Il carcere utile di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 17 settembre 2016 Lo studio, il lavoro. Perché una detenzione rieducativa conviene a tutti, buoni e cattivi. Parla Consolo, capo dell’amministrazione penitenziaria. Un lavoro per tutti. Convivenza tra uomini di etnia e religione diverse. Percorsi di scolarizzazione e corsi professionali per imparare un mestiere. L’obiettivo è dare dignità e speranza a ciascun individuo, senza distinzione alcuna. Se il piano di Santi Consolo dovesse essere completato - sono tante le cose già fatte - offrirà un modello di civiltà anche per chi sta fuori. Delle carceri, infatti, si sta parlando poiché Consolo è il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il congresso dei Radicali organizzato a Rebibbia, due ergastolani in permesso alla Mostra del cinema di Venezia per presentare un docufilm sulla vita carceraria: sono la spia di un cambiamento percepito innanzitutto dai detenuti che hanno accolto con un’ovazione il discorso di Consolo al congresso. "Perché è cambiato il rapporto che le autorità penitenziarie avevano con il mondo esterno - spiega Consolo, con il movimento dei Radicali che ha sempre avuto grande attenzione per la tutela dei diritti dei detenuti e con tutte quelle autorità preposte al controllo. Non c’è più una contrapposizione, ma un dialogo collaborativo. Si cerca di attuare l’idea di un carcere aperto, non soltanto aprendo materialmente le stanze dei detenuti che per diverse ore al giorno possono stare fuori dalle celle, nella aree trattamentali, nelle aule dei corsi professionali, per lavorare e fare sport. Ma soprattutto il carcere si apre all’esterno verso la società civile. Al congresso dei Radicali - prosegue - ho parlato di diritto alla conoscenza". Il capo del Dap accenna un sorriso di soddisfazione quando ricorda l’accoglienza calorosa ricevuta a Rebibbia, perché il "diritto alla conoscenza" è stato ed è uno dei temi centrali del suo impegno iniziato nel 2014: "Il carcere deve essere una struttura di cristallo. Abbiamo affinato tutti gli strumenti per fare vedere come facciamo. Tutto è controllabile dai magistrati di sorveglianza, dai garanti, dagli onorevoli, dai movimenti. Se, come è fisiologico in un struttura complessa, ci sono correttivi da adottare o richieste che possono essere accolte, non ci tiriamo indietro. Le faccio un esempio che per chi è libero è una cosa di poco conto, ma per i detenuti è importantissimo. Nelle aree passeggio ci sono dei rubinetti. I Radicali mi hanno lanciato la proposta di dare la possibilità ai detenuti, durante l’estate, di farsi una doccia e con il lavoro dei detenuti sono arrivati i doccioni". Il nodo sta tutto nel rapporto con la società civile, che su un tema come il "benessere" del detenuto mostra, nella migliore delle ipotesi, indifferenza e, nella peggiore, intolleranza. Di certo il rapporto è conflittuale. Consolo prova a spiegare che un carcere davvero rieducativo conviene a tutti, ai cattivi e pure ai buoni: "La nostra civiltà giuridica ci porta a dire che privare la persona della libertà deve essere assolutamente necessario. Se abbiamo la possibilità di tutelare la sicurezza in altro modo dobbiamo praticare le misure alternative. Il detenuto non deve trascorrere un periodo di sofferenza afflittiva che lo peggiora individualmente perché quando tornerà libero se ha subito un danno dal carcere quel danno si riverserà sulla collettività. Finiamo per contribuire all’insicurezza e alla pericolosità". Sono circa quarantamila le persone che godono delle misure alternative (arresti domiciliari, semilibertà, affidamento in prova) a fronte di 54 mila detenuti. A sentire Consolo si può sperare che diventino uomini e donne migliori. Bella sfida, ma come ci si riesce? "La detenzione deve essere un periodo utile. Che significa? Faccio partecipare il detenuto straniero a un corso di alfabetizzazione per apprendere la lingua italiana. Agevola la comprensione e previene la radicalizzazione. C’è un detenuto che ha delle abilità? Lo utilizzo nel lavoro detentivo. Piastrellista, idraulico ecc., in tanti si possono occupare della manutenzione ordinaria. Abbiamo già concluso 270 progetti per rifare le docce nelle celle, organizzare aree verdi, ludoteche, palestre. Le strutture carcerarie sono un patrimonio edilizio di mezzo milione di metri quadrati che senza la manutenzione ordinaria degrada. E poi ci vogliono i grandi appalti che costano molto di più allo stato italiano". Costano e finiscono per alimentare i comitati di affari. "Con il lavoro remunerato il detenuto si sente utile", aggiunge Consolo. "Se non ha abilità, una volta libero l’unico sbocco sarà tornare a delinquere. Anche perché se imparano un mestiere e producono ricchezza siamo facilitati a consegnare i detenuti stranieri affinché scontino la pena nel paese di origine che avrà un motivo in più per accoglierli. Nelle carceri italiane - spiega - ci sono diciottomila stranieri, di cui dodicimila provengono da aree di religione islamica. Tra questi, ottomila sono praticanti". Degli accordi bilaterali sono stati siglati con Romania e Albania, ma vanno avviati con i paesi del Maghreb da dove proviene l’ondata di immigrati che giungono sulle coste italiane. Un’ondata che alimenta i malumori di chi si sente assediato dallo straniero e con essi lo spettro del terrorismo. Al momento, così dicono le procure siciliane, che i terroristi arrivino sui barconi della disperazione appare improbabile, ma non si può escludere. "Oggi - racconta Consolo - l’amministrazione è impegnata nella prevenzione con il proprio nucleo investigativo, l’ufficio ispettivo, nei circa 200 istituti presenti nel paese. Un’emergenza che ha reso necessario l’impiego di circa mille unità. Abbiamo una serie di persone segnalate e monitorate e passiamo periodicamente gli esiti al Comitato analisi strategica antiterrorismo. Stiamo dando un contributo enorme". Ecco perché, viste "le carenze notevoli di organico sia io che il ministro della Giustizia abbiamo chiesto un’anticipazione di assunzione di unità di polizia penitenziaria facendo scorrere le graduatorie dei concorsi precedenti, così come è stato concesso a tutte le altre forze di polizia". In carcere la convivenza fra etnie diverse appare più facile che fuori. C’è più ordine e guai se fosse il contrario: "Se non vi sono controindicazioni è bene che le persone della stessa etnia restino assieme. Bisogna stare attenti, però, a con creare rivalità. Ad esempio, bisogna offrire opportunità a tutti per evitare la concorrenza interna". Lavoro per 54 mila detenuti. Non è impresa da poco. Il capo del Dap snocciola nuovi esempi: "Stiamo ragionando sull’autoproduzione del vitto. Possiamo produrre uova, carne, cibo sano e biologico facendo lavorare i detenuti, anziché rivolgerci a ditte esterne. Attualmente a Pescara i detenuti realizzano le scarpe per il nostro personale. Ma si può fare di più. Parte delle divise della polizia può essere realizzata con il lavoro dei detenuti. Ieri sono stato alla Giudecca (il carcere femminile di Venezia, ndr): tutte le donne se vogliono possono lavorare. Nell’area verde producono ortaggi, erbe utilizzate per la cosmesi, borse vendute all’esterno. C’è una sartoria di alta moda e una lavanderia per gli alberghi e le attività di ristorazione". Cinquantamila persone sono un potenziale di lavoro enorme, "molto più della vecchia Fiat", dice Consolo. Il riferimento alla casa automobilistica non è casuale: "Ci sono autofficine a Sant’Angelo dei Lombardi e Bollate, ma le stiamo aprendo anche a Catania e Roma. Abbattendo i costi possiamo fare la manutenzione a tutti i nostri automezzi. Abbiamo acquisito mezzi confiscati alla criminalità organizzata e li abbiamo riconvertiti in auto di polizia penitenziaria". E non serve, sostiene Consolo, cercare chissà quali risorse in un paese che stringe la cinghia ogni giorni di più. "Perché - ed è il motto del capo del Dap - le grandi riforme non necessitano di grandi risorse. Pensi alla traduzione dei detenuti per i processi. I biglietti costano tantissimo e poi ci sono i disagi per i passeggeri. L’anno scorso abbiamo fatto un accordo: la Finanza deve fare un certo numero di voli di addestramento e questi voli vengono utilizzati per la traduzione dei detenuti. Si guadagna in sicurezza e c’è un risparmio di personale. Se dovessimo avere bisogno di ulteriori voli potremmo compensare la Finanza con i nostri servizi, ad esempio riparando le loro auto. Altro accordo è quello sottoscritto con Poste italiane che ci dà tutti i computer dismessi che i detenuti possono usare per esigenze di studio o avviamento professionale, sempre con le restrizioni necessarie". Fin qui il ragionamento è lineare. Si può condividere o meno, ma l’obiettivo è chiaro a tutti: sfruttare la parentesi carceraria per cercare di preparare il detenuto al reinserimento nella società. La faccenda si complica quando ci si trova di fronte a un ergastolano. Il "fine pena mai" spazza via il concetto stesso di parentesi detentiva. Si tocca un nervo scoperto nel pensiero di Consolo che si accende pur nella pacatezza che contraddistingue il suo ragionamento: "Questo è il motivo per cui mi sono ripetutamente pronunciato per l’abolizione del carcere ostativo. Secondo il nostro sistema, dopo un range che va dai 21 ai 25 anni di detenzione, la persona può aspirare a beneficiare della liberazione condizionale. All’inizio degli anni Novanta per ragioni generali preventive è stato previsto l’ergastolo ostativo per cui o mi offri una collaborazione utile o diversamente qualsiasi tua manifestazione di dissociazione non consente l’accesso ai benefici". Solo che, aggiunge, "a volte questa collaborazione è impossibile o inesigibile perché i fatti per i quali il detenuto è stato condannato risalgono a 25-30 anni prima, le collaborazioni di altri detenuti sono state esaurienti, quella specifica organizzazione criminale è stata sgominata. Anche per i detenuti all’ergastolo ostativo dobbiamo creare un programma trattamentale. Dopo 20 o 30 anni, se si valuterà con rigore che non ci sono rischi per la società, è bene che quella persona ritorni nel consorzio civile. Dobbiamo creare una speranza di vita futura". Non è un caso che il docufilm di Ambrogio Crespi presentato a Venezia, al quale Consolo ha partecipato da intervistato, sia intitolato "Spes contra spem". La "speranza contro la speranza" significa credere con fede in un futuro migliore anche quando la realtà che si vive fa pensare che ciò sia impossibile. "La condizione del condannato al carcere ostativo è disumana - aggiunge Consolo - perché solo un santo può pensare di coltivare la speranza contro e oltre ogni disperazione". Il capo del Dap sa bene comunque che bisogna fare i conti con il dolore di chi è stato vittima, diretta o indiretta, di un reato grave. Pur nella complessità suggerisce una via: "Le persone libere sono tali in quanto devono essere libere dalle paure che spesso si creano ad arte per ragioni altre". Consolo torna a palare di terrorismo: "Io non faccio politica, però noi abbiamo in Italia la più bella tradizione culturale, civile e giuridica al mondo, e la dobbiamo mantenere. Perché la paura che si crea nella società è cattiva consigliera. Le vicende recenti della Francia ci devono fare riflettere. A quanti dicono che il rischio terroristico sia un fatto nuovo suggerisco di andare a vedere il meraviglioso film "La battaglia di Algeri". Quanta attualità c’è in quel film, riflettendo sulla vicenda di Algeria forse potremmo trovare una via equilibrata per superare l’attuale momento senza derive". "La battaglia di Algeri" è un film di Gillo Pontecorvo del 1966. Racconta, con la scelta del taglio documentaristico, lo scontro durissimo tra l’esercito francese e gli algerini che lottavano per l’indipendenza. Attuale è anche l’argomento del 41 bis. Il dibattito si è fatto aspro in occasione della morte di Bernardo Provenzano, rimasto al carcere duro fino alla fine dei suoi giorni, anche dopo che i medici lo avevano definito clinicamente incapace di comunicare con l’esterno. Il 41 bis non nasce con intenzioni punitive, ma serve a spezzare la catena di comunicazione. Eppure, ogniqualvolta si parla di modificarlo esplode la polemiche. È accaduto a inizio estate con la relazione della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. L’Europa ha più volte richiamato l’Italia sulla sua applicazione. "Abbiamo avuto di recente una visita del Comitato per la prevenzione dei trattamenti inumani e degradanti", racconta Consolo. "È evidente che sulle osservazioni noi dobbiamo dare delle risposte soddisfacenti. Io ritengo che il 41 bis sia un istituto che ha dato i suoi frutti e che vada mantenuto. L’ulteriore restrizione prevista dal regime deve essere giustificata non da esigenze punitive, ma di sicurezza. Tutte le prescrizioni che servono per impedire la catena di comunicazione è giusto che che si mantengano, quelle che possono risultare meramente afflittive non hanno ragione di essere". E nel caso di Provenzano? "La mia competenza è fornire gli elementi di conoscenza e non esprimere valutazioni. Le posso dire che attualmente i sottoposti al 41bis sono 740. Un numero, secondo me, eccessivo, che comporta per l’amministrazione penitenziaria oneri organizzativi e di impegno di personale notevolissimo. Negli anni Novanta il numero era dimezzato rispetto all’attuale. È uno strumento in cui credo e che va usato nei casi in cui sia effettivamente necessario". Faccenda complicata trovare il punto di equilibrio fra i diritti dei detenuti e ciò che emerge delle inchieste. Le intercettazioni svelano, infatti, che quella di finire al 41 bis è la grande paura dei nuovi boss. I vecchi capimafia sono sepolti da decenni al carcere duro, che in passato non sempre è stato tale. I figli nati in provetta ai fratelli Graviano, sanguinari boss di Brancaccio, sono stati l’esempio più eclatante. È vero, però, che i tempi sono cambiati. L’assenza di segnali in direzione contraria conferma che la stagione delle connivenze è finita. "È evidente che facciamo di tutto per prevenire ogni contatto con l’esterno - conclude Consolo - ma è altrettanto evidente che il numero dei sottoposti al 41 bis è elevatissimo e ci sono carenze strutturali". Malati in carcere, solo la metà sa di esserlo di Stefano Liburdi Il Tempo, 17 settembre 2016 Infezioni e disturbi psichici nei penitenziari. Duecento specialisti a confronto. La metà dei detenuti che ha contratto infezioni tipo Hiv, Epatite B o C, sono ignari della propria malattia, ne consegue che la trasmissione di queste infezioni risulta essere sei volte più frequente rispetto a chi ne è consapevole. Ne parlano duecento specialisti riuniti a Roma presso l’Istituto Superiore di Sanità, per confrontarsi sul tema delle malattie nelle carceri. Tre giorni di incontri, oggi la chiusura, per la XVII edizione del Congresso nazionale Simspe - Onlus "Agorà Penitenziaria". I partecipanti all’evento provengono da ogni parte dell’Italia e rispecchiano diverse figure sanitarie che operano all’interno dei penitenziari. Lo scopo del Congresso è quello di fornire spunti per una riflessione approfondita del fare salute in carcere agli stessi operatori sanitari, a chi amministra gli Istituti e a chi ha il compito di stabilire le regole e distribuire le risorse. Nei 195 istituti penitenziari italiani nel solo 2015, sono passati quasi centomila detenuti, per l’esattezza 99.446. Degli studi hanno calcolato che circa 5.000 di questi siano sieropositivi, circa 6.500 portatori attivi del virus dell’Epatite B e circa 25.000 positivi per il virus dell’Epatite C. "All’interno delle carceri emerge forte l’esigenza di un corretto approccio e trattamento delle malattie infettive, con l’utilizzo di referenti e specialisti sul territorio nazionale - dice Antonio Chirianni, presidente Simit, Società italiana malattie infettive e tropicali. È necessario monitorare un problema che ha risvolti sociali e economici assai rilevanti". Sergio Babudieri, associato di malattie infettive dell’Università degli Studi di Sassari, punta il dito sul sovraffollamento della carceri come una concausa della trasmissione di malattie: "Un numero elevato di presenze in un ambiente a volte ristretto, favorisce la trasmissione di queste infezioni in un’ampia quota di detenuti. La promiscuità anche sessuale presente in alcune situazioni, insieme alla pratica diffusa dei tatuaggi e agli episodi di conflittualità, fanno ritenere che il rischio in questo ambito possa essere elevato, ma difficilmente quantizzabile dal punto di vista scientifico". A volte la detenzione risulta utile per curare e prevenire: "Il periodo detentivo - prosegue Babudieri - è un’occasione per fare salute, per informare ogni singolo sul proprio stato e per avviarlo a comportamenti che riducano le possibilità di trasmissione delle infezioni al momento del ritorno in libertà". Forte attenzione anche nei confronti delle malattie mentali all’interno delle carceri. "I disturbi psichici - spiega Luciano Lucania, Presidente Simspe-Onlus - sono una delle malattie più diffuse tra i detenuti: un problema da risolvere il prima possibile nella speranza che non comporti disturbi ben peggiori". "Occorre avviare una riflessione su un nuovo modo di vivere il carcere dopo la riforma, - chiude Lucania - questo è un argomento su cui si discute tanto, ma rimane ancora qualcosa da definire, da approfondire e da comprendere appieno". Le Rems e quel rischio che diventino mini Opg di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2016 Un emendamento al Ddl prevedrebbe il trasferimento di molti detenuti nelle nuove strutture. Restano aperti ancora due ospedali psichiatrici (Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto) con 37 persone internate e per chiuderli definitivamente serve il completamento delle Rems in Sicilia e in Toscana. Ma tante sono ancora le criticità. A confermarlo è stato il commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone, durante un’audizione in Commissione Sanità del Senato nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla Sostenibilità del Servizio sanitario nazionale. Negli ultimi mesi, ha aggiunto, "sono stati chiusi gli Opg di Secondigliano, Reggio Emilia, Aversa e la casa di cura di Sollicciano a Firenze. Cinque residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) verranno portate a termine nei prossimi mesi in Piemonte, Liguria, Toscana, Calabria e Sicilia. Una volte aperte, verranno chiusi i due rimanenti Opg e terminato il piano". Il commissario si è poi soffermato su alcune criticità tuttora riscontrabili nel processo di attuazione della nuova normativa. Il numero di persone sottoposte a nuova misura di sicurezza a titolo provvisorio e inviate all’interno delle Rems è ancora troppo elevato. "Ciò - ha spiegato - sta determinando dei problemi di saturazione delle strutture e di gestione delle liste d’attesa che vengono così a formarsi, sulla scorta di criteri e di competenze non sufficientemente chiari". Altra grave criticità è la norma del ddl penale che è all’esame in aula. Tale norma, se venisse approvata, prevede di destinare alle Rems sia le persone a cui è stata accertata l’infermità "al momento della commissione del fatto", sia coloro a cui l’infermità è stata rilevata in un secondo momento (durante l’espiazione della pena) e a cui "le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati" non sono in grado di garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi necessari. Per il commissario Corleone la norma sarebbe un errore e cancellerebbe di fatto la riforma perché "se destiniamo le persone in carcere alle Rems, cambieremmo la natura delle strutture". Altro problema riscontrato è il mancato principio del rispetto della territorialità. "Risulta non venire osservato per 51 pazienti su un totale di 541 persone complessivamente ospitate all’interno delle Rems - ha evidenziato Corleone ? e il rispetto del principio di territorialità è particolarmente arduo per le donne, in quanto in molte Rems non vi è ad oggi la possibilità di ospitare queste ultime". In relazione alle persone senza fissa dimora, "occorre affrontare le problematiche legate all’individuazione della residenza, ai fini dell’assistenza di welfare di base: per la maggior parte delle persone senza fissa dimora si ricorre a una residenza fittizia fornita dai comuni ove esse risiedevano in precedenza; per le persone entrate irregolarmente all’interno del Paese, e che non hanno mai registrato una residenza, si ricorre al principio secondo il quale esse sono considerate residenti nel luogo di commissione del reato", ha osservato sempre il commissario. Poi c’è il problema della differenza delle Rems a seconda della regione in cui si trovino. Sempre Corleone ha spiegato in Senato che "risultano differenziazioni notevoli da regione a regione: si passa da realtà come il Friuli Venezia Giulia, dove sono stati realizzati pochi posti letto per le Rems all’interno dei dipartimenti di salute mentale (Dsm), a realtà in cui si è preferito predisporre un numero assai maggiore di posti, come ad esempio Castiglione delle Stiviere in Lombardia". La battaglia per il superamento degli Opg quindi non è finita, soprattutto alla luce del nuovo emendamento presentato dal governo e di cui è relatore il senatore nonché ex magistrato Felice Casson. Non solo si è dimostrato critico il commissario Corleone, ma tutto il mondo dell’associazionismo sensibile a queste tematiche. Le Rems sono state istituite per accogliere i pochi detenuti psichiatrici per i quali le misure di sicurezza alternative alla detenzione si ritiene non possano essere assolutamente praticabili. Se passasse l’emendamento, le Rems sarebbero inondate di detenuti con sopravvenuta infermità mentale, e sarebbe reso vano l’intento della legge sulla chiusura degli Opg che intendeva far prevalere, per la cura e la riabilitazione di queste persone, progetti individuali con misure non detentive. Perché questa norma? L’intento è nobile. Lo scopo sarebbe quello di poter garantire le cure troppo spesso ostacolate o negate dalle drammatiche condizioni delle carceri. Ma secondo il comitato stop Opg, fermo oppositore all’emendamento, per risolvere tale problema occorre che si rafforzino e si qualifichino programmi di tutela della salute mentale in carcere e che "il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria istituisca senza colpevoli ritardi le sezioni di Osservazione Psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche". L’allarme che lanciano gli oppositori a questa norma, è quello del rischio concreto che le Rems si trasformino in mini Opg. Tremila in carcere per violenze sessuali e abusi sui minori di Francesca Sironi L’Espresso, 17 settembre 2016 Nei primi sei mesi del 2016 sono stati oltre 600 gli stupratori e i pedofili arrestati e portati in cella, 3.400 il loro numero totale. Ma secondo alcuni ricercatori il problema è la durata troppo breve del periodo detentivo. Ecco tutti i numeri regione per regione. Ogni giorno, in Italia, più di tre autori di violenze sessuali o abusi su minori vengono portati in carcere. Nel primo semestre del 2016, nel dettaglio, la media è stata di 3,8 stupratori arrestati e portati in cella. Ogni giorno. In questo momento, gli autori di violenze sessuali su donne e minori detenuti sono 3.444, su 54mila reclusi. La maggior parte di loro sconta una pena definitiva. Mentre in 369 sono in attesa di giudizio. Nel 2009 gli autori di abusi erano leggermente di più: 4.061, di cui oltre 700 in attesa di giudizio. Il doppio rispetto ad oggi. E l’alta percentuale dei nuovi ingressi rispetto al totale dei "sex-offender" in carcere conferma un dato: la carcerazione per questi reati, mediamente, è breve. Anche per quelli più gravi. Come la pedofilia. In una ricerca pubblicata recentemente su "Diritto penale contemporaneo", Francesco Macrì ha analizzato 110 sentenze della Corte di Cassazione riguardanti gli autori di violenza sessuale su donne e minori. Concludendo che emergono "rilevanti criticità" nella "discrezionalità giudiziaria in materia di commisurazione della pena". L’autore parla infatti di "ampie discrepanze rilevate, soprattutto in casi di pedofilia (abusi su minori), tra condotte di gravità del tutto simile". Non è il solo tema evidenziato. La pena media per chi abusa sessualmente di bambini con meno di 10 anni è risultata essere infatti di 6 anni e tre mesi. Una condanna, sostiene Macrì, "sicuramente insufficiente: dallo studio di tali sentenze emerge difatti che gran parte di tali abusi sono di natura penetrativa, e perpetrati spesso per anni; in aggiunta la metà circa dei colpevoli sono familiari della vittima, e nel 30 per cento dei casi il colpevole è il padre stesso". Alla luce di questi elementi ritiene "che un livello sanzionatorio medio congruo dovrebbe attestarti sugli 8/9 anni di reclusione, e su durate leggermente inferiori per gli abusi ai danni di quattordicenni", quando invece s’abbassa mediamente a tre anni e 11 mesi. Per le violenze sessuali sulle donne le sentenze stanno sui 4 anni e 8 mesi di carcere in appello: mediamente un anno in meno rispetto a quanto stabilito in primo grado. E tutto questo riguarda le sentenze. Ma come dimostrano altri studi, e casi recenti come quello di Melito con gli abusi coperti dal silenzio, spesso il passo più difficile è prima. E riguarda il coraggio di denunciare. Di superare la vergogna. E di restare saldi quando inizieranno le indagini. In una pagina dedicata ai consigli essenziali per le vittime di stupro, Lisa Canitano spiega: "Quello che fa nelle prime ore è determinante in sede giudiziaria; è necessario che si rechi in ospedale il prima possibile; non deve lavarsi o cambiarsi d’abito, ma recarsi nella struttura ospedaliera esattamente nelle condizioni in cui sta. Se la violenza è avvenuta per via vaginale, i segni dopo 24 ore scompaiono a meno che la vittima non sia una bambina o una donna in stato di avanzata menopausa". L’ispezione, raccomanda quindi l’associazione Vita di Donna: "Deve essere effettuata su tutto il corpo. Lividi, graffi, escoriazioni devono essere descritti accuratamente, per quello che riguarda la grandezza e la posizione. Alcuni lividi possono evidenziarsi meglio nelle ore successive, in questo caso è necessario tornare e far redigere un nuovo referto". Sono elementi fondamentali. Perché le prove reggano l’urto del lungo percorso del processo. E per avere giustizia. Al Senato slitta la riforma del processo penale, avanza il voto di fiducia Il Mattino, 17 settembre 2016 Nell’Aula del Senato, che ha appena approvato il ddl sull’editoria, manca per tre volte di seguito il numero legale e l’esame della riforma del processo penale slitta a martedì prossimo. Era già stata inserita nel calendario dei lavori la discussione di interpellanze e interrogazioni e per cambiare l’odg, consentendo che proseguisse con l’esame del ddl, sarebbe stata necessaria una conferenza dei capigruppo. Così il testo slitta alla settimana prossima e si dovrà riprendere con la votazione della pregiudiziale di costituzionalità presentata al testo da Forza Italia. Che ieri non si è riusciti a votare per l’assenza dei senatori, molti dei quali di Ap-Ncd. Tra cui il presidente della commissione Giustizia, Nico D’Ascola. "Semplice sciatteria o messaggio politico", è stato il commento di alcuni democratici. Il governo comunque avrà più giorni di tempo per decidere sul da farsi: se chiedere il voto di fiducia sulla riforma, che contiene anche le norme su prescrizione e intercettazioni, oppure affrontare l’esame del ddl per quello che é, con i suoi quasi 400 emendamenti. In quest’ultimo caso però, si spiega in ambienti parlamentari di Palazzo Madama, si potrebbe correre il rischio di un ulteriore rinvio. Il successivo provvedimento all’ordine del giorno è la riforma del cinema che il ministro Dario Franceschini vorrebbe vedere approvata in tempi rapidi, prima della legge di stabilità. E in caso di esame "troppo lungo" del ddl penale c’è anche la possibilità che si arrivi ad un’inversione dell’ordine del giorno per fare prima la riforma del cinema e poi quella penale. Eventualità questa che Orlando (che secondo alcuni Dem ben informati "starebbe ancora tentando di digerire" di essere stato "bypassato" sulle pensioni dei magistrati) starebbe cercando di scongiurare. Non scartando l’ipotesi della fiducia. Il Consiglio dei ministri potrebbe autorizzare la richiesta di tale voto pur non essendoci certezza che verrà usata o meno. Orlando guarderebbe con favore alla fiducia anche per evitare le "decine di voti segreti" previsti nell’esame dei circa 400 emendamenti presentati. Mentre Renzi e il ministro Maria Elena Boschi nutrirebbero perplessità. Le proposte di modifica presentate nei giorni scorsi dal relatore Felice Casson sia per interrompere definitivamente i tempi di prescrizione con la sentenza di primo grado, sia per tutelare le vittime dell’amianto e dei grandi disastri ambientali mietono sempre più consensi trasversali. Ma quella di ricorrere alla fiducia potrebbe non essere l’unica novità per i prossimi giorni: il governo starebbe mettendo a punto altri due emendamenti su temi diversi da prescrizione e intercettazioni, uno dei quali potrebbe riguardare i processi contro la criminalità organizzata. Che poi si dovrebbe avere il tempo però di subemendare. Ma anche su questo, si precisa nella maggioranza, "non è stata presa alcuna decisione definitiva. Se ne sta parlando". Il gruppo dei verdiniani di Ala, con Ciro Falanga, intanto avverte: "Noi la fiducia sulla riforma del processo penale non la votiamo". "Ma tanto loro - ribattono senatori del Pd - avrebbero comunque votato contro il ddl così come in commissione". La prescrizione è in difficoltà. Casson vuole prolungarla, mentre l’Ncd non ci sta proprio di Cesare Maffi Italia Oggi, 17 settembre 2016 Il provvedimento che allunga i procedimenti dopo il primo grado si è impantanato al Senato. In calendario per questa settimana al Senato, l’approvazione della legge con le modifiche al codice penale è slittata. Il rinvio è stato determinato dalla triplice, consecutiva mancanza del numero legale. La presidente di turno, Linda Lanzillotta (ex montiana, ora nel Pd), ha tentato di evitare la conta, ma ha subìto corali proteste ed è stata poi punzecchiata (non per la prima volta) dal leghista Roberto Calderoli, anche lui vicepresidente e pronto a dimostrare le topiche della collega quando siede sul più alto scranno a palazzo Madama. Il tema bollente è rappresentato dalla prescrizione. Quando il progetto di legge uscì dalla Camera, il Ncd rilevò che la tendenza a processi di durata esorbitante non era accettabile: ottenne garanzie di riscrittura al Senato. Con estrema fatica, è stato raggiunto un compromesso (che mantiene sempre termini processuali lunghi) tramite complicate mediazioni fra il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e il presidente della commissione senatoriale, Nico D’Ascola, alfaniano. A intralciare il percorso è però il magistrato senatore Felice Casson, correlatore del provvedimento, il quale con un paio di emendamenti intende prolungare la durata della prescrizione, segnatamente dopo la condanna in primo grado. Dietro di lui c’è il sindacato delle toghe, posto che molti magistrati sarebbero in cuor loro favorevoli a sopprimere in radice l’istituto della prescrizione. Ci sono i giustizialisti del Pd, i quali temono la concorrenza dei pentastellati, notoriamente voce di risonanza per le procure italiche e votati al forcaiolismo puro e semplice. Ci sono senatori delle minoranze democratiche (lo stesso Casson ne fa parte), cui l’occasione torna a fagiolo per infastidire la propria segreteria. Dunque, domina incertezza sull’esito di questi e altri emendamenti (ne sono depositate alcune centinaia), specie per il voto segreto, sempre imprevedibile. Il timore è che l’approvazione delle proposte Casson determini l’astensione del Ncd sul voto finale: a parte la considerazione che a palazzo Madama gli astenuti si assommano ai contrari e quindi chi si astiene vota, di fatto, contro, ci sarebbe ovviamente una frattura politica che a Matteo Renzi non andrebbe a genio. Si ventila come soluzione possibile, che in questi giorni circola fra palazzo Madama, palazzo Chigi e via Arenula, sede del ministero, la posizione della fiducia. Il provvedimento, d’altronde, giace da un anno al Senato, e Orlando gradirebbe portarlo una buona volta a compimento. Sisto, deputato Fi: "prescrizione, con la riforma si rafforza solo la gogna mediatica" di Errico Novi Il Dubbio, 17 settembre 2016 Troppo lungo il processo penale, ma troppo lunga anche la discussione attorno alla legge con cui si vorrebbe riformarlo. "Tanto che poi il senso degli interventi legislativi si smarrisce. E non ci si rende conto che il ddl all’esame del Senato è sbilanciato a garantire i diritti dei pm anziché quelli dei cittadini". È l’osservazione preoccupata di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia che ha partecipato alla travagliata odissea della riforma del processo in qualità di presidente della commissione Affari costituzionali. E che guarda con sempre maggiore perplessità al ddl anche come avvocato penalista. "Conosco bene ad esempio la profonda cultura garantista di Nico D’Ascola, presidente della commissione Giustizia del Senato che ho visto però adattarsi a mediazioni troppo dolorose rispetto alla tenuta delle tutele costituzionali". Quindi le norme sulla prescrizione sono a suo giudizio già inaccettabili così, anche se non passasse l’emendamento Casson. Assolutamente sì. Si registra un allungamento dei tempi del processo che risponde solo a una logica: ampliare ulteriormente la già insostenibile durata delle indagini. Perché si allungherebbe la fase preliminare? Il motivo è semplicissimo: i dati di cui disponiamo dicono con chiarezza che il 70 per cento delle prescrizioni interviene nella fase delle indagini. Allungare i termini di estinzione dei reati non assicura affatto di arrivare alle sentenze definitive, ma semplicemente di avere, ancor più di quanto non avvenga ora, indagini senza fine, proroghe senza motivazioni e soprattutto esposizione dell’indagato alla gogna. Più che le sentenze, insomma, avremmo un allungamento dei processi mediatici. Esatto, un’esposizione più lunga. Finché il giudice non risponde alle pretese del pm tu rimani sotto la gogna. C’è un combinato disposto: la presunzione di non colpevolezza che si è cominciato a limare con la legge Severino, la gogna mediatica a cui ormai gli indagati devono sistematicamente soggiacere e ora l’allungamento irrazionale del processo. Significa prendere l’indagato, renderlo colpevole e colpevolizzato e trascinarlo in uno sfinimento penale che alla fine rende inutile l’assoluzione. Si controbatte: troppi giudizi non arrivano a sentenza. Di sicuro allontanare il momento in cui il reato si estingue è una soluzione tutt’altro che efficientista. È come prolungare la degenza di un malato senza curarlo. Si dice che la civiltà di un Paese si misuri sulla qualità del processo penale. Ecco, con o anche senza l’emendamento Casson questa qualità finirà per ridursi. Qual era la strada da seguire in Parlamento? Trattare separatamente misure così delicate come quelle sulla durata dei processi e sulle intercettazioni. Invece le si è ridotte quasi al rango di un emendamenti o poco più. In ogni caso così com’è la riforma manca di un respiro sistemico, è un corredo di interventi a macchia di leopardo che impediscono l’imporsi di una visione unitaria. Le regole della prescrizione andavano lasciate com’erano? Sarebbe stato giusto intervenire in modo specifico sui reati che più facilmente vanno incontro all’estinzione, in particolare le contravvenzioni. Ma non con l’alterazione di principi base come propone sempre Casson, con l’altro suo emendamento sui reati ambientali. Non la convince la prescrizione calcolata dalla notizia di reato? Assolutamente no: significa rimettere al pm la scelta del momento da cui la prescrizione decorre. Così si tolgono i contrappesi dal processo penale esattamente come sono stati tolti dall’architettura costituzionale con la riforma Boschi. Il Pd pare orientato invece a dire sì sul regime ad hoc per i reati ambientali. E non è detto che l’altro emendamento Casson sia respinto. Se passa davvero una norma che interrompe la prescrizione alla sentenza di primo grado per tutti i processi, vuol dire che si cancella del tutto l’articolo 111 della Costituzione. Evidentemente c’è chi è convinto che la ragionevole durata, e la Carta stessa, rappresentino mere opinioni. Come ti nascondo i flop di Mafia Capitale di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 settembre 2016 Il gran Cantone ignorato dai giornaloni. Archiviazione per Alemanno. Un articolo a pagina dodici dell’Avvenire e nulla di più. Poi molte citazioni sulle spese eccessive della Metro C (Corriere della Sera, cronaca di Roma). Molte aperture dei giornali sulle sue parole sui contratti della Rai (apertura del Fatto quotidiano, articolo del Corriere a pagina 13, un taglio basso del giornale a pagina 7). E nulla, silenzio, imbarazzo, sulle parole di Raffaele Cantone su Mafia Capitale. Parole che avete letto ieri sulla prima pagina di questo giornale: "Posso escludere ad oggi di avere mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis, cioè associazione di stampo mafioso". Dopo aver alimentato la bolla di Mafia Capitale si capisce che i nuovi professionisti dell’antimafia preferiscano parlare di altro ed evitare di affrontare quella che giorno dopo giorno sembra essere la verità dei fatti: aver scelto di mettere la parola "mafia" accanto alla parola "capitale" è una trovata che ha portato molta visibilità ai magistrati della procura di Roma, e molto fango sulla capitale d’Italia, ma è una scelta che alla prova dei fatti si sta sciogliendo come neve al sole. A Ostia, quella che doveva essere la Corleone di Roma, la mafia, ha detto la Corte d’appello, non esiste. Mister anti corruzione ha detto che la mafia a Roma non l’ha vista. Il capo di gabinetto del presidente della regione Lazio, che doveva essere il simbolo dell’allargamento dell’inchiesta, è stato assolto con formula piena. E ieri, come se non bastasse, il più importante politico indagato per mafia nell’inchiesta della procura di Roma, l’ex sindaco Gianni Alemanno (l’altro indagato è Luca Gramazio, ex consigliere comunale), ha ascoltato con le sue orecchie la richiesta del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo: l’archiviazione dell’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso contestata a Gianni Alemanno. E anche oggi, ci scommettiamo, troverete al massimo un boxino a pagina 25. "Spese pazze" nelle Marche, ingiustizia fatta. Magistrati impuniti e giornali muti di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 settembre 2016 Inchiesta finita in un nulla di fatto. L’inchiesta sulle "spese pazze" nelle Marche, iniziata nell’ottobre del 2012 col solito clangore di fanfare e conseguenti clamorosi effetti politici, è arrivata ora alla prima sentenza di merito, e il risultato è che dei 66 consiglieri e assessori regionali accusati dalla procura di Ancona, solo 6 sono stati rinviati a giudizio, mentre gli altri sono stati prosciolti o assolti con rito abbreviato. Anche l’ammontare delle presunte "spese pazze", quantificato in un milione e 200 mila euro, si è ridotto agli spiccioli. Appare evidente che l’inchiesta avviata dalla procura di Ancona è stata condotta in modo approssimativo, con un’intenzione propagandistica, pur in assenza di elementi di prova consistenti. Naturalmente nessuno pagherà per i danni inflitti alle persone e all’istituzione regionale. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati garantisce l’impunità e lo spirito corporativo la rafforza. D’altra parte la pratica dell’incriminazione collettiva di un intero Consiglio regionale, dal punto di vista dell’espansione indebita del potere giudiziario, risulta comunque profittevole. La stampa, che strilla in titoloni di prima pagina le incriminazioni di massa, poi dedica, anni dopo, poche righe a proscioglimenti e ad assoluzioni che non "fanno notizia". La certezza dell’impunità consente a procure politicizzate o in cerca di visibilità di sparare nel mucchio. In questo modo si dà una visione plastica della "superiorità" della magistratura sulle istituzioni elettive, che quindi vengono oggettivamente intimidite. Il fatto che, alla fine, il castello delle accuse si riveli un castello di carte, non conta. L’effetto mediatico e quello politico sono stati raggiunti subito, la mannaia del cortocircuito politico- giudiziario è calata. Se poi queste condanne preventive non trovano riscontro nelle aule di giustizia, pazienza. Ormai ingiustizia è fatta. Addio a Ciampi, il presidente europeista che restituì l’orgoglio al Paese Il Tempo, 17 settembre 2016 Capo dello Stato, banchiere e super-ministro: traghettò l’Italia nell’euro. È morto Carlo Azeglio Ciampi il presidente della Repubblica più amato dagli italiani dopo Sandro Pertini. L’uomo venuto dalla Banca d’Italia che cercò di riconsegnare agli italiani il sentimento patriottico nazionale. Carlo Azeglio Ciampi è scomparso dopo una lunga malattia. Europeista convinto, Ciampi è considerato come figura fondamentale per l’adozione dell’euro e come uno dei ministri più popolari del governo perché godette anche dell’appoggio del mondo economico e finanziario oltre che della stima dei dirigenti dell’Unione europea. Governatore della Banca d’Italia, ministro del Tesoro del governo D’Alema e Prodi, Ciampi ebbe un gradimento popolare che oscillò tra il 70 e l’80%, dimostrando di essere una delle figure nelle quali gli italiani riponevano la loro fiducia e che rafforzava, con la sua figura istituzionale, lo stesso ruolo del Presidente della Repubblica. Come Pertini, anche Ciampi assistette a una finale calcistica dell’Italia; infatti il 2 luglio 2000 come capo dello Stato era presente allo Stadio De Kuip di Rotterdam nella finale di Euro 2000 persa dagli azzurri ai supplementari per 2-1 contro la Francia. Tra le frasi più celebri quella pronunciata il 4 novembre 2005, anniversario della vittoria, giorno dell’Unità nazionale e festa delle Forze Armate: "L’Unità d’Italia, l’indipendenza e la libertà sono conquiste straordinarie che vanno difese ogni giorno". Un conquista straordinaria aveva sottolineato che vanno difese "come capacità di cooperare per il bene comune, come desiderio di provare, anche individualmente, la gioia di fare qualcosa per il bene dell’Italia, per il suo prestigio nel mondo, per il benessere della nostra comunità". La forza dei valori di Ciampi e l’orgoglio di servire il suo Paese di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 17 settembre 2016 L’ex governatore della Banca d’Italia aveva una scrupolosità calvinista nell’adempiere ai suoi doveri di uomo delle istituzioni. "È la migliore intervista che ho fatto". "Quale presidente? Non l’ho letta". "E forse non la leggerà mai". Aveva l’aria quasi divertita Ciampi nel suo ufficio di senatore a vita, pochi mesi dopo aver lasciato il Quirinale. Quella mattina era soddisfatto di aver portato a termine un compito gravoso: rilasciare all’archivio di Stato un resoconto dettagliato, con tutti i documenti e gli appunti personali, dei suoi sette anni al Colle. L’etica repubblicana dell’ex governatore della Banca d’Italia (dal 1979 al 1993), diventato politico per necessità (del Paese, non sua), presidente della Repubblica dal 1999 al 2006, imponeva l’assolvimento scrupoloso di ogni incombenza, anche la più piccola. Con meticolosità calvinista, acribia maniacale. La sindrome della scrivania vuota la sera, pulita, senza cose da evadere. In banca, una volta, si faceva così. In estrema sintesi: senso del dovere e grande rispetto delle istituzioni. Istituzioni che Ciampi ha servito, sentendosene onorato, e mai occupato con sufficienza o persino con disprezzo come gli capitò di notare negli anni in cui dovette contenere il berlusconismo più rampante e anche un certo pressappochismo della sinistra di governo. Una disciplina quasi militare la sua, esercitata alla scuola della Banca d’Italia. Palazzo Koch era (ed è) una roccaforte del rigore quasi estranea al costume italiano, un’eccellenza nazionale che suscita più invidia e sospetti che ammirazione e gratitudine. Aveva un metodo di lavoro prussiano. "Mi concentro su una cosa alla volta, con calma. La Banca d’Italia è stata per lui la seconda famiglia, il luogo da amare, la stanza del potere discreto che si esercita con la moral suasion, dove il tratto fermo e gentile è l’arma di governo più efficace. Una prassi che non conosce le durezze espressive del comando. Non c’è bisogno di gridare per farsi obbedire, né di battere i pugni sul tavolo. L’autorevolezza conta più delle amicizie influenti; le prove di serietà sono il migliore biglietto da visita. Non che Ciampi non avesse le sue durezze. Ricordo una sua telefonata particolarmente piccata quando il Corriere scrisse che non sarebbe succeduto come capo del governo a Prodi nel ‘98. Ci sperava e pare avesse già scritto il suo discorso. In uno dei tanti colloqui che avemmo, mi raccontò che negli anni più difficili per l’economia italiana, nei momenti più bui delle responsabilità a Palazzo Chigi e in via XX Settembre, la sede del ministero dell’Economia, teneva in tasca un biglietto con il grafico della differenza dei tassi italiani rispetto a quelli tedeschi. Quel divario in termini di costo del denaro sarebbe diventato sinistramente famoso con la parola spread. Prima della moneta unica aveva raggiunto anche i seicento punti base, un disastro per il servizio del debito italiano. Ciampi misurava i successi del governo con la riduzione di quel divario. Teneva costantemente sotto osservazione il grafico come fosse una pagella inappellabile. E non perché fosse ossessionato dal giudizio dei mercati e dal loro potere. Ma perché einaudianamente, da buon padre di famiglia, in questo caso molto allargata, faceva di conto. Oggi lo si fa assai meno. Ed era consapevole che senza una buona reputazione, senza dimostrare serietà di comportamento non si sarebbe andati da nessuna parte. L’Italia si sarebbe piegata sotto il peso dei propri difetti oltre che per il fardello del debito. Il suo governo uscì dalle secche pericolose della speculazione, consolidò il risanamento avviato da Amato dopo la crisi valutaria del ‘92 che coincise anche con l’attacco della mafia allo Stato. Una tempesta valutaria che si scatenò quando, da governatore della Banca d’Italia, ricevette la telefonata più drammatica della sua vita. La Bundesbank lo avvertiva che non avrebbe più sostenuto il cambio della lira, difesa già costata un’emorragia di riserve. Negli anni in cui fu, nei governi Prodi e D’Alema, alla guida dell’economia vinse il sospetto degli alleati, in particolare i tedeschi, suscitò l’ammirazione di "falchi" come il ministro delle Finanze di Berlino Theo Waigel e, persino, del suo terribile collega olandese Gerrit Zalm. Il suo credito personale è stato tra i fattori di successo della rincorsa italiana per entrare nella moneta unica. E non dimenticheremo mai la sua espressione soddisfatta ed emozionata quando mostrò, fresco di conio, il primo euro uscito dalla Zecca. Era la vittoria di un ideale, nato tra le macerie della guerra e della Resistenza, combattute con onore, e coltivato nel sogno di Ventotene, nelle suggestioni azioniste e nell’entusiasmo repubblicano. L’euro come moneta di pace. Immaginiamo la sofferenza intima che un grande europeista come lui deve avere provato nell’assistere al lento e inesorabile indebolimento dell’Unione europea, prigioniera degli egoismi nazionali. E il dispiacere nel vedere che i fantasmi del passato e i veleni del totalitarismo combattuti dalla sua generazione ricomparivano un po’ ovunque, specie in quell’Est che deve all’Unione europea libertà e benessere. Un italiano per bene, orgoglioso di aver servito il suo Paese, è stato - e lo sarà ancora nel posto che la Storia gli riserverà - il simbolo della serietà e della competenza. Merce rara, diciamolo. Il suo settennato ha avuto come obiettivo, quasi una missione, quello di rianimare il concetto di patria, di restituire agli italiani l’orgoglio dell’appartenenza, la gioia di cantare l’inno. Compito non facile in un Paese in cui durante la guerra fredda c’era chi di patrie ne aveva due e il tricolore era appannaggio politico solo della destra. Ricordo che in un pranzo al Quirinale, appena insediato nel ‘99, mi disse che avrebbe voluto visitare tutte le province italiane. Impegno che rispettò quasi fosse un fioretto laico. In quell’occasione il suo consigliere Arrigo Levi fece firmare a tutti i presenti il menù e promise che li avrebbe raccolti per i successivi sette anni. "Si rispettano tutti gli impegni, anche i più piccoli". Sorridemmo. La tenacia di Levi venne premiata, come quella del presidente. Tra le sue eredità, l’organizzazione delle celebrazioni nel 2011 del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’occasione per celebrare il ritorno del senso di patria che per lui non era morto l’8 settembre del 1943. Un testimone raccolto, splendidamente, dal suo successore Napolitano. Quel marzo del 2011 rimane nella memoria collettiva degli italiani, al pari di Torino 1961, un momento significativo della costruzione identitaria nazionale. L’economista Ciampi, che era laureato in lettere, il banchiere centrale più mitteleuropeo che romano, ha sempre avuto per la politica un grande rispetto, pur tenendosi a distanza. Ne temeva le insidie anche se ne sentiva il fascino che a volte per un tecnico può essere irresistibile. Non coltivò però il sogno di improbabili discese in campo, quando dovette preparare con il suo governo le elezioni che nel ‘94 videro il primo trionfo di Berlusconi. Rinunciò al comizio finale che per le regole delle tribune politiche spetta al presidente del Consiglio in carica. Si ritirò in buon ordine in un piccolo ufficio messogli a disposizione dalla Banca d’Italia. Non sperava di tornare al governo e nemmeno di andare al Quirinale. Il Corriere, in un editoriale a firma di chi scrive, lo propose nella primavera del ‘99 come il candidato più autorevole. Ciampi chiamò la mattina seguente. "Grazie direttore, ma non so se mi ha fatto un favore". Poche settimane dopo l’accordo sul suo nome fu trovato con un consenso ampio. E la nomina avvenne al primo scrutinio. In un clima di concordia nazionale del quale oggi abbiamo profonda nostalgia. Stalking per chi minaccia di morte un conoscente di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2016 Minacciare di morte e molestare un conoscente e i suoi familiari implica una condanna per stalking. Lo ha ribadito la Cassazione, confermando una sentenza già emessa dalla Corte di appello di Lecce. Nella sentenza 38233 depositata il 14 settembre, i giudici ricordano la finalità dell’articolo 612- bis del Codice penale, che è quella di colmare un vuoto di tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, seppur non violente, recano turbamento nella vittima. La violenza - ricorda la Cassazione - è spesso l’esito di una pregressa condotta persecutoria che, pertanto, va condannata. Nel caso in questione la vittima del reato è un uomo pugliese più volte minacciato e molestato - insieme con la sua famiglia - dall’imputato. Recandosi regolarmente nella tabaccheria della vittima per regolare un conflitto economico, quest’ultimo, armato, aveva rivolto loro più volte minacce di morte e ingiurie. Nella sentenza si legge anche di appostamenti notturni sotto la casa della famiglia, che avevano provocato un perdurante stato di ansia nelle vittime. L’atteggiamento persecutorio - stigmatizzano i giudici - assume specifica offensività autonoma; la sua reiterazione, inoltre, provoca nella vittima un progressivo accumulo di disagio, degenerante in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’articolo 612-bis del Codice penale, che disciplina lo stalking. Anche il concetto di "cambiamento delle abitudini di vita" cui sono sottoposte le potenziali vittime, ricordano i giudici, va inteso in senso lato ed emotivo, non sempre, necessariamente, va inteso in chiave quantitativa. Per i giudici, dunque, non ci sono dubbi anche in merito alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato, che rientra nella fattispecie del dolo generico: ovvero nella consapevolezza che gli atti persecutori messi in atto determineranno una serie di stati d’animo previsti dalla norma incriminatrice. Nessuna chance per il ricorrente, dunque, che nel ricorso oltretutto denuncia vizi motivazionali legati alla attendibilità dei testimoni (le vittime). Ricordano infatti i giudici di Cassazione che le dichiarazioni della persona offesa sono sottoposte a "verifica anche più penetrante" rispetto a quella di qualsiasi altro testimone. Toscana: i casi Pianosa e Gorgona di Fabrizio Ciuffini (Segretario Generale Fns-Cisl) tenews.it, 17 settembre 2016 Vi riportiamo qui di seguito la lettera che il Segretario Fns-Cisl Fabrizio Ciuffini ha scritto al Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, con una denuncia circostanziata che riguarda anche le isole di Pianosa e Gorgona. Ecco di seguito la lettera. Egregio Provveditore, da troppo tempo ormai il Personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio nei molti Reparti della nostra regione, assiste a situazioni che hanno assunto toni insostenibili, che determinano stress continuo e minano alla necessaria integrita psico-fisica che dovrebbe invece essere loro salvaguardata dalla stessa Amministrazione Penitenziaria. Le carenze delle dotazioni organiche sono ormai epocali ed il ridotto turn-over con Personale più giovane, rispetto a quello con più anni sia di servizio che di anzianità anagrafica, diventa sempre più una chimera, viste le insufficienti nuove assunzioni che il Ministero della Giustizia ormai assicura. Nel tempo, al fine di far sembrare tutto normale, al fine di comunicare pubblicamente che la situazione di emergenza penitenziaria è rientrata, i vertici nazionali hanno adottato scelte che fanno sembrare tutto nella norma ma che invece, nella normalità non è. Nel tempo sono stati coniati termini come la "capienza regolamentare" e/o la "capienza tollerabile", per non definire sovraffollati di detenuti gli Istituti e stabilendo così i posti disponibili nel numero pari alle presenze o poco più. Sul versante del Personale inoltre, con la linea tracciata dall’attuale Ministro Madia, assisteremo anche nella Polizia Penitenziaria alla rideterminazione degli Organici di Personale del Corpo, senza più dover colmare il deficit che vedeva in Toscana mancare circa 500 unità di Colleghi, ma stabilendo che la dotazione prevista si trasforma nel calcolare il Personale presente in servizio ed aggiungendo a questi una previsione del 10%. In tal modo il Governo, senza affrontare le necessità ed i problemi, determinerà l’abbattimento di metà della carenza di Personale fino ad oggi realizzata, riducendo inoltre lo stanziamento per il lavoro straordinario che viene obbligatoriamente richiesto ai Colleghi, visto che tale stanziamento non sarà più calibrato riguardo alle 500 unità che mancano agli Organici ma per le 250 previste con la nuova formulazione. Insomma come dice un proverbio toscano… "becchi e bastonati". E poi ci sono le scelte gestionali, sempre più incomprensibili e che ricadono sempre sul Personale, perché la disorganizzazione e l’esigenza di spostare Personale in mobilità determina stress. Persone che oltre ai problemi del difficile lavoro, ai rischi del loro servizio, non riescono a gestire con normalità la loro vita Familiare e Personale. C’è chi, come nel caso del Personale del più grande carcere toscano, la casa circondariale di Sollicciano, devono sperare fino a sera di riuscire a sapere con certezza che turno di lavoro e quali orari devono svolgere domani, così come chi opera nel settore Specialistico dei Nuclei Traduzioni dei Detenuti si trova ad uscire con mezzi spesso inadeguati e senza avere certezza dell’orario nel quale potrà smontare dal turno e tornare a casa, magari lavorando l’intera giornata e saltando pasti e regolari pause tra un turno e l’altro. E poi ci sono le stravaganti scelte dell’Amministrazione Penitenziaria, che sta chiudendo il carcere di Empoli per sopperire alle negligenze della Regione Toscana, che non ha realizzato l’alternativa all’Opg di Montelupo Fiorentino, Opg che chiuderete immediatamente dopo che avrete trasferiti gli ultimi Internati nella nuova Rems di Empoli. Peccato che tutto questo avvenga senza che si conosca l’esistenza di un Decreto Ministeriale di Chiusura delle Strutture e non avendo accettato di gestire in via preventiva le ipotesi di eventuale nuova assegnazione di Sede di quel Personale che ha Famiglie sul territorio, Figli che hanno già iniziato l’anno scolastico in quelle scuole del territorio, che hanno mutui ipotecari in corso per le case che hanno acquistato negli anni visto che l’Amministrazione non li trasferiva per carenza di Personale ! Nel frattempo ad Arezzo il carcere (oggetto di ristrutturazioni da tempo) ancora non riapre al 100%, quello di Pistoia è sostanzialmente chiuso anch’esso per lavori, in quelli di Lucca e di Pisa invece i lavori li assicurano a "singhiozzo" avendo le celle stracolme, così come Livorno. Però l’Amministrazione riesce ad ipotizzare aumenti d’organico a Massa (per assicurare, unico carcere in regione, la turnazione su 4 quadranti orari giornalieri) e ha un "Presidio Fantasma" sull’Isola di Pianosa dove il Carcere è chiuso da oltre 20 anni ma ci sono una trentina di detenuti con un ridottissimo gruppo di Polizia Penitenziaria. Paradosso vuole che il Ministero assicura la presenza di un "reparto Navale" all’isola d’Elba per assicurare i collegamenti con il "carcere isola che non c’è", mentre non stanzia soldi e Personale necessario per il carcere di Gorgona che invece è "l’Isola che c’è", anzi è l’unica Isola carcere d’Italia rimasta. Tutto questo stato di cose sta portando un numero elevato di Colleghi ad una condizione di stress insopportabile e questa condizione stride con quello che invece l’Amministrazione - a partire dal Ministro Orlando con i Vertici del Dap - dichiarano circa il loro massimo impegno per garantire politiche gestionali mirate al benessere del Personale. Per quanto detto fino a qui e riservandosi di intervenire volta per volta, su casi specifici, siamo a chiedere alla S.V. di voler porre in essere tutte le iniziative necessarie ed utili per riportare la gestione del Personale di Polizia Penitenziaria della Toscana in ambiti accettabili, lontani dalla condizione vissuta oggi. In attesa di un Suo cortese riscontro si porgono cordiali saluti. Pesaro: Eneas, suicida dopo 5 mesi in cella. Per il Gip il caso non va archiviato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2016 Accolta l’opposizione dell’avvocato Fabio Anselmo alla richiesta del pm di chiudere il caso. Il gip di Pesaro ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero in merito all’indagine per "istigazione al suicidio" sulla morte in carcere del 29enne Anas Zamzami. Ad annunciare la notizia è l’avvocato difensore Fabio Anselmo. "Si tratta di una morte annunciata di uno dei tanti detenuti delle nostre carceri", spiega l’avvocato. Infatti molti sono i decessi che non a caso vengono definiti "morti di Stato". Si entra vivi nella sua istituzione (carcere) e se ne esce morti: quando lo Stato priva la libertà dell’uomo, per qualsivoglia motivo, è obbligato a farsi garante della sua incolumità, fisica e psichica. Se questa garanzia viene meno, lo Stato che non sa tutelare l’uomo com’è suo diritto esigere e suo dovere fare, è colpevole. E questo vale anche per Anas Zamzami, da tutti conosciuto come Eneas, detenuto per il reato di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, reati commessi nel 2011, e in relazione ai quali è stato condannato a dodici mesi di reclusione. Una condanna da scontare in carcere nonostante che la legge del 2010, "Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi", preveda appunto la detenzione domiciliare. Per lui non vale: è in cella da cinque mesi. Sette mesi ancora da passare. Ma Anas non ce la fa e secondo la versione ufficiale, la notte tra il 24 e il 25 settembre del 2015 si toglie la vita. Come mai? L’avvocato Fabio Anselmo spiega perché si tratta di una morte annunciata. Anas entra in carcere il 15 aprile 2015 e presto le sue condizioni peggiorano rendendo necessari numerosi e continui ricoveri in ospedale. Finalmente il 31 agosto viene trasferito al centro di osservazione psichiatrica di Ascoli su provvedimento urgente del giudice di sorveglianza del 4 agosto. Infatti lo stesso centro clinico del carcere di Pesaro riconosce "il venir meno della compatibilità con questa casa circondariale". Inspiegabilmente il centro di osservazione psichiatrica di Ascoli, dopo nemmeno un mese rispedisce indietro al carcere di Pesaro Anas. Sarebbe guarito. Ma Anas non vuole tornare a Pesaro, in un ambiente peraltro riconosciuto incompatibile con le sue condizioni di salute mentale. Le lettere di Anas con le quali disperatamente chiede invano di non tornarci fanno venire i brividi. Il 25 settembre il "pacco-detenuto" Anas Zenzami - così lo definisce l’avvocato Anselmo che rende l’idea di come vengono trattati i detenuti - viene riconsegnato alla casa circondariale di Pesaro. Il 25 settembre Anas Zenzami, cittadino del Marocco, viene trovato morto impiccato nella sua cella. Ora grazie all’opposizione, l’indagine continua per altri sei mesi. Il giudice Giacomo Gasparini invita il pm a proseguire le indagini e valutare se ci sia stata effettivamente l’incompatibilità con la permanenza in carcere e, in caso positivo, quali misure non sono state intraprese per scongiurare il suicidio. Napoli: a Poggioreale prezzi raddoppiati, il cibo diventa un lusso per i detenuti di Giancarlo Palombi Metropolis, 17 settembre 2016 Dalla pasta al tonno passando per dentifricio e sapone: costi maggiorati in cella, così si specula sulle necessità. "I detenuti non hanno problemi, che ne sanno delle bollette, delle scadenze? Hanno vitto e alloggio pagati dallo Stato". Si potrebbe sintetizzare in questo modo il pensiero dell’italiano medio, di chi al sicuro in casa propria ignora l’inferno delle carceri. Ma la realtà vissuta dai reclusi riesce a superare l’immaginazione. Quella che viene fuori da Poggioreale, la più grande casa circondariale del Mezzogiorno, non è la solita storia di sovraffollamento. È un racconto del quotidiano, cronaca di una "normale" giornata dietro le sbarre. La spesa - Se è vero che i detenuti hanno diritto ai servizi forniti dalle mense dell’amministrazione penitenziaria, è altrettanto vero che molti preferiscono provvedere da soli ad almeno un pasto giornaliero. Per farlo devono recarsi nello spaccio interno all’istituto di pena dove avviene la vendita di ciò che è definito "sopravvitto". Si tratta di articoli, generi alimentari e per l’igiene personale, che non possono essere introdotti con le visite settimanali di familiari. I colloqui, quattro in un mese, danno la possibilità ai parenti del detenuto di consegnare un "pacco" del peso massimo di 5 chili. All’interno possono esserci tovaglie, biancheria e salumi già affettati e riposti in confezioni di carta. Tutto il resto non è concesso. È qui che monta il business. Farina, pasta, pane, latte, uova, verdura, detersivo, sapone, shampoo e bagnoschiuma. E ancora scopino per il water, mollette per il bucato, sacchetti per la spazzatura, caramelle, stuzzicadenti, dentifricio, deodorante, rasoi usa e getta, spazzolini per denti, frutta e verdura: tutto ciò può, anzi deve, essere acquistato nel market interno. Utilizzando una copia del listino prezzi dello spaccio di Poggioreale è possibile simulare l’acquisto di prodotti per una semplice (e modesta) cena e confrontare i prezzi con un supermercato di media fascia. La cena di lusso - Si inizia con l’acquisto della bombola di gas da 190 grammi dotata di un fornelletto con bruciatore. È questa la "cucina" del detenuto. A Poggioreale il "Provvidus" (questo il nome dell’articolo) viene pagato 2,05 €, all’esterno 1,15€. Poi si passa alla pasta; il menù della serata-tipo prevede penne in bianco con tonno. Un pacco da mezzo chilo costa nello spaccio del carcere 0,66 €, venti centesimi in più rispetto a un discount. Il tonno, nella confezione da 80 grammi, viene venduto a 0,90 € (+12 centesimi). Si passa a pentole e padelle. Entrambe si acquistano con la modica cifra di 15 euro e 98 centesimi (+6 €). Ma per consumare la cena è necessario avere piatti e posate. Una confezione da 100 di "fondi" costa 3, 35 € (a fronte di 1,50€ in un supermercato all’esterno), i cucchiai in plastica "appena" 75 centesimi. Ora la pasta al tonno può essere servita, accompagnata da una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo (60 centesimi). Lo scontrino, ma sarebbe più opportuno parlare di "conto", finale della cena in cella segna il totale di 24,29 €. Il borsino - Il carcere, si sa, è fatto di regole. Una di queste prevede un massimo di disponibilità economica per il detenuto. La cifra che ogni recluso può avere con sé è di 150 euro mensili. "Naturalmente questo discorso vale per chi i soldi ce li ha". A parlare è Pietro Ioia, un uomo divenuto il simbolo della lotta per i diritti dei detenuti. Un quarto della sua vita l’ha trascorsa dietro le sbarre, il resto la passa denunciando soprusi e angherie, uno su tutti lo scandalo della famigerata "Cella Zero". "È sconvolgente quello che avviene a Poggioreale per quanto riguarda il sopravvitto - spiega Ioia - i prezzi nello spaccio interno in alcuni casi superano le tariffe dei supermercati "esterni" e tutto ciò in pieno conflitto con il calmiere previsto per gli appalti con enti dello Stato". Sì, perché il market interno alla casa circondariale è gestito da una ditta ("Saranno più di 20 anni che l’appalto viene vinto da loro", commenta Ioia) a seguito di una regolare gara d’appalto. Il confronto, però, con i prezzi imposti da altri esercizi commerciali rivela delle anomalie. La "cena del detenuto" a base di pasta e tonno lontano dalle sbarre sarebbe costata 10,59 €. Meno della metà. D’altra parte è bastato visitare un supermercato (nello specifico uno dei centri della catena "Sole") per rendersi conto dei prezzi fuori piazza degli articoli messi in vendita nella casa circondariale napoletana. "Molti detenuti, una volta usciti da Poggioreale, hanno lamentato anche la scarsa qualità dei prodotti. Il tutto in barba alle direttive del Dap che prevedono verifiche sui generi in vendita. Ho inoltrato queste lamentele al direttore del carcere" conclude Pietro Ioia. "A che bell’ò cafè, pure in carcere ‘o sanno fa" cantava De Andrè nel 1990 con la sua "Don Raffaé". Tempi lontani. Il caffè, oggi, costa quasi due euro a tazzina, "E non è nem- meno buono". Nuoro: Cireddu (Uil) "nella Casa di reclusione di Isili situazione drammatica" cagliaripad.it, 17 settembre 2016 "Le scarse risorse di Polizia Penitenziaria faticano a garantire le attività Istituzionali, considerati anche diversi fattori logistici che non aiutano, come la lontananza tra le varie diramazioni". Casa reclusione di Isili, la Uil visita l’Istituto, emergenza in tutte le Aree, no al piano del Governo per inviare detenuti della penisola anziché selezionare quelli presenti in Sardegna. "La situazione è drammatica riferisce Cireddu, in una colonia agricola dove favorire le condizioni lavorative dovrebbe essere la vera mission, l’Amministrazione ha creato delle situazioni insostenibili, inviando tipologie detentive che impegnano le poche unità di Polizia Penitenziaria a contrastare gli eventi critici, (ben 63 dall’inizio del 2016), abbiamo volutamente escluso dal numero, gli eventi critici che si sono verificati durante la visita odierna, un enormità se consideriamo che nelle colonie i detenuti dovrebbero essere idonei per essere impegnati nelle attività lavorative. Le scarse risorse di Polizia Penitenziaria faticano a garantire le attività Istituzionali, considerati anche diversi fattori logistici che non aiutano, come la lontananza tra le varie diramazioni quindi tra i posti di servizio da presidiare che non consentono di accorpare i posti di servizio. Tutto questo ovviamente determina un pericolo costante per la sicurezza dei lavoratori ed impone spesso l’impiego del personale per 12 ore continuative per sopperire all’emergenza. Non va meglio al Ntp locale, sono state infatti movimentati 821 detenuti in 586 traduzioni e 181 piantonamenti in luogo esterno di cura impiegando 2463 unità di Polizia Penitenziaria che hanno dovuto utilizzare mezzi obsoleti per percorrere 354804 km. Il personale deve ancora fruire di 3350 giorni di congedo ordinario arretrato e deve ancora vedersi retribuire centinaia di ore di lavoro straordinario. È trapelato da fonti ufficiose che il Governo ha deciso di inviare centinaia di detenuti dalla penisola nelle 3 colonie, anziché selezionare quelli presenti nel distretto sardo e diminuire i carichi di lavoro delle circondariali, attenuare gli eventi critici, con la previsione di un proporzionale aumento dell’organico di Polizia Penitenziaria nelle colonie. Chiediamo alla politica Sarda di "battere un colpo" affinché entrino nel merito di una riorganizzazione del sistema penitenziario sardo per contribuire a migliorare le condizioni lavorative del personale di Polizia Penitenziaria sardo impegnato a garantire la legalità in luoghi di lavoro al limite della sopportazione umana. La Uil invierà una relazione dettagliata al Provveditore ed al Capo del Dipartimento con gli esiti della visita odierna. Roma: da "Fine pena" a "Gatta buia", a Regina Coeli nasce la birra made in carcere di Alessandra Paolini La Repubblica, 17 settembre 2016 "Er fine pena" è profumata e beverina, mentre "Fà er Bravo" è equilibrata e di carattere; scura e a bassa fermentazione invece "‘A gatta buia". Sono le birre solidali e da tenere rigorosamente al "fresco". E scusate l’ironia, se è vero che i mastri birrai di questa bella storia sono proprio i detenuti del carcere di Rebibbia che, nel trovare il nome giusto ai diversi tipi di bottiglia, si sono sbizzarriti dando sfogo a tutto lo slang romanesco che si condivide in quel piccolo mondo di dolore dietro le sbarre. Così ecco la birra che fa sognare, "Sentite libero", scura e invernale dal sentore di cicoria. E sì che la cicoria c’è davvero: raccolta dalla condotta Slow Food "Raffaele Marchetti". Chi ama i sapori speziati non deve perdersi "A piede libero", con arance amare e cannella. La più alcolica e pericolosa è sempre lei, "Amarafemmina", 6 gradi e mezzo, e come direbbero i detenuti bisogna "stà in campana". Ma loro lo sanno bene. La Onlus "Semi di libertà" che porta avanti il progetto insegnando ai carcerati il mestiere, oltre a organizzare i corsi da birraio fa seguire lezioni sulla legalità e sul consumo alcolico. E allora, Prosit! Chi vorrà provare le birre dell’inclusione, le troverà da oggi al 2 ottobre all’Oktoberfest di Raimbow Magicland. Il ricavato delle vendite servirà a incentivare il programma. Il nome della prossima birra? Chissà, "Ha da passà a nuttata". Milano: Grazia, che con lo yoga insegna ai detenuti di San Vittore a ridere di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 17 settembre 2016 Istruttrice e consulente psicologica porta in carcere la disciplina indiana. Le sedute a San Vittore: "Ci fa sentire in simbiosi con l’esterno per un’ora non si parla di reati". "Molto bene! Molto bene! Yehh yehh!". È l’urlo che si libera nella stanza dei detenuti protetti, quelli condannati per crimini sessuali. Sesto reparto, secondo piano. Un urlo corale, forte. Grazia Fortuzzi è trascinante, tutta energia bolognese, sa che ha un’ora e mezzo alla settimana per cercare di alleviare la rabbia, il dolore, la noia, le fissazioni, le frustrazioni, il peso della reclusione. Ed è convinta che con lo yoga della risata è più facile, perché ridere è un esercizio benefico, sia esso spontaneo o forzato, il corpo ne gode comunque. Il motto di Grazia è quello di Dostoevskij: se volete conoscere un uomo, non considerate il suo silenzio, il suo pianto, le sue idee, guardate come ride. Professione counselor a indirizzo gestaltico cioè sostegno, aiuto sociale e psicologico, un diploma a Milano, esperienze con gruppi vari nel Milanese. Poi, 4 anni fa, la proposta a San Vittore: perché non provare con i detenuti? E la risata arriva in carcere. Un ossimoro. Il flusso continuo - Si può ridere in carcere? Si può, forse si deve. E si può piangere, ovvio: "Nel rilassamento - dice Grazia - molti piangono tenendosi per mano, è un pianto sano, un lasciar andare le emozioni in uno spazio sacro, un senso di fiducia e affidamento". Prima che tutto cominci, ci si abbraccia come vecchi amici. Un paio di cinquantenni che vanno verso i 60, una barba bianca, due transgender prosperose e allegre, un’altra più in disparte, una ragazza gentile dalla voce roca, diversi giovani uomini in pantaloncini e scarpe da tennis: siamo nell’ex infermeria dal soffitto alto, una lavagna, un computer, qualche lampada al neon, tre vecchi armadi alle pareti e un finestrone che guarda sul cortile interno. La prima impressione è che il carcere è come te lo immagini, rumori di chiavi, porte di ferro che sbattono, lunghi corridoi e quasi nient’altro. "C’è sempre un flusso nuovo, in una casa circondariale - dice l’educatrice Michelangela Barba - un turnover che non favorisce la socialità… Si ricomincia sempre daccapo". "Iniziamo?". In semicerchio, qualcuno tossicchia, qualcuno ridacchia. "La risata combatte l’ansia e ci avvicina - dice Grazia -, ridere senza motivo sembra una follia ma fa bene, ci rende leggeri e favorisce la compassione degli altri, respiriamo profondamente, facciamo lavorare il diaframma". C’è un profumo di sapone e di corpi lavati. "Gonfio la pancia e respiro a bocca aperta, saltello, immagino di essere una bustina del tè, espiro piegandomi e salgo alzando le braccia". Ora anche le due trans hanno smesso di borbottare, il silenzio è raggiunto, rimane in disparte un omone rigido, severo, forse sospettoso. "Chiudo gli occhi e immagino di essere sulla spiaggia che mi piace di più". Una voce: "Adesso ci mandano tutti al Conp". Risatine. Il Conp è il reparto neuropsichiatrico. "Le mani attorno all’ombelico, guardiamoci negli occhi per contagiarci oh-oh-ah-ah-ahahahah…". È partita la risata: "Lasciamo che vada da sola, ahahahahah…". Il bello è che si ride davvero, mentre il cerchio si apre e si chiude, finché Grazia chiede di rompere la linea e di stringersi la mano, in ordine sparso, ridendo ridendo ridendo. Abbracci e strette di mani - Chissà in quali altre occasioni accade che una dozzina di condannati per reati sessuali ridono insieme, si abbracciano, si stringono le mani. Grazia ne è fiera, e anche stanca. "Siamo vivi e siccome siamo vivi possiamo cambiare". La più giovane e allegra, nell’entusiasmo, è uscita dal gruppo per abbracciarmi. Non so chi sia e preferirei non saperlo. Saliamo da una scaletta per raggiungere un altro gruppo di detenuti che si avvicina vociando e ciabattando. Arrivano spezzoni di storie, frammenti di malcontento, ma anche frasi di fiducia. A. parla a ruota libera: "Grazia non conta sul numero ma sulla concentrazione, lo yoga della risata nasce fuori e portarlo qui ci fa sentire in simbiosi con l’esterno, ci toglie per un’ora le discussioni su avvocati e reato". Definisce se stesso e i compagni dei grandi bambini che aspirano alla libertà: "Basta ottenere fiducia: in carcere ci sono i duri e quelli che fanno yoga della risata, cioè i rimbambiti come noi". Ride ancora prima che inizi la seduta. Intanto, tutti gli iscritti sono qui, in questa stanzetta senza aria: "Guardi, facendo yoga della risata mi sento di aver conquistato un gradino in più, perché unisce e fa bene: lo vede?, gli italiani siamo solo due, e dopo un minuto senti le vibrazioni nelle gambe". Magri, grossi, giovani, anziani… Tutti diversi: provenienza Siria, Marocco, Perù, Singapore, Torino… Non puoi non pensare alle storie che ci sono dietro questo coro di voci che adesso mima l’onda del mare. Il ragazzone italo-turco sembra il più dolce di tutti, chissà che crimine avrà compiuto, ha scritto una poesia in rima, "Lo yoga della felicità", dove allude agli "angeli volontari" come Grazia. Grazia la legge, si commuove, deve smettere. "Molto bene! Molto bene! Yehh!". Roma: il Vicesindaco Frongia "10 detenuti-volontari a gala Trinità dei Monti" Askanews, 17 settembre 2016 Mercoledì 21 settembre alla serata di inaugurazione della Scalinata di Trinità dei Monti, oltre a 30 cittadini romani parteciperanno anche 10 detenuti della casa di reclusione e della casa circondariale femminile di Rebibbia che si sono impegnati in attività di lavoro volontario a titolo gratuito per la città e i cittadini di Roma. Lo annuncia il vicesindaco di Roma Daniele Frongia. "Insieme a Cinzia Calandrino, provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio ho iniziato ad avviare una serie di progetti a sostegno dei detenuti delle carceri per il loro progressivo reinserimento nella società e per la loro partecipazione alle attività di recupero della città - ha spiegato Frongia - In questa occasione anche la collaborazione e l’accoglienza della Maison Bulgari sono state fondamentali per il raggiungimento di questo primo passo". Alba (Cn): "ValeLaPena", programma di iniziative legate alla riabilitazione dei detenuti targatocn.it, 17 settembre 2016 Si parte domenica 2 ottobre, per proseguire fino a martedì 29 novembre. Un intenso programma di iniziative su carcere e dintorni: dalle esperienze di lavoro negli istituti penali italiani, alle memorie di chi ha donato la propria vita per il riscatto dei giovani reclusi, alle riflessioni sull’efficacia delle pene alternative, al teatro come visto non solo come espressione artistica ma anche come mezzo di riabilitazione. Sono questi i temi della manifestazione "ValeLaPena?" ad Alba in ottobre e novembre. L’evento è promosso dall’Associazione di volontariato penitenziario "Arcobaleno" con il patrocinio del Comune di Alba, in collaborazione con il Garante comunale delle Persone sottoposte a misure restrittive della Libertà Personale di Alba, il Consorzio di Cooperative Sociali CIS, l’associazione Mercato della Terra di Alba "Italo Seletto", il Garante Regionale delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, la Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba, l’Ente Fiera internazionale del Tartufo bianco d’Alba e la Caritas Diocesana di Alba. Il progetto è realizzato con il sostegno del Centro Servizi Volontariato Società Solidale di Cuneo. Domenica 2 ottobre, dalle 9 alle 19. Mercato della Terra, piazza Pertinace. Produzioni ristrette Esperienze e percorsi di lavoro negli istituti penali italiani Esposizione delle produzioni sviluppate all’interno delle carceri del Piemonte e di altre regioni dell’Italia settentrionale frutto del lavoro di detenuti o ex-detenuti in percorsi di recupero e reinserimento sociale. Sono state invitate le realtà sviluppate nei carceri di Asti, Busto Arsizio, Cuneo, Fossano, Genova, Padova, Saluzzo, Torino "Le Vallette", Torino "Ferrante Aporti" e Verbania. Ovviamente sarà presente il vino "Vale la Pena", fiore all’occhiello delle produzione nei tenimenti agricoli della Casa di Reclusione albese. Venerdì 21 ottobre, ore 21. Parrocchia di Cristo Re, piazza Cristo Re 4. Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al "Ferrante Aporti" Presentazione del libro-intervista che raccoglie le memorie di don Domenico Ricca cappellano del carcere minorile di Torino. Dialogherà con l’autore monsignor Marco Brunetti, Vescovo di Alba. Parteciperanno: don Luigi Alessandria, Cappellano del Carcere di Alba, don Gino Chiesa, Direttore Ufficio Missionario, don Claudio Carena, Parroco di Cristo Re. Introduce e modera Domenico Albesano, presidente Associazione Arcobaleno. Giovedì 10 novembre, ore 21. Salone Casa Opere Diocesane, via Mandelli, 9. Recidiva Zero Riflessioni sull’Art. 27 della Costituzione. Proiezione del documentario Carlo Turco e Bruno Vallepiano. L’opera approfondisce l’efficacia delle pene alternative, le aspettative di vita su cui può contare un ex detenuto restituito alla società, la praticabilità della messa alla prova e dei lavori di pubblica utilità. Partecipano, oltre agli autori, Bruno Mellano, Garante Regionale delle persone private della libertà, Alessandro Prandi, Garante comunale delle persone private della libertà, Domenico Albesano, presidente Associazione Arcobaleno. Nell’intero mese di novembre saranno organizzate delle proiezioni per i ragazzi delle scuole superiori della città. Martedì 29 novembre, ore 21. Sala Ordet, piazza Cristo Re 4. Amunì Spettacolo teatrale gratuito Tredici detenuti del carcere di Saluzzo, diretti da Grazia Isoardi e con le coreografie di Marco Mucaria, hanno portato in scena una storia di figli che attendono il ritorno del padre e nell’attesa, attraverso i ricordi, ritornano a loro volta bambini per poi prendere consapevolezza della propria paternità. È passato il tempo del padre-padrone e del padre-eroe, ora viviamo la necessità di avere padri testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la speranza nell’avvenire, il senso dell’orizzonte. "Fortemente voluto dalla nostra Amministrazione - ricorda il Sindaco di Alba Maurizio Marello - il mercatino "ValeLaPena" è un appuntamento cult della nostra prima domenica di Fiera fin dalla prima edizione, il 2 ottobre del 2011, quando è nato con l’obiettivo di dare spazio e visibilità al grande lavoro che si fa nelle carceri italiane. Su questo, desidero ringraziare molto il nostro Garante Regionale delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte Bruno Mellano ed il nostro Garante comunale Alessandro Prandi per il grande lavoro che stanno svolgendo." "In questo periodo - sottolinea Domenico Albesano, Presidente dell’Associazione Arcobaleno capofila del progetto - di sospensione forzata delle attività assistenziali e formative all’interno del carcere albese che hanno impegnato in questi anni tanti volontari e operatori di varia provenienza, ci è sembrato importante mantenere viva l’attenzione della comunità e delle istituzioni locali sulle complesse problematiche che attengono alla condizione detentiva, all’applicazione dei principi sanciti dall’art. 27 della Costituzione, al reintegro nella società di coloro che hanno scontato la pena loro inflitta. Vuole essere un modo per non disperdere il patrimonio di esperienze e di relazioni che nel tempo hanno creato un solido legame tra l’Istituto di pena e il nostro territorio." "Lavoriamo da anni sui temi del reinserimento socio lavorativo di persone con problemi di giustizia e per l’educazione alla legalità - commenta Elena Saglietti, Presidente del Consorzio di Cooperative Sociali CIS -. Crediamo che sia la comunità locale il luogo in cui si possono e si debbano trovare risposte inclusive. ValeLaPena è una iniziativa di valore che ci vede coinvolti dall’inizio: siamo convinti che sensibilizzare sui temi dell’esecuzione della pena, fare cultura ed informazione sia fondamentale." "È altamente significativo - sostiene Alessandro Prandi, Garante Comunale delle Persone sottoposte a misure restrittive della Libertà Personale di Alba - che la nostra comunità ormai da molti anni proprio nel periodo di maggiore visibilità mediatica decida di dare spazio alle tematiche carcerarie. Alba, le sue istituzioni, i suoi cittadini, la fitta rete di associazioni si dimostrano una volta di più accoglienti verso chi vive un momento di difficoltà. È importante in questo contesto sottolineare il ruolo decisivo del volontariato e il sostegno che l’iniziativa ha ricevuto dal Centro Servizi per il Volontariato". "La concretezza e l’eccellenza albese - dichiara Bruno Mellano, Garante Regionale delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - offrono, ancora una volta, l’esempio di un intervento efficace a sostegno della comunità penitenziaria. Rappresentare, nel salotto buono di casa e durante il più prestigioso evento cittadino, un’occasione di conoscenza delle realtà produttive penitenziarie corrisponde ad una dichiarazione esplicita: il carcere è parte integrante del tessuto sociale ed è luogo capace si sfornare, nonostante tutto e tutti, prodotti di qualità, belli e buoni". Perché la gogna è il metodo, lo stile e il clima morale di un pezzo d’Italia di Salvatore Merlo Il Foglio, 17 settembre 2016 Non solo Tiziana Cantone. Cosa sono le liste di Grillo, il manganello dei giornali, i cappi, l’insulto su internet. Il meccanismo dell’umiliazione che ha ucciso Tiziana Cantone non c’entra con il web, che è solo un amplificatore. La gogna è un metodo: è praticata dalla politica, è coccolata dai giornali e dalle tv. Guardiamola negli occhi. La gogna in Italia è una cultura. Uno stile. Un metodo. Un clima morale. Ieri hanno messo alla gogna la povera Tiziana Cantone, ma già oggi su internet impiccano per i piedi e mettono alla berlina un imbecille qualsiasi che l’aveva a sua volta messa alla gogna. Poi tutti, schiumando rabbia, chiedono che vengano fatti i nomi e pubblicate le foto (forse anche gli indirizzi per andarli a prendere sotto casa?) degli indagati dalla procura di Napoli, cioè i quattro uomini sospettati di aver diffuso le immagini di Tiziana, la ragazza che si è suicidata il 12 settembre perché non ha retto l’indecente e vigliacca marea di frizzi, lazzi e giudizi che le venivano scagliati addosso come pietre della lapidazione. E c’è allora il serio giornalista radiofonico, solitamente mite, che getta la parola "merda" in faccia a qualcuno. E c’è il collega, che conosciamo per essere civile, che invece fa un elenco di persone, di testate giornalistiche: "Assassini". E ancora: "Merde". La gogna suona sempre come uno spasmo bilioso e come un ordine al plotone di esecuzione: "Sparate!". Su Twitter, andate a controllare, c’è un tizio, un utente anonimo, che ha passato gli ultimi giorni a rispondere e ritwittare, dunque a esporre al pubblico, uno per uno, decine di altri utenti che nei mesi e negli anni passati avevano citato, deriso, insultato Tiziana. E improvvisamente è tutto un additare e mettere alla gogna chi ha messo alla gogna, o chi si crede - basta il sospetto - che abbia messo alla gogna. E allora c’è la nota conduttrice televisiva di talent show, e giornalista di quotidiano e intrattenitrice radiofonica, che su Facebook prende un povero deficiente qualsiasi dal web, con nome e cognome, uno stupido come ce ne sono tanti, uno che scriveva cose disgustose sul conto di Tiziana, e lo espone al giudizio pubblico delle 930.373 persone che la seguono su internet. "Ti regalo un giorno da Tiziana Cantone", gli scrive la giornalista, "sperimenta sulla tua pelle…". Come dire: "Adesso ti faccio suicidare". Un invito esplicito allo stalking, che più che un reato è una patologia. Un incitamento a molestare, che è un delitto punito dal codice ma anche un’ossessione che raccolta in rete produce in poco tempo reazioni intemerate di dileggio e persino di minaccia. Diciassettemila condivisioni, sessantatremila like, molti di giornalisti (uno addirittura del direttore di un importante giornale regionale), 8.844 commenti, più o meno di questo tono: "Io spero che questo pezzo di merda paghi molto caro". E si vede bene che la gogna ha un suo linguaggio, una sua grammatica. Si possono sommariamente contare 1.000 "culo", 3.090 "merda", 2.000 "ora sparati", 1.125 "crepa". E dunque una giovane donna propone: "Scriviamo ai suoi datori di lavoro, qui c’è l’indirizzo, devono cacciarlo". E la conduttrice- giornalista: "Brava. Ma in massa proprio". Così alla fine i commenti si accavallano, uno sull’altro, le persone cominciano ad additare a loro volta altri utenti, si fanno altri nomi, si pubblicano altre foto, si indicano altri colpevoli da mettere alla gogna: "Sei meno di una merda". Il loro numero impressiona. E guardando i messaggi sembra di sentire cavalcare i tasti, come nella musica di Wagner, solo che quelle erano le valchirie e questi sono i giustizieri incappucciati. "Non voglio vederlo penzolare! Perché sprecare un foulard per il collo di una merda così?". E ancora: "Brava! Bisogna ripagarli con la stessa moneta". A un certo punto un tizio apre una sub conversazione sul genere di gogna, di punizione più adatta, è un consulto: come lo puniamo? "A schiaffi", dice uno. "No no aspettiamolo all’angolo di casa e picchiamolo", risponde l’altro. "Beh dovrebbe impiccarsi anche lui con il foulard", conclude un terzo. Poi qualcuno annuncia di avere già iniziato a tempestare i datori di lavoro del malcapitato imbecille, che alla fine si fanno vivi anche loro, davvero, e annunciano di averlo sospeso, l’imbecille. E che forse sarà anche licenziato. L’aggressività della folla contro un uomo è sempre violenza, un cortocircuito del pensiero, qualsiasi cosa abbia fatto o detto. Ma tutto questo, attenzione, non appartiene a internet, che è solo uno strumento e un amplificatore (tanto più temibile perché senza confini e senza regole). La gogna in Italia è una cultura: è praticata dalla politica, è coccolata dai giornali e dalle televisioni. È uno stile comunemente accettato. Qualche anno fa Libero pubblicò in prima pagina le foto dei presunti "traditori" di Silvio Berlusconi invitando all’insulto di massa, come negli anni di Tangentopoli la Lega sventolava cappi e fotografie di presunti colpevoli in Parlamento alludendo al linciaggio, e come fino a poco tempo fa Beppe Grillo compilava liste nere esponendo persone in carne e ossa a secchiate d’insulti gettati come intestini fumanti. E d’altra parte non c’è giorno che Marco Travaglio, sul suo quotidiano, non indichi un bersaglio cui fa dire o scrivere pensieri mai espressi, suscitando accusa, orrore, sghignazzo, odio. Si afferma così una parlata maligna, malata, fatta di "slurp", "lecca-lecca", "lingua", umori, essudati, pernacchie e flatulenze. Sembra un ritorno alla caricatura del gergo triviale che divenne cinema degli anni Ottanta, con Alvaro Vitali, ma è probabile invece che sia cominciata un’epoca della politica e del giornalismo che non cerca più di raccontare, ma al contrario costruisce storie, attribuisce pensieri e intenzioni agli altri, indicandoli come soggetti da esporre alla berlina, da calunniare, da colpire, da rovinare. Ed è una grammatica fuori controllo che ha liberalizzato il turpiloquio, l’insulto e l’invettiva personale come fossero veraci manifestazioni di libertà e non segnali d’imbarbarimento, il massacro della civiltà dei rapporti, del rispetto tra avversari, di quel tono signorile che non è una formalità, ma un modo di essere, di comportarsi, di vivere con gli altri. C’è un’abissale differenza tra la parola "merde" che Cambronne gridò agli inglesi che a Waterloo gli chiedevano di arrendersi, e la parola "merda" che Alessandro Di Battista ha usato riferendosi al Parlamento. E certo D’Annunzio definiva Marinetti "un cretino con qualche lampo d’imbecillità", ma ancora era D’Annunzio, non Paola Taverna (e qui si può notare come il clima anni 20 faccia capolino, qua e là. Anche negli editoriali del Corriere della Sera, come fatto notare ieri tra le righe da Angelo Panebianco: "L’Autarchia non è una virtù"). Così l’ambasciatore americano a Roma, John Phillips, si esprime per il "sì" al referendum, e i sostenitori del "no" - Brunetta, Salvini, Meloni - invece di spiegarsi con parole ferme, ma civili, solleticano la voluttà gognesca della peggiore Italia, lo additano: "Si faccia i fatti suoi", "ma che vuole?", "se ne torni in America". E dunque l’ambasciatore diventa persino amerikano, con la K, sulla prima pagina di un importante quotidiano nazionale, mentre Luigi Di Maio si lascia ispirare dall’ingerenza per paragonare Renzi a Pinochet, salvo confondere il Cile con il Venezuela (ma se "vaffanculo" diventa progetto politico vincente, chi se ne importa se Cile e Venezuela sono paesi diversi: dici "vaffanculo" e hai risolto ogni cosa. Hai spiegato tutto). Prima che Repubblica lo trasformasse in uno strano dibattito sull’opportunità di leggere Ugo Foscolo, il 13 settembre, Natalia Aspesi raccontava sul suo giornale una disavventura che le era capitata per aver confessato, in un articolo, di non aver mai letto "a Zacinto". E quello di Aspesi non era ovviamente un pezzo fuori tempo su Foscolo, ma un pezzo attualissimo sulla gogna e sulla violenza in Italia. "Sono stata lapidata da una quantità inaspettata di lettere e mail. Un paio, pur deprecando, ironiche e leggiadre, le altre micidiali, tutte con lo scopo di cancellarmi dal genere umano", scriveva. "Anche le persone colte, o forse soprattutto le persone colte, stanno perdendo l’abitudine al dialogo, allo scambio di idee, alla voglia di sapere con pacatezza i propri perché. Oggi l’incontro è sostituito dallo scontro: la curiosità e la sapienza sono sostituiti dalla stizza e dal disprezzo". E proprio ieri su Facebook e su Twitter sono insorti in molti con fare manganellatorio contro Matteo Renzi, che si è confuso in un discorso pubblico: ha detto "battaglia di Marzabotto" e non "eccidio di Marzabotto". Un tumulto d’indignazione. Botte da orbi. "Non è abbastanza antifascista", "che pezzo d’ignorante!", "mandiamolo via!", "Ducetto". Anche a chi scrive è capitato d’essere messo in mezzo da alcuni ascoltatori di Radio3, su internet, per non aver saputo a bruciapelo immediatamente ricordare cosa fosse accaduto l’11 settembre 1973 (Allende, il Cile…). Sessanta commenti, sessanta invettive, quasi tutti insulti, giudizi gratuiti, anche personali. E poi una signora: "L’abbiamo messo giustamente alla gogna!". Ecco la parola. Ed ecco sempre le stesse masse spumeggianti, che adesso ondeggiano su internet al ritmo cadenzato d’un vaffanculo e adesso invece s’increspano sulla punta di una penna incisa sul vecchio foglio di carta, una grammatica di violenza e di non senso, che si fa persino programma di governo, metodo politico e giornalistico, febbre cosmica che si dilata, si distende, si espande. "Anche l’amore o l’indifferenza verso il Foscolo, diciamo oggi argomento dei meno scottanti, obbligano a crearsi un nemico - scriveva la Aspesi - a non voler approfondire, a capire quel che si vuol capire, alla certezza di avere sempre ragione, all’insulto, alla cancellazione dell’altro. Al costante stato di tumulto interiore e quindi al corruccio, al bisogno di distruggere". Lo scopo dell’invettiva e della gogna è infatti proprio l’annientamento dell’altro, è l’annichilimento morale e psicologico: una forma di giustizia sommaria. E se questo è lo stile della politica e dei giornali non stupisce che lo sia anche della gente comune, e che dunque gente comune ne faccia pure le spese, anche togliendosi la vita. Lo spiegano bene due studiosi, Edoardo Giusti e Maria Grandina, che su questo terribile meccanismo dell’umiliazione ci hanno scritto un libro ("Terapia della vergogna") concentrandosi sugli effetti con i quali la gogna può devastare chi la subisce: "L’alternarsi e il mescolarsi di sentimenti di mortificazione, di vergogna e di inferiorità portano con sé fluttuazioni nel senso di identità e nell’autostima. La paura instaura un circolo vizioso, tale da imporre un comportamento autolesivo di passività". Le camicie nere davano l’olio di ricino. E nell’incitamento alla lapidazione - l’ex calciatore Di Canio è stato cacciato da Sky a furor di popolo e d’insulti per un brutto tatuaggio che rievocava il suo passato di destra - nella voglia di colpire le singole persone, c’è l’orrido scivolare verso metodi da guerra civile, quel sistema che trasforma la piazza, reale o virtuale che sia, in un palcoscenico in cui ogni cosa ha un tono che dispensa tutti i presenti da qualunque responsabilità, anche solo quello di pensare. Basta distruggere. Allora si capisce il pericolo. E si capisce anche che è un pericolo al tempo stesso vecchio e nuovo: la cultura della gogna, dunque. Stile d’Italia. Indagine sui video hard di Tiziana. Sequestrati telefoni e pc dell’ex di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 17 settembre 2016 Caccia a chi ha messo in Rete i filmati. I carabinieri hanno chiesto all’ex fidanzato di consegnare telefoni cellulari, computer e qualunque altro supporto informatico in suo possesso Il Garante: "Sulla privacy i pm hanno sbagliato". Per capire se il suicidio di Tiziana Cantone sia colpa di qualcuno tra quelli che hanno messo in Rete i video dei suoi rapporti sessuali, o tra chi per quei video l’ha insultata, derisa e isolata, bisogna ripartire proprio da lì: dai video. Bisogna ritornare indietro di quasi un anno e mezzo e rimettere le cose in ordine dal principio. E per ricapitolare tutta questa storia gli investigatori non avevano che un punto di partenza: l’ex fidanzato di Tiziana, Sergio Di Palo, un imprenditore napoletano con il quale la ragazza per un periodo ha anche convissuto. Il loro rapporto di coppia si è interrotto proprio quando è venuta fuori la storia dei video, quindi oltre un anno fa, ma i due sono rimasti comunque in contatto, e addirittura l’uomo ha avuto un ruolo attivo, seppure non ufficialmente, nel ricorso che Cantone ha fatto al Tribunale civile di Aversa per ottenere (riuscendoci, tra l’altro, soltanto in minima parte) la rimozione delle sue immagini da siti internet e motori di ricerche. A Di Palo ieri mattina i carabinieri hanno chiesto di consegnare telefoni cellulari, computer e qualunque altro supporto informatico in suo possesso. Si sono presentati a casa sua e hanno acquisito tutto il materiale che ora sarà oggetto di una perizia tecnica disposta dalla Procura. L’uomo non è indagato, ma questo non impedisce agli investigatori di verificare se qualcuno di quei video fosse stato archiviato anche da lui, ed eventualmente se fosse stato in qualche modo anche veicolato. L’indagine è soprattutto tecnologica - Gli inquirenti - i magistrati della Procura di Napoli Nord, guidati da Francesco Greco, e i carabinieri della compagnia di Giugliano - non sanno ancora se l’indagine li porterà a stabilire che Tiziana si è uccisa perché qualcuno l’ha spinta a farlo, o se invece la tragedia di martedì sia la conseguenza soltanto della sua angoscia, della sua depressione, della sua mente sconvolta quando si è resa conto di non poter più fermare il dilagare sul web delle sue immagini intime e ha capito di essere stata incosciente fino all’irresponsabilità a condividere quei filmati con persone che nemmeno conosceva direttamente, ma soltanto nelle amicizie virtuali dei social network. Ma la strada di questa indagine è soprattutto tecnologica, e il sequestro di cellulari e pc di Di Palo è quindi solo il primo atto di un lavoro investigativo che si prospetta comunque molto complesso, perché si sa che i video di Tiziana Cantone sono stati condivisi tramite WhatsApp da migliaia di persone, e intercettare il momento in cui da un telefonino (o anche più di uno) siano stati caricati sul web, per poi rimbalzare in pochissimo tempo da un sito porno all’altro, non è affatto facile, anzi, c’è anche chi ritiene che sia quasi impossibile. Fascicolo aperto dall’aprile 2015 - Eppure non c’è alternativa, bisogna provarci. Si tratta comunque di un passaggio fondamentale dell’indagine dei pm di Napoli Nord - che comunque hanno anche margini per una indagine tradizionale, e infatti ieri sono state ascoltate come persone informate dei fatti alcune amiche di Tiziana - e ancora di più di quelli della sezione reati informatici della Procura di Napoli, che dall’aprile del 2015 ha un fascicolo aperto dopo la denuncia presentata da Tiziana Cantone quando scoprì di essere finita sui siti porno. In questa inchiesta sono indagati per diffamazione i quattro uomini ai quali la ragazza, secondo quanto dichiarava nell’esposto, inviò i video. A nessuno è però contestata la violazione della privacy, perché i magistrati non hanno ritenuto dimostrabile ciò che Tiziana sosteneva: e cioè di averli diffidati a diffondere ad altri quelle immagini. Su questo punto è intervenuto ieri il Garante della Privacy Antonello Soro, dicendo che "la legge italiana prevede che la diffusione dei dati sensibili debba avvenire solo con il consenso esplicito dell’interessato". Quindi, aggiunge il Garante, "mi permetto di dire che quella valutazione, se fatta dal procuratore, non è fondata". Assolutamente non una polemica, quindi, ma una precisazione. Alla quale, comunque, i pm napoletani hanno scelto di non replicare. Telefono Azzurro: anche a 5 anni bimbi vittime del cyberbullismo Corriere della Sera, 17 settembre 2016 Il rapporto dell’associazione: bullismo e cyberbullismo sono fenomeni più segnalati al Nord (56%); sono in crescita le segnalazioni che vedono come vittime i più piccoli, anche di 5 anni (22% dei casi). La prevalenza delle vittime è italiana (85% dei casi). Bullismo e cyberbullismo sono fenomeni più segnalati al Nord (56%); sono in crescita le segnalazioni che vedono come vittime i più piccoli, anche di 5 anni (22% dei casi); il 30% delle vittime riporta di aver commesso atti di autolesionismo, il 10% di aver tentato o pensato al suicidio. Sono queste alcune delle evidenze emerse nel dossier diffuso oggi da Telefono Azzurro, un report che, attraverso i casi gestiti nel corso dell’anno scolastico 2015-2016 dal proprio Centro nazionale di ascolto, evidenzia la punta dell’iceberg di questo fenomeno. Dal settembre 2015 al giugno 2016 Telefono Azzurro ha gestito circa 1 caso al giorno di bullismo e cyberbullismo; in totale i casi gestiti sono stati 270, che hanno richiesto un totale di 619 consulenze. Il fenomeno viene alla luce maggiormente al nord, dove sono stati gestiti circa il 45% dei casi e da dove vengono segnalati il 57% dei casi nazionali di cyberbullismo. La prevalenza delle vittime è di nazionalità italiana - La prevalenza delle vittime è di nazionalità italiana (con un dato che si attesta attorno all’85% dei casi): bambini e adolescenti di origine straniera contattano Telefono Azzurro principalmente per altre motivazioni parlando di episodi di bullismo o cyberbullismo solo legati ad altre difficoltà. Le femmine vittime di bullismo sono il 45%, dato che sale al 70% per episodi di cyberbullismo. I bulli - rileva ancora lo studio - sono generalmente maschi (60% dei casi) e amici o conoscenti della vittima. Le ragazze sono responsabili del 25% dei casi in cui la bulla agisce sola, cui si aggiunge un 15% in cui opera in gruppo. L’età delle vittime si sta abbassando: un trend in crescita è quello che vede come vittime bambini sempre più piccoli, anche di 5 anni. Le richieste di aiuto per episodi di cyberbullismo hanno inizio durante le scuole secondarie di primo grado e proseguono in adolescenza (1 richiesta su 2 coinvolge preadolescenti). I casi di richiesta di aiuto per bullismo o cyberbullismo vengono segnalati anche con altre problematiche: problemi scolastici, difficoltà relazionali e problematiche legate all’area della salute mentale (bassa autostima, ansia diffusa, paura o fobie, gli atti autolesivi, le ideazioni suicidarie e i tentativi di suicidio) le principali. I comportamenti dei bulli - Tra le conseguenze dell’essere vittima di bullismo che vengono riportate nelle richieste di aiuto gestite da Telefono Azzurro si evidenziano le situazioni di ansia diffusa che possono portare all’abbandono/dispersione scolastica, ad atti autolesivi, alle ideazioni suicidarie e ai tentativi di suicidio. Il 30% delle vittime di bullismo mette in atto comportamenti di autolesionismo, mentre il 10% avrebbe pensato o tentato il suicidio. Le difficoltà emotive e comportamentali sperimentate dalle vittime e dai bulli possono continuare anche in età adulta producendo effetti negativi a lungo termine, come per le vittime una bassa autostima e con scarso valore di sé, una maggiore tendenza alla depressione; per i bulli a comportamenti antisociali o vandalici, all’uso e abuso di sostanze (come alcool o droghe), fino all’aggregazione in gang o allo sviluppo di comportamenti criminali. Anche gli "spettatori" possono sviluppare conseguenze in relazione a quanto vissuto: sviluppo di sentimenti di colpa o di impotenza per non essere intervenuti nell’interrompere il bullo o nell’aiutare la vittima e, a lungo termine, scarsa empatia o incapacità di fidarsi degli altri. Cacciatori di crimini sul web: "più difficile scovare i colpevoli se le vittime si vergognano" di Maria Corbi La Stampa, 17 settembre 2016 Al lavoro 76 sezioni di polizia, innumerevoli i siti da controllare. "È decisivo agire subito, sui filmati virali siamo quasi impotenti". Sexting, sex extortion, trolling. Il vocabolario dei pericoli della rete aumenta le sue pagine e la polizia postale aumenta il suo lavoro. Oltre alla sede centrale di Roma sono 20 i compartimenti e 76 le sezioni che in tutta Italia si occupano tra le altre cose dei crimini del web ma anche del suo utilizzo distorto. Tanti i ragazzini che denunciano un abuso, sempre di più da quando è stata incrementata l’azione di prevenzione. Cinquecentomila i ragazzi che lo scorso anno hanno partecipato a eventi informativi. Ma cadere nei tranelli della rete e dei social non è solo una cosa da ragazzi, tanti anche gli over 40. Aumenta il lavoro dei poliziotti che si dedicano ai crimini virtuali. E se le emergenze su cui si concentrano rimangono il terrorismo e la pedopornografia, quel che accade sui social assorbe molte delle loro energie. Nessun commento sulla vicenda di Tiziana "uccisa" da quel video hot che lei stessa aveva condiviso su Whatsapp. Indagini in corso. Quando invece la vittima è una minorenne la polizia postale procede immediatamente, altrimenti occorre formalizzare una denuncia. Passa del tempo, una variabile importante, e le cose si complicano. In ogni caso gli individui che hanno condiviso una foto "sensibile" oggetto di denuncia sono rintracciabili anche se il passaggio è avvenuto via Whatsapp e via Snapchat. "Il problema è che spesso le persone si vergognano e tendono a non fornire tutti gli elementi utili per darci una mano", dice uno degli ispettori che ogni giorno affronta emergenze del genere. Tante le ragazzine vittime del sexting - neologismo derivante dai termini inglesi sex e texting (mandare messaggi a sfondo sessuale) - ma soprattutto della sex extortion, spiega Carlo Solimene, dirigente della divisione investigativa della Polizia postale, ossia "l’immissione di immagini in rete con finalità estorsive". Una ragazzina chatta con un coetaneo che le chiede, per esempio, di spogliarsi e poi la ricatta con la minaccia di diffondere quelle foto. Lo scambio può essere anche non in denari ma solo con compiti di scuola, una versione, un tema. Oppure c’è la "revenge porn", nel caso in cui un ex condivide per vendetta momenti intimi e imbarazzanti sulla rete. "Noi consigliamo sempre di non pagare - dice Solimene -. Siamo in grado di congelare questa immagine e di rimuoverla dalla rete solo nell’immediatezza dei fatti, quando la rete non ha prosciugato quell’immagine. Se invece la foto è viralizzata, ossia ha girato su tutti i siti, possiamo rimuoverla con un decreto di rimozione del magistrato, ma se qualcuno l’ha conservata in memoria, allora potrà sempre riuscire fuori". Insomma un invio di immagini alla persona sbagliata può tormentarci tutta la vita. E non c’è attività investigativa che tenga. "Per evitarlo dobbiamo non immettere in rete foto che consideriamo private e che non vogliamo che siano viste". Le ragazzine divulgano le foto senza pensare che alla fine quello scatto innocente potrà arrivare in rete attraverso una catena di clic, e magari arrivarci taroccata. "Il poliziotto prima di tutto fa prevenzione - insiste l’esperto -. Capire questo è fondamentale, perché quando la frittata è fatta allora non rimane che andare alla procura della Repubblica". Anche quando si tratta di trolling, ossia della "pesca alla traina" su internet di una vittima da sopraffare in gruppo. Molti ragazzi sulle strade del cyberbullismo credono che facendo minacce attraverso un computer, o divulgando immagini, non possano essere identificati. "Invece sicuramente verranno identificati - spiega Solimene. E spesso quel computer porta ai loro genitori che si troveranno sulle spalle una bella denuncia". Un mondo in continua evoluzione, quello del web e dei social, che richiede un continuo aggiornamento di chi deve contrastarne il cattivo utilizzo o il crimine. Whatsapp e Snapchat sono ormai roba da "matusa", le nuove applicazioni di condivisione si chiamano WeChat, Tango, Hike e Yuilop. Poi c’è Hide It Pro che serve a nascondere foto, testi e video. La polizia postale "insegue" queste novità. Forse però anche i genitori dovrebbero iniziare a correre. I predatori del Dna sardo di Costantino Cossu Il Manifesto, 17 settembre 2016 Cedute per 258mila euro a una società britannica che intende studiarle per sviluppare nuovi farmaci da immettere sul mercato, le 13 mila provette con i campioni di sangue dei centenari da record che vivono nell’Ogliastra ora sono finite al centro di una misteriosa "sparizione". Ma la magistratura vorrebbe prima sapere se sono stati rispettati i diritti dei donatori. L’Ogliastra non è un posto qualsiasi. Per molti motivi. Uno è che se vivi lì, tra il mare di Baunèi e i tacchi dolomitici di Ulàssai e di Urzulèi, è molto più facile campare sino a cent’anni. A Perdasdefogu, ad esempio, abitano i nove fratelli Melis: Adolfo, Concetta, Antonio, Consola, Claudina, Vitalio, Vitalia, Maria e Mafalda. Per il Guinness World Records sono il gruppo familiare più longevo del mondo. Record stabilito per la prima volta nel 2012 e poi confermato nel 2013. "Se nel 2012 - racconta il giornalista Giacomo Mameli, che a Perdasdefogu è nato e che al suo paese ha dedicato inchieste e libri - i Melis sommavano 818 anni e 205 giorni, certificati negli uffici del Guinnes World Records e controfirmati dal direttore Jackie Angus, nel 2013 si è saliti di dieci anni. I nove fratelli al 24 giugno 2013 avevano complessivamente 828 anni e 45 giorni. Da nessun’altra parte è stato trovato un nucleo familiare così resistente". Quando poi il verdetto del Guinness è stato confermato per la terza e per la quarta volta, nel 2014 e nel 2015, il giornalista Dan Buttner ha incluso i Melis nel suo The blue zones solution: eating and living like the world’s healthiest people ("La soluzione delle zone blu: mangiare e vivere come le popolazioni più in salute del mondo"), pubblicato dalla National Geographic Society, un libro in cui racconta i segreti per diventare centenari delle famiglie più longeve del mondo, scovate da Buttner in Giappone, in Grecia, in Costarica, in California e, appunto, in Ogliastra. Tanto è bastato perché il popolarissimo programma della Nbc Today Health dedicasse ai Melis un approfondimento. La tv ha svelato agli americani che il segreto della famiglia ogliastrina starebbe nella dieta, a base di latte di capra, di orzo, di un particolare tipo di pane che si chiama "pane moddizzosu", di finocchietti selvatici, di fave e ceci, di pomodoro e di tisana di cardo, con dosi congrue di Cannonau, vino rosso di sostenuta gradazione alcolica. Più un portentoso "minestrone della longevità", preparato con verdure dell’orto di casa, con acqua di fonte e con la "fregula", una pasta di semola di grano duro. Un caso non isolato - Il caso dei Melis non è isolato. L’aspettativa di vita per la gente che vive in Ogliastra è sensibilmente più alta della media nazionale. La longevità di questi inossidabili vecchietti, però, non è soltanto una questione di minestrone più o meno miracoloso. L’alimentazione c’entra, ma secondo gli scienziati che da tempo studiano il fenomeno non è l’unica causa. Più importante è il fattore genetico. È così in questo angolo remoto della Sardegna ma anche in tutte le altre blue zones popolate di centenari, mappate e studiate in tutto il pianeta. Perché mappate e studiate? Per fini, diciamo, di ricerca pura: definire il tracciato genetico di popolazioni che per secoli sono vissute in situazioni di isolamento geografico e che perciò hanno mantenuto un dna molto "antico" e molto individualizzato che consente di fare raffronti utili a disegnare i percorsi evolutivi di particolari gruppi umani. Ma ci sono anche, ovviamente, fini legati alle applicazioni della genetica - e in particolare dell’ingegneria genetica - alla cura di determinate malattie. Uno dei tanti campi in cui scienza ed economia, conoscenza e profitto si intrecciano; un terreno in cui ricerca biomedica, tecnologia e business penetrano (ormai lo fanno da tempo) in territori che sino a ieri erano frontiere lontane. La vita nelle sue strutture fondamentali diventa, attraverso la ricerca e per il tramite della tecnica, disponibile ai processi di valorizzazione economica. C’era una volta ShardDna - La notizia di questi giorni è che il dna dei sardi d’Ogliastra se l’è comprato una società inglese. "Abbiamo acquistato le informazioni genetiche di circa 13mila sardi per studiare sia l’eccezionale longevità delle comunità residenti in Ogliastra sia le caratteristiche di una popolazione genetica molto omogenea e tendenzialmente isolata": così Tiziano Lazzaretti, chief financial officer della Tiziana Life Sciences, la società britannica di biotecnologia che nelle scorse settimane ha annunciato l’acquisto della SharDna Spa, società nata nel 2000 con capitali investiti dal presidente di Tiscali Renato Soru, all’epoca ancora lontano dalla politica. SharDna è stata il primo gruppo italiano nel settore della mappatura genetica. Nel corso di nove anni ha acquisito informazioni sul genoma di 13 mila ogliastrini. "SharDna - spiegavano a suo tempo Soru e il suo partner nell’impresa, Mario Pirastu, direttore dell’Istituto di genetica delle popolazioni del Consiglio nazionale delle ricerche - conduce i suoi studi in un’area della Sardegna abitata da popolazioni che sono state isolate per secoli e che costituiscono, quindi, un modello ideale - in termini sia scientifici sia demografici - per l’individuazione delle cause genetiche delle malattie multifattoriali". Un programma di ricerca senza immediati scopi di profitto, affidato alla direzione di Pirastu. Migliaia di provette con i dati del genoma degli ogliastrini sono stati accumulati e studiati. Nel 2009, però, Soru, nel frattempo divenuto, nel 2004, presidente della Regione Sardegna, ha deciso di vendere tutto alla Fondazione San Raffaele di don Verzé. E quando, nel 2011, la società milanese ha subito un disastroso tracollo finanziario, la SharDna è finita nel limbo della liquidazione fallimentare. Dal quale è uscita soltanto poche settimane fa con l’annuncio di acquisto fatto da Lazzaretti, che è anche l’amministratore delegato di LonGevia Genomics Srl, la filiale italiana della Tiziana Life Sciences, fondata dall’imprenditore italiano Gabriele Cerrone e quotata alla borsa di Londra. "Siamo consapevoli di aver acquistato una banca dati unica - ha detto Lazzaretti in un’intervista -, perché è una delle più grandi e antiche che ci siano: comprende 230mila campioni biologici prelevati da circa 13mila abitanti genealogicamente radicati nella regione dell’Ogliastra. In più, contiene documenti e dati genealogici certificati che risalgono a oltre quattrocento anni fa, integrati con i dati di genotipizzazione e cartelle cliniche. Questo potrebbe avere un potenziale scientifico molto importante che ben si integra con i nostri progetti". Un business molto promettente - Ricerca medica per il bene dei pazienti? Non proprio. I progetti di cui parla Lazzaretti e per i quali la società londinese ha investito, nell’acquisto di SharDna, 258 mila euro hanno un fine preciso: utilizzare questi dati puri per individuare tratti genetici legati a varie malattie, per poi provare a sviluppare farmaci per combatterle da immettere sui mercati. Un business molto promettente. Dopo il passaggio di SharDna alla società inglese, c’è stato anche un "giallo" non ancora del tutto chiarito. Quando i manager londinesi e i loro tecnici sono andati a prelevare le provette nei laboratori della SharDna a Perdasdefogu per portarle oltre Manica, di provetta non ne hanno trovata neppure una. L’altro ieri la procura della Repubblica di Lanusei, capoluogo dell’Ogliastra, ha aperto un’inchiesta. Si è scoperto che i campioni con il dna erano stati messi al sicuro, subito dopo l’avvio della procedura di liquidazione, da Pirastu nell’ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari, dove il genetista ex partner di Soru ha continuato, dal 2011 a oggi, le sue ricerche. Ma l’inchiesta della procura mira ad altro. I magistrati vogliono capire se in tutta questa storia siano stati rispettati i diritti dei 13 mila ogliastrini che dal 2000 al 2009 hanno donato il loro sangue a titolo volontario per gli studi sulle malattie multifattoriali. Si dovrà chiarire se quel consenso, che è stato dato prima a SharDna e poi al Cnr, sia stato acquisito dalla Tiziana Life Sciences all’atto dell’acquisto, oppure se si dovrà ottenere un nuovo sì da tutti i donatori, molti dei quali erano, al momento dei prelievi, neanche a dirlo, novantenni o ultracentenari. Siria. La tregua è già finita, combattimenti a Damasco di Giordano Stabile La Stampa, 17 settembre 2016 I ribelli filo-sauditi rompono il cessate il fuoco: scontri alle porte della città. Violenti combattimenti sono scoppiati alla periferia orientale di Damasco, nella zona del Ghoutha. Secondo fonti vicine ai governativi, i ribelli di Jaysh al-Islam, sostenuti dall’Arabia saudita, hanno rotto la tregua e lanciato un’offensiva per rompere l’assedio. Il regime ha reagito con pesanti bombardamenti. Dissenso saudita - È la prima violazione importante della tregua cominciata al tramonto di lunedì. La periferia orientale della capitale è l’ultima sacca ribelle rimasta, dopo l’evacuazione dei sobborghi assediati da anni nella zona Sud. Se confermata, l’iniziativa di Jaysh al-Islam significa che Riad non approva la tregua, come invece sembra fare Ankara. I ribelli di Ahrar al-Sham, alleati di Jaysh al-Islam e sostenuti dalla Turchia, hanno finora infatti rispettato sostanzialmente la tregua. Tensioni anche ad Hama - Jasyh al-Islam, secondo il sito filo-governativo Al-Masdar, ha ammassato un forte contingente anche a Nord di Hama e si prepara ad aprire un altro fronte. Il cessate-il-fuoco rischia di collassare, come già quello di febbraio. Le tensioni sono legate anche all’offensiva dei ribelli sciiti Houthi dello Yemen, che sono arrivati alle porte della città saudita di Najran. I due fronti sono più che mai intrecciati e Iran e Arabia Saudita usano le milizie da loro appoggiate e armate in una serie di guerre per procura. Siria. Quel triangolo della morte alla frontiera giordana di Giordano Stabile La Stampa, 17 settembre 2016 Centinaia le vittime siriane. Più di 75mila profughi bloccati. Sembrano sepolcri primitivi. Ovali disegnati con sassi disposti sulla sabbia rossastra. Lapidi fatte da pietre piatte più grandi, piantate in verticale. Non c’è un nome né un fiore perché la pietà umana, nella terra di nessuno fra Giordania, Siria e Iraq, oltre non può andare. Sono le sepolture dei profughi siriani intrappolati in quel triangolo di deserto dove hanno cercato rifugio dalla guerra civile e da dove non possono più uscire. Almeno 75 mila, secondo le organizzazioni umanitarie. La Giordania ha sigillato l’area, circa mille chilometri quadrati, dopo l’attacco dell’Isis al suo posto di frontiera di Rukban, il 21 giugno. Sette le guardie uccise. Secondo fonti non confermate i terroristi hanno usato un camion che serviva a portare aiuti umanitari, imbottito di tritolo, e hanno ingannato i soldati. Fatto sta che Amman è irremovibile. Attivisti siriani dell’area di Palmira hanno inviato le immagini delle tombe ad Amnesty International e parlato di "cimiteri improvvisati" sempre più grandi. La ong ha verificato attraverso immagini satellitari e confermato l’esistenza di centinaia e centinaia di sepolture. Si trovano in mezzo alle tende e ai rifugi improvvisati vicino a Rukban, in pieno deserto. In cinque mesi è arrivato al campo un solo convoglio con cibo, acqua, medicinali, ai primi di agosto. Poi nulla. La gente muore, spiega Tirana Hassan, responsabile dell’Unità di risposta alle crisi di Amnesty, "per malattie che potrebbero essere benissimo curate se fosse consentito l’accesso alle strutture mediche della Giordania o consentito l’invio di medicinali e materiale per i trattamenti di base". Infezioni, dissenteria dilagano perché "le scorte di cibo stanno finendo", scarseggia l’acqua potabile e le persone sono sempre più deboli. Il campo profughi di Rukban, il primo passo verso la salvezza fino a qualche mese fa, è diventato una trappola. La fermezza della Giordania dipende però anche dal rischio mortale che corre il regno hashemita. L’Isis ha infiltrato la capitale, compresi i campi profughi palestinesi e siriani, con cellule pronte a colpire. L’assalto alla sede dell’Intelligence nel campo profughi di Buqaa, il 6 giugno, è stato il primo campanello d’allarme. L’attacco al posto di frontiera del 21 ha messo allo scoperto una frontiera lunga 300 chilometri, controllata in parte da un pugno di ribelli siriani moderati del New Syrian Army e dove le colonne dell’Isis possono infiltrarsi con facilità. La Giordania ospita 650 mila profughi siriani su una popolazione di 6,5 milioni. E denuncia di non ricevere abbastanza aiuti per l’emergenza. Di sicuro non i tre miliardi promessi alla Turchia per i suoi 2,5 milioni di rifugiati. Ma se la situazioni nei campi vicino alla capitale è soddisfacente a Rukban è l’inferno. "Per i bambini è durissima. Abbiamo acqua da bere ma pochissimo cibo e latte - conferma Abu Mohammed, nel campo da cinque mesi -. Ad agosto hanno distribuito un chilo di riso a persona, lenticchie e datteri. Ma da un mese non riceviamo più nulla". Le Ong stanno cercando di aggirare il divieto di accesso. Una gru è stata posta accanto alla barriera di sabbia che separa la terra di nessuno dalla zona accessibile. E qualcosa riesce a passare. Ma non abbastanza per salvare tutti. La Turchia diventa una galera. In cantiere carceri per 300mila persone di Maurizio Stefanini Libero, 17 settembre 2016 Prima il Regno Unito, poi la Germania hanno infatti annunciato la chiusura della propria ambasciata ad Ankara, per timore di attacchi terroristici in occasione della fine della festa del Sacrificio, Eid al-Adha. Angela Merkel è quella che insiste sempre con l’Europa per trattare la Turchia il meglio possibile, per il Regno Unito il ministro degli Esteri Boris Johnson è euroscettico, ma avendo a sua volta avi turchi durante il vertice di Firenze ha tenuto a rivelare che Londra sta trattando con Ankara per abolire i visti. Però di questi tempi lasciare aperti dei possibili bersagli nel giorno in cui i musulmani di tutto il mondo si esercitano a sgozzare per dovere religioso e in un Paese dove terrorismo e integralismo stanno montando non è stato evidentemente giudicato troppo igienico. Non è stato ufficialmente confermato che sarà chiuso anche il consolato britannico a Istanbul, come pure è trapelato. Ma la Germania ha invece chiarito che la chiusura riguarda anche i consolati e perfino tutte le scuole tedesche in territorio turco, per due giorni. Come ha spiegato la Bild, appunto per timore di attentati. La stessa misura era stata d’altronde presa da Berlino lo scorso marzo, 48 ore prima dell’attentato kamikaze che il 19 del medesimo mese causò la morte di quattro turisti e il ferimento di altre 36 persone nel pieno centro di Istanbul. Nel frattempo la rivista Spiegel ha bollato Erdogan di "dittatore" alla testa di un "Paese non più democratico", suscitando ad Ankara un aspro risentimento. "Una provocazione, figlia di una mentalità distorta e piena di pregiudizi", è stata la risposta del ministero degli esteri attraverso una nota. D’altra parte, è difficile suscitare impressioni diverse, quando il ministro turco della Giustizia proprio in occasione di una delle più importanti festività islamiche annuncia che nel Paese saranno realizzate 174 nuove carceri in cinque anni, secondo quanto riferisce una nota citata dal sito del quotidiano Hurriyet. Ve l’immaginate il ministero della Giustizia italiano che fa un annuncio del genere a Natale o a Pasqua, date in cui semmai da noi si annunciano indulti e amnistie Il bello è che il piano carcerario viene addirittura presentato come misura "umanitaria". In seguito all’ondata di decine e decine di migliaia di arresti che ha fatto seguito al fallito e strano golpe del 15 luglio, infatti, le carceri sono ormai sovraffollate. Per fare spazio a golpisti veri e soprattutto presunti hanno pure liberato 38mila persone con decreto di emergenza: tra di essi, guarda caso, anche l’assassino del sacerdote italiano don Andrea Santoro, giudicato evidentemente pericoloso di presidi, giornalisti, poliziotti e magistrati "gulenisti". Ma non è bastato, e secondo Hurriyet una accorata richiesta a fare più penitenziari sarebbe stata inoltrata il 4 settembre al ministero della Giustizia con una petizione presentata da un gruppo di detenuti ai dirigenti di un carcere nella provincia nord-occidentale di Tekirdag, dove i prigionieri affollano celle realizzate per tre persone. Una volta completato il "piano carceri", è precisato nella replica del ministero, la capacità delle prigioni del Paese aumenterà fino a 100.182 persone così da "poter soddisfare l’imprevisto aumento del numero di detenuti". Uniti ai 190mila posti già disponibili, significa che Erdogan ha intenzione di tenere dentro quasi 300mila persone. Bahrein. L’appello delle Ong a 50 stati: "chiedete il rilascio di Nabeel Rajab" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 settembre 2016 Ventidue organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, si sono rivolte ai 50 stati che in precedenza - in ambito Onu - avevano sottoscritto dichiarazioni critiche nei confronti della situazione dei diritti umani in Bahrein, sollecitandoli a chiedere il rilascio del noto difensore dei diritti umani Nabeel Rajab. Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, è nel mirino delle autorità del regno del Golfo persico dal 2011. In questi cinque anni è stato in carcere in diverse occasioni e nel 2014 è stato colpito da un divieto di espatrio. L’ultimo arresto risale al 13 giugno. Rajab è accusato di offesa a un organo di governo (il ministro dell’Interno), offesa a uno stato estero (l’Arabia Saudita) e diffusione di voci false in tempo di guerra (quella condotta da una coalizione a guida saudita, di cui fa parte anche il Bahrein, in Yemen). Il tutto per una serie di tweet pubblicati nel 2015. La settimana scorsa si è aggiunta l’accusa di diffamazione nei confronti dello stato, per un editoriale pubblicato a sua firma sul New York Times. Se giudicato colpevole di tutti questi "reati", Rajab potrebbe essere condannato a 15 anni di carcere. In questo modo la famiglia regnante degli al-Khalifa ridurrebbe definitivamente al silenzio una delle voci più critiche e conosciute all’estero. Così come ha già fatto con Abdulhadi al-Khawaja, condannato all’ergastolo. Nell’approssimarsi del 6 ottobre, data del processo, si moltiplicano le iniziative di solidarietà per Rajab quanto le pressioni sui governi. Il 6 settembre il dipartimento di Stato Usa si è espresso per la sua scarcerazione, cosa che ancora non ha fatto il Regno Unito: ad agosto, numerosi intellettuali britannici hanno scritto alla prima ministra Theresa May, mentre il 7 settembre l’Istituto del Bahrein per i diritti e la democrazia ha sollecitato l’intervento del ministro degli Esteri Boris Johnson. Il 2 settembre, 34 Ong si sono rivolte direttamente al re del Bahrein, mettendo in copia la responsabile della politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini e altre autorità. Il 13 settembre ha preso la parola anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il principe Zeid bin Ràad al-Hussein, nel discorso di apertura della 33ma sessione del Consiglio Onu dei diritti umani.