La condanna del carcere: 7 su 10 ritornano dentro di Andrea Malaguti La Stampa, 19 settembre 2016 Il grande fallimento delle prigioni: nonostante gli obblighi di legge, il 70% dei detenuti?non lavora e solo il 5% ha un impiego qualificato. L’esperienza della cooperativa Giotto a Padova, che grazie all’occupazione riduce la recidiva al 3%. I carcerati: "L’impegno ci cambia la testa". Carcere Due Palazzi di Padova. Sulla parete bianca del piccolo spazio dove un gruppo di detenuti prende aria durante una pausa lavoro, una scritta in portoghese dice: "Dall’amore non si fugge". Forse è vero. E dal crimine, invece? Quasi mai segnalano le incomplete statistiche del ministero della Giustizia e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dalle quali si deduce che sette persone su dieci rilasciate dalla prigione prima o dopo ci rientrano. Scontano le pena, delinquono e vengono arrestate di nuovo, in una giostra senza fine che riguarda a rotazione circa duecentomila uomini e donne in Italia, 54mila dei quali sono oggi dietro le sbarre. "La situazione è disastrosa. E fa impressione vedere che non esistono numeri ufficiali sulla recidiva. Significa che il Sistema ignora uno dei dati fondamentali legati alla funzione della pena", dice Alessandro Scandurra dell’Associazione Antigone, scattando la fotografia di un ennesimo fallimento italiano. Un fallimento che costa alla collettività tra i tre e i quattro miliardi l’anno. Il lavoro negato - Eppure l’articolo 27 della Costituzione recita: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". E l’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario ribadisce il concetto: "nei confronti dei condannati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda (...) al reinserimento sociale degli stessi". L’articolo 13, va persino oltre, tentando il triplo carpiato rovesciato della civiltà giuridica: "nei confronti dei condannati deve essere predisposta l’osservazione scientifica della personalità (...) su cui intervenire con un programma individualizzato di trattamento rieducativo". L’idea di fondo è che se il recupero e il reinserimento falliscono il danno per la collettività è enorme in termine di costi e di sicurezza. Bene. Favoloso. Uno schema studiato in ogni angolo del pianeta e totalmente disatteso da noi. La legge c’è, ma se non ci fosse sarebbe uguale. È un problema irrisolvibile o a un problema che non si vuole risolvere? L’esperienza dice che il rimedio alla recidiva esiste. E quel rimedio si chiama lavoro, attività dalla quale - anche qui in totale inadempienza legislativa - il 70% della popolazione carceraria resta esclusa. Curiosamente la stessa cifra della recidiva. Per altro servirebbe non un lavoro qualunque, ripetitivo e saltuario come quello che riguarda poco meno del 29% dei detenuti - scopini, cucinieri o lavandai, retribuiti con quello che loro stessi hanno ribattezzato "sussidio diseducativo" - ma un lavoro che prepara al ritorno all vita esterna come quello che viene appaltato a un ristretto gruppo di aziende in giro per l’Italia, a cominciare dalla cooperativa "Giotto" di Padova, che nei suoi 26 anni di attività all’interno del Due Palazzi ha formato e reinserito centinaia di carcerati. "Il tasso di recidiva di chi lavora con noi? È compreso tra il 2 e il 3%", dice Nicola Boscoletto, presidente della coop veneta. Il 2-3 contro il 70. "E i nostri calcoli dicono che ogni punto di recidiva abbattuto farebbe risparmiare allo Stato 40 milioni l’anno". Dall’omicidio alla vita - Il Due Palazzi è una casa di reclusione, vale a dire che i suoi 604 ospiti hanno tutti subìto una condanna definitiva. Ci sono detenuti comuni, detenuti ad alta sicurezza e detenuti protetti, cioè gli uomini apparentemente più pericolosi di questo Paese e nella fiera campionaria della criminalità non manca nulla: assassini, rapinatori, pedofili, mafiosi. La Giotto dà lavoro a circa 140 di loro, in un ampio spazio al piano terra dove ci sono un laboratorio per assemblare le valigie, una pasticceria che rifornisce duecento esercizi commerciali in tutta Italia e un call center che impiega cento persone occupandosi anche di gestione di procedimenti amministrativi, di prenotazioni per gli ospedali, di digitalizzazione di documenti o di pen drive per la firma digitale. Roba piuttosto complessa. La sala del call center è rettangolare, lunga, pulita, piena di computer e su una parete c’è la riproduzione dei dipinti di Giotto alla Cappella degli Scrovegni. Il bene e il male che corrono in direzione opposta uno accanto all’altro. Quando Jacopo, che oggi ha 27 anni, è arrivato al Due Palazzi, era già stato nei penitenziari psichiatrici di Castiglione delle Stiviere, Aversa e Reggio Emilia. Rinchiuso nel 2009 dopo avere ammazzato un amico con crudeltà e per futili motivi. "Non mi ricordo neppure più quali fossero", dice ora con uno sguardo chiaro, apparentemente pacificato. La sua vita era piena di smorfie fasulle e di sorrisi cattivi. Nei giorni del processo la diagnosi per lui, aggressivo fin da bambino e incapace di stare con gli altri, fu: schizofrenia paranoide. Oggi per i medici non è più pericoloso. "Ma negli ospedali psichiatrici l’unico trattamento che c’era per me era farmacologico. Io chiedevo di lavorare, magari in biblioteca, e la risposta era sempre: no, fai paura. Morale: cercavo di scappare". A Padova gli è successo il contrario. La psicologa della Giotto lo è andato a cercare. Vuoi lavorare per noi? Jacopo l’ha guardata strano. "Lo sai chi sono? Mi sono chiesto se il matto fosse lei". Non era matta. Gli ha aperto le porte del call center. "Stavo seduto un’ora e mi scoppiava la testa. Adesso è la mia vita. Quando mia mamma ha saputo del lavoro non è riuscita a trattenere le lacrime dalla felicità". Il lavoro per la Giotto cambia quello che ha fatto? No. Ma ha cambiato lui. "Un tempo ero convinto che tutto il mondo ce l’avesse con me. Che il problema ce l’avessero gli altri, non io. Oggi penso positivo, è la prima volta in vita mia. E quando mi siedo al computer non mi scoppia più la testa". La sua pena finirà nel 2030. E quando uscirà saprà cosa fare. "Al call center mi chiedono consigli anche uomini della Polizia, è bello". Apre la porta a vetri della saletta di fronte alla sua postazione e si siede a un tavolo rettangolare. Di fianco a lui ci sono Roberto, tre omicidi, fine pena 2033 (è entrato nel 2003), Mustafa, 31 anni, che in carcere è già tornato quattro volte per rapina aggravata e reati di droga e uscirà nel 2021, e tre ergastolani. Giovanni, albanese, condannato per omicidio, Guglielmo e Angelo, condannati a loro volta per omicidi commessi per conto delle cosche mafiose alle quali erano affiliati. Sono uomini magnetici e tormentati, non privi di segreti, ma con una convinzione comune. "Il lavoro ti cambia la vita". Guglielmo, fine pena mai, viene da Gela e di galere ne ha girate parecchie. Ha 44 anni. È dentro da 22. "Negli altri penitenziari la mia vita era solo aria e cella, cella e aria. Sono un detenuto As (alta sicurezza) e con i miei compagni di braccio parlavo solo di reati". Esattamente come gli capitava in Sicilia da bambino. Quartiere piccolo. Pistole. Grandi boss da imitare. Un percorso obbligato. "Ho cominciato ad aprire un po’ gli occhi quando dietro le sbarre ho incontrato due ex terroristi. Uno dei Nar e uno delle Br. Mi hanno spinto a leggere. Balzac. Arrivato a Padova mi sono iscritto a ragioneria. Mi sono diplomato. Poi ho incontrato la Giotto. E il lavoro ha cambiato la mia mentalità. Ho scoperto che sono in grado di fare cose difficili. Ne vado fiero. E adesso in cella parlo di come affrontare il lavoro". Del passato vorrebbe cancellare tutto, come se potesse guardare le rovine di quella Torre di Babele siciliana. "Il lavoro ti cambia". Lo dice lui, lo dice Roberto ("il lavoro ti fa sentire accettato come persona"), lo dice Mustafa ("Non credevo che in carcere esistesse una realtà così"), lo dice Giovanni ("sono entrato in relazione con gli altri"), lo dice Angelo, che in galera è arrivato nel ‘91 e non è più uscito neppure un giorno. "Il lavoro mi ha rimesso in gioco. Mi ha preso dentro. Mi fa finalmente entrare anche nella testa degli altri". Sul tavolo pizzette e cioccolatini. Li hanno fatti colleghi pasticcieri. Boscoletto dice: "Non serve la rivoluzione, in carcere. Basta applicare le leggi che ci sono già". Semplice. Ma su duecento carceri si contano sulle dita di due mani quelle che possono vantare esperienze simili. I detenuti che svolgono attività qualificanti sono meno del 5% del totale. Per gli altri bisogna fare affidamento ancora una volta a una frase scritta su uno dei muri bianchi del Due Palazzi. Una citazione rubata a un Peppone e Don Camillo di Guareschi, una speranza che è un meraviglioso nonsenso: "Non muoio neanche se mi ammazzano". Rebibbia e castigo - Se il Due Palazzi di Padova è l’eccezione, il carcere romano di Rebibbia, monumento alla complessità, è la regola. Trecento detenuti al lavoro, mille e cento scaricati nell’assurdo limbo dell’ozio, ventidue ore in cella a guardare la tv, a stordirsi in un calderone di pensieri rancidi e a farsi indottrinare dai boss della criminalità organizzata. Qualcuno li spinge a lavorare? Nessuno. "Il carcere così com’è è più dannoso che utile. La legge parla di risocializzazione, ma qui io vedo solo reclusione. Rebibbia è un asilo infantile, un ospedale, una clinica per malati di mente e un concentrato di tossicodipendenti. E allora mi chiedo a che cosa serva spendere tutti questi soldi", dice don Pier Sandro Spriano, cappellano dell’istituto penitenziario dal 1989. L’amministrazione carceraria (55mila dipendenti, 38 mila guardie, 200 istituti di pena) parla di una spesa di tre miliardi l’anno, con un costo per detenuto di 125 euro al giorno, ma nei conti non considera le spese per l’edilizia, quelle per l’istruzione e i corsi di alfabetizzazione (i soli detenuto stranieri sono oltre 18 mila, come si entra in relazione con loro?), per le strutture informatiche o per i braccialetti elettronici. Numeri che sfuggono a qualunque radar, al pari delle statistiche sulla recidiva e sulla qualità dei rari percorsi riabilitativi. "Le leggi sono lì. E non sono neanche troppo male. Ma la verità è che il recupero viene fatto dal volontariato esterno, non esiste un sistema paese che se ne occupi", aggiunge don Spriano. Paradossalmente la politica parla con insistenza di ponti tra il dentro e il fuori, evitando però di occuparsi in maniera strutturale e non emergenziale del problema. "Questo governo ha creato un nuovo modello di pena, puntando su un cambio culturale che spinga verso una pena certa, umana e diretta a riabilitare i detenuti. Dunque anche a ridurre la recidiva", dice il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. In galera però non si nota. "Dentro il carcere il percorso è più complicato, ma io mi impegno a raccogliere in maniera sistematica i dati sulla recidiva d’ora in avanti". Un’altra piccola promessa tardiva. E allora bisogna rifugiarsi nella speranza contenuta nella frase del carcere di Padova, quella scritta in portoghese. La pronunciò un galeotto brasiliano che dopo essere fuggito dodici volte da dodici prigioni diverse, fu mandato in una struttura gestita anche da civili. E da lì non se ne andò più. Quando il magistrato gli chiese: "perché da qui non evadi?", lui rispose con cinque parole: "Dall’amore non si fugge". La grande impunità italiana. In cella solo cittadini poveri di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 19 settembre 2016 Novantanove volte su cento, infatti, con il tempo, con gli appelli, i contrappelli e la Cassazione, anche le condanne iniziali vengono poi cancellate. Sicché alla fine solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere. Nei Paesi che ci piacerebbe emulare non è così. In Germania, non molto tempo fa, il ricco e potente presidente del Bayern Monaco, condannato per evasione fiscale a due anni e poco più di prigione, ne varcò i cancelli nel giro di un paio di giorni. Un altro esempio: negli Usa i responsabili dei fallimenti bancari e assicurativi del 2008 sono da tempo dietro le sbarre con condanne pesantissime che, c’è da giurarci, sconteranno in grandissima parte. Il famoso finanziere Madoff, colpevole di aver ingannato e spogliato centinaia di ricchi e avidi gonzi che gli avevano affidato i loro capitali, si è beccato una condanna all’ergastolo. Tutte cose in Italia impensabili: anche se nessuno sembra farci caso, nessuno solleva il problema. Meno che meno l’ineffabile Consiglio superiore della magistratura, pur così instancabilmente sollecito delle sorti della giustizia. E dire che proprio i magistrati, invece, sarebbero i più titolati a spiegarci il perché della vasta impunità italiana. A spiegarci, ad esempio, perché in mano ad avvocati abili, che però solo le persone agiate possono permettersi, le procedure assurde e i codici malfatti che ci governano consentono, attraverso tutto un sistema di rinvii, di prescrizioni e ricorsi, di vanificare indagini e sentenze. Chi lo sa meglio di loro? A quel che ricordo, invece, solo il presidente dell’Anm, Pier Camillo Davigo, vi ha in varie circostanze dedicato qualche attenzione. Eppure - c’è bisogno di dirlo? - questo doppio standard nell’amministrazione della giustizia ha conseguenze vaste e gravissime. La prima conseguenza è la vanificazione di fatto, prima che del senso della legalità nei cittadini, della legalità effettiva in quanto tale. Una legge che non valga per tutti, infatti, non è più una legge: è un provvedimento arbitrario. Rispetto poi a chi dovrebbe obbedire, ai cittadini, è difficile immaginare che una qualunque legge sia davvero rispettata se sulla base dell’esperienza si diffonde la convinzione che a qualcuno è consentito non rispettarla senza essere sanzionato. Da ciò la seconda conseguenza: il discredito dell’intera sfera pubblica, a cominciare dalla magistratura per finire con la politica e con il governo: le loro leggi non valgono nulla dal momento che chi sa e soprattutto chi può le viola senz’alcun danno, e dunque anche quei poteri che le emanano e le amministrano non valgono nulla, non meritano alcun rispetto. Anche perché, siano essi di destra o di sinistra, pur sapendo bene come stanno le cose non muovono un dito per cambiarle. Il modo d’essere della giustizia è così divenuto la manifestazione forse più importante della placida doppiezza morale che domina la società italiana. La quale quando parla (specie se parla in pubblico) s’inebria dei nobili concetti di solidarietà e di progresso, mostra regolarmente d’ispirarsi ai più alti principi dell’equità e della benevolenza sociale, ma quando invece si muove nella realtà d’ogni giorno, allora si scopre ferocemente classista, assuefatta ai privilegi come poche, spudorata cultrice di una vasta impunità. "Togliere ai camorristi la patria potestà? Non è così semplice" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 19 settembre 2016 Una "immane questione sociale", così ieri sul Mattino Isaia Sales ha definito la realtà criminale di Napoli città. Uno scenario che, oltre i dati e le statistiche, si presta a radiografie, interpretazioni, analisi sociologiche, storiche, giudiziarie. Nel vuoto di quella che Sales chiama "ideologia del crimine", diffusa tra le giovani leve che scimmiottano i camorristi di una volta, è un rincorrersi della cronaca tra episodi di violenza per la violenza con l’obiettivo di racimolare denaro, conquistare potere nel microcosmo di strade di quartiere, dimostrarsi più forti. Giovanni Colangelo, procuratore capo di Napoli da quattro anni e mezzo, ha maturato salde convinzioni dal suo osservatorio privilegiato. Un osservatorio giudiziario, da repressione postuma con arresti e ipotesi di accuse. Come quasi sempre nei fine settimana, Colangelo è nella sua casa in Puglia. Ma, con garbo, si presta ugualmente a fare qualche ulteriore riflessione, sulle analisi che si rincorrono in una realtà dove "stese" e "paranze di bimbi" sono diventati neologismi d’uso comune. Anche perché, sempre più spesso. La riflessione sociologica si affianca alle motivazioni giuridiche dei provvedimenti contro i giovani criminali presi e condannati. Come è accaduto nella recente sentenza del giudice Nicola Quatrano. Procuratore Colangelo, con le giovani leve criminali il suo ufficio fa di continuo i conti, attraverso arresti e indagini fruttuose. Cosa si può dire ancora sullo scenario delinquenziale napoletano? "Dice bene, cosa si può aggiungere ancora che non è stato già detto. Ho esaminato questa realtà, su cui il mio ufficio lavora con impegno, in tutte le sedi negli ultimi mesi. Posso ripetere che noi stiamo cercando di fare fino in fondo il nostro lavoro. E rimarcare la mia convinzione, condivisa da molti". Quale? "Siamo di fronte ad una tale questione sociale, come dice Sales, che non possiamo pensare di risolverla e affrontarla soltanto ricorrendo alla repressione giudiziaria e al contrasto di polizia. Anche perché noi siamo un po’ come i medici chiamati a intervenire quando ormai la malattia è esplosa". Un intervento sui sintomi, quando ormai hanno già fatto il loro corso? "Proprio così, un intervento sintomatico e non certo di prevenzione. Il problema è di tale portata che occorrerebbe invece attuare un intervento sulle cause. E, sulle cause, certamente non sta a me intervenire, ma ad altre istituzioni. Riflettendo ad alta voce, potrei ripetere cose banali, anche se vere". A cosa si riferisce? "Beh, quando si parla di cause, ci si riferisce a cose che sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di cause sociali, legate al mondo del lavoro, all’influenza familiare, anche alla situazione urbanistica della città di Napoli". Non esiste, allora, una ricetta che possa regalare ottimismo e speranza? "Sono sempre più convinto, dalla mia esperienza, che sia necessaria una vera sinergia di obiettivi e intenti tra istituzioni pubbliche. Il mio ufficio in collaborazione e sintonia con tanti altri uffici che si occupano di interventi non giudiziari. Ognuno rispettando i propri limiti e le proprie prerogative, ma tutti insieme". C’è, come sostiene Sales, una ideologia del crimine? "Mi sembra un po’ eccessivo. C’è invece sicuramente una situazione criminologica o criminale, molto diversa da quelle esistente, ad esempio, ai tempi in cui imperava l’organizzazione camorristica di Raffaele Cutolo". Tutto cambiato, tutto diverso in questi ultimi 30 anni? "Sicuramente. Oggi la società si muove con velocità spaventosa. Così, cambiano con rapidità l’approccio al crimine e le cause mutate con i tempi". Può servire l’abbassamento dell’età imputabile? "Un ragazzo di 17anni oggi è sicuramente altra cosa rispetto ad un diciassettenne di 20 anni fa. È una generazione più sveglia, più avanti rispetto a quella di allora. D’altro canto, negli ultimi 40 anni abbiamo avuto un mutamento amministrativo della maggiore età passata dai 21 ai 18 anni". Quindi, un intervento sul codice dei minori è rimedio che considera auspicabile? "Non è così semplice. Il problema presenta diverse sfaccettature tecnico-giuridiche. E non solo. La questione è complessa, perché investe aspetti sociali. Per questo, non è possibile avere solo un approccio processuale, ma bisogna ragionare, anche in questo caso, in maniera interdisciplinare". Togliere la patria potestà ai genitori dei giovani criminali potrebbe essere un’altra soluzione? "Anche a Napoli c’è stato di recente un provvedimento del giudice tutelare, così come avvenuto in Calabria, sulla patria potestà. L’intervento non può essere automatico, ma stabilito caso per caso e noi lavoriamo in coordinamento costante con l’ufficio giudiziario per i minori. Esiste uno steccato, fissato dalle leggi e dalla Costituzione, che è l’interesse del minore considerato prevalente su ogni altro". A febbraio andrà in pensione: che bilancio può fare dei suoi quattro anni e mezzo al vertice della Procura di Napoli? "Proprio la complessità della realtà affrontata mi impone ponderatezza ed equilibrio. Farò certamente dei bilanci, ma con la profondità che occorre. Ora non mi sento ancora di fare valutazioni di questo tipo sugli anni di lavoro a Napoli, sui problemi affrontati, sui risultati ottenuti, sulle difficoltà incontrate. Ci siamo occupati di così tante cose, indagato su così tante realtà che occorre poter fare bilanci con un minimo di calma". E sull’attentato che un clan camorristico napoletano avrebbe chiesto di organizzare a gruppi criminali pugliesi contro di lei? "Ci sono ancora indagini in corso e non mi sembra il caso di parlare di una vicenda che mi riguarda personalmente". Sospensione con messa alla prova: la rassegna sulla determinazione del limite edittale Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2016 Reato - Cause di estinzione - Sospensione del procedimento con messa alla prova - Accesso al beneficio - Pena edittale massima - Circostanze aggravanti - Rilevanza - Esclusione. In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova e di individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la relativa disciplina, il riferimento alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, contenuto nel primo comma dell’articolo 168 bis cod. pen., deve intendersi riferito alla pena massima prevista per il reato base, dovendosi invece ritenere irrilevanti le eventuali circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisca una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. • Corte cassazione, sezioni unite, sentenza 1° settembre 2016 n. 36272. Reato - Cause di estinzione - Reati attratti dalla disciplina della probation processuale - Presupposto per l’ammissione - Limite di pena - Presenza di circostanze aggravanti - Irrilevanza. Con riferimento all’istituto del processo con messa alla prova, ai fini dell’individuazione dei reati attratti dalla disciplina della "probation" in ragione del mero riferimento edittale, il tenore letterale insuperabile della norma di cui all’articolo 168 bis cod. pen. non consente di prendere in considerazione le aggravanti ordinarie al fine di determinare il limite di pena che consente l’accesso all’istituto della messa in prova. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio il provvedimento impugnato che aveva rigettato la richiesta di sospensione ex articoli 168 bis cod. pen. con riferimento ai reati di cui agli articoli 640e 646 cod. pen., ritenendo ostativa la presenza di due aggravanti). • Corte cassazione, sezione II, sentenza 29 luglio 2015 n. 33461. Reato - Cause di estinzione - Sospensione con messa alla prova - Individuazione dei reati - Circostanze aggravanti e ad effetto speciale - Rilevanza. In tema di disciplina del procedimento con messa alla prova dell’imputato, al di fuori dei casi in cui si procede per i reati nominativamente individuati per effetto del combinato disposto degli articoli 168 bis, primo comma, c.p. e 550, comma secondo, c.p.p., il limite edittale, al cui superamento consegue l’inapplicabilità dell’istituto, si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. Tale criterio risponde ad una interpretazione sistematica che rispetta la "voluntas legis", stante il rinvio operato dall’articolo 168 bis, comma primo, cod. pen., all’articolo 550, comma secondo, cod. proc. pen., di applicare la messa alla prova a tutti quei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 10 settembre 2015 n. 36687. Reato - Cause di estinzione - Sospensione con messa alla prova - Articolo 168-bis c.p.- Ratio della norma - Interpretazione letterale - Riferimento esplicito a circostanze aggravanti - Mancanza. Il fine primario della norma introdotta dalla Legge n. 67 del 2014, articolo 3, è quello di deflazionare le pendenze penali attraverso la individuazione di una nuova ipotesi di estinzione del reato da concretare mediante una definizione, alternativa e anticipata, della vicenda processuale. Proprio la ratio deflattiva perseguita dal legislatore costituisce la conferma che il dato normativo debba essere interpretato secondo il suo tenore letterale. L’articolo 168 bis c.p., comma 1, condiziona, infatti, l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova richiamando al fine i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo ad anni quattro. Manca, sul piano letterale, ogni esplicito riferimento alla possibile incidenza sul tema di eventuali aggravanti. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 27 luglio 2015 n. 32787. La Cassazione detta le regole per stabilire la competenza in tema di reati associativi di Giuseppe Amato Il Solle 24 Ore, 19 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 2 agosto 2016 n. 33724. In tema di associazione per delinquere, anche se di tipo mafioso o finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, la competenza territoriale, in caso di connessione con i reati fine, deve essere determinata ai sensi dell’articolo 16, commi 1 e 3, del Cpp, ossia con riferimento al più grave dei reati connessi. Invece, quando si procede per il reato di associazione per delinquere, anche di tipo mafioso o finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, da solo o connesso con reati fine meno gravi di quello associativo, la competenza per territorio deve essere determinata, in base all’articolo 8, comma 3, del Cpp. Lo ribadisce la Cassazione con la sentenza n. 33724 del 2016. I giudici della sezione II penale ricordano che a tale riguardo, occorre fare riferimento, dapprima, se conosciuto, al luogo in cui i sodali si sono consociati dando vita all’associazione medesima (pactum sceleris), giacché ai fini della consumazione del reato è sufficiente il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi. Quando, però, non sia possibile individuare il luogo della pattuizione che ha dato vita al reato associativo, la competenza territoriale va individuata, in via gradata, avendo riguardo al luogo in cui l’operatività dell’associazione si è manifestata per la prima volta, prima ancora della commissione dei reati fine (individuazione di una base operativa, di un centro decisionale, di un luogo di incontro): l’articolo 8, comma 3, del Cpp, infatti, per il reato permanente, quale è quello associativo, valorizza, per stabilire la competenza, il luogo in cui la consumazione ha avuto inizio. Se anche tale criterio è insufficiente, in via ulteriormente residuale, l’individuazione del giudice territorialmente competente dovrà avvenire avendo riguardo al luogo in cui è stato commesso il primo reato fine, e ciò sempre avendo riguardo alla menzionata regola dettata dall’articolo 8, comma 3, del Cpp, che valorizza il momento iniziale della consumazione. La competenza in tema di reati associativi - La Cassazione detta le regole per stabilire la competenza in tema di reati associativi. Nel caso di connessione tra la fattispecie associativa con i reati fine, la disciplina applicabile è rinvenibile nell’articolo 16, commi 1 e 3, del Cpp, ossia facendo riferimento al più grave dei reati connessi. Più articolata è invece la disciplina, rinvenibile nell’articolo 8, comma 3, del Cpp, allorquando si procede per il solo reato associativo o per il reato associativo connesso con reati fine meno gravi. A tale riguardo, occorre fare riferimento, dapprima, se conosciuto, al luogo in cui i sodali si sono consociati dando vita all’associazione medesima (pactum sceleris), giacché ai fini della consumazione del reato è sufficiente il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi. Si tratta, peraltro, osserva la Corte, di un momento psicologico o meramente volitivo difficilmente ricostruibile e databile, perché la condotta manifestativa della volontà associativa non sempre si estrinseca in forme sacramentali (come avviene, ad esempio, nei riti di affiliazione a determinate associazioni criminali particolarmente strutturate). In tale evenienza, allora, quando cioè non sia possibile individuare il luogo della pattuizione che ha dato vita al reato associativo, la competenza territoriale va individuata, in via gradata, avendo riguardo al luogo in cui si è manifestata per la prima volta l’effettiva operatività del sodalizio (l’articolo 8, comma 3, del Cpp, per il reato permanente, quale è quello associativo, valorizza, infatti, per stabilire la competenza, il luogo in cui si è la consumazione ha avuto inizio, ossia il luogo in cui si è manifestato il primo atto di consumazione del reato obiettivamente riscontrato: si tratta di una regola diametralmente opposta a quella, espressamente gradata e residuale, dettata dall’articolo 9, comma 1, del Cpp, dove si valorizza l’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione). Per dare concretezza all’indicazione normativa, secondo la Cassazione, molteplici possono essere gli elementi fattuali valorizzabili, desunti, ad esempio, dal raggiungimento dell’accordo illecito, dal rinvenimento di un covo dell’associazione, di depositi di armi o munizioni o di attrezzature utili alla commissione dei reati programmati, ovvero, nelle associazioni più strutturate, in cui sia possibile ravvisare l’esistenza di una vera e propria cupola, dal luogo fisico in cui l’associazione si riunisce e assume le proprie decisioni operative. Tali elementi, a prescindere dal tempo in cui sono scoperti o accertati, prevalgono sul luogo di commissione dei singoli reati fine riferibili all’associazione, perché il sodalizio prende vita già solo con il raggiungimento dell’accordo criminale fra i compartecipi. Se anche tale criterio è insufficiente, conclude il ragionamento della Corte, l’individuazione del giudice territorialmente competente, in via ulteriormente residuale, dovrà avvenire avendo riguardo al luogo in cui è stato commesso il primo reato fine, e ciò sempre avendo riguardo alla menzionata regola dettata dall’articolo 8, comma 3, del Cpp, che valorizza il momento iniziale della consumazione. Ente responsabile se ha violato la normativa sicurezza lavoro per un interesse della società di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 20 luglio 2016 n. 31210. In tema di responsabilità da reato dell’ente in conseguenza della commissione dei reati di omicidio colposo o di lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (articolo 25-septies del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231), ricorre il requisito dell’interesse dell’ente quando la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di far conseguire un’utilità alla persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito, non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 31210 del 2016 precisando anche che pur non volendo il verificarsi dell’infortunio in danno del lavoratore, l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di soddisfare un interesse dell’ente (ad esempio, far ottenere alla società un risparmio sui costi in materia di prevenzione). Ricorre, invece, il requisito del vantaggio per l’ente quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, anche in questo caso ovviamente non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, consentendo una riduzione dei costi e un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto. Gli altri orientamenti della giurisprudenza - In termini, di recente, sezione IV, 17 dicembre 2015, Gastoldi e altri, laddove, in particolare, si è chiarito che, per fondare la responsabilità dell’ente, occorre accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, che ha determinato l’infortunio, rispondesse ex ante a un interesse della società o abbia consentito comunque alla stessa di conseguire un vantaggio, ad esempio, con il risparmio dei costi necessari all’acquisto di un’attrezzatura di lavoro più moderna ovvero all’adeguamento e messa in norma di un’attrezzatura vetusta. I termini "interesse" e "vantaggio" - Qui, la Cassazione, in parte motiva, in linea con le importanti puntualizzazioni già contenute nella sentenza delle sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhanh e altri, ha poi colto l’occasione per ulteriormente precisare che i termini "interesse" e "vantaggio" esprimono concetti giuridicamente diversi e possono essere alternativamente presenti, sì da giustificare comunque la responsabilità dell’ente, come giustificato dall’uso della congiunzione "o" da parte del legislatore nell’articolo 5 del decreto legislativo n. 231 del 2001, e come è desumibile, da un punto di vista sistematico, dall’articolo 12, comma 1, lettera a), dello stesso decreto legislativo n. 231 del 2001, laddove si prevede una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l’autore ha commesso il reato nell’interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato un vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo, il che implica astrattamente che il reato può essere commesso nell’interesse dell’ente, senza procurargli in concreto alcun vantaggio. In questa prospettiva, ha ancora argomentato la Cassazione, il concetto di interesse attiene a una valutazione antecedente (ex ante) alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di vantaggio implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato, e, dunque, si basa su una valutazione ex post. Liti familiari, poche certezze per la negoziazione assistita di Gabriele Ventura Italia Oggi, 19 settembre 2016 La negoziazione assistita in materia di famiglia è un flop. Indagini fiscali da parte delle procure per stabilire la congruità dell’assegno per i minori nonostante gli accordi già verificati e certificati dagli avvocati, applicazione delle regole a macchia di leopardo sul territorio, dalla documentazione da allegare in fase di trasmissione dell’accordo alla procura, al momento dal quale far partire i termini per l’invio dell’accordo all’ufficio di stato civile, alla possibilità di ascolto del minore. Ognuno fa a modo suo. Con il rischio sanzioni per gli avvocati e invalidità dell’accordo qualora venga impugnato. È il quadro che emerge dal questionario che l’Organismo unitario dell’avvocatura ha inviato ad avvocati e procure sulla negoziazione assistita in materia familiare. E, dai primi dati parziali, con 195 avvocati e 30 procure rispondenti sulle 139 interpellate, si evince come quasi nessuna prassi sia uniforme sul territorio. Vediamo perché. Le indagini fiscali. Oltre 30 avvocati hanno risposto positivamente alla domanda se vengano effettuate, da parte del pm, indagini fiscali sui redditi dei coniugi, ai fini della verifica della congruità dell’assegno di mantenimento in favore dei figli. Con effetti sulle statuizioni economiche, effetti fiscali, anche attraverso delega alla Guardia di finanza o con modifica dei provvedimenti già certificati dagli avvocati. In 48 hanno risposto di no. Mentre una procura ha risposto positivamente, 27 di no e quattro non si sono espresse. Il problema, secondo l’Oua, è che trattandosi di accordi certificati da pubblici ufficiali, il pm non dovrebbe poter mettere in dubbio che quanto verificato in sede di negoziazione non corrisponda al vero. Ne va della convenienza dell’utilizzo dello strumento della negoziazione e del ruolo chiave degli avvocati all’interno dell’accordo. Gli altri dati. Per la maggior parte degli avvocati rispondenti (75%), il legale deve far precedere l’accordo di negoziazione dall’invito a stipulare la convenzione di negoziazione, mentre il 24,4% ritiene di no, nonostante la normativa dica il contrario. Spaccato il dato per le procure: in 17 lo ritengono necessario e in 13 no. Uniformità di giudizio (90,4%) sul fatto che non sia necessario alcun versamento alla procura per l’ottenimento del nulla osta. Gli avvocati e le procure si dividono, poi, sulla necessità di compilazione di una nota di deposito e di un originale dell’accordo da depositare in procura. Così come il 60% dei rispondenti dichiara che nessuno verifica l’appartenenza o meno degli avvocati protagonisti dell’accordo di negoziazione allo stesso studio legale, che sarebbe vietata dal codice deontologico. Su questo punto, anche alle procure non è chiaro se la questione sia solo deontologica o comporti la nullità dell’atto. Altra questione è il rilievo, da parte della procura, del mancato rispetto del termine di dieci giorni per la trasmissione dell’accordo: per la metà degli avvocati e delle procure viene rilevato, per l’altra metà no. Inoltre, per il 54,1% degli avvocati il pm può convocare le parti e disporre anche udienze con le parti, possibilità che non sarebbe prevista dalla normativa. Per il 53%, poi, il pm può disporre l’ascolto del minore, un punto che secondo l’Oua va chiarito perché in sede di separazione consensuale non si dovrebbe procedere all’ascolto, dato che dovrebbe far fede quanto dichiarato dai genitori. Tra le procure, in sei hanno risposto di poter disporre l’ascolto del minore. Altro punto controverso riguarda la decorrenza del termine per la trasmissione dell’accordo all’ufficio di stato civile. Per il 60,5% decorre dalla data della comunicazione, per il 22,8 dalla data del nullaosta e per il 16,7% dal ritiro delle copie. Il problema, in questo caso, è che se la modalità di conteggio si rivelasse errata l’avvocato può incorrere in gravi sanzioni. In caso di mancato rilascio del nulla osta, inoltre, per la maggior parte la procura trasmette il fascicolo al tribunale, mentre per il 18,1% avvisa gli avvocati. Secondo circa il 60% degli avvocati rispondenti il presidente del tribunale convoca le parti: per il 32,2 l’udienza è tenuta da un giudice delegato e per il 7,2 esamina l’accordo senza alcuna convocazione. A macchia di leopardo anche il comportamento del presidente del tribunale: suggerisce ai coniugi le modifiche dell’accordo che ritiene opportune e, se recepite, lo autorizza (38,5), trasmette alla procura per l’autorizzazione (23,6%), valuta l’accordo e quindi lo autorizza (18,9%) o lo trasmette alla procura con le proprie osservazioni (8,1%). Cagliari: da Secondigliano trasferiti a Uta altri 40 pericolosi detenuti, scatta l’allarme cronachedellacampania.it, 19 settembre 2016 È finita in Parlamento la vicenda del carcere sardo di Uta dove da agosto scorso sono arrivati pericolosi boss di mafia, camorra e ‘ndrangheta trasformando la struttura carceraria di Cagliari in un carcere di massima sicurezza. La polemica innescata dal deputato di centro destra Mauro Pili sta trovando sempre più adepti con la protesta dei cittadini preoccupati per l’arrivo sull’isola sia dei boss sia dei loro familiari. Tra l’altro il deputato segnala come nel carcere c’è un serio problema di sicurezza visto che c’è carenza di agenti carcerari. E inoltre un’intera ala è stata occupata con l’arrivo di ben 40 pericolosi detenuti arrivati da Secondigliano. Pili con un lunghissima interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e al ministro dell’interno chiede la revoca del provvedimento e di adottare tutti i provvedimenti utili in tema di sicurezza. Ecco il testo dell’interrogazione: "Al Ministro della giustizia, al Ministro dell’interno. - Per sapere - premesso che: nel carcere di Uta sono giunti durante il mese di agosto 20 boss mafiosi e camorristi; si tratta di nomi di primo piano del clan dei Casalesi; con un provvedimento del Ministero della giustizia il carcere di Uta è stato trasformato da struttura circondariale in un carcere di alta sicurezza, con tutto quello che ne consegue sul pericolo infiltrazioni legato alla presenza esterna di familiari e adepti; al Ministero della giustizia hanno approfittato del clamore del terremoto e degli sbarchi di migranti per fare il blitz nel carcere cagliaritano; i boss sono arrivati alla spicciolata in meno di una settimana. Ad oggi la conta nel braccio di alta sicurezza denominato inopportunamente Arborea nella struttura penitenziaria, nata per essere casa circondariale, segnava 20 capi di Cosa Nostra e Camorra, tra cui diversi del clan dei Casalesi; il blitz ferragostano è andato in porto anche se nei prossimi giorni si dovrebbero completare l’operazione con altri 20 capi clan e cosca; si tratta di nomi di primo piano della malavita organizzata che ora occupano il braccio speciale recuperato in fretta e furia dopo la decisione, a giudizio dell’interrogante, gravissima del Ministro della giustizia che ha trasformato il carcere circondariale di Uta in una sezione per mafiosi e camorristi; tutto questo contravvenendo alle regole che impongono la netta separazione tra i detenuti alta sicurezza e quelli ordinari; aver isolato con inutili accorgimenti il braccio Arborea è sintomatico di una gestione, secondo l’interrogante approssimativa, della struttura carceraria; L’unica precauzione messa in campo è un nastro specchiato apposto sulle porte d’ingresso del reparto dedicato ai detenuti in regime di alta sicurezza; la tensione comincia già a salire per il tipo di personaggi giunti ad Uta; è già insorto il primo problema della palestra; i boss hanno chiesto di poterne usufruire, ma ci sono solo 12 postazioni per oltre 500 detenuti; le regole vietano qualsiasi tipo di contatto tra i boss e i detenuti ordinari; il tema più grave è, però, quello del seguito di questi boss e le conseguenti infiltrazioni mafiose; i personaggi già sbarcati ad Uta sono di primo piano a partire da, a quanto risulta all’interrogante, da uno dei capi dei Casalesi Salvatore Ferrara, detto Sasà, 45enne originario di Casal di Principe, nativo di Napoli, finito in manette insieme ad altre dieci persone, perché sospettato di essere parte di un’associazione a delinquere a carattere transnazionale volta a commettere una serie indeterminata di reati attraverso una rete illegale di gioco on line sino ad arrivare al capo clan di Forcella, Fernando Schlemmer; Familiari e adepti potrebbero decidere di spostarsi a soggiornare nelle zone limitrofe al carcere con tutto quello che ne consegue; è lo stesso Ministero nelle relazioni riservate a segnalare il problema delle infiltrazioni proprio in conseguenza della stanzialità di numerosi familiari che diventano di fatto ufficiali di collegamento sino ad estendere sul territorio di detenzione i loro interessi malavitosi; con questo nuovo blitz il Ministero ha di fatto trasformato tutti i carceri della Sardegna in strutture di alta sicurezza per mafia e camorra; dopo Oristano e Tempio, il 41-bis di Sassari, adesso anche Uta diventa carcere speciale; si tratta di una decisione, ad avviso dell’interrogante, irresponsabile e pericolosissima, di un Governo spregiudicato che sta trasformando la Sardegna in una vera e propria "cayenna" mafiosa e camorristica; il blitz di Uta era stato firmato dal direttore generale del Ministero della giustizia - direzione generale detenuti e del trattamento, il 3 agosto 2016, con una disposizione secca: L’intero reparto "Arborea" deve essere evacuato dai detenuti ordinari e destinato esclusivamente ai detenuti di alta sicurezza che arriveranno nelle prossime ore a Uta; in pochi giorni il carcere di Uta è stato trasformato in una vera e propria "cayenna" mafiosa; almeno 40 saranno alla fine i detenuti in regime di alta sicurezza legati a mafia, camorra e `ndrangheta assegnati al carcere di Uta; in silenzio, e sotto ferragosto, il "blitz" del Governo ha deciso di trasformare il carcere di Uta in uno degli istituti destinati ai più pericolosi criminali delle organizzazioni mafiose; su questa vicenda si registra preoccupazione tra gli agenti penitenziari e tra i cittadini; tutto questo sposterà nel cagliaritano la presenza dei familiari dei detenuti mafiosi e non solo; ora più che mai il rischio di infiltrazioni è gravissimo; Si tratta di una decisione inaudita che stravolge la stessa natura del carcere destinato a detenuti ordinari; un carcere dove la promiscuità tra detenuti ordinari e quelli di alta sicurezza sarà la costante; una scelta di una gravità tale che, secondo l’interrogante, conferma la spregiudicatezza del Ministero della giustizia di trasformare la Sardegna sempre di più in una "cayenna" mafiosa da nord a sud; aver trasformato anche il carcere di Uta in un carcere di massima sicurezza riservato ai capimafia è l’ennesimo fatto di una gravità inaudita; si tratta di un atto che lascia comprendere il livello di pericolosità che raggiungeranno i detenuti di Uta ma soprattutto delle infiltrazioni legate alla presenza all’esterno del carcere di un numero sempre più cospicuo di familiari di questo tipo di detenuti; questi arrivi hanno provocato un clima tesissimo per l’arroganza di questi detenuti e soprattutto la carenza cronica di personale che rende tutto molto più difficile, a partire dalla gestione non solo interna ma anche esterna di questo tipo di detenuti; Si tratta di situazioni insostenibili visto che mancano all’appello, secondo le organizzazioni sindacali, non meno di 100 agenti; la pericolosità di questi detenuti, concentrati nel carcere di Uta, è davvero elevatissima; si tratta di un contingente di 40 detenuti provenienti direttamente da Secondigliano (Napoli) e che occuperanno completamente un’ala intera del carcere di Uta, che in maniera subdola è stata trasformata in un carcere per mafiosi e camorristi, oltre che per i più violenti protagonisti della ‘ndrangheta -: se non ritenga il Ministro della giustizia di revocare la disposizione che trasforma di fatto il carcere di Uta in una struttura di alta sicurezza; se non ritenga il Ministro dell’interno di predisporre, sino alla revoca della disposizione del Ministro della giustizia, adeguata vigilanza e attenzione, per quanto di competenza, in relazione a possibili fenomeni di infiltrazione mafiosa, e non solo, legati alla presenza questi detenuti nell’ambito del sud Sardegna". Palermo: mistero al Pagliarelli, detenuto muore dietro le sbarre palermotoday.it, 19 settembre 2016 La vittima è un uomo di 50 anni. I familiari non sarebbero stati informati: erano andati a trovarlo per l’abituale colloquio. Aperta un’inchiesta. Ancora una tragedia dietro le sbarre. Un uomo di 50 anni è morto nel carcere Pagliarelli. A stroncarlo sarebbe stato un arresto cardiaco. I compagni di cella hanno tentato di soccorrerlo, sono arrivate le guardie ma per lui non c’è stato nulla da fare. La vittima è Antonino Cangemi, arrestato un anno fa per droga. Ieri i familiari sono andati a trovarlo per l’abituale colloquio. Qua però la "tragica" sorpresa. Nessuno di loro era stato informato - come riporta il Giornale di Sicilia. Il cinquantenne in realtà era deceduto il giorno prima. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta, ed è stata disposta l’autopsia per chiarire le ragioni del decesso, che hanno ancora i contorni del mistero. Intanto è già finita sotto sequestro la cartella medica dell’uomo. I familiari - come si legge sul Giornale di Sicilia - avevano chiesto più volte che Cangemi venisse trasferito ai domiciliari. Cangemi era stato arrestato nel maggio del 2015 (insieme al nipote) dai carabinieri, che a Partinico avevano scovato una serra per la marijuana allestita in una cisterna sotterranea, con piante di cannabis dell’altezza di un metro e mezzo. Roma: detenuto tenta di impiccarsi a Regina Coeli, salvato da un poliziotto Di Simone Ricci newsgo.it, 19 settembre 2016 L’intervento dell’assistente capo di sezione ha evitato il peggio, è polemica per il sovraffollamento. Nel corso della giornata di ieri, sabato 17 settembre 2016, un detenuto ha tentato di impiccarsi nel carcere di Regina Coeli. Come riferito da Massimo Costantino, segretario della Cisl-Fns, l’intervento di un agente ha evitato conseguenze peggiori e l’uomo è stato salvato. Si tratta dell’assistente capo di sezione che è intervenuto in tempo. Secondo Costantino, comunque, sono quasi mille i detenuti del carcere romano e il sovraffollamento non può più essere sostenuto. Padova: troppi detenuti e agenti contati, dossier al ministero di Silvia Quaranta Il Mattino di Padova, 19 settembre 2016 Un report al ministero della Giustizia da parte della polizia penitenziaria per denunciare il sovraffollamento delle carceri venete, a cominciare da quella padovana e l’inadeguatezza dell’organico. Il dossier è stato annunciato all’indomani del ferimento di due agenti impegnati a difendere un detenuto da atti di autolesionismo. In via Due Palazzi i detenuti sono 596, quasi un terzo in più rispetto ai circa 400 posti letto regolamentari. Ampliando l’indagine alle dieci case di reclusione del Triveneto, poi, emerge che i carcerati sono 3.200, quindi 400 in più rispetto al numero massimo che le strutture potrebbero ospitare per legge. Troppi, denuncia il Sappe, il sindacato autonomo degli agenti in una nota diffusa nelle scorse ore: "Troppi non solo per garantire loro condizioni di vita accettabili, ma anche per gli agenti di polizia penitenziaria che si ritrovano, quotidianamente, a fronteggiare tentativi di autolesionismo, suicidio e rissa". "Nei primi sei mesi del 2016" dice Giovanni Vona, segretario regionale "nelle carceri del Veneto si contano 142 atti di autolesionismo, 13 tentati suicidi sventati in tempo dai Baschi Azzurri, 3 suicidi, 141 colluttazioni e 47 ferimenti: numeri che fanno capire, più di mille parole, con quale e quanto stress operativo si confrontano quotidianamente le donne e gli uomini della polizia penitenziaria". L’ultimo caso, citato dal Sappe, è di questi giorni: per impedire che un detenuto del Due Palazzi si facesse del male con la lama di un temperamatite, sono rimasti feriti due agenti. "L’uomo" spiega ancora Vona "è un detenuto dalla doppia cittadinanza italiana e della Guinea Equatoriale, ristretto per diversi reati tra i quali quelli di lesioni, rapina, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Sconta un cumulo di pena sino al 2025 e non è nuovo ad atteggiamenti aggressivi verso il personale di polizia: non più tardi di qualche mese fa si era reso protagonista di un episodio analogo. Martedì ha tentato di appropriarsi di un temperamatite per poi usare la lama e lesionarsi il corpo. Gli agenti di polizia penitenziaria si sono accorti immediatamente del fatto e lo hanno bloccato. Ma l’uomo ha reagito con violenza e li ha colpiti. I due poliziotti, ai quali va la nostra solidarietà e vicinanza, hanno impedito più gravi conseguenze, ma è evidente che resta alta la tensione con la quale quotidianamente si confronta il personale di polizia penitenziaria". Sul caso è intervenuto anche il leader nazionale del sindacato, Donato Capece: "Il Sappe invierà una dettagliata nota sulle criticità delle carceri regionali che sarà portata all’attenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando". Fermo (Ap): portare un sorriso in carcere, l’iniziativa di Francesco Di Gennaro cronachefermane.it, 19 settembre 2016 L’autore di "Infermiere per professione, comico per vocazione" ha incontrato i detenuti, per parlare di comico-terapia e della cura delle ferite dell’anima. Sabato Francesco Di Gennaro è arrivato a Fermo in treno (pagandosi da solo il biglietto da Bari) e si è recato alla Casa circondariale di Fermo, per portare sorrisi parlando del suo libro "Infermiere per professione, comico per vocazione": obiettivo portare un messaggio positivo a chi vive tra quattro mura. A dargli il benvenuto l’Assessore ai Servizi Sociali Mirco Giampieri, la direttrice Eleonora Consoli e il comandante della polizia penitenziaria Gerardo D’Errico, insieme agli operatori dell’area trattamentale e almeno trenta detenuti. "Durante i miei incontri si ride, si sorride, ma si riflette anche sulla dignità, sull’umanità, sul concetto di normalità", spiega Di Gennaro, infermiere da 33 anni al Policlinico di Bari, una sorta di Patch Adams italiano per i pazienti, in giro tra le corsie e strappare sorrisi e emozioni. "Patch Adams ha inventato la comicoterapia negli ospedali americani, ha saputo capire che i sogni, le fantasie, la creatività mettono in circolo sostanze positive che infermiere-carcereaiutano la guarigione. Per questo voglio portare le mie idee nei luoghi più difficili, nelle carceri, nelle case di riposo, perché con un sorriso tutto può essere più bello". La direttrice Consoli ha sottolineato l’importanza dell’incontro: "Siamo lieti di aver conosciuto Di Gennaro, sono occasioni importanti per portare qui dentro momenti spensierati, sorrisi che alla fine fanno bene a tutti, anche a noi che qui lavoriamo". L’assessore Giampieri si è detto pronto a sostenere qualunque progetto possa portare sollievo ai detenuti di Fermo, dopo la positiva esperienza di collaborazione che ha portato due ospiti della casa di reclusione in giro per la città per lavori socialmente utili. Migranti. I due volti del migrante che non sappiamo unificare di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 19 settembre 2016 Non riusciamo a ricomporre nella nostra mente, prima che nelle politiche degli Stati, il doppio aspetto del migrante: da una parte i derelitti in fuga da guerre e miseria, che vorremmo aiutare, dall’altra gli stranieri di cui spesso abbiamo timore e che cerchiamo di respingere: ma sono le stesse persone. Negli stessi giorni in cui è stata resa nota la decisione franco-inglese di costruire una muraglia antimigranti a Calais, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo ha annunciato la costruzione di un campo di accoglienza nella capitale francese. Due notizie che sintetizzano bene il dilemma e il paradosso in cui si dibatte da tempo l’Europa. È lecito infatti immaginare che presto alcuni (e forse non pochi) dei migranti ospitati e rifocillati a Parigi comme il faut andranno a Calais per cercare di raggiungere in qualche modo la Gran Bretagna, trovandosi di fronte al suddetto muro. L’Altro, il migrante, ha dunque due volti che non riusciamo, nella nostra mente prima ancora che nelle politiche degli Stati, a riunificare: da una parte i derelitti in fuga da guerre e miseria, che vorremmo accogliere; dall’altra (e si tratta sostanzialmente delle stesse persone) gli stranieri di cui spesso abbiamo timore e che cerchiamo di respingere. Ciò che determina un po’ ovunque i successi elettorali dei partiti anti-immigrati si lega appunto alla difficoltà di contemperare le ragioni dell’accoglienza con le ragioni della paura, riconoscendo che anche queste ultime possono avere un fondamento. È vero che i migranti non tolgono il lavoro agli italiani: quale lavoro possono mai togliere i clandestini che, nel Sud d’Italia, lavorano 12-16 ore al giorno per 3 euro l’ora? Ma bisognerebbe non vi fossero situazioni come quella descritta tempo fa da Federico Fubini (Corriere del 26 aprile) di centri di accoglienza che garantiscono ai migranti "vitto e alloggio senza lavorare né studiare"; senza neppure l’obbligo di rassettare la propria stanza visto che a ciò pensa una donna delle pulizie. Saranno pure realtà isolate, ma il solo fatto che in qualche luogo d’Italia possano esistere rischia di rendere intollerabile l’accoglienza agli occhi di milioni di italiani in condizioni di difficoltà economica, inducendoli a vedere dell’Altro solo il volto minaccioso. Spesso evochiamo il razzismo per spiegare situazioni di malessere e di paura che invece hanno giustificazioni più semplici e del tutto non ideologiche. È il caso dell’Abetone dove il sindaco un mese fa ha chiesto, su pressione delle famiglie impaurite e preoccupate, di poter vietare ai migranti assegnati al suo comune (ben 54 su 622 abitanti) il pullman che porta gli studenti nelle scuole dei centri vicini. Accadeva infatti che quei migranti, tutte persone adulte e robuste, imponessero ai ragazzi di alzarsi per lasciar loro il posto. Come si vede, l’Alabama degli anni 60 prontamente evocata dal viceministro Nencini c’entrava poco. In generale, l’impressione, destinata ad alimentare il senso di insicurezza e di paura, è che una vera politica nei confronti dei migranti manchi. Che manchi, in primo luogo, la capacità di stabilire quali sono le regole che tassativamente vogliamo vengano rispettate da chi viene accolto nel nostro Paese. Ancor più, forse, manca il coraggio di affrontare quell’aspetto dell’immigrazione che maggiormente incute timore nell’opinione pubblica. Mi riferisco alla peculiarità che presenta (in Italia e altrove) l’immigrazione islamica. La paura di essere accusati di islamofobia ci impedisce spesso di affrontare la questione in modo serio, guardando in faccia ciò che rende in questo caso più difficile l’integrazione nel nostro sistema di valori e nel nostro ordinamento giuridico. In primo luogo, per riferirsi all’aspetto che riassume buona parte della questione, la posizione della donna rispetto all’uomo. Secondo un sondaggio svolto qualche mese fa in Gran Bretagna, il 39% dei mussulmani che vivono in quel Paese ritiene che "le mogli dovrebbero sempre obbedire ai loro mariti". Proprio in Gran Bretagna, anzi, esiste da anni, in nome del multiculturalismo, un sistema giudiziario parallelo che riconosce alla comunità islamica la possibilità di applicare in proprie corti la sharia per tutto ciò che riguarda i diritti familiari (dunque, la sottomissione della donna). Come ha rivelato un dossier di Micromega sull’argomento, la sharia viene applicata anche in Germania, benché in forma clandestina e dunque nel chiuso di alcune comunità islamiche. In Italia, per le minori dimensioni delle comunità islamiche e per la più recente immigrazione, non siamo a questo punto. Ma bisognerebbe sfruttare questo vantaggio per affrontare in tempo la questione; ad esempio verificando davvero che, nel chiuso delle comunità di immigrati, non esistano pratiche incompatibili con i nostri ordinamenti come la poligamia e i matrimoni combinati. In questo modo si otterrebbe anche di dare all’opinione pubblica la percezione che chi governa è consapevole dei problemi legati all’immigrazione e riconosce la fondatezza di certi timori. Migranti. La sfida Onu "Gli Stati si impegnino ad aiutare chi fugge" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 19 settembre 2016 A New York il summit con 150 leader del mondo Mattarella ad Assisi: "Dialogo contro l’estremismo". Per la prima volta nella loro storia, le Nazioni Unite oggi tengono un "Summit sui rifugiati e i migranti" con 150 capi di Stato e di governo, voluto dal segretario generale uscente Ban Ki Moon. E domani, sempre nel contesto dell’assemblea Onu, ci sarà un altro vertice sul tema delle migrazioni promosso dal presidente Barack Obama: una riunione che nelle intenzioni del leader Usa doveva essere operativa, una "pledging conference" in cui verificare la disponibilità di ogni singolo stato membro ad accogliere profughi e migranti in fuga dalle guerre e dalla povertà. Il fatto che sia Ban Ki Moon che Barack Obama, entrambi a fine mandato, abbiano deciso di affidare il segno della loro eredità proprio al tema delle migrazioni è una conferma dell’importanza e della globalità del tema. La riunione Onu dovrebbe avviare un processo che si dovrebbe concludere nell’ottobre del 2017. L’obiettivo è quello di definire un programma per una risposta mondiale coordinata crisi migratoria. Il vertice si chiuderà con una "Dichiarazione di New York" in cui gli Stati dell’Onu si assumeranno impegni tra cui la lotta contro lo sfruttamento, il razzismo e la xenofobia; il salvataggio delle persone in fuga; la garanzia di procedure di frontiera eque e in linea con il diritto internazionale. Della dichiarazione faranno parte anche due documenti che aprono la strada all’adozione di un "Global Compact sui migranti" nel 2018: uno sui rifugiati e l’altro sui migranti. Come molti dei processi politici avviati dalle Nazioni Unite, è molto probabile che dal piano delle dichiarazioni di principio e delle buone intenzioni si riesca a passare con difficoltà a quello dell’operatività. A New York in queste ore arrivano i principali ministri del governo italiano, dal premier Matteo Renzi, al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, a quello dell’Interno Angelino Alfano. L’Italia ha chiaramente un interesse particolare al vertice: la "Dichiarazione di New York" riconoscerà il dovere di protezione dei rifugiati come previsto dalle decisioni dell’Onu, una protezione che implica una responsabilità internazionale condivisa, non a carico dei soli paesi ospitanti o di quelli che accolgono per primi i migranti. Sul fronte italiano bisogna registrare i dati diffusi ieri sullo sbarco di profughi nella penisola nei primi 7 mesi del 2017: ad agosto gli sbarchi sono aumentati di 8000 unità. Le storie di chi arriva in Italia attraversando il Mediterraneo ci raccontano anche ieri di due donne incinte morte mentre erano in viaggio. Storie, drammi che si ripetono da mesi. E ieri, ad Assisi per la giornata di preghiera organizzata da Sant’Egidio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto proprio un riferimento alla necessità di non restringere il dialogo: "Il dialogo tra le religioni, tra credenti e non credenti, il dialogo della cultura può molto più di quanto si pensi. Perché lo scontro con la violenza estremista è anche uno scontro culturale e quindi la cultura può prevalere sull’oscurantismo". Migranti. Renzi sull’immigrazione: "rischio esplosione per incapacità Ue" di Ernesto Ferrara e Laura Montanari La Repubblica, 19 settembre 2016 Il premier interviene alla festa di Wired. "Giusto salvare tutti in mare, ma non è giusto accogliere tutti solo in Puglia e Sicilia". Le critiche dopo Bratislava alle scelte dell’Europa e la replica di Berlino: "L’agenda era condivisa". "Non possiamo lasciare che un problema come l’immigrazione esploda per l’incapacità dell’Europa". Così ha detto dal Salone dei Cinquecento di Firenze, il premier Matteo Renzi intervenendo al Wired Next Fest. "Sull’immigrazione, il punto non è che noi vogliamo accogliere e loro no - ha proseguito. Se è giusto salvare tutti in mare, non è giusto accogliere tutti solo in Sicilia e Puglia. Noi siamo italiani, quindi generosi, però non possiamo lasciare che un problema come l’immigrazione esploda per l’incapacità dell’Europa". Ha chiesto un intervento europeo "a favore dello sviluppo dei paesi dell’Africa" e senza "perdere tempo". "E se non lo fa l’Europa, lo faremo da soli - ha aggiunto, ma l’Ue ha perso un’occasione. Ieri è stato portato alla nostra attenzione un documento in cui nemmeno si parlava di Africa". Quindi, il giorno dopo il vertice di Bratislava, ha attaccato ancora: "le regole europee non funzionano" ha aggiunto. "Va bene l’attenzione alle regole e noi le rispettiamo, ma possiamo dire che queste non funzionano e lavorare per cambiarle. Noi non possiamo fare la foglia di fico ai problemi degli altri: io non sono fico e non sono foglia; noi non vogliamo far finta di nulla. L’Italia vuole più Europa, ma vuole un’Europa diversa e su questo si fa sentire". Così il presidente del consiglio ha spiegato la distanza creatasi con la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Hollande a Bratislava. Una critica andata avanti pure sull’austerità: "Dobbiamo riconoscere che la ricetta dell’austerità dell’Europa era sbagliata, e quella della crescita degli Usa di Obama era ed è giusta: lo dicono i numeri, la realtà". La replica Ue. Proprio su Bratislava però non si è fatta attendere la replica dalla Germania: la roadmap "è stata condivisa e concordata da tutti e 27" i leader presenti. Così una fonte del governo tedesco alla richiesta di un commento sulle parole del premier Renzi ribadisce all’Ansa che "l’agenda dei prossimi mesi è stata approvata all’unanimità". La stessa cancelliera Merkel nella conferenza stampa aveva descritto lo ‘spiritò di Bratislava" come improntato alla collaborazione". Poi aggiunge la fonte del governo tedesco interpellata dall’Ansa: "c’è questa roadmap che ieri è stata condivisa e concordata da tutti e 27". In una precedente intervista a una tv locale Trv38 il premier Renzi aveva delle sintesi del vertice di Bratislava come "un documento all’acqua di rose" e ha ancora: "Abbiamo il vertice di Roma nella primavera 2017 abbiamo un po’ di mesi per cambiare le cose, vogliamo costruire un’Europa più vicina? O portiamo risultati concreti o amici come prima". Renzi ha sottolineato nel corso della stessa intervista che "il cerino è in mano all’Italia" sull’immigrazione. "Dobbiamo andare avanti da soli?". Tuttavia le parole del premier non sono uno smarcarsi dall’Europa, tutt’altro: "Noi come Italia crediamo fortemente che l’Ue abbia un futuro però bisogna fare le cose sul serio perché di eventi scenografici non sappiamo che farcene". Precisa anche che non ha litigato con nessuno: "Io sono tranquillo, non sono polemico, non ho litigato, non ho buttato il cappello per aria né scompigliato niente". Migranti. Cambiare politica sull’immigrazione di Giuseppe Sala (Sindaco di Milano) La Repubblica, 19 settembre 2016 In tema di immigrazione è tempo di prendere atto che le condizioni intorno a noi sono profondamente mutate. Non definiamola più emergenza, oggi siamo nel pieno di una dolorosa, costante problematica da gestire. Centinaia di migliaia di persone fuggono la guerra, la fame e la persecuzione. L’Unione Europea dimostra tutta la fragilità della sua politica, che sta rapidamente diventando impotenza. Un’ulteriore stretta dei controlli alle frontiere e il rigetto di ogni forma di accoglienza sono dietro l’angolo in un numero crescente di Paesi. È quindi di tutta evidenza il clamoroso e doppio fallimento europeo: non riesce a controllare i flussi in partenza e non riesce a gestire qui le persone che arrivano. L’Italia sta faticosamente facendo la sua parte. Questo va detto chiaro e forte. Come cittadino ritengo che l’accoglienza non sia una scelta, ma un dovere. Come sindaco di Milano sono convinto che la nostra città viva nell’accoglienza uno dei tratti distintivi della sua identità. Come uomo di sinistra penso che ogni singolo migrante vada richiamato ai suoi doveri, ma nel frattempo gli tendo la mano. Proprio per questi motivi, sono consapevole del fatto che il nostro Paese deve passare a una consapevole gestione del fenomeno. L’Italia deve uscire dall’idea di essere una piattaforma di prima accoglienza. È certo che la questione non può riguardare solo i non molti Comuni che se ne occupano, ma che il governo, soprattutto un governo di sinistra, deve provvedere a una nuova e efficace politica di integrazione. Non è facile, ma è da sinistra che deve arrivare la spinta ad affrontare la questione, attraverso una programmazione che coinvolga da subito le amministrazioni regionali. Milano sta facendo tutto il possibile. Negli ultimi tre anni abbiamo accolto oltre 100.000 profughi. Ma è necessario che il governo operi perché tutto questo non continui a pesare come un macigno sulle spalle della città. Abbiamo bisogno di una politica di integrazione seria, pianificata e dotata dei mezzi finanziari adeguati. Il governo deve valutare se dare vita ad un unico soggetto che si occupi di immigrazione e accoglienza mettendo insieme i diversi tasselli del mosaico: il sistema Sprar, il rapporto con i Comuni, la circolazione di buone pratiche, l’uso di caserme e così via. A supporto del lavoro del Ministero degli Interni. Bisogna poi costruire un nuovo e reale sistema di integrazione. Si tratta di proporre un nuovo patto a chi arriva: noi faremo tutto quello che serve a darvi una mano, voi mostratevi disponibili da subito ad aiutarci dove serve, mettendovi a disposizione di programmi per conoscere le nostre leggi e la nostra lingua. Noi milanesi abbiamo nel lavoro e nella comprensione reciproca l’essenza più profonda del nostro stare insieme. Per questo a fine settembre avvieremo una sperimentazione per inserire centinaia di richiedenti asilo nelle attività di cura del territorio. Oggi l’immigrazione non è un cerino da passare di mano in mano. È una questione gigantesca che chiede un radicale cambio di passo a livello nazionale. O daremo sostanza a questo cambio di passo o finiranno per prevalere egoismi e paure, che porteranno altri milioni di voti ai populisti di ogni genere. L’Europa si sta rivelando su questo fronte più un ostacolo che un sostegno. Dobbiamo agire subito e bene, per fare quello che la nostra coscienza di governanti ci chiede di fare. Siria. Nella strategia Usa regna la confusione di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 settembre 2016 La tregua regge, nonostante le violazioni, ma sul tavolo non c’è alcun obiettivo comune. Le super potenze si accusano a vicenda, mentre le opposizioni moderate aggrediscono i marines che sostengono la Turchia, mentre supportano i kurdi. Colpa di tutti, colpa di nessuno: in Siria la tregua non serve a cercare un accordo politico (o almeno a tentare di gettarne le basi) ma ad accusarsi a vicenda di scarsa buona fede. Nonostante il cessate il fuoco stia per lo più reggendo e Mosca e Washington abbiano per la terza volta deciso di prolungarlo di altre 48 ore, gli ultimi giorni sono trascorsi tra vicendevoli accuse di violazioni. Mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu di venerdì sulla questione siriana saltava per mancato coordinamento su cosa riferire da parte delle due super potenze, partiva la danza: l’esercito russo ha denunciato 199 violazioni della tregua tra Aleppo, Idlib e la periferia di Damasco da parte delle opposizioni, per lo più islamiste ma non solo, e chiesto alla controparte statunitense di vigilare: "Se gli Stati Uniti non prendono le misure necessarie a rispettare gli obblighi previsti dall’accordo del 9 settembre - ha detto il generale Poznikhir - allora la responsabilità di un collasso del cessate il fuoco sarà deli Stati Uniti". Secondo Mosca nelle ultime 24 ore gli attacchi si sono moltiplicati, provocando la morte di 12 civili, tra cui due bambini. Tre secondo l’Osservatorio Siriano, dal 2011 in opposizione al presidente Assad. Oltreoceano il segretario di Stato Usa Kerry imputa alla Russia l’incapacità di costringere l’alleato Assad a permettere l’ingresso degli aiuti. I 40 convogli dell’Onu (cibo per 80mila persone per un mese) restano, infatti, bloccati al confine nord con la Turchia, in attesa di un coordinamento reale tra le forze belligeranti che ne garantisca la consegna nelle zone assediate, a partire da Aleppo est. Damasco risponde a tono: le truppe governative si sono unilateralmente ritirate dalla Castello Road, principale arteria per raggiungere il centro della città, ma altrettanto non hanno fatto le opposizioni. Insomma, un carosello infinito che è lo specchio di quanto denunciato da tempo: la tregua è fine a se stessa se non si fonda sulla volontà condivisa di un dialogo serio. Perché le distanze sugli obiettivi finali resta così come resta quella tra la definizione di soggetti legittimi per l’aleatorio tavolo di Ginevra. Mosca e Damasco non vogliono sentir parlare di gruppi islamisti e di ispirazione salafita - molti dei quali galassia dell’ex al-Nusra, che terrorista lo è per tutti - mentre la Casa Bianca è consapevole che senza queste milizie scomparirebbe l’opposizione armata ad Assad. La confusione è palese nel nord della Siria, da tempo teatro principe della guerra. Nel corridoio di terre da Aleppo a Jarabulus e oltre il fiume Eufrate si gioca buona parte del conflitto perché è lì che sono fisicamente presenti gli attori della crisi. È qui che si è registrato il primo vero screzio tra truppe di terra Usa e opposizioni cosiddette moderate. Ed è qui che si palesa la contraddizione insita nella strategia statunitense: da una parte i raid aerei a sostegno delle Ypg kurde, dall’altra forze speciali a supporto dell’invasione turca di Jarabulus e al-Rai. Un’operazione che ha l’evidente obiettivo di interrompere l’avanzata kurda dentro Rojava, entità che gli Usa stanno sostenendo. Per ovvie ragioni di convenienza, sì, ma che svela tutti i buchi dell’attuale visione statunitense dei tanti conflitti in corso. Oltre allo scontro Ankara-Rojava, le forze speciali si sono trovate di fronte anche al risentimento dell’Esercito Libero Siriano, braccio armato dell’evanescente Coalizione Nazionale, in teoria prima donna delle opposizioni, a cui hanno per anni girato milioni di dollari in armi e addestramento, diretto dalla Cia in Giordania e Turchia. Ad al-Rai, dove la Turchia sta programmando l’offensiva su al-Bab (strategica comunità tra Aleppo e il confine e per lungo tempo punto di passaggio di armi e miliziani alle opposizioni islamiste), miliziani dell’Els hanno apostrofato i marines dandogli dei "maiali, crociati, infedeli". Nei video pubblicati online si vedono poi i "ribelli" passare all’azione: minacciando di "massacrarli", li hanno costretti a ritirarsi. Una fila di convogli avrebbe al-Rai tra le proteste, per riposizionarsi al confine turco. Dal dipartimento di Stato non giungono commenti, se non ufficiose conferme dell’accaduto. Siria. Aleppo, dopo i raid russi tregua a rischio La Repubblica, 19 settembre 2016 Mentre Russia e Usa tornano a giocare alla Guerra Fredda, con teatrali accuse e polemiche tra i vertici della opposte diplomazie, la Siria ricade nel pieno di un guerra sanguinosa che solo ieri ha fatto almeno un centinaio di morti. In palese violazione di un cessate il fuoco stipulato appena una settimana fa, l’aviazione di Damasco ha bombardato alcune zone della città assediata di Aleppo facendo un numero imprecisato di vittime. Mosca non lo ammette ufficialmente ma lascia capire che l’intervento si è reso necessario e che la tregua non è destinata a durare. Approfittando della pausa nei bombardamenti e dei corridoi umanitari, le milizie del Califfato si starebbero infatti riorganizzando, concentrando uomini e mezzi e infierendo sui civili. Lo ha spiegato ieri il portavoce del ministero russo della Difesa che ha rivelato nuovi casi di atrocità commesse dall’Isis, in particolare l’esecuzione di 26 civili, tra cui nove adolescenti, compiuta nel distretto di Sheikh Hader. Ad ascoltare i toni dei notiziari tv sembra che la Russia sia pronta a far saltare l’accordo fatto di recente con gli americani. La causa principale sarebbe l’attacco sferrato l’altro ieri dall’aviazione Usa sulla zona di Dei al Zour nell’Est del Paese. Il blitz, destinato a colpire i terroristi ha invece fatto strage di militari regolari siriani di stanza in una base area poco distante. Con grande imbarazzo e molte omissioni, gli Usa hanno ammesso l’errore e accennato a delle scuse. Ma Mosca non si fida. Si sa benissimo che l’accordo raggiunto dal segretario di Stato Usa Kerry con il ministro degli Esteri russo Lavrov non è andato giù a molti "falchi" dell’Amministrazione Usa a cominciare proprio dal capo del Pentagono, Carter. Anche se ci si guarda bene dal dichiararlo nettamente, al Cremlino si sospetta che le forze armate americane abbiano tanta voglia di far saltare ogni accordo. Non a caso i bombardamenti "per errore" dell’altro ieri hanno infierito proprio sull’esercito del presidente Assad, vero nodo irrisolto della questione tra i russi che ne difendono la legittimità e americani che lo vorrebbero destituire. E mentre sul terreno si torna a morire, il teatrino politico registra il solito campionario. La portavoce del ministero degli Esteri russo ha detto chiaro e tondo che con il loro comportamento "gli Usa fiancheggiano i terroristi" ricevendo risposte indignate. Peggio ancora il comunicato ufficiale del ministero degli Esteri russo dove le "bombe per errore" vengono definite "frutto di negligenza criminale". Norvegia. Modello scandinavo di detenzione, guardie-tutor per ognuno dei carcerati di Carola Frediani La Stampa, 19 settembre 2016 Quando si parla di prigioni, almeno nell’ambito di Stati democratici e industriali, i poli opposti sono sempre due nazioni, da anni: gli Stati Uniti e la Norvegia. Sui problemi del mondo carcerario statunitense si è scritto molto: basti ricordare il suo tasso di incarcerazione, il più alto di tutti, con 693 detenuti per ogni 100mila residenti. Un sistema in cui al 5 per cento degli abitanti mondiali corrisponde il 25 per cento della popolazione carceraria globale. E con recidiva molto alta: il 76,6 per cento dei prigionieri viene di nuovo arrestato entro cinque anni. A fronte di questa situazione disastrosa, sono fioriti negli anni molti studi e inchieste, da parte americana, sui sistemi adottati da alcuni Paesi europei. Tra questi ovviamente la Norvegia, le cui prigioni sono ormai famose in tutto il mondo per la loro umanità - qualcuno storcerebbe magari anche il naso parlando di comfort. Ma il fatto è che quando i detenuti norvegesi lasciano il carcere, ne restano fuori più di altri. Se il tasso di incarcerazione è del 75 per 100mila abitanti (in Italia è 89), la recidiva è tra le più basse al mondo: sul 20%. Il sistema norvegese è difficilmente replicabile per molte ragioni - di scala, di condizioni sociali di base - ma alcune sue scelte sono guardate con interesse: ad esempio l’approfondito training riservato alla polizia penitenziaria, due anni di scuola pagata in cui si insegna criminologia, psicologia, diritti umani, legge, etica. Ogni detenuto in Norvegia viene affidato a un agente che ha il ruolo di aiutarlo in tutto l’iter carcerario e a connetterlo con una serie di istituzioni esterne alla prigione. Altri studi citano come esempi la Danimarca e la Germania e l’enfasi posta su riabilitazione, training, risocializzazione nonché sui servizi alternativi al carcere. Più della metà dei detenuti partecipano a corsi di formazione, considerati uno degli elementi cruciali per la reintegrazione di chi ha scontato una pena. E infatti in Germania la recidiva fino a qualche anno fa si attestava sul 33 per cento. Malgrado alcuni studi compiuti in Gran Bretagna mostrino che finanziare educazione e training nelle prigioni faccia rientrare di due volte l’investimento fatto, in termini di costi e benefici, la qualità e la disponibilità di corsi di formazione in molti Paesi europei resta ancora bassa. Allo stesso modo, gran parte del lavoro svolto in prigione non è qualificante e non aiuta la riabilitazione. Da questo punto di vista ci sono Stati che hanno fatto scelte drastiche e controverse: l’Austria ad esempio obbliga i detenuti a lavorare. Il 75 per cento della paga è trattenuto come contributo al costo della carcerazione. Il resto va al detenuto, ma una metà è comunque accantonata per quando esce. In compenso sono offerti molti corsi di formazione certificati. Il ministero della Giustizia austriaco ha anche un sito web dove mette in vendita prodotti e articoli artigianali realizzati dai detenuti. Francia. Dibattito su come gestire i terroristi islamici in carcere? di Alma Pantaleo formiche.net, 19 settembre 2016 La preoccupante escalation di attentati terroristici che ha colpito la Francia nell’ultimo anno e mezzo ha posto le forze di polizia di fronte ad un’enorme dilemma: come gestire la detenzione dei fondamentalisti islamisti in modo da frenare l’ideologia jihadista all’interno delle carceri? Come gestire la detenzione dei terroristi? - Un articolo dell’Economist spiega come questo problema valichi i confini francesi. La Gran Bretagna, per esempio, avrebbe annunciato di recente di voler invertire la sua politica di "dispersione" dei detenuti, costruendo unità separate per i crimini legati al terrorismo. La preoccupazione era montata nel mese di agosto dopo la condanna di Anjem Choudary, predicatore islamista di origine britannica legato al Califfato, che aveva promesso di "radicalizzare tutti all’interno della prigione". Le difficoltà di gestione - Il reclutamento, in un contesto come il carcere, può risultare molto pericoloso poiché i detenuti hanno accesso a un "sottobosco" di armi e violenza inimmaginabile. Questo stato di allarme è particolarmente forte in Francia, dove diversi terroristi coinvolti negli ultimi attacchi sono detenuti in prigioni nazionali. Non solo. La carcerazione musulmana è molto alta: gli islamici costituiscono, infatti, l’8-10% della popolazione francese (la percentuale esatta non è nota, poiché la raccolta di statistiche religiose è vietata) e rappresentano quasi il 60% dei detenuti, secondo una relazione parlamentare. A confermare questi dati è Farhad Khosrokhavar, autore di un libro di prossima uscita "Le carceri di Francia", in cui stima che la percentuale di musulmani detenuti tocchi realisticamente il 40-50%, con il 60-70% solo in alcune grandi prigioni nei pressi di Parigi. Le carceri francesi e il sistema della "segregazione" - L’esperimento francese della "segregazione" di alcune tipologie di detenuti, lanciato nel 2014, coinvolge cinque unità all’interno delle carceri, una nella città settentrionale di Lille e le altre a Fresnes, Osny e Fleury-Mérogis, vicino Parigi. Proprio quest’ultimo ospita Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto del commando terrorista dietro gli attacchi al Bataclan dello scorso novembre. I prigionieri più pericolosi, come appunto Abdeslam, sono tenuti in isolamento: il terrorista dispone di una cella speciale sotto sorveglianza video 24 ore al giorno. L’idea di fondo è di tenere questi soggetti il più lontano possibile da altri prigionieri, e indirizzarli a programmi di "deradicalizzazione". Le falle nel sistema - Il ministero della Giustizia dice che è troppo presto per dare una valutazione a questo nuovo sistema. Ma il tentativo di assassinio a Osny a danno di alcuni sorveglianti della prigione - il primo attacco avvenuto in queste nuove unità, non è di certo un buon segno. Secondo Le Monde, il video di sicurezza mostra i compagni di prigione di Bilal Taghi dividere tra loro grandi frammenti di specchio rotto poco dopo l’attacco. "C’è stato forse un complotto più ampio che fatalmente non ha mai avuto luogo?" Si chiede l’Economist. "Il difetto principale - afferma Jean-François Forget, capo della Ufap-Unsa, sindacato delle guardie carcerarie - è cercare di creare isolamento in contesti che di fatto non lo permettono strutturalmente". Le unità, infatti, sono installate in prigioni al collasso per sovraffollamento. Fleury-Mérogis, per esempio, conta 4.400 detenuti per 2.340 posti. Senza contare che la disposizione di alcuni edifici rende difficile evitare il contatto con gli altri detenuti. Rischi incontrollabili - Tra l’altro non tutti i prigionieri sono ex combattenti omicidi. Alcuni sono stati incarcerati perché hanno tentato di lasciare la Francia per la Siria. Il rischio - secondo l’Economist - è che le unità si trasformino in campi organizzati per il jihadismo, e che portino alla creazione di reti e collegamenti, se non a comandare strutture. Contrastare questo all’interno delle mura di una prigione è difficile, senza contare che i programmi deradicalizzazione sono ancora in fase sperimentale e che nelle carceri francesi ci sono solo 178 cappellani musulmani, contro i 684 cattolici, per una popolazione carceraria totale di 68.000. Lo scorso giugno Jean-Jacques Urvoas, ministro della Giustizia francese, aveva spiegato alla commissione parlamentare di essere a conoscenza di possibili "effetti perversi" di questo sistema. Svizzera. Le carceri stanno scoppiando, entro il 2025 verranno creati 2.269 nuovi posti ticinonews.ch, 19 settembre 2016 Presso il carcere di Champ-Dollon sono rinchiusi 570 detenuti, a fronte di una capienza massima di 390. Nelle altre strutture carcerarie svizzere la situazione non è migliore: nell’ultimo anno erano infatti occupate al 101% della capacità complessiva. Un sovraffollamento che, stando a quanto riportato dal Blick, ha spinto la Conferenza delle direttrici e dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia (Cddgp) a pianificare nuovi posti entro il 2025. Nell’ultimo anno la disponibilità era di 7’589 posti, 497 sono invece stati smantellati mentre è già previsto un ampliamento di 2’269 posti. Ma secondo il rapporto della Cddgp ciò non sarebbe ancora sufficiente. Da qui la richiesta di altri 373 posti, destinati in particolare a detenuti con disturbi psichici e a detenuti in attesa di rinvio coatto. "Un ampliamento è necessario a causa delle pene detentive più lunghe che vengono comminate", ha spiegato Benjamin F. Brägger, segretario del Concordato sull’esecuzione delle pene e delle misure della Svizzera centrale e del Nord Ovest. "Nel 1990 il periodo di incarcerazione medio era di 110 giorni, oggi è di 179". Dal rapporto della Cddgp è inoltre emerso che 753 detenuti non sono stati collocati correttamente. In particolare chi sarebbe dovuto essere affidato a una clinica forense è stato semplicemente lasciato in carcere a causa della mancanza di nuovi posti presso queste strutture. Addirittura alcuni criminali stanno aspettando in libertà di poter entrare in carcere e scontare la loro pena. Ma a causa del sovraffollamento i tempi sono spesso lunghi. Va tuttavia precisato che si ratta di responsabili di crimini minori. La situazione sarebbe particolarmente critica nel Circondario dei Cantoni latini (comprendente quindi il Canton Ticino), dove vi sarebbe la necessità di creare ben 1’077 nuovi posti. Ma qual è la situazione in Ticino? Il primo gennaio 2018 entrerà in vigore la revisione del diritto sanzionatorio, una revisione che prevede la reintroduzione del carcere anche per le condanne minori. Una riforma che pone il Ticino di fronte ad un suo problema cronico, quello della capienza delle carceri (vedi articolo suggerito). "Ci stiamo organizzando", aveva dichiarato il 30 marzo scorso il capo del Dipartimento delle istituzioni Norman Gobbi ai microfoni di Teleticino. "Per quella data dovremo adeguare la capacità delle strutture carcerarie ticinesi". Una visita al carcere "La Stampa" del 9 maggio 2016 aveva permesso di evidenziare i limiti della struttura, che ha da tempo raggiunto la piena capacità, provocando l’esigenza di una lista di attesa per i detenuti in provenienza dal carcere giudiziario "Farera". A medio-lungo termine era stato ritenuto prioritario l’avvio di una ristrutturazione per ampliare la capacità di almeno 30 posti, e prolungarne di una ventina d’anni il periodo di vita. Egitto. Caso Regeni, alto funzionario di polizia a processo per la tortura e l’omicidio dell’italiano La Repubblica, 19 settembre 2016 L’Egitto si prepara a "sacrificare" un funzionario di polizia e a perseguirlo per la tortura e l’uccisione dello studente italiano Giulio Regeni, secondo quanto scrive il media arabo-inglese Al-Araby Al-Jadeed (The New Arab) citando una fonte politica egiziana. "Il Cairo si prepara ad annunciare che un alto funzionario di polizia coinvolto nell’incidente sarà portato in tribunale in modo da chiudere questo caso", ha detto ieri la fonte del New Arab. "Alcuni leader mondiali - ha aggiunto - si sono rifiutati di incontrare il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi durante il G20 in Cina a causa dell’incidente. A margine del vertice la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto a Sisi di rivelare il prima possibile l’identità dei killer di Regeni e che il ripristino delle normali relazioni tra Egitto ed Europa non sarà possibile finché i suoi assassini non saranno perseguiti". Egitto. Caso Regeni. La sindacalista Kamel: "Il Cairo alla ricerca di un capro espiatorio" di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2016 "Grazie, grazie di cuore... a chi continua a seguire la nostra ricerca di verità e giustizia per Giulio. W la verità!". È il tweet scritto ieri dalla madre di Giulio Regeni, dopo la notizia proveniente dall’Egitto di una inchiesta che porterebbe alla sbarra un funzionario dell’intelligence per la morte del ricercatore italiano. Ma non tutti credono a questa versione, data solo dal giornale on line Al Araby, che pubblica anche una versione in inglese. "Sembra che le autorità egiziane abbiano improvvisamente fretta di chiudere il caso, quindi stanno cercando un capro espiatorio". Hoda Kamel, sindacalista e amica di Giulio Regeni, non ha dubbi. Così come non ne aveva avuti quando, ad aprile in una intervista al Fatto, puntò il dito contro il leader degli ambulanti egiziani, Mohamed Abdallah, ritenuto uno dei responsabili della fine del ricercatore friulano, trovato morto il 3 febbraio scorso al Cairo. Secondo lei, le voci che vorrebbero un funzionario della polizia di Giza pronto ad essere dato in pasto alla giustizia, somigliano ad una mossa già prevista. Al Araby ha dato la notizia sabato parlando di un imminente rinvio a processo di un poliziotto della stazione di Giza, proprio quella d e ll ‘omonimo distretto dove Giulio sarebbe stato torturato prima di morire. Una voce che, secondo gli ambienti diplomatici del Cairo, ha iniziato a girare prima della visita del procuratore generale egiziano a Roma, la settimana scorsa. In quel vertice è emersa la conferma che i servizi egiziani avevano indagato su Giulio Regeni, proprio su delazione del sindacalista ambulante, seppur per pochi giorni a inizio gennaio; la versione ufficiale egiziana è che Regeni era stato poi scartato come possibile minaccia. Israele. Sciopero della fame di massa contro la detenzione amministrativa di Rosa Schiano nena-news.it, 19 settembre 2016 Un centinaio di detenuti palestinesi rifiutano il cibo per chiedere la scarcerazione dei prigionieri Al Balboul e di Al Qadi, ricoverati in gravi condizioni di salute. Sono ora un centinaio i detenuti palestinesi che mercoledì hanno iniziato a digiunare in solidarietà con i fratelli Muhammad e Mahmoud Balboul e Malik al-Qadi, in sciopero della fame da circa due mesi come forma di protesta contro la detenzione amministrativa, senza accusa e senza processo. Le condizioni di salute dei tre detenuti, ricoverati presso ospedali israeliani, stanno infatti peggiorando. Muhammad e Mahmoud Balboul, in sciopero della fame rispettivamente da 72 e 75 giorni, soffrirebbero di cecità temporanea, difficoltà a parlare, forti dolori allo stomaco e perdita di coscienza. Malik al-Qadi, 25 anni - studente di giornalismo e media presso l’università al-Quds - in sciopero da 63 giorni, è in condizioni più critiche ed è entrato in coma sabato scorso; il giovane, ricoverato presso il centro medico israeliano Wolfson, sarebbe stato colpito da una grave infezione polmonare accompagnata da abbassamento della frequenza cardiaca oltre che da complicazioni al sistema urinario e perdita dell’udito.Sembra che la settimana scorsa le autorità israeliane abbiano tentato di alimentare forzatamente al-Qadi, ma egli abbia resistito e sia caduto a terra. Sua madre ha sollecitato il governo palestinese ed i gruppi per i diritti umani di intervenire immediatamente per salvare la sua vita, "Mio figlio sta morendo in questo momento" - ha detto - "gente del mondo, per favore ascoltate la mia implorazione ed il mio dolore." Giovedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha rilasciato un comunicato nel quale ha espresso preoccupazione sul deterioramento delle condizioni di salute di Al-Qadi e dei fratelli Al Balboul. L’organizzazione ha voluto sottolineare che il proprio staff medico sta continuando a monitorare le condizioni di salute dei detenuti ed il loro trattamento da parte delle autorità carcerarie israeliane. "Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è rimasto in stretto contatto con le loro famiglie tenendole informate sugli sviluppi secondo la loro volontà e trasmettendo comunicazioni personali", si legge nel comunicato. Nelle ultime settimane, gruppi di giovani, attivisti e politici palestinesi hanno organizzato presidi presso uffici della Croce Rossa Internazionale in Cisgiordania, recentemente a Betlemme, in solidarietà con i detenuti palestinesi in sciopero della fame in detenzione amministrativa. I manifestanti hanno chiesto alla Croce Rossa Internazionale - ed in generale a tutte le organizzazioni che operano in Palestina - di adoperarsi concretamente per cercare di risolvere la questione dei detenuti in sciopero della fame. Le detenzioni dei tre prigionieri erano state "sospese" ma non cancellate dalla Corte suprema israeliana: venerdì scorso una corte israeliana aveva temporaneamente sospeso la detenzione amministrativa dei tre detenuti fino al miglioramento delle loro condizioni di salute. Successivamente, un’altra udienza dovrebbe stabilire il loro rilascio o una nuova condanna. Tuttavia, i tre detenuti hanno deciso di proseguire lo sciopero della fame fino a quando saranno completamente rilasciati dalla detenzione amministrativa. La detenzione amministrativa permette alle autorità israeliane di trattenere palestinesi per periodi di tempo indefiniti - periodi minimi di sei mesi soggetti a rinnovo - sulla base di informazioni segrete e senza mostrare alcuna prova che possa giustificare la loro detenzione né dare ai detenuti il diritto ad un processo. Il numero dei palestinesi in detenzione amministrativa sembra salire e le vittime sono spesso attivisti politici e sociali. Secondo Addamer, nel mese di agosto sono 7,000 i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, di cui 700 in detenzione amministrativa e 340 minori. Una politica che ha generato molte preoccupazioni nelle organizzazioni per i diritti umani, anche alla luce del fatto che spesso i prigionieri vengono riarrestati in stato di detenzione amministrativa subito dopo il loro rilascio o trattenuti in carcere oltre il tempo stabilito. Un esempio recente è il caso di Bilal Kayed, militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, rimasto in sciopero della fame per 71 giorni, poiché al termine della sua condanna di 14 anni è stato informato dell’emanazione di un ordine di detenzione amministrativa di sei mesi. Il governo israeliano ha giustificato la decisione sostenendo che Kayed costituisse una minaccia alla sicurezza di Israele ed il suo riarresto fosse bastato su informazioni riservate. Infine Kayed ha terminato lo sciopero dopo il raggiungimento di un accordo per la sua scarcerazione prevista il 12 dicembre, al termine dei sei mesi di detenzione amministrativa. Ha innescato ulteriore indignazione, la settimana scorsa, la decisione della Corte Suprema israeliana di respingere un appello dell’Associazione medica israeliana e di associazioni per i diritti umani e di considerare "legittima" la legge del luglio 2015 che consente di nutrire con la forza i prigionieri palestinesi in sciopero della fame. Il capo dell’Associazione medica israeliana ha chiesto ai dottori di rifiutare l’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame nonostante la decisione della Corte Suprema israeliana. In una lettera inviata ai medici israeliani, il dottor Leonid Eidelman ha chiesto loro di rispettare i principi di deontologia medica. La legge consente alle autorità israeliane di nutrire con la forza i detenuti contro la loro volontà se il deterioramento delle loro condizioni di salute possa costare loro la vita e se la misura venga approvata dal procuratore generale e da un giudice distrettuale. La procedura prevede la trasmissione di cibo nel corpo del paziente attraverso le vene, un taglio sullo stomaco o attraverso un tubo di gomma o di plastica inserito nel naso o nella gola del paziente. Secondo opinioni locali, l’alimentazione forzata, in realtà, non è una misura adottata principalmente per salvare la vita dei prigionieri, essa nasconde altre motivazioni. La morte di un detenuto potrebbe infatti innescare disordini e manifestazioni, incoraggiare altri prigionieri a digiunare, aumentare la pressione internazionale contro la politica israeliana della detenzione amministrativa e la richiesta di indagini. La Corte, consapevole di queste preoccupazioni, ha di fatto scritto che gli scioperi della fame hanno "implicazioni che vanno al di là della questione personale del detenuto in sciopero della fame". Una scelta che va quindi in senso opposto alle posizioni delle associazioni per i diritti umani, degli esperti delle Nazioni Unite e delle associazioni mediche israeliane e internazionali che ritengono l’alimentazione forzata una grave violazione dell’etica medica e del diritto internazionale, una pratica che equivale alla tortura ed al maltrattamento. Stati Uniti. Ora Trump cavalca le paure dell’America di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 19 settembre 2016 L’unica certezza è che New York affronta da oggi la settimana più blindata della sua storia. 150 capi di Stato e di governo - da Obama a Renzi - in città per l’assemblea generale dell’Onu in piena offensiva anti-Isis in Siria, avevano già imposto uno spiegamento di forze di polizia e di squadre antiterrorismo imponente. Dopo le bombe di sabato a Manhattan e nel New Jersey sono stati chiamati altri mille uomini dalla Guardia Nazionale e dalle polizie di altre città. Fermezza, calma, una città che non si fa intimidire: dietro gli slogan delle autorità, dal sindaco Bill de Blasio al governatore Andrew Cuomo, c’è la realtà di una città che ha reagito con compostezza al nuovo attacco. Nessuna scena di panico generalizzato dopo l’esplosione di sabato sera, solo umana paura e gli inevitabili, giganteschi ingorghi attorno alle zone chiuse al traffico dalla polizia. Più le precauzioni chieste ai residenti dell’area nella quale è stata trovato un altro ordigno inesploso: una pentola a pressione, come nell’attentato alla maratona di Boston di tre anni fa. Gli investigatori non riescono ancora a capire la natura e la gravità della minaccia. Il nuovo capo della polizia, già al battesimo del fuoco al primo giorno del suo mandato, rivela che il suo Dipartimento ha già sventato venti attentati. Ancora una volta si conferma che l’"intelligence" Usa, efficace nell’intercettare trame terroristiche internazionali complesse come il tentativo, scoperto alcuni anni fa, di minare uno dei tunnel che collegano Manhattan con la terraferma, non può esserlo altrettanto nel contrastare i lupi solitari del terrorismo domestico. La città, abituata a convivere con la minaccia del terrorismo ormai da 15 anni, dal maledetto 11 settembre 2001, per ora reagisce con la compostezza evocata da de Blasio. L’altra sera le mille luci di Manhattan non si sono spente, i ristoranti non si sono svuotati, la metropolitana non si è fermata. Oggi la Sub-way sarà di nuovo stracolma e tutti accetteranno di buon grado i posti di blocco, le fortificazioni davanti agli alberghi delle delegazioni straniere, il traffico impazzito per l’andirivieni dei cortei di auto dei leader di mezzo mondo. La gente sa che Manhattan - un’isola densamente popolata, meglio non dimenticarlo mai - ha una sua insopprimibile vulnerabilità, ma ha fiducia nella capacità dell’"intelligence" di sventare almeno le minacce più gravi. I nervi saldi dell’America non significano, però, che le nuove minacce non abbiamo conseguenze politiche. Donald Trump ha parlato delle bombe di New York ancor prima della polizia e ha subito cavalcato l’allarme provocato dal nuovo attacco: "Ecco perché dobbiamo essere durissimi". Hillary Clinton ha, invece, preferito una linea di prudenza istituzionale: "Aspettiamo l’esito delle indagini prima di formulare giudizi". In termini logici ha ragione, ma la sortita di Trump tocca corde emotive che anche stavolta potrebbero rendere il suo messaggio più efficace di quello della candidata democratica.