honduras, poi Lugo in Paraguay. E adesso Dilma in Brasile, dopo aver fatto eleggere Macri in Argentina e fatto pressioni contro Maduro in Venezuela. Il processo golpista mira a disarticolare il Mercosur, l’Alleanza bolivariana, la Celac e l’Unasur". La prima donna presidente del Brasile, non sarà però inabilitata dagli incarichi pubblici per 8 anni come prevede la Costituzione in caso d’impeachment: la votazione, stralciata dall’altra, le è stata sfavorevole, ma non con i 2/3 richiesti. Per i legali di Dilma, che ora ricorrerà alla Corte suprema, si è trattato di una "condanna a morte politica". La stessa che si vorrebbe comminare, per via giuridica, al suo predecessore Lula da Silva, inseguito dai giudici di Lava Jato. Lula, che si è candidato alle prossime presidenziali, risulta ancora favorito nei sondaggi. Recentemente ha denunciato all’Onu di essere vittima "di una persecuzione giudiziaria" a fini politici. Alla vigilia del voto finale, Lula ha scritto una lettera dai toni analoghi a quelli di Frei Betto, indirizzata all’ex presidente argentina, Cristina Kirchner e al presidente venezuelano Nicolas Maduro, che le destre vorrebbero revocare. Ieri, Maduro ha annunciato la rottura delle relazioni con il Brasile e così ha intenzione di fare anche il suo omologo boliviano Evo Morales. Anche ieri vi sono stati scontri e cariche della polizia e diversi arresti. I movimenti popolari continuano a manifestare in diverse città del paese al grido di "Fora Temer". Quello che si avvia ad essere il 37° presidente della repubblica e che dopo l’incarico si recherà al G7 in Cina, ieri si è fatto sentire con un breve messaggio alla nazione in cui promette che il suo "sarà un governo di pacificazione nazionale". Un governo di tutti uomini, bianchi, ricchi e corrotti, in un paese composto in maggioranza da donne, da neri, indigeni e da afrodiscendenti. E da poveri. A loro, Rousseff e prima Lula avevano rivolto buona parte delle politiche pubbliche, a partire dal programma Bolsa Familla che ha tolto dalla povertà 47 milioni di persone. Priorità cancellate dal gabinetto Temer, che ora chiuderà le porte ai Brics, alla cooperazione e all’integrazione con l’America latina.