Piene e pure malate: la vergogna delle patrie galere Il Giornale d’Italia, 16 settembre 2016 Affollate e infette. Le patrie galere lungo tutto la Penisola non solo non rieducano, ma contribuiscono a far ammalare gli individui. L’allarme delle malattie infettive dietro le sbarre. Sovraffollate, sporche, datate e… malate. Le prigioni italiane fanno schifo. Celle anguste, requisiti igienici deplorevoli e spazi ristretti. Condizioni vergognose che rendono maggiormente probabile la diffusioni di virus e patologie. Tra i carcerati le malattie infettive rappresentano la seconda emergenza più sentita, dopo quelle psichiatriche. Nel 2015, all’interno dei 195 istituti penitenziari italiani, sono transitati circa 100.000 detenuti. E sulla base di diversi studi, s’è riuscito a stabilire che 5.000 di questi fossero positivi al virus dell’Hiv, 6.500 portatori attivi del batterio dell’epatite B, e addirittura 25.000 quelli che erano già venuti a contatto con l’agente che provoca l’epatite C. Non ci voleva certo Einstein per capire che lo stato disgustoso delle patrie galere nostrane potessero generare o alimentare malattie infettive. Ma il dato rivelato è davvero imbarazzante. Oltre 1/3 delle persone transitate nell’ultimo anno dietro le sbarre è risultata affetta da gravi patologie. Aids, epatite B e C. Sono questi i virus più frequenti negli istituti penitenziari italiani. Con una quota importantissima di portatori di tre patogeni, con la metà degli individui che n’è addirittura inconsapevole. Numeri allarmanti che non possono essere presi sotto gamba. Con Sergio Baudieri, docente di malattie infettive all’Università di Sassari e presidente della Società italiana di Medicina Penitenziaria, riunita fino a domani nel congresso nazionale per fare il punto sulla situazione sanitaria nelle carceri, che ha spiegato le cause di questo dramma. Dovuto pure alla "promiscuità sessuale in alcune situazioni, insieme alla pratica diffusa di tatuaggi ed episodi di violenza". E le conseguenze sono altissime. Perché molte sembrano essere le difficoltà a scoprire le infezioni. Altro che rieducative, le prigioni sono letali. Pure per via del divieto valido in Italia di far entrare nelle strutture siringhe monouso e preservativi, che aiuterebbero a contrastare la diffusione delle infezioni. Ai domiciliari è (buona) norma andare senza scorta di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 16 settembre 2016 La vicenda del dj spagnolo scomparso quando doveva recarsi in clinica ci lascia la consapevolezza di una prassi. Ma anche qualche suggerimento per giudici e avvocati. Come sono andate ieri agli arresti domiciliari, come ci vanno oggi, e come ci andranno domani le persone arrestate per le quali i giudici ritengano ancora valida la custodia cautelare ma non più necessario il carcere? Quasi tutte senza alcuna scorta. Da sole. Con le proprie gambe. Sperando che non scappino. Esattamente come da solo in clinica ai domiciliari sarebbe dovuto andare Nicolas Aitor Orlando Lecumberri, il 23enne dj spagnolo arrestato e finito a San Vittore il 27 luglio per aver preso a pugni a caso alcuni passanti per le strade di Milano, poi sparito l’1 settembre all’uscita dal carcere invece di raggiungere la clinica di Varazze nella quale il gip Livio Cristofano gli aveva concesso gli arresti domiciliari per il proseguimento di un percorso terapeutico, e infine per fortuna ricomparso il giorno dopo in Spagna dove si era volontariamente ricoverato nell’ospedale psichiatrico di San Sebastian, la città della sua famiglia. Arrestati che vanno da soli dal carcere ai domiciliari: strano che continui a funzionare così? Non tanto. Perché, una volta posatasi la polvere del clamore, la formale rispondenza normativa del provvedimento lascia invece emergere l’ordinarietà di una prassi giudiziaria dettata dall’incrocio tra una precisa opzione del legislatore e le misconosciute lacune della logistica penitenziaria. Fino a due anni fa, infatti, la legge sulla custodia cautelare era tale per cui la normalità era la scorta per chi passava dal carcere ai domiciliari, e l’eccezione era il gip che doveva molto motivare il non ricorso alla scorta. Poi la logica si è rovesciata, la normalità è diventata la non scorta, e l’eccezione (con super motivazione del gip) è divenuta la scorta. La legge è infatti cambiata nel segno di un prevalente favore per la custodia cautelare non in carcere, inoltre la polizia penitenziaria ha sempre più spesso fatto presente di non avere organici e budget sufficienti per sorvegliare in tutta Italia le migliaia di viaggi di arrestati dal carcere ai domiciliari, e le sempre più incisive revisioni della spesa anche nel settore penitenziario hanno accentuato nei giudici la tendenza a considerare ormai la scorta come un lusso da disporre solo in casi particolari. Leggere bene le carte. Poteva esserlo il dj aggressore stradale e casuale di passanti? L’impatto emotivo della vicenda farebbe dire di sì, ma, se si considerano le carte del fascicolo, la certezza diventa meno granitica. Il tipo di reato, lesioni personali non gravi (10 giorni di prognosi) comporta in teoria da 3 mesi a 3 anni, sanzione quindi destinata anche in caso di condanna (tanto più vista l’incensuratezza, e anche sommando gli aumenti per la continuazione tra i vari episodi) a non superare il tetto di pena definitiva sotto il quale essa verrebbe eseguita non in carcere ma in misura alternativa al carcere. Inoltre il pm di turno aveva dato parere favorevole, e né il pm, né la polizia giudiziaria, né l’autorità penitenziaria - tutti soggetti che per legge avrebbero potuto - avevano segnalato quelle "specifiche esigenze processuali o di sicurezza" che un gip può eccezionalmente valorizzare per disporre la scorta. E la perizia di uno psichiatra dichiarava l’arrestato non soltanto capace di intendere e volere, e di stare in giudizio, ma anche "non pericoloso socialmente". Ecco perché il provvedimento del gip ("l’indagato raggiungerà senza accompagnamento, immediatamente e senza soste intermedie, il luogo di esecuzione della misura, dando tempestivo avviso del proprio arrivo alla stazione dei Carabinieri competente per territorio") è meno balzano di quanto sembri. Anche se la vicenda, per il futuro, può raccomandare a tutti gli attori qualche utile suggerimento. Agli avvocati: se (come fanno quasi sempre i difensori di persone in queste condizioni) avessero monitorato l’esito della loro richiesta di arresti domiciliari, avrebbero potuto (come di norma avviene) andare a prendere fuori dal carcere il loro assistito per accompagnarlo ai domiciliari. Al giudice: se anche ha agito nelle regole, forse non avrebbe guastato una telefonata di preavviso agli avvocati, che, sebbene non dovuta, avrebbe scongiurato il corto circuito tardivo. E al legislatore e all’amministrazione penitenziario-giudiziaria: affinché non facciano finta di ignorare che alcune scelte di fondo, specie quelle che comportano sensibili revisioni della spesa non attentamente ponderate nelle loro implicazioni, possono scaricare sulla collettività costi collaterali non trascurabili. La prescrizione salta ancora. Casson spacca i democrat di Errico Novi Il Dubbio, 16 settembre 2016 Gli emendamenti dell’ex pm mandano in tilt il Pd: nuovo rinvio della riforma. "Ma senatore Casson, si potrebbe passare al voto sulle pregiudiziali, la relazione sul disegno di legge era già stata svolta il 3 agosto dal senatore Cucca". Linda Lanzillotta, che presiede la seduta, sbatte contro la fermezza dell’ex pm di Venezia. Che rivendica il diritto a presentare a sua volta all’Aula la riforma del processo penale. È vero, in una delle ultime sedute prima della pausa estiva il correlatore Enrico Cucca, pure lui del Pd, aveva già esposto l’ampio provvedimento. Ma Casson tiene a illustrare un punto di vista diverso. La sua posizione, tra i dem e nella maggioranza, è piuttosto eterodossa, innanzitutto sulla prescrizione. Finisce che all’atteso esordio in aula della riforma penale si va in bianco. Tre volte le opposizioni chiedono la verifica del numero legale e tre volte Palazzo Madama risulta privo dei numeri. Esame sospeso, deve prendere atto la vicepresidente Lanzillotta, se ne riparla martedì. Ma le presenze diradate tra gli scranni non sono un caso. Il partito di Renzi è fin troppo diviso sulla legge. E ancor di più, in ansia per la controffensiva moralista dei cinquestelle. I grillini già tuonano contro il presunto esproprio nei confronti dei pm sulle intercettazioni, l’altro risvolto incandescente della legge. Sono pronti ad accusare il Pd di essersi acconciato a uno sciagurato compromesso con i centristi. Sui soliti due punti, ovvio: tempi del processo e regole sugli "ascolti" nelle indagini. Proprio l’incombente controffensiva grillina rende problematico il ricorso alla fiducia. Facile prevedere cosa accadrebbe: i Cinque Stelle accuserebbero Renzi e il suo partito di blindare con la forza la riforma del processo pur di "regalare l’impunità ai corrotti". Slogan già sentiti. D’altra parte il problema esiste. E a porlo è proprio Felice Casson. Il quale ha ripresentato in Aula alcuni emendamenti, in particolare sui tempi di estinzione dei reati. Uno toglie il sonno al governo: è quello che prevede il definitivo stop alla prescrizione dopo l’eventuale condanna in primo grado. Ipotesi impraticabile se si vuole tenere in piedi il faticosissimo accordo raggiunto con Area popolare in commissione Giustizia. Ma il fatto è che quel principio piace a molti. All’Anm, senza dubbio, ma anche a tanti esponenti dem su posizioni più giustizialiste. Casson su un punto è chiaro: "Io la prescrizione così com’è non la voto. Se passa il mio emendamento bene, altrimenti su quella specifica parte dell’articolato dirò no". Il fatto è che potrebbero seguirlo. Lo seguirebbe buona parte dell’opposizione, e se gli venisse dietro anche la minoranza dem non si sa cosa potrebbe succedere. O meglio si può facilmente immaginare: se fosse approvata la norma che blocca la prescrizione in primo grado (e rende di fatto illimitata la durata dei due gradi successivi del processo) si aprirebbe un problema enorme con Ncd. Il partito di Angelino Alfano potrebbe decidere di astenersi sul voto finale, col rischio di veder naufragare l’intera riforma. D’altronde è esattamente quello che ha fatto a Montecitorio. "Non siamo disposti a tollerare che si cambi una sola virgola di quel testo", chiarisce, interpellato, il presidente della commissione Giustizia Nico D’Ascola, che ha rappresentato l’intero gruppo di Area popolare nelle ultime fasi del confronto. "Certo, se si pone qualche banale questione di coordinamento del testo non c’è problema. Ma lo stop alla prescrizione non è una questione banale". La fiducia "ad hoc" - Ecco perché si fa strada l’ipotesi di porre la fiducia solo sullo specifico articolo del ddl che riguarda i tempi del processo. Una possibilità concreta, che potrebbe materializzarsi a fine settimana prossima, quando l’esame della riforma entrerà nel vivo. Altro problema viene da un ulteriore emendamento sempre a prima firma Casson che riguarda i reati ambientali. In casi come quello dell’Eternit l’ex pm propone di far partire il cronometro non dal compimento del reato ma dal momento in cui la Procura ne ha notizia. Qui la faccenda si complica. Perché in calce all’emendamento c’è anche l’autografo di Beppe Lumia, capodelegazione dem in commissione Giustizia. Renzi ha fatto capire che questa particolare variazione non gli dispiacerebbe. Fui lui, con il guardasigilli Andrea Orlando, a impegnarsi con i familiari delle vittime dell’Eternit affiche non si ripetesse mai più l’estinzione di un delitto come quello di Casale Monferrato. Nella legge approvata l’anno scorso sui reati ambientali c’è uno specifico allungamento della prescrizione, che in certi casi però potrebbe non bastare. Ma da Ncd invece si fa presente che anche questa seconda possibile modifica sarebbe inaccettabile. "Riscrivere quei passaggi del ddl vorrebbe dire venir meno a un impegno preso in commissione da tutta la maggioranza", incalza D’Ascola. Forse il deragliamento sui reati ambientali non porterebbe i centristi a dissociarsi dall’intera riforma. Ma il cammino verso il via libera del Senato è uno stillicidio. Così come lo è stato l’intero percorso della legge, accampata a Palazzo Madama dall’ormai lontano aprile 2015. Durata dei processi: idee per andare oltre l’impasse di Elvio Fassone Il Dubbio, 16 settembre 2016 Quando un tema entra nella dimensione della politica, purtroppo smarrisce la sua qualità di interrogativo intellettuale per infilarsi nella logica degli schieramenti e delle polemiche. Il dibattito sulla prescrizione dei reati non fa eccezione. Langue da mesi senza sbocchi e la contesa si irrigidisce intorno ad enunciati che rifiutano di rendersi compatibili. Logomachie intorno a sei mesi in più o in meno, palleggiamento di responsabilità tra magistrati ritenuti scansafatiche e avvocati accusati di ostruzionismo. Un processo democratico? Non se ne esce se non si raddrizza il tiro: il che vuole dire, da un lato, avere piena consapevolezza degli effetti disastrosi che la prescrizione sta producendo; e dall’altro lato introdurre razionalità in una querelle fatta ormai di luoghi comuni non più sostenibili. Muoviamo dunque dagli effetti concreti dell’attuale disciplina. Essi non sono solamente la moria di centinaia di migliaia di processi che non giungono alla loro conclusione naturale, cioè all’accertamento di una innocenza o di una responsabilità penale. Questo è l’aspetto contabile del problema, uno dei tanti profili dell’inefficienza della giurisdizione. Ma sotto questo deficit si annidano ben quattro distorsioni allarmanti, delle quali occorre farsi carico. La prima attiene al solco sempre più intollerabile che divide gli imputati in grado di permettersi una difesa spregiudicata e costosa, e gli imputati che non possono o non vogliono farlo. I primi hanno un alto grado di probabilità di uscire indenni dal processo, gli altri no. Ora, la pena per i deboli e l’impunità per i forti è un vecchio e amaro connotato della giustizia, ma un processo che esalta le differenze sociali non è un processo democratico e va curato. La seconda distorsione concerne la qualità dei reati che finiscono in prescrizione. Poiché il tempo necessario a prescrivere cresce con il crescere della pena comminata in astratto, e poiché il codice penale del 1930 adottò un regime sanzionatorio piuttosto pesante, mentre la legislazione moderna cerca di rifuggire da livelli di pena eccessivi, ne discende che si sottraggono di più alla prescrizione i delitti considerati gravi secondo i valori di ottant’anni fa, mentre vi incappano più spesso i reati ai quali oggi si è più sensibili, come i reati ambientali, urbanistici, sanitari e simili, e soprattutto la corruzione e affini, che hanno avuto un trattamento particolare con la nota legge "ex Cirielli" del 2005. Anche questa non è cosa che ci può lasciare indifferenti. La terza disfunzione si produce a livello di lavoro giudiziario. I magistrati, soprattutto quando la notizia di reato arriva sul loro tavolo parecchio tempo dopo il fatto, lavorano sapendo che la loro attività sarà quasi certamente posta nel nulla, e tuttavia non possono esimersi da quel lavoro, perché lo esige l’obbligatorietà dell’azione penale. Così quelli che gestiscono i primi segmenti del processo spesso si rassegnano sin dall’inizio a lasciar dormire la pratica nell’armadio perché sanno che non faranno comunque in tempo, oppure si sentono esentati da responsabilità sol che riescano a trasmettere a valle il fascicolo in tempo utile, e poi avvenga quel che può; quelli poi che ricevono la pratica alle soglie della scadenza i sentono esentati da colpe perché non possono fare miracoli in tempi brevi, e il risultato è una quantità di lavoro inutile, che comunque inzeppa i ruoli di udienza e ritarda anche gli altri provvedimenti che potrebbero farcela. Chi si difende "dal" processo - La quarta disfunzione è la più grave, perché segna un’autentica distorsione del costume giudiziario. Poiché la prescrizione si è via via trasformata da fatto eccezionale in un traguardo concretamente raggiungibile dalla difesa, quanto meno per i reati puniti con pena non molto elevata, essa è diventata un fattore intrinseco di inquinamento e di rallentamento del processo. Molte attività vengono richieste e compiute non perché siano davvero necessarie, ma perché allungano i tempi, ed i giudici non ritengono di rifiutarle perché temono che il loro eventuale "no" sia censurato nei gradi successivi del giudizio, in quanto lesivo di un diritto della difesa. In questo modo il decorso del tempo ha perso il suo carattere neutrale per trasformarsi in un’arma di difesa non nel processo, ma dal processo. La parità delle armi, cardine del rito accusatorio, viene alterata dal rilievo che la consumazione del tempo, utile alla parte che beneficerà della prescrizione, è affidata in larga misura proprio a quella parte, senza che né la controparte né il giudice possano contrastarla validamente. Come combattere questi fenomeni in modo rispettoso sia dei diritti del cittadino, sia della funzionalità del processo? Un’indicazione è stata offerta proprio da una legge costituzionale del 1999, nota come la riforma del giusto processo, là dove ha inserito nell’articolo 111 della Costituzione il principio per cui "la legge assicura la ragionevole durata del processo". Ciò significa da un lato che l’accertamento dei reati deve avvenire in termini che non espongano il cittadino ad una soggezione processuale per un tempo non ragionevole, e dall’altro lato che questo accertamento deve essere concretamente praticabile. Tradotto: i processi non possono essere eterni, e, a rovescio, l’istituzione non deve essere penalizzata nei suoi obiettivi quando è incolpevole. Ora, stabilire che cosa è ragionevole è cosa difficile. Ma possiamo accordarci passabilmente su che cosa non è ragionevole. Una prima situazione non ragionevole si verifica quando la giurisdizione viene sollecitata ad attivarsi per l’accertamento di un reato molto tempo dopo che lo stesso è stato commesso e, con la disciplina vigente, dispone solo più di un tempo molto esiguo per portarlo a compimento. È evidente che nessun impegno, nessuno zelo, nessuna acrobazia riuscirebbe mai a percorrere i tre gradi del processo nel poco tempo che rimane. E quand’è che, in prevalenza, questo accade? Anche qui il confronto statistico è eloquente, perché i cosiddetti reati di strada pervengono quasi subito alla conoscenza degli organi preposti alla loro repressione, e quindi nel pre-processo si consuma solo una minima parte del tempo atto a prescrivere; mentre i cosiddetti reati di scrivania stanno a lungo acquattati nell’oscurità fino a che un qualche accidente li fa venire alla luce, ma allora la corsa contro il tempo ha ormai pochissime chances. Quando far partire il cronometro - Pertanto il primo intervento dovrebbe consistere nello spezzare l’unitarietà del tempo necessario a prescrivere, che oggi ingloba illogicamente sia il prima del processo, del quale la giurisdizione non ha alcuna responsabilità, sia il cammino del processo, del quale invece la magistratura deve rispondere. Allora, se la notizia di reato perverrà entro il tempo definito (ad esempio, cinque o dieci anni, o altro: sarà la sensibilità comune ad individuare quand’è che matura il tempo dell’oblio) tutto il prima non sarà conteggiato; mentre se la notizia perviene quando questa arcata temporale è decorsa, il processo non dovrà nemmeno partire, anche se, rispetto ai termini odierni, residuerebbe qualche scampolo, ormai inutile. Il secondo punto nodale riguarda i tempi ragionevoli del processo. Quando la notitia criminis perviene entro i termini di cui si è detto ora, occorre provvedere a che il cittadino sia preservato da una durata indefinita della sua soggezione processuale. La durata del processo non è una variabile indipendente, ma soggiace ad un obbligo di rispetto del cittadino, e quindi devono essere compiuti tutti gli sforzi organizzativi necessari perché questo diritto sia tutelato. Poiché il processo, per sua natura, è articolato in fasi e gradi, ciascuno di essi dovrà giungere a conclusione entro un termine che sarà ancora la politica a definire, ma che dovrà tenere conto delle due esigenze contrapposte delle quali si è fatto cenno. Se il processo non riuscirà ad ultimare ciascuno dei suoi segmenti, e ovviamente l’intero percorso, entro i termini fissati, esso si estinguerà e libererà il cittadino che vi è soggetto. Ma, a rovescio, il principio di razionalità impone che l’istituzione non sia penalizzata per fatti di cui non è responsabile: se è la parte interessata a conseguire la prescrizione quella che fa girare le lancette dell’orologio al di là delle esigenze processuali ritenute congrue da chi il processo deve condurre secondo legge, ebbene in tale situazione si deve addivenire al fermo dell’orologio. Non esiste un diritto alla prescrizione in sé e per sé, ma solo come reazione ad una soggezione non ragionevole, alla quale non si contribuisce in proprio. Dunque la prescrizione non ha motivo di decorrere quando l’impiego di una quota di tempo è dovuto a richieste specifiche del cittadino-imputato. I diritti della difesa devono essere pienamente salvaguardati, ma non è corretto che essi giovino ad ottenere un risultato ulteriore rispetto a quello dichiarato (in concreto, se la difesa chiede l’assunzione di prove aggiuntive rispetto a quelle che il giudice ha ritenuto necessarie, o domanda un rinvio per motivi suoi, si dovranno accogliere le sue richieste, ma non acconsentire a che esse producano un beneficio ulteriore ed estraneo all’oggetto della richiesta stessa). Se si ha consapevolezza degli effetti negativi che la prescrizione produce, e se si accolgono queste linee-guida, è possibile pervenire ad un’architettura accettabile che rimuova dalla discussione quei temi che la inceppano (l’eliminazione della prescrizione dopo il primo grado, o la sua dilatazione indiscriminata) e le impediscono di conseguire un approdo sempre più indispensabile. Cyberbullismo, la nuova legge sa solo punire. Il ddl in discussione alla Camera di Pierangelo Della Morte Il Dubbio, 16 settembre 2016 Mai come negli ultimi anni, con la diffusione della rete internet e dei Social Media, è proprio nel mondo virtuale - figlio e padre della nostra evoluzione- che si consumano relazioni, si stringono amicizie, si fa business e si impara. E, come in ogni mondo, si commettono reati. Il bullismo è una condotta criminale, nel senso che crea dolore nella vittima ed essendo stata esperienza che molti hanno vissuto, si sa bene cosa significhi. Nel sistema scolastico Italiano e negli ambienti di lavoro ancora non si è riusciti ad eliminarlo del tutto. Ma cosa si intende per cyberbullismo? Nel ddl n. 1261 si legge "Per cyberbullismo si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione e si intende altresì qualunque forma di furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica". Era auspicabile da tempo una legge che si occupasse di tutto ciò in maniera fattiva. Il problema è, infatti, molto sentito non solo nel nostro paese ma in tutto il mondo libero. Fin dal 2004, l’Unione Europea ha istituito il Safer Internet Day, una giornata di sensibilizzazione alla rete ed a tutti i rischi connessi all’utilizzo di internet, il secondo martedì di febbraio. Ciò malgrado, nella fretta di recuperare il tempo perduto, si rischia di commettere un grosso errore: quello di far di tutta l’erba un fascio e di promulgare una legge che, come troppo spesso accade, dopo le modifiche delle commissioni perda ogni funzione originaria. Nel disegno iniziale, vi erano solo sei articoli e tutti tesi a tutelare mediante le iniziative più disparate i minori: si vada un tavolo tecnico per una azione integrata, alla formazione del personale scolastico per l’educazione ad un internet "consapevole", passando dal valore curriculare della buona conoscenza di internet, fino ad arrivare ala sanzione dell’ammonimento in assenza di specifica querela, proprio a non ignorare il comportamento del minorenne ultraquattordicenne in danno di altro minore anche quando non si è in presenza di specifica querela. Insomma per quanto non efficacissimo, il testo originario il ddl si indirizzava ai preadolescenti e agli adolescenti, ma anche ai professori e alle famiglie. In questo modo veniva sottolineata l’importanza di queste due istituzioni che da sempre dovrebbero svolgere il ruolo di educazione alla parità. Nel testo attuale, invece, qualsiasi attività, non necessariamente reiterata, compiuta dai cittadini anche maggiorenni sul web, conferisce la possibilità a chiunque di ordinare la cancellazione dei contenuti ritenuti "offensivi". Un commento troppo colorito su un forum, una conversazione sotto un post, qualsiasi pubblicazione di dati, qualsiasi notizia data su un blog o su una testata giornalistica multimediale, con questa nuova legge sarà oggetto di possibile rimozione. Cosa succede a chi non cancella, nonostante la richiesta, i contenuti presenti sul web? Sembrerebbe spettargli la rimozione e l’oscuramento dei contenuti ed una sanzione che va fino ai sei anni di carcere. E cosa resta a questo punto del cyberbullismo (che è un fenomeno sociale)? Solo un accenno residuale. È davvero il caso che gli Internauti si mettano a guardare con attenzione ai lavori Parlamentari di questa e della prossima settimana. Capitale senza mafia. Ma va? di Massimo Bordin Il Foglio, 16 settembre 2016 Cantone choc: "Nelle ipotesi processuali mai visti estremi per un 416 bis". La testimonianza è durata poco meno di due ore ma solo negli ultimi minuti ha avuto il suo momento chiave. Ieri al processo Mafia Capitale è stato sentito come testimone il presidente della Autorità nazionale contro la corruzione Raffaele Cantone, citato dalla difesa di Salvatore Buzzi. Cantone e la sua struttura hanno controllato gli appalti del comune di Roma nel periodo dal 2012 al 2014, esattamente quello in cui si sviluppa l’indagine giudiziaria che, partendo dalle vicende di Massimo Carminati, ha portato a questo processo. Un riscontro incrociato dunque. L’Autorità contro la corruzione ovviamente non può avviare procedimenti penali ma ha l’obbligo di segnalare alla procura della Repubblica documenti e procedure esaminati, se ravvisa la possibile presenza di un illecito penale. Nel caso del controllo sul comune di Roma, le segnalazioni di questo tipo non sono mancate. Di questo si è parlato nell’incrocio di domande e risposte della lunga testimonianza il cui tono generale è stato descritto dallo stesso dottore Cantone, all’uscita dall’aula bunker di Rebibbia, parlando con i giornalisti, come "soft, light". Disteso, insomma. Tanto è vero che i pubblici ministeri hanno risolto le loro domande in meno di cinque minuti complessivamente. Ma le cose importanti sono successe dopo, quando un avvocato di parte civile, Giulio Vasaturo per l’associazione antimafia Libera, ha chiesto al presidente Cantone di spiegare bene il criterio che fa scattare la segnalazione all’autorità giudiziaria da parte di quella anti corruzione. Cantone è stato chiaro nella risposta: "In tutti i casi in cui riteniamo ci sia anche un mero fumus di illecito penale, a partire da un semplice abuso d’ufficio, noi trasmettiamo gli atti all’autorità giudiziaria". Un dubbio, una possibilità dunque bastano. Poi se la vedano i pubblici ministeri. Un criterio così ampio ha una logica di autodifesa per evitare sgradevoli eventuali contestazioni successive e dunque è difficile dubitare della sua applicazione. A questo punto si è inserito l’avvocato Alessandro Diddi, il difensore di Salvatore Buzzi, per porre la domanda delle domande: "Ma fra le ipotesi di reato vi è mai capitato di segnalarne qualcuna relativa al 416 bis, all’associazione mafiosa?". Domanda astutamente suggestiva che la presidente Ianniello ha cercato di bloccare. In effetti la qualificazione dei reati non tocca all’autorità, che si limita a segnalare fatti. Ma a questo punto c’è stato il colpo di scena. Raffaele Cantone ha convenuto che nelle relazioni non c’è mai la qualificazione giuridica ma ovviamente, per inviarle, una idea del tipo di reato bisogna pur averla anche senza metterla nero su bianco e ha tenuto a precisare: "Posso dire di avere trovato ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione oppure reati economici, ma posso escludere di aver mai individuato, fino ad oggi in quelle carte, una sola qualificazione di 416 bis". Neanche una ipotesi, un dubbio, una possibilità, un fumus. Niente. A dirlo è un magistrato che da pm si è occupato, con successo, di processi alla mafia casalese. Dopo la sentenza di appello sulla "mafia di Ostia", le parole di Cantone sono la seconda scossa sismica che colpisce in breve tempo il pilastro accusatorio del processo. Il clima sarà pure stato "soft" ma per l’accusa l’udienza si è rivelata "hard". Mafia Capitale. Appalti irregolari: "il Campidoglio lo sapeva dal 2010" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 settembre 2016 Cantone teste della difesa di Salvatore Buzzi: le sue cooperative segnalate al Campidoglio già sei anni fa, ma il Comune continuò ad assegnare commesse all’imprenditore. L’Anac: "Mai i individuata l’ipotesi di associazione mafiosa". Già negli anni 2010 e 2011, quando l’inchiesta su Mafia Capitale era di là da venire, le cooperative di Salvatore Buzzi furono segnalate al Comune di Roma - insieme ad altre - per le irregolarità con cui ottenevano gli appalti. Ma il Comune non fece nulla, continuando ad assegnare lavori attraverso le procedure negoziate che sfuggivano a ogni tipo di controllo, né si mosse l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp) che aveva individuato le "criticità". I documenti sull’inerzia delle due istituzioni furono trovati da Raffaele Cantone quando la sua nuova Anticorruzione inglobò l’Avcp (guidata in precedenza dal giudice amministrativo Sergio Santoro, già capo di gabinetto dell’ex sindaco Alemanno), che a dicembre 2014 li trasmise alla Procura di Roma. Perché potevano interessare le indagini che avevano portato ai primi arresti e per appurare "eventuali possibili omissioni". Lo scandalo, insomma, poteva venire alla luce prima, fa capire Cantone che nella deposizione al processo contro il "mondo di mezzo" di Buzzi e Massimo Carminati definisce una "vicenda molto inquietante" quelle relazioni dimenticate nei cassetti del Campidoglio e dell’Avcp. A chiamarlo sul banco dei testimoni è stata proprio la difesa dell’ex ras delle cooperative romane: il presunto Grande corruttore accusato di associazione mafiosa si affida all’ex pubblico ministero antimafia (anticamorra, per l’esattezza) divenuto plenipotenziario della lotta alla corruzione. E al termine della deposizione l’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, si mostra soddisfatto. Perché s’è fatto dire che il meccanismo delle procedure negoziate senza controlli, alimentate dal meccanismo delle proroghe che di fatto diventava un’assegnazione diretta degli appalti, era un sistema generalizzato al Comune di Roma, che viveva senza programmazione finanziaria e appeso ai "debiti fuori bilancio". Un "modus operandi" non limitato alle cooperative di Buzzi, andato avanti sia con la Giunta di centrodestra guidata da Gianni Alemanno che con il centrosinistra di Ignazio Marino: "Sostanzialmente non c’è stata discontinuità", riassume Cantone. A specifica domanda, il presidente dell’Anticorruzione risponde di non avere "mai individuato e segnalato alle Procure ipotesi di associazione di stampo mafioso", per la gioia di imputati e difensori. I pubblici ministeri invece restano indifferenti: per loro l’accusa di mafia non nasce solo dalle gare d’appalto, terreno in cui sono necessariamente confinate le ispezioni di Cantone. Il quale comunica che sull’Ama (l’azienda municipalizzata per la gestione dei rifiuti) è in corso un’indagine non ancora conclusa, e sottolinea di continuo che il grande male sta nell’assenza di controlli; anche nelle quote di lavori riservati alle cooperative sociali. Qualche difensore tenta di fargli dire che la corruzione si annida nei gangli della Pubblica amministrazione, con l’obiettivo di rilanciare la tesi degli imputati vittime di funzionari concussori, ma il presidente del Tribunale blocca un’opinione che Cantone riferisce fuori dall’aula: "Penso che il marcio stia soprattutto nella burocrazia, ma non saprei dire in quali termini percentuali". Finalmente saremo tutti colpevoli di Giuseppe Sottile Il Foglio, 16 settembre 2016 Il giochino maledetto del "sospetto come anticamera della verità", usato per anni dai professionisti dell’antimafia contro i propri nemici, non si è mai fermato. Ora lo rilancia, con un azzardo, l’ex pm Antonio Ingroia. Ricordate l’allegra teologia del "sospetto come anticamera della verità"? È stato per anni il giochino infamante con il quale ogni professionista dell’antimafia finiva per criminalizzare e quindi neutralizzare i propri nemici politici. Un maresciallo dei carabinieri aveva deciso di indagare sulle malefatte di un sindaco? Nessuna paura: il sindaco vestiva i panni dell’eroe, in lotta perenne contro le invisibili armate di Cosa nostra, e alla prima trasmissione televisiva lanciava a mezza bocca un’allusione ispida e velenosa verso quell’investigatore invasivo e inopportuno. Generalmente il giochino funzionava, rapido e risolutivo. In un caso - il tragico caso del maresciallo Antonino Lombardo, accusato davanti alle telecamere di Michele Santoro di avere chiuso un occhio sulla latitanza di Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi - la gogna, montata a tavolino senza alcuna prova, si è conclusa addirittura con il suicidio del povero sottufficiale, colpevole solo di avere sollevato qualche perplessità sui protagonisti della luminosa "primavera" di Palermo, quella guidata dal ciuffo ribelle di Leoluca Orlando e dal gesuita Ennio Pintacuda. Parce sepulto, verrebbe da dire. Ma il guaio è che il giochino maledetto non si è mai fermato. E per farvi un’idea, guardate un po’ che cosa è riuscito a inventarsi un magistrato - grazie a Dio in disarmo - per mascariare con l’arma impropria del sospetto una persona dabbene che, per ragioni d’ufficio, poteva anche intaccare la sua carriera e incrinare il suo prestigio. Il magistrato in disarmo è una ex star del circo mediatico-giudiziario. È quell’Antonio Ingroia che ha conosciuto a Palermo, da pubblico ministero, la durezza e l’ebbrezza della più implacabile e appariscente lotta alla mafia. Grazie alla sua indiscussa professionalità, ma grazie anche ai suoi strettissimi rapporti con giornali e giornalisti votati alla redenzione dell’Italia, il dottore Ingroia poteva consentirsi, dentro e fuori la procura, di dire e fare tutto ciò che riteneva necessario pur di riportare boss e picciotti, reprobi e malacarne dentro i confini della legalità. Gli strumenti certamente non gli mancavano. Il codice di procedura penale gli metteva a disposizione una varietà infinita di atti con i quali inchiodare alla croce del sospetto un cittadino in odore di mafia, o in odore di collusione, o in odore di corruzione o in odore di chissà quale altra nefandezza configurata dalla legge come reato. Sempre in ossequio, va da sé, all’obbligatorietà dell’azione penale. Tanto per gradire, la danza poteva cominciare con l’apertura di un fascicolo - il cosiddetto modello 45 - dove l’ufficio dell’accusa convoglia le carte, anche una lettera anonima o un ritaglio di giornale, relative a qualcosa che puzza di bruciato. Esempio: è crollato un ponte e non sappiamo ancora se dietro c’è la malasorte o la colpa di un disonesto costruttore. Oppure poteva avvalersi del modello 21 dove vengono iscritti i nomi delle persone che potrebbero rientrare in quella indagine. Persone alle quali - ricordate il caso di Paola Muraro, tormentato assessore di Virginia Raggi, sindaco di Roma - va spedita, qualora l’avvocato la richieda, una comunicazione in base all’articolo 335. Oppure - ovviamente nel caso in cui siano già apparse le prime responsabilità - poteva spedire l’implacabile "avviso di garanzia", un atto pubblico con il quale il destinatario apprende ufficialmente di essere stato iscritto nel registro degli indagati e messo perciò nelle condizioni di potersi difendere. Un’arma a doppio taglio, come sappiamo bene. Perché con l’avviso di garanzia il cittadino finito sotto inchiesta viene consegnato all’opinione pubblica e diventa di fatto un soggetto sul quale può sputacchiare chiunque: dal giornalista all’opinionista, dall’uomo politico all’ospite del talk-show. "Questo non è un paese per innocenti", s’intitola l’ultimo editoriale di Panorama, da ieri in edicola. E chi può dargli torto? Se si sommano i sospetti che le procure e i giornali amici delle procure riescono a macinare in un solo giorno, tra modello 45 e modello 21, tra articolo 335 e avviso di garanzia, chi riuscirà mai a farla franca? Avete visto quel che è successo al Campidoglio. Su una manciata di nomi scelti dalla Raggi come assessori, due sono risultati già colpiti da provvedimenti giudiziari: Muraro e De Dominicis. Ma torniamo al dottore Ingroia. A forza di cavalcare la prateria dell’antimafia e di battere in lungo e in largo gli studi televisivi, con i santoni della società civile che lo seguivano in ogni angolo del mondo, da Montelepre al Guatemala; a forza di alzare continuamente il tiro, fino a intercettare il telefono di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, e a trascinare, nel cosiddetto processo della Trattativa, boss della mafia e vertici delle istituzioni; a forza di tutte queste cose, Antonio Ingroia ha finito per fare il passo più lungo della gamba: ha fondato un partito, Rivoluzione civile, e ha tentato il salto in politica, convinto di potere conquistare nientemeno che Palazzo Chigi. Era il 2013. E sappiamo tutti come è finita: sfiancato dalle proprie ambizioni e martellato per tutta la campagna elettorale da una impietosa imitazione di Maurizio Crozza, si è sfracellato al suolo di uno zero virgola. Costretto ad abbandonare la toga, è stato soccorso in fretta e furia da Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, e oggi vivacchia - si fa per dire - come amministratore unico della "Sicilia e-Servizi", una società partecipata dalla Regione. Attenzione, però. Perché l’intrepido Ingroia, ex stella della magistratura inquirente, non si è rassegnato alla sconfitta. Tutt’altro. Ha tirato il fiato e, per non farci mancare nulla, ha tentato la difficilissima impresa di trasformare la cultura del sospetto, quella che per tanti anni ha accompagnato la vita e le opere dei professionisti dell’antimafia, in una mistica della demonizzazione. A onor del vero c’è perfettamente riuscito e, per rendersene conto, basta esaminare in controluce la sofisticatissima formula che ha appena messo in pratica per delegittimare un sostituto procuratore della Corte dei Conti, Gianluca Albo, che legittimamente aveva preteso di capire come la "Sicilia e-Servizi" avesse speso i grossi finanziamenti provenienti, tramite la Regione, dall’Unione europea. L’ex campione dell’antimafia avrà probabilmente vissuto l’indagine avviata dal magistrato contabile come uno sfregio. Anche perché sul presunto danno erariale si era innestato un inevitabile fascicolo della procura della Repubblica, la stessa nella quale proprio lui aveva recitato la parte del principe senza macchia e senza paura. E così, quando dal Palazzo di giustizia è arrivata la notizia, salutare e liberatoria, dell’archiviazione, l’Eroe non ci ha visto più dagli occhi. Al punto da dichiarare pubblicamente che i suoi guai giudiziari erano da attribuire a un "fin troppo solerte sostituto procuratore della Corte dei Conti legato, sia da affinità parentali che da passati incarichi consulenziali, a uno dei difensori dell’ex senatore Dell’Utri, come noto, da me fatto condannare per concorso esterno in associazione mafiosa e oggi perciò in carcere dopo la condanna definitiva". Rileggiamolo, questo atto di accusa. A parte l’astuzia, infantile e birichina, di non fare il nome di Albo, la dichiarazione rivela due o tre cosine che Virginia Raggi e i grillini, sempre alla ricerca di magistrati ai quali affidare l’amministrazione della cosa pubblica, farebbero bene a tenere in mente. Pur di mascariare Albo, sul quale evidentemente non ha trovato una sola pagliuzza, Ingroia attiva una sorta di proprietà transitiva e ricorda, omettendo il nome anche del secondo personaggio tirato in ballo, che il "fin troppo solerte" sostituto procuratore della Corte dei Conti è nipote della moglie dell’avvocato Enzo Trantino, senatore della Repubblica, chiamato nel 2003 a presiedere la commissione parlamentare di indagine su Telekom Serbia. E fin qui niente di male: siamo tutti parenti di qualcuno. Ma il senatore Trantino, penalista di grande fama particolarmente in Sicilia, era entrato anche nel collegio di difesa di Marcello Dell’Utri. E questo dettaglio basta a Ingroia per costruire una seconda proprietà transitiva. Quasi una catena di Sant’Antonio. Secondo la quale se il nome di Dell’Utri inquina l’immacolato Trantino - il mestiere degli avvocati è anche quello di difendere gli imputati di mafia - automaticamente il nome di Trantino finisce per sporcare, a causa della lontana parentela, anche l’innocentissimo Albo. Ha ragione Panorama: "Questo non è un paese per innocenti". Dopo avere sguazzato per anni tra cultura del sospetto e questione morale, pronti ad appendere al palo chiunque porti sulle spalle la terribile etichetta di "indagato", siamo finiti in un letamaio dove per sfregiare un avversario non è più necessaria la soffiata di un pm che ti dica sottobanco se quel nome è finito nel modello 21 o se è stato già raggiunto da una comunicazione "ex articolo 335" o, peggio ancora, se gli è stata issata la forca di un avviso di garanzia. Ormai, stando al metodo Ingroia, venerato maestro d’antimafia e di legalità, s’avanza una nuova cultura: quella dell’ammiccamento obliquo, dell’allusione verminosa, del dire e non dire. Che ci renderà, finalmente, tutti colpevoli. Equo indennizzo applicabile anche agli ergastolani di Giuseppe Buffone Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2016 Corte costituzionale - Sentenza 21 luglio 2016 n. 204. Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 35-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui "non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p.", sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. È quanto ha deciso la corte costituzionale con la sentenza 204/2016. Il caso - Il decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito, con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014, n. 117 ha introdotto, come noto, una inedita previsione in seno alla disciplina dell’ordinamento penitenziario. In particolare, con l’articolo 35-ter, ha tipizzato rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati. Questa disposizione, come è noto, costituisce la risposta del legislatore alla sollecitazione proveniente dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ("Corte EDU"), 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, e, successivamente, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 279 del 2013, affinché fosse garantita una riparazione effettiva delle violazioni della Cedu derivate dal sovraffollamento carcerario in Italia. La disposizione menzionata, a tal fine, al detenuto che ha subìto condizioni carcerarie disumane, assicura una riduzione della pena detentiva ancora da espiare (comma 1), e, quando ciò non è possibile, un ristoro pecuniario (commi 2 e 3). Con recente sentenza n. 2014 del 21 luglio 2016, la Consulta si è pronunciata sulla nuova disposizione dichiarando non fondata la questione di legittimità della medesima nella parte in cui "non prevede, nel caso di condannati alla pena dell’ergastolo che abbiano già scontato una frazione di pena che renda ammissibile la liberazione condizionale, il ristoro economico previsto dal comma 2 dell’art. 35-ter o.p." (questione sollevata dal magistrato di sorveglianza di Padova). Respingendo i dubbi di incostituzionalità, la Corte delle Leggi ha predicato una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma in esame: ad avviso del giudicante, sarebbe fuori da ogni logica di sistema immaginare che durante la detenzione il magistrato di sorveglianza debba negare alla persona condannata all’ergastolo il ristoro economico, dovuto per una pena espiata in condizioni disumane, per la sola ragione che non vi è alcuna riduzione di pena da operare. "Non può sfuggire infatti all’interprete che quest’ultima evenienza non ha alcuna relazione con la compromissione della dignità umana indotta da un identico trattamento carcerario". Prosegue, dunque, la Consulta osservando che i commi 2 e 3 dell’articolo 35-ter cit. distinguono la competenza a provvedere sulla richiesta di ristoro economico a seconda che l’interessato sia o no detenuto: nel primo caso è competente il magistrato di sorveglianza, nel secondo il tribunale civile. "Diversamente da quanto ha affermato il giudice rimettente, infatti, non può considerarsi "eccezionale e straordinario" il potere del magistrato di sorveglianza di liquidare, "a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro" al detenuto che ha subìto un trattamento disumano, e non c’è alcuna ragione per negarlo nei casi in cui non vi è prima una riduzione di pena da operare". Particolare tenuità del fatto, comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2016 Impugnazioni - Giudizio di Cassazione - Cause di esclusione della punibilità - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Reiterazione della condotta di omessa corresponsione dell’assegno divorzile - Concedibilità del beneficio - Esclusione. La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131 bis cod. pen. non può essere dichiarata qualora venga reiteratamente omessa la condotta di omessa corresponsione dell’assegno divorzile, configurandosi un’ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al riconoscimento del beneficio. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 31 maggio 2016 n. 23020. Impugnazioni - Giudizio di Cassazione - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Presupposto ostativo del comportamento abituale (nozione). Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131 bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 6 aprile 2016 n. 13681. Reato - Reato permanente - Cause di non punibilità - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto - Condizioni ostative alla concessione del beneficio - Abitualità del comportamento - Reato permanente - Esclusione. Il reato permanente non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale ostativo al riconoscimento del beneficio di cui all’articolo 131-bis del cod. pen., sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza. In ogni caso, comunque, fin quando la permanenza non sia cessata, l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto sarebbe preclusa in ragione della perdurante compressione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, per effetto della condotta posta in essere dall’autore del reato, non potendosi definire tenue, secondo i criteri di cui all’articolo 133, comma I, cod. pen. un’offesa all’interesse penalmente tutelato che continua a protrarsi nel tempo. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 22 dicembre 2015 n. 50215. Impugnazioni - Giudizio di Cassazione - Cause di esclusione della punibilità - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Concorso formale - Presupposto ostativo del comportamento abituale - Configurabilità - Esclusione. La dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto non è preclusa dalla presenza di più reati legati dal vincolo del concorso formale, poiché questo istituto non implica l’abitualità del comportamento. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 27 novembre 2015 n. 47039. Impugnazioni - Giudizio di Cassazione - Cause di esclusione della punibilità - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Reato continuato - Presupposto ostativo del comportamento abituale - Configurabilità. La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’articolo 131 bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di " comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 30 ottobre 2015 n. 43816. Privacy, no al controllo indiscriminato su email e internet dei dipendenti di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2016 Verifiche indiscriminate sulla posta elettronica e sulla navigazione nella rete del personale sono in contrasto con il Codice della privacy e con lo Statuto dei lavoratori. Questa la decisione adottata dal Garante della privacy con il parere n. 5408460/2016che ha vietato a un’università il monitoraggio massivo delle attività in internet dei propri dipendenti. La vicenda - Il caso nasce dalla denuncia del personale tecnico-amministrativo e docente che lamentava la violazione della propria privacy per il controllo a distanza posto in essere dall’Ateneo che aveva raccolto e conservato in modo "massivo" dati dei dipendenti per un periodo di 5 anni. Una platea che comprendeva i docenti, i ricercatori, il personale tecnico amministrativo e bibliotecario, gli studenti, i dottorandi, gli specializzandi e gli assegnisti di ricerca, ma anche professori a contratto e visiting professors. L’istruttoria del Garante ha evidenziato che i dati raccolti erano chiaramente riconducibili ai singoli utenti, anche grazie al tracciamento puntuale degli indirizzi Ip (indirizzo Internet) e dei Mac Address (identificativo hardware) dei pc assegnati ai dipendenti. L’infrastruttura adottata dall’Ateneo consentiva inoltre la verifica costante e indiscriminata degli accessi degli utenti alla rete e all’email, utilizzando sistemi e software che non possono essere considerati, in base alla normativa, "strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa". Tali software, infatti, non erano necessari per lo svolgimento dell’attività e operavano, peraltro, in background, con modalità non percepibili dall’utente. La decisione - Nel provvedimento, il Garante ha denunciato la violazione non solo delle norme del Codice per la tutela dei dati personali ma dello stesso statuto dei lavoratori - anche nella nuova versione modificata dal cosiddetto "Jobs Act" - che in caso di controllo a distanza prevede l’adozione di specifiche garanzie per il lavoratore. L’Università avrebbe dovuto privilegiare misure graduali che rendessero assolutamente residuali i controlli più invasivi, legittimati solo in caso di individuazione di specifiche anomalie, come la rilevata presenza di virus. In ogni caso, si sarebbero dovute prima adottare misure meno limitative per i diritti dei lavoratori. L’Autorità ha anche riscontrato che l’Università non aveva fornito agli utilizzatori della rete un’idonea informativa privacy, tale non potendosi ritenere la mera comunicazione al personale del Regolamento relativo al corretto utilizzo degli strumenti elettronici, violando così il principio di liceità alla base del trattamento dei dati personali. L’Autorità ha quindi dichiarato illecito il trattamento dei dati personali così raccolti e ne ha vietato l’ulteriore uso, imponendo comunque la loro conservazione per consentirne l’eventuale acquisizione da parte della magistratura. Condannato all’ergastolo senza una prova storica di Giuseppe Scuderi Il Dubbio, 16 settembre 2016 Il mio alibi si basa sul registro penitenziario di Val Militello, ma non si trova. Egregio direttore, sono il condannato all’ergastolo Scuderi Giuseppe, attualmente ristretto presso la Casa Circondariale del Nuovo Complesso maschile di Rebibbia e con la presente intendo portare a Sua conoscenza che sono stato condannato per omicidio volontario aggravato soltanto sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e senza alcuna prova storica di reità. Ho proposto due richieste di revisione che sono state rigettate e ritenute infondate dalla Corte di Appello di Messina e dalla Procura Generale di Catania. Nel mese di marzo di quest’anno ho dato incarico ai miei difensori di fiducia di formulare al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale per la Sicilia una richiesta per l’acquisizione della copia del registro Penitenziario della casa mandamentale di Val Militello di Catania del 1989 riguarda l’entrata e l’uscita dei detenuti sottoposti al regime di semilibertà, in quanto era tale la mia condizione di condannato per reati bagatellari. Intendevo acquisire il sopra citato documento per ripresentare una nuova istanza di revisione del giudicato di condanna, ed in tal senso, ho dato mandato ai miei legali di avanzare tale richiesta per provare l’alibi in quanto nel giorno e nell’ora del fatto 16.02.1989 stavo rientrando con la mia autovettura da Catania alla Casa mandamentale di Val Militello e, quindi, non potevo compartecipare all’esecuzione dell’omicidio. Dopo pochi giorni il Dap per la Sicilia comunicava che non vi era traccia dei registri di entrata e di uscita dei detenuti, probabilmente a seguito del trasloco dal vecchio al nuovo istituto penitenziario. e per questa carenza mi trovo nella impossibilità oggettiva di formulare la nuova istanza di revisione. Le sembra legittimo che in uno Stato Costituzionale di diritto un condannato innocente non possa comprovare il suo alibi a causa di un "non ritrovamento" di un importante Registro che doveva essere custodito dall’istituzione stessa e che è fondamentale per dimostrare l’innocenza di un uomo? Conoscendo le sue battaglie sui problemi della giustizia in Italia ed anche la sensibilità etico-culturale del quotidiano da Lei diretto La prego di voler pubblicare questa missiva che dimostra ancora di più come le contraddizioni dell’apparato amministrativo dello Stato non mettano in grado un condannato innocente di poter esercitare il diritto costituzionalmente garantito dalla revisione della sentenza penale di condanna, e quindi di permanere nello stato infernale della pena perpetua dell’ergastolo ostativo del "fine pena mai". Piemonte: M5S; nelle carceri "celle aperte" per una maggiore sicurezza Agenparl, 16 settembre 2016 "Per le carceri piemontesi la soluzione più efficace per garantire la massima sicurezza pubblica è proporre attività condivise tra detenuti e personale di polizia penitenziaria. Ne siamo sempre più convinti dopo la visita che abbiamo condotto venerdì presso la struttura penitenziaria di Biella, dove alla presenza della direttrice Antonella Giordano siamo tornati dopo un anno a visitare i locali interni (mensa, celle, laboratori) e gli spazi esterni (dedicati alla coltivazione di frutta e ortaggi per autoproduzione e vendita)". Lo dichiarano gli eletti M5S del territorio, il deputato Mirko Busto e il consigliere regionale Gianpaolo Andrissi. Busto e Andrissi aggiungono: "La casa circondariale di Biella è nata come terzo livello e sarà a breve la seconda realtà piemontese dopo Torino, questa l’anticipazione dataci dalla dott.ssa Giordano. L’aumento delle persone in stato di detenzione non ha però determinato l’aumento del personale civile e di sicurezza. Nella struttura di Biella - come nel resto d’Italia - si lamenta una carenza ormai cronica di risorse umane La grande criticità in cui si trova spesso a operare il corpo degli agenti penitenziari si ripercuote inevitabilmente su tutto l’iter dell’esecutività della pena, e non solo, dovendo anche compensare l’ancora più critica situazione del personale amministrativo. Nonostante ciò, a Biella siamo rimasti particolarmente colpiti dalla buona volontà dei singoli e dall’effettiva capacità di rendere la "custodia" in tutte le sue formule (dinamica e tradizionale) un punto di partenza per il reinserimento sociale". "Come sosteniamo da sempre - sostengono i pentastellati - le "gabbie devono essere aperte" e l’istituzione di pena e recupero va ripensata in tutte le sue formule. L’obiettivo è consentire ai detenuti di "restituire" alla società quanto appreso nelle strutture carcerarie. Per questo deve essere permesso loro di impegnarsi in progetti che possano, da una parte abbassare la tensione interna e dall’altra permettere il loro futuro reinserimento. Biella in questo senso è un esempio illuminante grazie ai vari progetti di coltivazione di frutta e ortaggi e da quest’anno della camomilla, la cui vendita viene effettuata nel circuito del mercato solidale". Gli eletti M5S del territorio dichiarano infine: "Continueremo a combattere, vigilare e proporre in tal senso, monitorando con molta attenzione queste realtà che dovrebbero diventare esempio da replicare ovunque". Abruzzo: il balletto vergognoso della politica regionale sulla pelle dei detenuti di Mattia Fonzi news-town.it, 16 settembre 2016 La (mancata) nomina della figura di Garante dei detenuti in Abruzzo assume contorni sempre più grotteschi, quanto vergognosi, per il protrarsi infinito del gioco delle parti della politica regionale, sulla pelle dei detenuti abruzzesi e in barba alle tutele nei confronti di questi ultimi. Come noto, l’Abruzzo è l’unica regione in Italia rimasta ancora senza garante dei detenuti, figura istituzionale nata diversi anni fa con la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dalle carceri, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), fino ai trattamenti sanitari obbligatori (tso). La nomina di Rita Bernardini, esperta di carceri e figura di spicco del Partito radicale, è stata proposta da Luciano D’Alfonso e sembra trovare d’accordo la maggioranza dei consiglieri dell’Emiciclo. Ma ancora non viene votata la sua elezione, che necessita di una maggioranza qualificata di 23 consiglieri. Parma: il 15 settembre iniziano i lavori di ampliamento del carcere parmatoday.it, 16 settembre 2016 Il 15 settembre inizieranno i lavori per l’ampliamento del carcere di via Burla a Parma. Secondo le previsioni i lavori per il nuovo padiglione saranno completati entro il gennaio del 2018 e, al termine, ospiteranno 200 nuovi detenuti. È l’applicazione del Piano Carceri, un strumento di anni fa, antecedente alla sentenza Torreggiani. Nessuno sembra essere contento della decisione di iniziare i lavori, che verranno realizzati dalla ditta Devi di Brescia. La presenza del cantiere comporterà il trasporto di materiali eccezionali. Per i poliziotti della Penitenziaria sarà un lavoro in più, con i dodici nuovi posti di servizio che sono già stati istituiti per monitorare il cantiere. Per i 320 agenti attualmente in servizio -sempre in carenza di organico- non sarà facile da gestire. Abbiamo cercato di capire se per le forze politiche e sociali del territorio l’ampliamento del carcere è una priorità e quali problematiche pone alla città, dal punto di vista sanitario e della sicurezza. Il Garante del Comune: "Parma si schieri contro l’ampliamento". "È inutile auspicare che venga dedicato al Centro diagnostico quando l’aggiudicazione dei lavori è stata fatta per realizzare un padiglione solo di reclusione, non sono previsti né la creazione di un centro diagnostico terapeutico e non ci sono neanche spazi per i colloqui con i famigliari. La soluzione della costruzione del padiglione potrà al limite risolvere la sovrappopolazione di altri istituti anche di altre regioni a spese dei detenuti e del personale di Polizia Penitenziaria di Parma". Roberto Cavalieri esprime, come ha già fatto in altri contesti, la propria forte contrarietà al progetto Roberto Cavalieri, Garante dei Detenuti del Comune di Parma. "Voglio lanciare anche l’allarme -aveva detto in occasione della firma di un protocollo tra carcere e Ausl - rispetto alla prevista costruzione del nuovo padiglione del carcere di Parma, che ospiterà - secondo il Piano Carceri - altri duecento detenuti. Recentemente c’è stato l’appello della Garante regionale per il proseguimento dei lavori. Io penso invece che Parma debba prendere una posizione contro questo progetto, che sarebbe insostenibile anche dal punto di vista del sistema sanitario all’interno del carcere. Polemiche tra Garanti - La replica della Garante regionale: "Auspico vengano dedicati al centro diagnostico". "Con riferimento alle dichiarazioni del Garante del Comune di Parma, relative al ritenuto appello della Garante regionale per la prosecuzione dei lavori di costruzione del nuovo padiglione presso gli II.PP. di Parma, si precisa quanto segue, non essendo le stesse veritiere : ad aprile 2015, nel corso di una riunione dei Garanti regionali con i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, è stata data la conferma che sarebbero stati portati a termine i lavori di ampliamento del penitenziario parmense, con la costruzione di un nuovo padiglione, anche in ragione dell’aggiudicazione dell’appalto. Ciò premesso, come anche riportato di recente con un comunicato stampa (si veda il link in fondo) l’auspicio della Garante regionale è che i posti della nuova struttura vengano dedicati a ospitare spazi per l’ampliamento del Centro diagnostico terapeutico, di cui è costante la totale copertura dei posti disponibili e di conseguenza un numero eccessivo di detenuti affetti da gravi patologie, in ragione dei posti limitati a disposizione, viene collocato nelle ordinarie sezioni detentive, ambienti ovviamente inidonei per una persona malata il tutto nell’attesa, spesso lunga, che si liberi un posto. Tale criticità è stata segnalata all’Amministrazione Penitenziaria a più riprese dalla Garante regionale, in ragione delle doglianze giunte in maniera ricorrente da parte dei detenuti, soprattutto quelli con lunghe pene da scontare, legate alla promiscuità determinata dalla convivenza di persone sane e malate, che comporta un peggioramento delle condizioni di vita complessive, risultando fondamentale per la tutela del diritto alla salute delle persone detenute che i trasferimenti e le assegnazioni per motivi sanitari, giustificati per assicurare cure più adeguate al detenuto rispetto al carcere di provenienza, intervengano solo previa valutazione dell’effettiva sostenibilità della presa in carico nel breve periodo. Saccenti: "Confronto con il Ministero della giustizia" - Elena Saccenti, direttore generale dell’Ausl di Parma commenta a Parmatoday la decisione di portare avanti il progetto di ampliamento del carcere di via Burla. ""Auspichiamo che ci siano tutte le condizioni per rispondere ai bisogni sanitari e socio-sanitari dei detenuti, oltre che per migliorare l’organizzazione del lavoro di custodia e riabilitazione, e confidiamo che sia possibile un confronto con i servizi competenti del Ministero della Giustizia nelle sedi istituzionali della programmazione delle attività sanitarie in carcere". Sappe: "Garantire la sicurezza della struttura" - Il Sappe in una nota chiede "all’Amministrazione, di inviare un congruo numero di agenti in missione per garantire la sicurezza della struttura". "Sono stati infatti istituiti -prosegue la nota di Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Errico Maiorisi, vice segretario regionale- altri 12 posti di servizio, rispetto a quelli già esistenti. Tutto ciò creerà ulteriori difficoltà operative, considerato che il reparto di Parma, per soddisfare le attuali esigenze di sicurezza e tutti gli altri servizi, dovrebbe avere un organico di 417 unità di polizia, mentre, effettivamente, ne sono impiegati solo 320; le oltre 100 unità mancanti sono impiegate in altre strutture o in altri servizi". Sinappe: "Garanzie per l’adeguamento dell’organico" - "I lavori per l’ampliamento della struttura sono fermi da anni - commenta il Sinappe a Parmatoday. Non credo sia una priorità altrimenti sarebbero stati sbloccati da tempo. Il vero problema è quello della carenza d’organico che in caso di un’accelerazione dei suddetti lavori, con conseguente apertura del nuovo padiglione, si aggraverebbe ancora di più. Consideri che malgrado le nostre manifestazioni di protesta e la concomitanza col piano ferie estivo che ci sta mettendo in ginocchio, continuano a persistere provvedimenti di distacco verso altre sedi, nel numero di oltre 100 unità, compreso il personale assegnato provvisoriamente alla Scuola di Parma che allo stato attuale non gestisce alcun corso di formazione. In definitiva, il Sinappe non sarebbe contrario ad un eventuale ampliamento del penitenziario di Parma, ma richiederebbe tutta una serie di garanzie in ordine all’adeguamento dell’organico ed ai necessari lavori di ammodernamento del vecchio padiglione per non ricadere nell’errore commesso per altri Istituti della Regione, presso i quali è stato fin da subito chiaro fosse stata creata una divisione tra padiglione di serie "A" e di serie "B", con tutto quanto ne è poi conseguito in ordine alla gestione dei detenuti. Dall’Olio: "chiediamo più forze dell’ordine" - "Le politiche carcerarie non le decide l’Amministrazione comunale, se andranno avanti i lavori in ogni caso penso che ci dovrebbe essere da parte dei Ministero degli Interni un impegno di garantire a Parma una maggiore dotazione di forze dell’ordine, anche per presidiare il territorio. Le persone che escono c’è un problema per assisterle ed evitare che rientrino nel giro della criminalità, non è che il Comune possa impedire delle politiche legate allo sviluppo del carcere ma può chiedere che vi sia un impegno per l’invio delle forze dell’ordine. E anche risorse per i servizi per l’accompagnamento quando i detenuti vengono rilasciati". Milano: Mirabelli (Pd) in Senato "aprire subito spazi ristrutturati all’Ipm Beccaria" Agenparl, 16 settembre 2016 "I nuovi spazi ristrutturati dell’Istituto Beccaria di Milano vanno aperti ed utilizzati al più presto per riavviare tutte le attività che hanno distinto questo carcere minorile quale modello di eccellenza. Il Governo rimuova tutti gli impedimenti". Lo ha chiesto il senatore del Pd eletto a Milano Franco Mirabelli, che è intervenuto sull’argomento nell’aula del Senato. "Questa mattina - ha detto Mirabelli - dalle pagine di un quotidiano, Don Gino Rigoldi ha di nuovo rilanciato un preoccupato allarme per la situazione dell’Istituto Beccaria di Milano di cui, da oltre trent’anni e cappellano. In questi anni il Beccaria è stato sempre considerato un modello positivo tra gli istituti di detenzione minorili per le tante attività educative, culturali, di formazione e lavorative che proponeva e per l’apertura al territorio garantita da tanti progetti realizzati con alcune scuole. Negli ultimi mesi, come don Gino ha denunciato, la situazione è rapidamente degradata: sono state chiuse molte attività per mancanza di fondi, la mancata nomina di un direttore e del capo degli agenti di custodia ha alimentato incertezze e i mesi estivi, in cui sono mancate anche le attività scolastiche, sono stati difficili per operatori e ragazzi, i tempi di inattività hanno spesso alimentato tensioni". "A ciò si aggiunge l’inadeguatezza degli spazi in cui vivono i minori, che doveva essere risolta dalla ristrutturazione di una intera ala, ristrutturazione che appare completata ma che non ha avuto l’agibilità per poter essere utilizzata. Di fronte a questa situazione che rischia di compromettere i livelli di qualità per gli operatori e per i ragazzi e rischia di vanificare il lavoro eccellente fatto in questi anni, credo che il ministero e il dipartimento debbano intervenire al più presto per nominare i dirigenti apicali dell’istituto e degli agenti di custodia e verificare quali siano gli impedimenti all’apertura dei nuovi spazi ristrutturati per rimuoverli tempestivamente. Si tratta anche di dare nuovo impulso all’apertura al territorio, per favorire il lavoro educativo e formativo. In questo senso - ha concluso Mirabelli - l’occasione che potrebbe costituire l’apertura all’esterno del teatro, appena ristrutturato grazie all’intervento di tanti enti culturali, va colta senza ulteriori ritardi". Brindisi: un detenuto della Casa circondariale lavorerà (gratis) per un anno al Comune puglialive.net, 16 settembre 2016 Il Comune e la direzione della Casa circondariale di Brindisi hanno sottoscritto questa mattina una convenzione per il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. Così come concordato nei giorni scorsi dalla sindaca Angela Carluccio e dalla direttrice del carcere giudiziario, Anna Maria Dello Preite, il Comune accoglierà un detenuto per volta, per un periodo non superiore a dodici mesi ciascuno. Il detenuto svolgerà per quattro ore giornaliere (dalle ore 9 alle ore 13) lavori di giardinaggio, piccoli lavori di facchinaggio e riordino archivi e locali comunali, oltre a mansioni compatibili e coerenti con il profilo professionale, la formazione e il curriculum scolastico del detenuto. Il Comune nominerà un tutor aziendale che verificherà l’effettiva presenza del detenuto e il rispetto dell’orario stabilito, nonché l’andamento dell’attività di volontariato. Il detenuto (che lascerà il carcere per le ore necessarie a svolgere la sua attività lavorativa) non sarà retribuito. Il Comune si occuperà esclusivamente di versargli i contributi Inail. Sarà invece la direzione della Casa circondariale a individuare il detenuto da inserire volta per volta nel progetto, a trasportarlo dal carcere al luogo di lavoro e viceversa, a nominare a sua volta un tutor che monitorerà l’andamento dei singoli progetti d’inserimento. La convenzione è valida per 24 mesi ed è stata firmata dalla direttrice della Casa circondariale di Brindisi e da Nicola Zizzi, capo di Gabinetto del Comune. Presente il consigliere comunale Marika Rollo (Coerenti per Brindisi) che ha svolto un lavoro di mediazione tra i due enti. Sondrio: tre detenuti escono dal carcere per aiutare lo sport. "Esperienza positiva" di Alberto Gianoli La Provincia di Sondrio, 16 settembre 2016 Tre detenuti sono usciti grazie alla disponibilità dell’associazione "I Dolcissimi" e a don Citterio. Sono in aumento, negli ultimi mesi, le opportunità di vivere esperienze all’esterno della Casa circondariale di via Caimi per i detenuti che beneficiano di quanto previsto dall’articolo 21 delle norme sull’ordinamento penitenziario, che regola le opportunità lavorative fuori dal carcere. Grazie all’interessamento del cappellano, don Ferruccio Citterio, che ha messo in contatto i responsabili dell’associazione sportiva dilettantistica "1 Dolcissimi" con la direttrice del carcere, Stefania Mussio, tre detenuti sono stati coinvolti attivamente nel supportare l’organizzazione di due manifestazioni svoltesi nelle ultime settimane. "Da un incontro casuale con don Citterio - spiegano i responsabili dell’associazione -, è nata l’idea di coinvolgere nelle nostre iniziative i ragazzi del carcere. E iniziato così un fitto scambio di e-mail e telefonate con la direttrice della casa circondariale Mussio, finalizzato alla riuscita del progetto. Un primo gruppo di detenuti ha partecipato alla manifestazione "Camminata della Repubblica", come supporto ai ristori. Vista l’efficacia della collaborazione, un altro gruppo di detenuti è stato invitato a partecipare alla "Reguzzo 1.5". Le uscite - Così, domenica 14 agosto, membri dell’associazione I Dolcissimi si sono recati presso la casa circondariale per accompagnare tre detenuti in località Briotti, a Ponte in Valtellina, da dove un elicottero li ha portati a quota 2.500 metri, al rifugio Donati. Lì hanno collaborato con i membri dell’associazione per l’allestimento del ristoro e la distribuzione del pranzo al termine della "Reguzzo 1.5", manifestazione sportiva non competitiva che ha visto gli atleti affrontare 1.500 metri di dislivello. Domenica scorsa, si è ripetuta un’iniziativa simile. Alcuni membri dei Dolcissimi hanno accompagnato i detenuti al Dosso del Grillo, sempre in località Briotti, e hanno nuovamente collaborato nell’allestimento del pranzo servito al termine della "Mezza Dell’Acqua", corsa non competitiva che si è svolta tra Ponte e Pia-teda, sul tracciato della ex De-cauville, su un percorso completamente pianeggiante ad una quota di 1.000 metri di altitudine. Via i pregiudizi - "Tra detenuti e membri dell’associazione si è venuto subito a sviluppare un rapporto familiare - spiegano I Dolcissimi -, riuscendo a sfatare tutti quelli che potevano essere tabù e pregiudizi. E risultato un grande motivo di crescita per entrambe le componenti, da un lato i detenuti con il loro processo di recupero, dall’altro noi, spaventati in prima battuta da una realtà che non conoscevamo e stupiti poi nel vedere e nel vivere quanta normalità ci potesse essere nell’interfacciarsi con realtà pur sempre difficili e complesse. Ci sentiamo di dover essere noi a ringraziare per l’opportunità di crescita che ci e stata concessa: a volte basta proprio poco per cancellare mille pregiudizi e tanta diffidenza". Un ringraziamento è stato espresso anche dai detenuti coinvolti nelle esperienze. "Siamo strati molto contenti di questa bella esperienza - affermano Hassan, Balasel e Morales - e abbiamo apprezzato tutto, a partire dalla salita con l’elicottero fino al contatto con persone sconosciute, che sono state gentili con noi. Dopo questa esperienza abbiamo fatto buoni propositi per il futuro e compreso ancora una volta che la vita fuori dal carcere è molto più bella". Sassari: Elsa, la clochard dell’anonima sarda che vive sulla spiaggia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2016 Nel 2008 ha finito di scontare una condanna a 20 anni ed è tornata in Sardegna. Da qualche settimana, nella spiaggia di Platamona, vicino a Sassari, vive in tenda un’anziana signora di 80 anni. È senza fissa dimora e ha deciso di rifiutare gli alloggi messi a disposizione dal comune: gli orari sono troppo rigidi per le uscite e i rientri, perché gli ricordano la dura vita penitenziaria. Parliamo di una ex detenuta che ha passato 20 anni in carcere con l’accusa di aver fatto parte dell’anonima sarda. Una storia, la sua, piena di dolori ma anche di umanità e grande lotta per la sopravvivenza. Si chiama Elsa Sotgia e prima dell’arresto conduceva una vita normale, lavorava in un negozio di mobili a Sassari e aveva una famiglia con tre figli. Poi tutto cambiò per un innamoramento: divenne la compagna di Antonio Felline, allora, l’imprenditore laureato in legge considerato dagli inquirenti uno dei cervelli della banda che mise a segno decine di rapimenti. Elsa Sotgia finì a processo per concorso nel sequestro dell’imprenditore sassarese Pupo Troffa, prelevato dall’Anonima nel 1978 e rilasciato nove mesi dopo dietro il pagamento di un riscatto da 900 milioni di lire, e giudicata responsabile fu condannata a vent’anni di carcere. Si dichiarò innocente, da sempre. Quando venne arrestata, non resse. Cominciò la depressione. Ingerì una forte dose di tranquillanti e rischiò di morire. Poi, quando cominciò a scontare la pena a vent’anni di reclusione, la sua carcerazione fu segnata da una lunga serie di scioperi della fame: si nutriva esclusivamente di cioccolatini e caramelle. Scontata definitivamente la pena nel 2008, arrivarono nuovi dolori: le morì una figlia. Elsa rimase senza una casa e allora le si prospettò la vita da clochard. Per molti anni aveva bivaccato nel parco comunale di Gorizia, nel Friuli. Una notte venne perfino bruciata la sua panchina che utilizzava come letto, insieme con le valige che lei si portava appresso. La città friulana le si era stretta dandole solidarietà e affetto. "Qualcuno ha cercato di cacciarmi, bruciando la panchina su cui dormivo e distruggendo tutte le mie cose ma io rimango qui. Sono sarda, ho la testa dura. Mi bastano un sacco a pelo e un pacchetto di sigarette. Di altro, non ho bisogno", raccontò Elsa Sotgia ai cronisti de Il Piccolo di Trieste, il quotidiano locale. Quando scoppiò l’incendio, lei sulla panchina per fortuna non c’era. Una combattente, Elsa Sotgia. Non solo durante la sua vita carceraria, ma anche fuori. Da qualche settimana ha fatto ritorno nella sua città natale e ha rinunciato all’alloggio comunale: ha deciso di vivere in tenda ogni giorno sulla spiaggia sassarese, a due passi dalla rotonda. Vuole stare lì, in completa libertà, nonostante i vigili urbani abbiano più volte cercato di convincerla a spostarsi in ostello. Torino: il Ristorante Vallette debutta al Salone, a gestirlo i detenuti di Diego Longhin La Repubblica, 16 settembre 2016 Il cibo come occasione di riscatto e reinserimento sociale, anche dietro le sbarre del carcere. Fra poco più di un mese, il 21 ottobre, a Torino aprirà i battenti il ristorante della casa circondariale Lorusso e Cotugno. Un progetto pensato e partito più di due anni fa. Finalmente sono arrivate le autorizzazioni e gli spazi interni al carcere della Vallette sono stati ristrutturati e riqualificati, inserendo elementi di design che danno un tocco particolare all’ambiente. "Il ristorante Liberamensa è un progetto per il recupero fisico, sociale ed educativo dei detenuti che sono stati formati per lavorare in cucina, chef o aiuto cuoco, e in sala come camerieri", dice Piero Parente della Cooperativa Sociale Ecosol. "Il personale del ristorante sarà tutto formato da detenuti del carcere, non ci saranno esterni". Inaugurazione virtuale del ristorante durante il Salone del Gusto: il 23 settembre cena simbolica con uno chef di eccezione. Dall’Osteria Mangiando Mangiando di Greve in Chianti, chiocciolata sulla guida Osterie d’Italia, lo chef Salvatore Toscano, grande appassionato ed ex giocatore di rugby, sport praticato dietro le mura del carcere di Torino, porterà in un simbolico "Terzo Tempo" i piatti della tradizione toscana. Alla cena collaboreranno, sia in sala sia in cucina, i detenuti del carcere di Torino e del carcere di Cuneo. L’appuntamento è prenotabile sul sito del Salone del Gusto. Durante la serata verrà presentato il ristorante del Lorusso e Cotugno, aperto a tutti. Ne parleranno Luigi Pagano, provveditore regionale amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Domenico Minervini, direttore della casa circondariale di Torino, Bruno Mellano, garante dei diritti dei detenuti, Piero Parente della Coop Ecosol e Gianluca Boggia della Coop Extraliberi. Si tratta della seconda struttura del genere a livello nazionale. La prima è stata quella di Bollate. Il ristorante sarà aperto al pubblico, nella prima fase, tutti i venerdì e i sabati. Nel menù saranno presenti prodotti e materie prime realizzate in carcere, dal pane fatto con lievito madre alla pasta fresca, dallo zafferano ai dolci. Un progetto costruito dai vertici del carcere e dalla cooperativa Ecosol che dal 2008 opera nella ristorazione dietro le sbarre offrendo prodotti di qualità e servizi di catering Le iniziative di punta dell’economia carceraria saranno presentate anche durante il Salone del Gusto in uno stand dell’amministrazione penitenziaria: si potrà assaggiare vino, birra, caffe, pane, biscotti e tanti altri prodotti provenienti dalle carceri piemontesi e da molti istituti penitenziari italiani. Cibi che si troveranno anche in negozio, in via Milano 2, di fronte a Palazzo Civico, dove riaprirà il negozio Freedom dedicato all’economia carceraria. Modena: "Festival della Filosofia", l’Antigone con i detenuti del Teatro dei Venti ilnuovo.redaweb.it, 16 settembre 2016 Un Laboratorio teatrale in Carcere può diventare occasione di ricerca artistica e di confronto sociale, soprattutto quando l’esito viene condiviso con la cittadinanza creando un’occasione di riflessione e riscatto. Quest’occasione viene fornita dal Festival della Filosofia che il 17 e 18 settembre ospiterà lo spettacolo "Antigone. Variazioni sul mito" realizzato dal Teatro dei Venti con i detenuti del Carcere di Modena e il gruppo di attori della compagnia. Lo spettacolo andrà in scena entrambi i giorni alle ore 20.30 presso il Teatro Tempio (Viale Caduti in Guerra, 196 - Modena) con ingresso gratuito. Il contrasto tra la legge della città e la pietà umana, tra l’autorità maschile e la sensibilità femminile, costituiscono il fulcro attorno al quale si sviluppa questo lavoro realizzato a partire dall’Antigone di Sofocle, l’eroina che ha sfidato l’imposizione della legge e le consuetudini che relegavano le donne fuori dalla dimensione politica. Lo spettacolo, che ha debuttato nell’Aprile di quest’anno all’interno del Carcere di Modena, è prodotto dal Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia Romagna e con il contributo del Comune di Modena, in seno al Laboratorio permanente all’interno della Casa Circondariale. "Il testo di Sofocle è stato il pretesto per poter avviare una ricerca artistica all’interno del Carcere di Modena e quello che presentiamo al Festival della Filosofia è il primo esito in uno spazio esterno - dice il regista Stefano Tè. La complessità della tragedia incontra la potenza del corpo recluso, in una messa in scena sobria e nel rispetto della drammaturgia originale. L’opera è infatti rappresentata quasi nella sua interezza e i detenuti/attori mostrano, con la dedizione necessaria, di saper affrontare questo primo progetto artistico con il giusto grado di consapevolezza e professionalità". L’attività del Teatro dei Venti in carcere. - La compagnia lavora all’interno del Carcere di Modena dal settembre 2014 nella sezione Sex Offenders e nella sezione femminile. Questi laboratori si affiancano a quelli che tiene dal 2006 presso la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e sono un’officina creativa dove i detenuti hanno l’opportunità di sperimentare diverse forme di comunicazione artistica. Il risultato del percorso confluisce sempre nella messa in scena di uno spettacolo aperto al pubblico, dentro e fuori le mura carcerarie. Nel 2007 lo spettacolo Frammenti è stato presentato alla finale del Premio Scenario per Ustica. Nel 2011 ha debuttato lo spettacolo "Attraverso Caligola", nel 2013 "Sette contro Tebe", nel 2016 ha visto la luce "Angeli e Demoni", nato da un articolato progetto che ha coinvolto insieme detenuti, studenti e attori in un lavoro sulla Gerusalemme Liberata del Tasso. Con la stessa modalità è partito il progetto "Ubu Re" che vedrà insieme detenuti, ex detenuti e attori impegnati in una serie di residenze creative fuori dal Carcere. Lampedusa, gli sbarchi in una fiction televisiva di Stefano Crippa Il Manifesto, 16 settembre 2016 Il 20 e 21 settembre due puntate su Rai1 per la regia di Marco Pontecorvo. Claudio Amendola e Carolina Crescentini protagonisti di una storia ambientata in un centro accoglienza. Quanto è possibile contaminare una tragedia, gli sbarchi dei clandestini, le vite nei centri di accoglienza, la mala politica - con gli elementi della fiction senza cadere nella retorica? Ci prova Marco Pontecorvo regista della miniserie in due puntate che Raiuno trasmetterà il 20 e 21 settembre in prima serata, dal titolo Lampedusa dall’orizzonte in poi, attraverso le storie di Viola (Carolina Crescentini) responsabile del centro di accoglienza, del maresciallo della Guardia costiera Serra (Claudio Amendola) inviato sull’isola, il sindaco, la cittadinanza. Sposando i vari punti di vista ma mettendo in primo piano le quotidiane esistenze dei clandestini contrapposte a quelle degli "antagonisti", ovvero chi specula sul traffico di vite umane, gli scafisti e i mercenari. L’idea è di Amendola, colpito tre anni fa dal racconto di un capitano della guardia costiera ascoltato in una trasmissione di Fabio Fazio, Vieni via con me: in una notte di tempesta del 2008 la guardia costiera con l’aiuto di cinque pescherecci salva più di seicento persone: "Siamo partiti da qui - spiega Andrea Purgatori che insieme a Laura Ippoliti ha curato la sceneggiatura del soggetto - da questa storia paradigmatica, ovvero la collaborazione fra uomini deputati a salvare migranti insieme a pescatori che fanno un altro lavoro. Abbiamo posizionato il racconto fra il 2008 e il 2010, perché ogni giorno venivamo superati dalla realtà, sempre più terribile". Una fiction certo, ma che non può sottrarsi a domande di natura politica: "C’è - spiega Amendola - grande disinformazione sul tema dei migranti che sbarcano sulle nostre coste. È un argomento importante che non deve essere utilizzato per racimolare voti e consensi. Le persone che abitano nel cosiddetto nord del mondo sono molto fortunate ed è il momento che si prendano delle responsabilità di passate azioni. Dobbiamo scontare un passato che parte dai colonialismi e passa alle guerre che finanziamo con le nostre armi, ai rapporti che i paesi occidentali intrattengono con i paesi killer che finanziano l’Isis". Lampedusa è una coproduzione Rai fiction-Fabula Pictures, prodotta da Nicola e Marco De Angelis, girata tra Lampedusa e nei dintorni di Roma, con molte scene ambientate nel centro di accoglienza ricostruito in una caserma dei Vigili del fuoco a pochi chilometri da Roma. Le prime scene partono proprio da un punto imprecisato a Largo di Lampedusa, dove Serra e la sua Squadra della Guardia Costiera salpano in soccorso dell’imbarcazione in difficoltà. I migranti - stipati all’interno della fragile imbarcazione - vengono ospitati nel centro, gestito da Viola interpretata da Carolina Crescentini: "Per recitare in questo film ho dimenticato di essere attrice e sono entrata nella testa del personaggio. L’impatto con l’isola è stata fortissimo, scoprire il lavoro dei ragazzi del centro con una forza e un pelo sullo stomaco incredibile. Nel pronto soccorso vedi gente che spiega di avere costole rotte per un pestaggio, donne che dietro svenimenti nascondono gravidanze spesso frutto di violenze. Ho voluto seguire gli sbarchi, mi sono messa nel molo vicino per pudore, per non intralciare il lavoro. No, non si può parlare e strumentalizzar i fatti senza aver visto e dobbiamo anche smettere di pensare a costruire muri, proprio noi che abbiamo fatto di tutto per farne crollare uno". Privacy. Tiziana Cantone, quattro amici indagati per diffamazione di Viviana Lanza Il Messaggero, 16 settembre 2016 I quattro amici di Tiziana, la 31enne morta suicida per i video hard diffusi sula Rete, a cui la ragazza inviò per motivi personali i video hot che la ritraevano in momenti di intimità risultano iscritti nel registro degli indagati per il reato di diffamazione dalla Procura di Napoli nei due fascicoli, poi riuniti, che erano stati aperti tra maggio e giugno 2015 in seguito alla denuncia in due tempi presentata da Tiziana Cantone per diffamazione nella prima denuncia e per violazione della privacy successivamente, dopo la diffusione di quei video sulla rete diventati virali. L’indagine è coordinata dal procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli e dal sostituto procuratore Alessandro Milita che a ottobre scorso sentirono anche la giovane donna facendo così entrare nel vivo l’indagine. L’inchiesta fu avviata nel maggio dello scorso anno quando Tiziana presentò la querela nei confronti dei quattro per la diffusione in rete dei video. La 31enne fu poi interrogata dai pm di Napoli nell’ottobre 2015. La procura partenopea aprì un fascicolo anche per l’ipotesi di reato di violazione della privacy. Il procedimento della procura di Napoli prosegue parallelamente a quello aperto dalla procura di Napoli Nord che indaga per una presunta istigazione al suicidio. Privacy. Quel diritto all’oblio e gli sciacalli digitali di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 16 settembre 2016 Non codificato in Italia e riconosciuto a livello europeo, garantisce di essere dimenticato al protagonista di vicende non encomiabili quando la funzione informativa si è esauritaMa Tiziana voleva sparire dalla rete, del tutto e per sempre, sottraendosi a chi la vessava offrendola al pubblico ludibrio. Quanti giorni ancora dureranno, prima di affondare nel silenzio, lo stupore, l’indignazione e la pietà, quasi ostentati in questi giorni da opinionisti, giuristi e (per la verità non molti) politici, per la drammatica e definitiva scelta di Tiziana? E saranno più longevi gli sciacalli che ancora oggi, sulle spoglie della loro vittima, imbastiscono macabri scherzi, pur di esserci ancora e poter prolungare una notorietà che fa ribrezzo? Domani è un altro giorno, saranno certamente diffusi nuovi video virali e ci saranno altre vittime più o meno consapevoli: spesso, infatti, è chi subisce la gogna ad averla generata, affidando alla rete, con incredibile leggerezza, immagini che non sarà più possibile eliminare dalla realtà virtuale perché, come ha detto con disarmante sincerità il Garante, che pure dovrebbe assicurarla, la tutela di una persona che finisce sul web è praticamente impossibile, per mancanza di strumenti efficaci. Questo, mentre viene rimossa, con un semplice clic, la foto della "Napalm girl", la bambina vietnamita che corre nuda e piangente, dopo esser stata investita dal napalm, pedopornografica per l’algoritmo - peggio fosse stato un uomo in carne ed ossa! - di Facebook, premiata con il Pulitzer per la sua evidente forza dirompente e ripristinata solo dopo forti ed autorevoli proteste. E mentre, con la stessa agile semplicità, grazie anche a sentenze poco lungimiranti o utilizzate a sproposito, un terrorista conclamato può chiedere ed ottenere, se nessuno se ne accorge, da siti e motori di ricerca la rimozione di tutte le notizie che lo riguardano; un imputato, ancora sotto processo, può esigere la eliminazione degli articoli che si sono occupati di lui; un politico può pretendere che si cancelli il suo passato criminale, così di fatto azzerando la memoria un po’ per volta. Figli e figliastri, dunque, certo a causa delle diverse modalità di circolazione di informazioni e dati che la rete offre, ma anche per un certo disinteresse di fondo, specie se la vittima non è famosa - a chi interessa davvero, fino a che è viva, una oscura ragazza di provincia in preda al panico ed all’umiliazione? - unito ad un senso di impotenza, capace di smorzare anche gli slanci investigativi più ostinati, a causa della inadeguatezza degli strumenti approntati, compreso quello penale. In realtà, l’immissione in rete di dati personali, specie se sensibili - e quelli sessuali ovviamente lo sono - senza consenso, è condotta illecita che può essere perseguita e bloccata subito, ma solo entro i confini nazionali, salvo improbabili ed inutili rogatorie all’estero. E non è certo il diritto all’oblio, di cui molto e non sempre a proposito si parla, la panacea di tutti i mali. Non codificato in Italia e riconosciuto a livello europeo, dal nuovo regolamento comunitario sulla protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016) garantisce al protagonista di passate vicende non encomiabili il diritto di essere dimenticato, quando la funzione informativa si è esaurita, anche mediante la rimozione di tutte le notizie che lo riguardano, se oramai prive di interesse pubblico. Non era l’oblio, dunque, che cercava Tiziana, ma voleva sparire dalla rete, del tutto e per sempre e dimenticare quelle immagini che l’avevano esposta al pubblico ludibrio: non ce l’ha fatta. Ci sarà una prossima volta e torneremo ancora ed inutilmente a stracciarci le vesti, ad immaginare improbabili leggi e forme di educazione massiva di coloro che, nativi digitali, vivono in rete, ci si trovano benissimo, al punto da considerare i ventilati interventi normativi un attentato alla libertà ai tempi di Internet e l’oblio un concetto estraneo e persino eretico, sempre che non li riguardi personalmente. Privacy. La cecità che uccide di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 16 settembre 2016 Violenza. Il voyeurismo viaggia alla velocità della luce azzerando sentimenti strettamente associati: pudore e compassione. Con la morte della giovane spinta al suicidio da quell’entità impersonale, e per definizione irresponsabile, chiamata "rete", tutti i nodi vengono al pettine, ma è ragionevole dubitare che, passato il clamore mediatico, saranno affrontati veramente. La "rete" è un mostro che si nutre dei suoi crimini, diventa più potente. Nel dramma di un’azione crudele, che una volta avviata (per un errore della vittima, la volontà di un sadico o la dabbenaggine di un cretino di massa) nulla può più fermare, diventa palese la rivalsa del "servo" inanimato sul "padrone" vanesio e arrogante. La protesi digitale fagocita il corpo vivo delle relazioni sociali. Le leggi sono inadeguate, se non tragicomiche, e la globalizzazione le rende inapplicabili, il più delle volte. Il nostro modo di sentire e di pensare subisce una progressiva spersonalizzazione, assestandosi in schemi collettivi omologanti, prossimi a meccanismi di difesa primitivi. Il voyeurismo viaggia alla velocità della luce e cancella spietatamente due sentimenti strettamente associati: il pudore e la compassione. Come la psicoanalisi ha da tempo intuito, si cerca di vedere a occhi aperti (con lo sguardo del giorno) quello che si vede a occhi chiusi (con lo sguardo del sogno): la "scena primaria", l’amplesso erotico dei genitori. Dell’incontro erotico dei genitori il lattante ha un’intima intuizione attraverso il suo legame erotico con il corpo della madre (la donna si apre, o si chiude, in modo analogo come amante e come madre). L’intuizione non è vedere, toccare con mano, è presentimento, immaginazione. L’analista francese Pontalis, scomparso recentemente, diceva che tra la stanza dei bambini e la stanza dei genitori ci deve essere un corridoio, un luogo di passaggio e di gioco. Tra il presentimento del lattante e la sessualità adulta ci deve essere una distanza, uno spazio intermedio, in cui il giocare diventa premessa, apertura, ricognizione. Nel voyeurismo il corridoio, e con questo, il sogno e il gioco, si cancellano: guardare è un atto concreto. Si rigetta, come intollerabile, lo sfumare del visibile nell’invisibile, l’incertezza della penombra. Il visibile espelle l’invisibile; la femminilità, l’apertura all’altro perdono il loro diritto di cittadinanza. La congiunzione erotica delle differenze (rappresentata nella scena primaria) cede il suo posto all’ibrido, all’androgino, al "tutto in vista". Se ne fa le spese il pudore: il sentimento che difende lo spazio del nostro essere nella sua più privata intimità dall’avidità dello sguardo altrui, ma anche quello, compassionevole, con cui il nostro sguardo difende lo spazio intimo degli altri, per non saccheggiarlo e svuotarlo (di modo che non abbiamo nulla più da vedere). Smarrito il pudore non sogniamo, non immaginiamo e non possiamo veramente vedere. Siamo ciechi e, al tempo stesso, non siamo visti. Il sentirsi non visti, ci può portare disperatamente a esibirsi, ma solo per allontanarsi di più da ciò che effettivamente siamo, restare prigionieri nel campo visivo privo di prospettiva di uno sguardo compulsivo, assente a se stesso. Se dentro di noi un po’ di sensibilità femminile resiste all’oblio, cadiamo in un sentimento di "vergogna a essere", nella percezione di un’esistenza inutile e irreparabilmente svilita. Nell’atto deliberato di morire, si incontrano ancora, fugacemente, la voglia di esserci, nel palcoscenico teatro della propria uccisione (ultima sfida alla cecità assassina), e un uscire di scena in cui il pudore ritrova la sua ragione sconfitta, nel mentre la "vergogna a essere" viene restituita al suo mittente collettivo. Privacy. Prometteva libertà ma il web oscuro rovina milioni di vite di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 16 settembre 2016 Il filosofo Žižek: è lo Stato che deve controllare la Rete. Domani terrà una lectio magistralis al festival di Pordenone, dove presenterà Il contraccolpo assoluto (Ponte alle Grazie), che continua la sua rilettura creativa di Hegel e Lacan. La notizia del suicidio di Tiziana Cantone lo colpisce in quanto padre e gli ricorda un caso molto simile in Slovenia. "A Maribor, due anni fa, in una piccola scuola, degli studenti avevano filmato un preside che faceva del sesso orale con una professoressa; quel video è finito sul web e il preside si è ucciso. Non ha retto, la sua vita era rovinata. Noi ce ne accorgiamo solo quando ci sono finali tragici o scandali, ma tante vite vengono distrutte in modo più discreto. Milioni di persone perdono la loro onestà, la loro decenza, soffrono". Prima del web era diverso? "Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. Lo so perché mio figlio, di 17 anni, ha fatto un giro sul web profondo e ha trovato di tutto, video di torture, scene di sesso estremo e persino uno di quei film in cui si vedono morire delle persone, uno snuff movie". Lei come ha reagito? "Malissimo. Sto male solo all’idea che si possa vedere realmente qualcuno torturato e ucciso. Per cosa poi? Un conto è vedere, come fanno gli inviati di guerra, le prove di un massacro di civili, altro discorso è farlo per gioco. Lo stesso discorso vale per il sesso". Cosa pensa del sesso digitale? L’ha mai fatto? "No! Io lo faccio in modo analogico. E amo le passioni. Infatti ho avuto più mogli, e sono un monogamo; ma la monogamia per la cultura di oggi è vista come una patologia, come l’alcolismo o la tossicodipendenza, perché non va bene fissarsi con una sola persona. In questo senso non mi piace molto il nuovo corso di certi movimenti di genere sessuale che sono passati dalla giusta richiesta di diritti alla prescrizione normativa di doveri, e di piaceri, quasi una ideologia, perfetta per il nuovo capitalismo social, che predica consumi e ostentazione. Gli psicanalisti dicono che spesso le persone chiedono come poter gestire meglio il proprio piacere, averne di più. E invece i terapisti devono liberare i propri pazienti da questa ossessione di voler godere sempre e comunque". Quant’è ambiguo l’appeal del sesso digitale? "Da un lato, per i giovani soprattutto, sembra un gioco di evasione, di fuga in un universo virtuale che spesso fa ritardare le esperienze reali. Dall’altro lato questa fuga fa venire fame di realtà, e di interagire in maniera anche brutale e, possibilmente, riconnettere virtualità e realtà. Anche in maniera dolorosa. Ricordo i cutters, quelli che si tagliavano con il coltello, anche su parti intime, o lì vicino, per sentirsi reali, vivi". Lei ha mai controllato il cellulare o il pc di suo figlio? "Mai, è da idioti pensare di farlo: lui è tecnologicamente più avanzato di me. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale". Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy? "No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi. I social media creano sì nuovi spazi di auto organizzazione, per dirla con Marx, ma grazie a loro il discorso politico si è abbassato: uno come Trump può parlare oggi in pubblico come fino a ieri avrebbe potuto parlare solo in privato. Questo abbassamento è accettato". Che cosa bisogna fare? "Invertire la tendenza. Un tempo sesso e linguaggio volgare erano armi rivoluzionarie contro il potere. Oggi che il potere è sessualizzato ed è volgare dobbiamo riscoprire le passioni nel sesso e in politica". Migranti. Un documento unico per rimpatri di cittadini extracomunitari di Paolo Bozzacchi Italia Oggi, 16 settembre 2016 È conto alla rovescia per l’introduzione di un documento unico europeo di viaggio per accelerare i rimpatri di cittadini extracomunitari che soggiornano irregolarmente nel territorio dell’Unione europea. L’Europarlamento ha approvato ieri in via definitiva la proposta della Commissione in materia, con 494 voti favorevoli, 112 contrari e 50 astensioni. L’esigenza di creare uno standard comune sui documenti di viaggio nasce dal fatto che i paesi terzi sono attualmente riluttanti nell’accettare i documenti di ritorno forniti dagli stati membri, a causa dei diversi formati e di standard di sicurezza inadeguati. E i numeri confermano questa tendenza, visto che nel 2014 meno del 40% delle decisioni di rimpatrio ha avuto buon fi ne. Il nuovo regolamento prevede perciò un formato comune per il documento di viaggio europeo, e aggiorna una raccomandazione non vincolante del Consiglio datata 1994. Per combattere falsificazioni e contraffazioni, i modelli di dichiarazione armonizzati utilizzeranno stessi standard di sicurezza, come ad esempio le filigrane utilizzate dal 2002 per i visti d’ingresso rilasciati dai paesi membri ai residenti sprovvisti di documento di viaggio validi. Con il via libera dell’Europarlamento la palla passa ora al Consiglio per l’approvazione finale. Una volta ottenuta questa (come pare plausibile) il regolamento entrerà in vigore e avrà effetto dal ventesimo giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale Ue. "Il basso tasso di applicazione delle decisioni di rimpatrio mina seriamente la credibilità e la legittimità agli occhi dei nostri cittadini", ha spiegato il relatore Jussi Halla-aho, "e incoraggia l’abuso dei sistemi di asilo in Europa; il modulo standard non è una soluzione magica, ma un passo nella giusta direzione nel far rispettare la legislazione e le decisioni vigenti". L’Europarlamento ha anche invitato gli stati membri a promuovere l’uso di questo documento di viaggio armonizzato, anche cercandone di garantire il riconoscimento con accordi bilaterali o altri accordi con paesi terzi non coperti formalmente. Quando operativo il documento non solo farà risparmiare sia i paesi membri che i paesi terzi, ma scoraggerà nettamente l’immigrazione irregolare. Terrorismo. La pericolosa battaglia di uguaglianza delle jihadiste di Karima Moual La Stampa, 16 settembre 2016 Le jihadiste che provano a farsi esplodere senza la promessa di un paradiso con le vergini, come quella per i martiri di sesso maschile, sono forse più pericolose, perché più consapevoli e motivate. Tre donne con indosso il burqa hanno attaccato una stazione di Mombasa sulla costa del Kenya, ma sono state uccise dopo aver pugnalato due agenti e dato alle fiamme l’edificio con una bomba molotov. Era l’11 settembre. Puntuale il lancio dell’agenzia di propaganda dell’Is Amaq: "Erano sostenitrici dello Stato islamico e hanno effettuato l’operazione in risposta alla chiamata a colpire i Paesi crociati". L’attacco jihadista tutto al femminile arriva a pochi giorni da un altro - questa volta scampato - in Francia che ha visto il coinvolgimento di altre tre musulmane poi arrestate. Non dobbiamo cadere nell’inganno. Le adepte all’Isis, anche se apparentemente sono votate alla complementarietà dei mariti, con il ruolo di madri e compagne utili solo a procreare una generazione devota al Califfato, in realtà dietro al velo nascondono un carattere di donne libere anche nella scelta di abbracciare il jihad, forse in modo più convinto e meditato dei maschi. A mettere in ordine gli appunti e le storie si scopre che vi sono ragazzine affascinate dai jihadisti come lo sono le loro coetanee dalle star dello show business. Oppure altre talmente motivate e consapevoli della causa jihadista da vestire i panni di spin doctor dei loro uomini jihadisti. Vere procacciatrici di nuove leve per le "bandiere nere" di Al Baghdadi. Un ingresso nel campo di battaglia che ha acceso la discussione in Francia - creando non poche polemiche - sulla parola "femminismo jihadista". "C’è un femminismo jihadista in atto - spiega sulle pagine di Le Monde il sociologo Farhad Khosrokhavar. Le donne mostrano di poter andare fino in fondo, che la violenza non è il monopolio dell’uomo". Ora che l’Isis comincia a registrare sconfitte sul campo, ha cambiato strategia su un nuovo fronte, mettendo a punto una inedita versione dell’ordine sociale ideale tra donne e uomini, in contrasto con quella classica portata avanti fino ad oggi, che vedeva le donne solo come procreatrici e madri. Il sacrificio delle donne, infatti, con questi ultimi attacchi non può che tradursi in un atto estremo. Se da una parte è una battaglia di uguaglianza, dall’altra evidenzia una minaccia ancora più pericolosa perché gioca sulla percezione: non solo giovani europei convertiti in poco tempo alla causa, ma insospettabili ragazze dai volti delicati e spesso percepite come vittime e sottomesse. Paradossalmente l’ingresso delle donne nel Califfato, che al pari degli uomini preparano attentati, ci riporta ancora una volta all’irrisolto e controverso tema delle donne nell’Islam. Proprio in questi giorni, in Danimarca si è svolta la prima preghiera guidata da due donne Imam. Sherin Khankan e Saliha Marie Fetteh avevano un obiettivo preciso: sfidare le strutture patriarcali e ispirare altre donne. In Marocco come in Tunisia si dibatte su come riformare la legge sull’eredità che, ispirandosi alla Sharia, dimezza ciò che spetta alle donne rispetto agli uomini. La battaglia, qui come altrove, non si colora solo di femminismo ma anche di diritti umani. Ma chi la sostiene e la porta avanti è consapevole che se c’è una misoginia più difficile da estirpare è certamente quella portata avanti dalle donne stesse. Con le loro azioni e le loro parole, ancor più degli uomini, spesso ostacolano l’emancipazione femminile. Le estremiste jihadiste votate alla barbarie si ritrovano, in extremis, a doversi ritagliare con la morte e il martirio un ruolo alla pari. Come dire: non siamo né vittime né sottomesse. Lavoro. Autisti e facchini: guerra tra ultimi tra i pacchi di Amazon e Ikea di Dario Di Vico Corriere della Sera, 16 settembre 2016 La filiera italiana della logistica, un settore decisivo per lo sviluppo delle economie moderne, opera in totale spregio alla qualità del lavoro: padroncini senza scrupoli, false cooperative, caporalato etnico, criminalità organizzata e piccoli sindacati spregiudicati. La modernità e il suo contrario. L’e-commerce e il lavoro da schiavi. Le contraddizioni che attraversano i grandi poli logistici come Piacenza sono laceranti e purtroppo episodi luttuosi come quello di ieri si possono ripetere quasi quotidianamente. La verità è che la filiera italiana della logistica, un settore decisivo per lo sviluppo delle economie moderne, opera in totale spregio alla qualità del servizio e del lavoro. I committenti pur di risparmiare si servono di un sistema di appalti e subappalti con pochi controlli e nel quale si può infiltrare letteralmente di tutto. Padroncini senza scrupoli, false cooperative, caporalato etnico, criminalità organizzata e piccoli sindacati spregiudicati. È la realtà di una terza classe operaia, assai differente dalle tute bianche dell’industria 4.0 o anche dai tradizionali operai delle linee di montaggio, è un proletariato dei servizi composto al 90% da lavoratori extracomunitari. Sono per lo più marocchini, tunisini e pachistani - Sono per lo più marocchini, tunisini e pachistani, reclutati anche tramite gli imam, che accettano di lavorare in dumping con paghe e orari assai distanti da quelli previsti dal contratto nazionale. Straordinari compresi si arriva ai mille euro. Mentre tra i metalmeccanici gli operai immigrati sono vicini alle organizzazioni confederali e li si può vedere facilmente nei cortei e nei volantinaggi, tra i 400 mila facchini che lavorano in Italia per Cgil-Cisl-Uil lo spazio è stretto e ad aver la meglio sono i vari Cobas. Nelle loro mani gli extracomunitari diventano delle "macchine per la lotta selvaggia", quasi mai gli scioperi vengono indetti regolarmente e invece la modalità prevalente di lotta è il blocco selvaggio. E qui scatta la contrapposizione violenta con i camionisti, che spesso vengono dall’Est Europa, e sono anch’essi espressione di un altro dumping sociale. Tutto nella civilissima Emilia-Romagna - Per lavorare con un minimo margine di guadagno sovente saltano anche i riposi e se sono bloccati ore e ore ai cancelli delle fabbriche dalle lotte dei facchini finiscono per dare i numeri. La loro retribuzione a forfait diventa sempre più magra. Il paradosso è che questa contrapposizione che sa tanto di mors tua, vita mea si svolge nella civilissima Emilia-Romagna, nei 140 chilometri che separano la piattaforma logistica di Piacenza (che ospita tra gli altri Amazon e Ikea) dall’Interporto di Bologna. Le imprese serie e i sindacati hanno denunciato già in passato questo clima da far west ma non è servito praticamente a niente. Le autorità seguono le vicende legate ai blocchi selvaggi e ai picchi di conflittualità con timore e spesso finiscono per spingere gli imprenditori a ricercare il compromesso a tutti i costi per chiudere le vertenze e quindi a venire a patti con i Cobas. Ma così non si risolve nulla, le agitazioni si ripetono regolarmente e si cerca sempre la contrapposizione più dura. Come si diceva una volta, si alza la posta. Per evitare che questo sistema fatto di appalti, prevaricazioni e lavoro iper-sfruttato si perpetui è necessario "illuminare" la scena non solo quando succede l’irreparabile come ieri. L’ecommerce è in crescita, il lavoro non manca, si tratta solo di ripristinare la legalità e corrette relazioni industriali. Non è impossibile. Droghe. Il Canada legalizza l’eroina a scopo terapeutico di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 16 settembre 2016 Il Controlled Drugs and Substances Act autorizza la somministrazione medica. In Canada sarà ammessa l’eroina come farmaco per il trattamento di gravi dipendenze da droghe. Già a partire dalla scorsa settimana, il Controlled Drugs and Substances Act, lo statuto che supervisiona la distribuzione e l’uso di droghe per fini terapeutici, ha autorizzato ai dottori la prescrizione della diacetilmorfina o diamorfina, un derivato semisintetico ottenuto per reazione dalla morfina con l’anidride acetica. La nuova legge sovverte ciò che nel 2013, l’ex ministro della Sanità Rona Ambrose, attualmente a capo del partito conservatore, aveva proibito. A seguito infatti della ricerca chiamata "North American Opiate Medication Initiative", guidata dalla dottoressa Eugenia Oviedo-Joekes, è venuta alla luce l’efficacia della diamorfina nel trattamento di casi di dipendenza da oppioidi. Gli oppioidi, da non confondere con gli oppiacei, sono composti chimici che producono effetti simili a quelli della morfina. Si tratta di modulatori del dolore che agiscono direttamente sul sistema nervoso centrale e periferico, e nel tratto gastrointestinale. "Il metadone", continua Oviedo-Joekes, "non funziona su tutti allo stesso livello e, soprattutto, funziona durante il primo livello di trattamento. Ma la dipendenza può richiedere un trattamento di secondo e persino di terzo livello". Non tutti i canadesi sono ovviamente concordi con l’uso di eroina a scopi terapeutici e molti credono, come affermò nel 2013 l’ex ministra Rona Ambrose, che sia semplicemente "un modo legale per continuare la loro dipendenza a spese dello Stato". Gli studi riguardo l’uso di eroina a scopo terapeutico non confermano che il paziente riesca sempre a uscire dalla sua dipendenza, ma, secondo la ricerca della dottoressa Joekes e colleghi, può certamente diminuire i rischi di morte per overdose, infezioni virali del sangue e endocarditi, causate da cocktail di oppiodi in commercio clandestinamente. Infatti, le morti a causa di oppioidi in Canada stanno crescendo esponenzialmente. "Nella Colombia Britannica", spiega la dottoressa Oviedo-Joekes citando le fonti dei medici legali, "l’ultima stima dice che sono morte più di 400 persone assumendo fentatyl, e che il prossimo anno potrebbero essere 800". Il fentatyl, un oppioide che si usa per abbassare il dolore dei malati terminali, è cento volte più potente della morfina e cinquanta più dell’eroina. Il problema è che spesso gli spacciatori lo mescolano con oppioidi più blandi, con eroina, e lo vendono sul mercato spacciandolo per altro. La prescrizione legale di eroina ridurrà, ne è certa la dottoressa Joekes, la compravendita illegale di oppioidi, diminuendo l’attività criminale, abbassando i costi delle cure e salvando vite. Questo autunno il primo ministro canadese Justin Trudeau sponsorizzerà un summit che avrà come argomento la dipendenza da oppioidi, che in Canada è un problema molto più grave che in Europa. Turchia. In programma la costruzione di 174 nuove carceri in 5 anni Panorama, 16 settembre 2016 Il ministero della Giustizia di Ankara fa sapere che i posti per i detenuti arriveranno a quota 100.182. Ben 174 nuove carceri per rinchiudere altre migliaia di persone. Questo il programma della Turchia che ha intenzione di aumentare di 100.182 posti gli istituti di detenzione del Paese. Lo fa sapere il ministero della Giustizia di Ankara, citato da media locali. Oggi la capacità massima delle prigioni turche, secondo le stime, è di circa 190 mila posti. Soltanto due settimane fa, quasi 34 mila detenuti, condannati per reati minori, sono stati rilasciati per far spazio agli oltre 20 mila arrestati dopo il fallito golpe del 15 luglio. L’annuncio, contenuto in una missiva inviata dal dipartimento penitenziario del ministero al carcere di Tekirdag (Turchia nordoccidentale) si dice faccia parte di un reclamo di alcuni detenuti per il sovraffollamento della prigione, in cui si denuncia che "attualmente sei persone stanno in celle costruite per tre detenuti". Una spada di Damocle sulla testa di chi non condivide le idee del presidente Erdogan anche se nella nota, il ministero spiega che le nuove carceri saranno costruite "per far fronte all’aumento imprevisto del numero di detenuti" dopo il fallimento del golpe, che è "superiore alla capacità del complesso delle istituzioni penali in Turchia". Libia. All’inferno ci si batte per una saponetta di Lorenzo Cremonesi Sette del Corriere, 16 settembre 2016 Reportage dalle carceri di Misurata, Tripoli, Garabulli, Al-Khums, Zawiyah. Combattono a sangue per un accendino sparito o solo per potersi lavare. Vengono picchiati con i calci dei fucili dai secondini, che spesso li sbattono in isolamento in buchi oscuri. È il destino dei migranti che dalla Libia tentano di partire per l’Italia e finiscono nell’orrore della detenzione. Stanno sdraiati tutto il giorno su luridi materassi appoggiati sul pavimento. Alternano momenti di sonnolenza e apatia a scatti di rabbia. È sufficiente un nonnulla: l’accendino sparito, il russare di un altro che disturba il sonno, la guerra per impossessarsi delle saponette che non bastano mai. Le risse tra giovani, che comunque costituiscono la stragrande maggioranza, sono figlie della frustrazione generalizzata. E allora i secondini libici intervengono brutali, picchiano con i calci dei fucili, gettano, per giorni e giorni, in pertugi bui quelli che considerano più pericolosi. Tre settimane fa, nel centro di detenzione di Al Kareem per migranti controllato dalle milizie di Misurata, abbiamo visto interrogare in modo violento un ventenne del Ghana con una lunga cicatrice rossastra mal rimarginata che andava dal polpaccio alla coscia. "Come te la sei procurata? Ammettilo, confessa che stavi con Gheddafi e questa è una ferita di guerra non curata!", gridavano minacciosi. "Non è vero. Mi sono fatto male lavorando in un cantiere come operaio", rispondeva impaurito, le mani incrociate a ripararsi la nuca. "Menti! Stavi con quelli che ci bombardavano, dillo", replicavano duri. Attorno si era fatto silenzio. Decine di uomini, alcuni ancora ragazzi, vedevano nel calvario del detenuto lo specchio delle loro paure. Sono trascorsi cinque anni dalla fine del regime di Gheddafi, eppure in Libia i migranti dalla pelle nera sono visti col sospetto di sempre. Terra che per secoli e secoli è stata mercato di schiavi catturati nell’Africa sub-sahariana, percorsa da antiche tensioni razziali. Paese per molti aspetti artificiale, costruito dall’Italia coloniale dopo l’invasione del 1911, che vorrebbe essere arabo, ma in realtà ha al suo interno forti componenti africane persino preislamiche, Amazig (come qui chiamano i berberi), Tuareg, beduini che alle oasi più urbanizzate come quella di Sebah preferiscono l’eterno girovagare nel deserto senza confini e rifiutano qualsiasi identità diversa dalla fedeltà incondizionata alla loro tribù particolare. "Gheddafi aveva modellato la sua alleanza con l’Africa in un punto di forza. Credeva che il futuro del pianeta fosse proprio lì. E utilizzava i migranti come un’arma da adattare per ricattare l’Europa. Ma oggi quegli stessi migranti rappresentano un peso impossibile per la Libia intera. Sono arrivati a contare oltre due milioni. Troppi per cinque milioni di libici impoveriti, indeboliti dopo la rivoluzione del 2011", sostengono i responsabili delle milizie di Misurata. Parole che ripetono anche nei centri di detenzione a Tripoli, Garabulli, Al-Khums. Qui abbiamo incontrato centinaia di poveracci giunti dalla Nigeria, Niger, Mali, Gabon, Gambia, ma anche Egitto meridionale, Sudan, Eritrea, Etiopia, Chad, Mauritania. Ancora a Al Kareem abbiamo visto almeno due giovani africane che avevano appena partorito in carcere. Loro accovacciate sulle stuoie, i due bambini avvolti in povere fasce accanto. Non parlavano altro che uno stretto dialetto dei loro villaggi, incomprensibile per le sentinelle libiche. "Non sappiano che fare di loro. Sono qui da quattro mesi, le abbiamo trovate incinte in un edificio abbandonato a Tawargha (presso Misurata, ndr) Nessuno si è fatto vivo per avere notizie. Non sappiamo chi siano i padri dei bambini", dicono. È un’umanità alla deriva, abituata a soprusi e abusi di ogni genere, raccolta in vecchie scuole in disuso, dove alle finestre e alle porte sono state cementate solide inferriate. Ma anche in carceri veri e propri, come quello di Abu Saleem a Tripoli (noto per una delle battaglie più cruente nell’agosto 2011), dove le celle troppo piccole straboccano sotto la pressione di un numero di detenuti troppo grande. Qui un sudanese trentenne, magro, la camicia chiara pulita e l’aria da intellettuale spaesato nell’atmosfera di primitiva lotta per la sopravvivenza in cui è immerso, ripete che "ci deve essere un errore" perché lui è in regola. Afferma di essere un medico, gli è stato sequestrato il passaporto e attende che la sua famiglia spedisca la somma necessaria per comprarsi la libertà e il biglietto da Tunisi per il volo verso l’Italia. I momenti di maggior attività nelle giornate sempre eguali della detenzione coincidono con la distribuzione del rancio: in genere zuppa di lenticchie bollita in enormi pentoloni, patate, qualche pezzo di carne e occasionalmente frutta. A Garabulli, luogo privilegiato di partenza dei barconi della speranza, una trentina di chilometri ad est della capitale, la milizia locale si fa pagare profumatamente per liberare chi cattura sulle spiagge o appena in mare. "Il nostro dramma è che tanti di noi sono arrivati qui sulla costa da oltre un anno. In tutto questo tempo abbiamo fatto ogni tipo di lavoro per guadagnare i mille euro necessari a pagarci i canotti verso l’Italia. Ora dovremo trovarne altri cinquecento per ottenere la libertà. Quindi dovremo rimetterci sotto per comprare un posto su un altro canotto, magari l’anno prossimo", racconta Othman, 26 anni, originario del Ghana, che da mesi neppure telefona alla famiglia a casa. Si vergogna di rivelare che non è ancora riuscito a passare sulle coste italiane. Le milizie interferiscono così pesantemente nelle tribolazioni della massa di gente che fugge verso nord. "Non posso negarlo. Purtroppo so bene che alcune delle nostre unità preposte a controllare il flusso dei migranti collaborano invece illegalmente con le bande dei trafficanti e degli scafisti. I giri d’affari dell’intero business hanno raggiunto proporzioni enormi. Un problema grave che riflette quello ancora più serio del collasso del sistema statuale libico. Difficilmente noi da soli potremo porvi rimedio. Necessitiamo dell’aiuto europeo", ammette apertamente in un’intervista Abdulrahman Swehli, 70enne presidente del Consiglio di Stato: 145 membri, una sorta di Senato che opera in assonanza con il governo del premier Fayez Serraj. Per contro, sono ancora i politici a Tripoli, assieme ai responsabili delle milizie che qui fungono da guardia costa, a puntare il dito contro l’assistenza ai profughi. "Le vostre navi stazionano poche miglia al di fuori delle nostre acque territoriali. Gli scafisti le contattano via telefono satellitare e voi italiani li andate a salvare. In questo modo la Libia è letteralmente invasa da migranti. Dovremmo coordinarci per limitare l’intero traffico", sostengono ai porti della capitale e Al-Khums. La realtà si tocca con mano nelle nottate di bel tempo, specie da marzo a ottobre. È allora che partono i barconi. I "passeggeri" vengono raggruppati in povere baracche e ripari di fortuna presso le spiagge. Le bande più ricche e organizzate si sono assicurate di aver ben pagato il loro diritto di passaggio alle milizie locali. I loro canotti sono spinti da fuoribordo da quaranta cavalli con riserve di carburante sino a 400 litri per imbarcazione, che in teoria garantiscono la navigazione sino alle coste della Sicilia. Ma per ogni partito altri mille si accalcano sulla costa. I loro drammi sono anche nelle preghiere, poesie, o semplici lamenti d’aiuto, scritti sui muri delle celle. Molti in arabo, ma anche in inglese o francese. Tante sono invocazioni a Dio affinché "intervenga nelle menti dei poliziotti e li convinca ad essere più clementi con noi". Oppure "interceda per la nostra liberazione da queste torture infinite". Altri sono brevi racconti del lungo viaggio da casa, l’attraversamento del Sahara, l’arrivo nelle oasi di Sebha, Gat, Awabari. La perdita di un congiunto, di un amico, la nostalgia per un amore lontano. Coloro che non sono in carcere vivono nel limbo del caos locale. Ogni libico sa dove trovarli. Al quartiere di Gargaresh, nelle zone costiere a ovest di Tripoli, sulle strada che porta a Zuwarah e Sabratha, cuore pulsante della malavita locale, di Isis e degli scafisti, sono perennemente accovacciati ai lati delle strade. Una folla scura in attesa di impiego. Paga media quotidiana: 10 euro, di cui quasi 5 spesi per sopravvivere in stanzucce dove dormono a turni. Si offrono come operai edili, meccanici, spazzini, facchini, ma anche guardiani e nei fatti qualsiasi altra attività. Quando appaiono i pick up delle milizie le loro "sentinelle" poste sui cavalcavia più alti danno l’allarme e scatta il fuggi fuggi generale. "Mi hanno già catturato tre volte e mi sono indebitato con gli amici per pagare il riscatto della mia liberazione", dice in francese Mohammad, arrivato dal Mali. La sua speranza è raggiungere un lontano cugino che ha trovato lavoro in Germania. Libia. I miliziani di Misurata che l’Italia va a curare sono criminali di guerra di Marinella Correggia Il Manifesto, 16 settembre 2016 L’operazione italiana "Ippocrate" aprirà un ospedale militare per curare i feriti delle Brigate di Misurata, responsabili di abusi e violenze fin dal 2011. Chissà cosa pensano dell’"operazione Ippocrate" i libici di Tawergha. Cinque anni fa, i 40mila cittadini di pelle nera che popolavano questa città furono oggetto di pulizia etnica: parecchi uccisi e imprigionati, tutti gli altri deportati in massa proprio dalle milizie dichiaratamente razziste di Misurata che l’Italia va a soccorrere. In effetti dei molti gruppi armati libici ai quali l’operazione Nato "Unified Protector" nel 2011 fece da forza aerea, le Misrata Brigates - decine di migliaia di combattenti, già parte essenziale della compagine islamista Fajr sostenuta dal Qatar - sono forse il peggio. Altro che gli "eroi in ciabatte", prima protagonisti della "rivoluzione" libica nel 2011, poi della "lotta contro Daesh a Sirte" nel 2016. Dall’agosto 2011 Tawergha, in fondo un simbolo della "nuova Libia", è una città fantasma e semidistrutta. Gli abitanti fuggirono in massa mentre i "ribelli" vittoriosi uccidevano molti di loro, ne imprigionavano altri - accusandoli di stupri senza prove e chiamandoli mercenari - e davano fuoco alle case, con il pubblico consenso dell’appena insediato primo ministro libico Mahmoud Jibril, capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt). I fuggiaschi si rifugiarono nel sud della Libia e in campi profughi sparsi in diverse città oppure si spostarono in Tunisia ed Egitto. Da allora hanno condotto una vita grama. Il 31 agosto scorso il rappresentante dell’Onu per la Libia Martin Kobler ha propiziato a Tunisi un accordo di riconciliazione fra Misurata e Tawergha che prevede fra l’altro il ritorno in condizioni di sicurezza degli sfollati, il ripristino a cura del governo libico di un minimo di servizi sociali - compresa la rimozione delle mine, risarcimenti per gli uccisi e le proprietà danneggiate. Non sarà facile rendere operativo ed equo un patto che risulta leonino fin dall’esordio: richiama infatti la dichiarazione del 23 febbraio 2012 con la quale "i leader delle tribù di Tawergha porgevano le scuse a Misurata per qualunque azione compiuta da qualunque residente di Tawergha". Nessuna scusa, invece, da parte degli autori della pulizia etnica. Nel mirino dei misuratini, autori anche della cacciata di molte famiglie dall’area di Tamina, sono finiti poi un numero importante di cittadini non libici, africani subsahariani linciati o imprigionati senza processo né prove. La caccia al nero non è storia solo del 2011. L’inviato del New Statesman pochi mesi fa si è sentito rispondere dal guardiano dell’obitorio di Misurata che i corpi nella stanza erano di africani uccisi, magari per un telefonino. Gli armati di Misurata hanno compiuto stragi di civili e attacchi indiscriminati anche durante l’assedio, nel 2012, alla città di Bani Walid accusata di ospitare sostenitori del passato regime. E al tempo dell’assedio di Sirte, con Misurata sempre in prima linea, fu impedito l’accesso alla Croce rossa nella città. Nell’agosto 2014 fioccarono invano altre accuse di crimini: le milizie Fajr guidate da Misurata, nel prendere il controllo di Tripoli e delle aree circostanti avevano costretto alla fuga migliaia di civili distruggendone le proprietà. Impunità assoluta per i "ribelli" di Misurata anche rispetto ai crimini compiuti nelle loro carceri autogestite, con maltrattamenti e torture all’ordine del giorno e nessuna garanzia di equo processo a carico di detenuti qualificabili come politici. E mentre l’Ue chiudeva gli occhi per anni al traffico di armi verso le coalizioni jihadiste di Fajhr Libia, la città di Misurata rimane un hot spot, con ovvie complicità, in un altro traffico: quello di esseri umani. Stati Uniti. La polizia uccide 13enne afroamericano, aveva una pistola ad aria compressa di Laura De Feudis Corriere della Sera, 16 settembre 2016 È accaduto a Columbus. La polizia era stata chiamata per una rapina a mano armata. Un ragazzino di 13anni, afroamericano, è stato ucciso dalla polizia in Ohio. Gli agenti sono intervenuti sulla scena di quella che all’inizio sembrava essere una rapina a mano armata. La vittima, Tyree King, aveva con sé una pistola ad aria compressa. La prima ricostruzione - È accaduto nella tarda serata di mercoledì nella città di Columbus, in Ohio. Secondo la versione ufficiale della polizia, le forze dell’ordine sono state chiamate per una rapina a mano armata in una banca, con più persone coinvolte. Uno degli impiegati della banca ha raccontato di essere stato minacciato da un gruppo di rapinatori. A quel punto gli agenti avrebbero avvistato tre sospetti: due sono scappati e durante l’inseguimento uno dei due ha estratto una pistola, scambiata per un’arma vera. La polizia ha aperto il fuoco colpendo diverse volte e uccidendo il ragazzino. La pistola - Tyree King è morto poco dopo il suo arrivo in ospedale. Quando gli investigatori hanno recuperato l’arma hanno scoperto che si trattava di una pistola ad aria compressa. Mostrando una immagine dell’arma, il capo della polizia di Columbus, Kim Jacobs, ha spiegato che ha lo stesso aspetto della pistola in dotazione degli agenti. "Si è rivelata non essere un’arma da fuoco, ma come potete vedere sembra un’arma da fuoco in grado di uccidere", ha detto. Il poliziotto aveva già ucciso un uomo nel 2012 - Nessuno dei poliziotti è rimasto ferito. Secondo le prime informazioni l’agente che ha fatto fuoco è in polizia da 9 anni e di recente era stato trasferito a Columbus. Nel 2012, mentre era in servizio, aveva sparato e ucciso un uomo. Al momento della sparatoria non indossava una body-camera, che la polizia di Columbus ha in dotazione solo in via sperimentale. La famiglia sconvolta - Sconvolta la famiglia che chiede aiuto all’intera comunità per arrivare alla verità dei fatti. "Tyree era un bambino molto amato, giocava a football e a hockey. Siamo senza parole". "Un tredicenne è morto per la nostra ossessione per le armi e la violenza" ha detto il sindaco di Columbus, il democratico Andrew Ginther. Le proteste di Black Lives Matter - Dopo l’uccisione del ragazzino si sono scatenate, in rete, le proteste del movimento Black Lives Matter, molto attivo nel denunciare gli abusi e le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani. Gli attivisti utilizzano l’hastag #TyreKing per una campagna in rete in cui chiedono la verità e contestano la ricostruzione della polizia. Alcuni riferiscono anche di testimoni pronti a fornire un’altra versione dei fatti. La morte di Tyree King ricorda un altro episodio avvenuto in Ohio, a Cleveland:nel 2014 il dodicenne afroamericana Tamir Rice fu ucciso da due agenti mentre aveva in mano una pistola ad aria compressa. Stati Uniti. Appello a Obama: "Prima della fine del suo mandato, la grazia a Snowden!" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 settembre 2016 Amnesty International, l’Unione americana per le libertà civili e Human Rights Watch, insieme ad altre organizzazioni e singole personalità, hanno lanciato un appello al presidente degli Usa Barack Obama invitandolo a porsi dal lato giusto della storia accogliendo la richiesta di grazia di Edward Snowden, che rischierebbe altrimenti di passare decenni in carcere per aver preso posizione in favore dei diritti umani. Alla vigilia della prima statunitense del film di Oliver Stone (prossimamente in uscita nelle sale italiane, distribuito da Bim col patrocinio di Amnesty International Italia), l’appello chiede a Barack Obama, prima di concludere la sua presidenza, di graziare l’ex contractor dell’Agenzia per la sicurezza nazionale (Nsa). Ai sensi dell’articolo II, sezione 2 della Costituzione, il presidente degli Usa ha il potere di graziare imputati di reati federali. Come noto, nel 2013 Snowden condivise con un gruppo di giornalisti una serie di documenti dell’intelligence statunitense, che aveva raccolto mentre lavorava come contractor all’Nsa. Quei documenti rivelarono la dimensione delle operazioni di sorveglianza elettronica dei governi degli Usa e del Regno Unito, estesa al controllo delle attività telefoniche e su Internet di milioni di persone nel mondo. Trattato come una spia e un nemico degli Usa, Snowden è da allora in esilio in Russia, sotto la minaccia delle leggi sullo spionaggio risalenti alla Prima guerra mondiale che potrebbero costargli gravi imputazioni in caso di rientro negli Usa. Per questo, la grazia presidenziale è la migliore opportunità per restituire la libertà a Snowden. Snowden ha chiaramente agito nell’interesse pubblico: ha dato vita a uno dei più importanti dibattiti sulla sorveglianza governativa da decenni a questa parte, contribuendo alla nascita di un movimento globale in difesa della privacy nell’era digitale. A seguito di quelle rivelazioni, il presidente Obama emise una direttiva per chiedere alle agenzie d’intelligence di apportare significative modifiche ai programmi di sorveglianza. Nel 2015, per la prima volta dopo quasi 40 anni e dopo che una corte federale aveva giudicato illegale la raccolta d’informazioni da parte dell’Nsa su praticamente ogni utenza telefonica privata, il Congresso ha rimesso sotto il suo controllo i programmi governativi di sorveglianza. Insomma, sostengono i promotori dell’appello, "Snowden dovrebbe essere ricordato come un campione dei diritti umani per l’azione pubblica che ha svolto. Dovremmo parlare di come ringraziarlo e non di come punirlo". Medio Oriente. Appello dell’Onu per salvare la vita dei prigionieri in sciopero della fame di Giovanna Vallone infopal.it, 16 settembre 2016 Il Comitato degli Affari dei Detenuti (una filiale dell’OLP - Organizzazione per la Liberazione della Palestina), ha invitato il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ad un intervento urgente e rapido per salvare la vita dei prigionieri in sciopero della fame (Mohammad e Mahmoud Al-Bulbol e Malek al-Qadi). Durante la 13a sessione del Consiglio per i diritti umani, mercoledì 14 settembre, a New York, il capo della commissione palestinese, Issa Qaraqe, ha invitato l’ONU ad assumere la piena responsabilità ed agire per far cessare la detenzione politico-amministrativa arbitraria e le atrocità israeliane contro i prigionieri detenuti nelle prigioni israeliane che violano le decisioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale umanitario. Issa Qaraqe ha dichiarato che "il prigioniero Malek al-Qadi versa in condizioni disperate tra la vita e la morte all’ospedale israeliano Wolfson ed è in coma da sette giorni. È stato colpito da una polmonite acuta e una diminuzione del battito cardiaco, ma anche da problemi alle vie urinarie e agli occhi e perdita dell’udito. È ricoverato in cura intensiva, in una camera sterile. Il suo corpo, ormai, non reagisce più al trattamento". Qaraqe ha inoltre rivelato che anche lo stato di salute del prigioniero Mohammed Al-Balbuol, ricoverato all’ospedale israeliano Wolfson, è peggiorato, così come quello di suo fratello Mahmoud, nell’ospedale israeliano "Assaf Harofe". I due presentano disturbi alla vista, difficoltà a parlare, mal di stomaco e crampi intermittenti. I due fratelli prigionieri sono in sciopero della fame da più di due mesi, mentre il detenuto al-Qadi prosegue lo sciopero della fame iniziato da ben 55 giorni come protesta contro la loro detenzione amministrativa. I due fratelli al-Balboul sono stati arrestati dall’occupazione il 9 giugno scorso, mentre al-Qadi è stato arrestato il 23 maggio scorso. Sono stati tutti e tre messi in detenzione amministrativa. Mercoledì scorso, la Corte suprema israeliana ha preso la decisione di sospendere l’arresto dei due fratelli al-Balboul e di al-Qadi, in seguito al peggioramento del loro stato di salute e di trasferirli presso gli ospedali israeliani. I tre detenuti hanno rifiutato di porre fine allo sciopero della fame, esigendo la fine della loro detenzione e la liberazione, e non quella di sospendere la detenzione amministrativa per poi rinnovarla successivamente. La detenzione amministrativa è una politica approvata dall’intelligence israeliana, in accordo con il comandante della "regione centrale" (la Cisgiordania) dell’esercito, per un periodo che va da uno a sei mesi, rinnovabili senza imputazione e senza accusa, con il pretesto dell’esistenza di "dossier segreti". Il comandante della "regione centrale" suppone che i detenuti potrebbero costituire una minaccia per la sicurezza di Israele e propone la proroga della detenzione amministrativa da parte di un giudice militare per conferire alla decisione del comandante un "aspetto legale". Filippine. Ex sicario accusa il presidente Duterte "Ordinò mille omicidi" La Stampa, 16 settembre 2016 Il presidente filippino Rodrigo Duterte è accusato di essere stato alla guida delle "squadre della morte" di Davao, dando personalmente l’ordine di uccidere un migliaio di persone in 25 anni. La rivelazione è stata fatta oggi al Senato di Manila da Edgar Matobato, un "pentito" per anni al servizio di Duterte nella città dove il leader filippino è stato sindaco dal 1988. "Il nostro lavoro era quello di uccidere criminali come spacciatori, stupratori e ladri", ha detto Matobato, aggiungendo però che Duterte - a cui si riferivano col nome in codice di "Charlie Mike" - avrebbe ordinato anche l’omicidio di quattro guardie del corpo di un politico rivale, e in un caso finì lui stesso un agente ferito con delle raffiche di fucile Uzi. Le vittime, ha spiegato Matobato, venivano spesso gettate in mare con lo stomaco squartato, affinché non galleggiassero. In un’occasione, inoltre, un cadavere fu dato in pasto a un coccodrillo. Un portavoce del presidente, Martin Andanar, ha subito respinto le accuse: "Non credo che sia capace di dare tali ordini", ha dichiarato, mentre altri fedelissimi di Duterte hanno messo in dubbio la credibilità del testimone, sostenendo sia un complotto per screditare il leader. Matobato, che ha detto di essersi nascosto per paura da quando Duterte è stato eletto presidente lo scorso maggio, è stato chiamato a deporre come testimone nell’ambito di un’inchiesta del Senato sulla "guerra alla droga" dichiarata da Duterte appena è entrato in carica a luglio e accompagnata da centinaia di uccisioni extragiudiziali. L’inchiesta è guidata dalla senatrice Leila de Lima, accusata dal presidente di avere legami con il narcotraffico. Veri o no, i fatti riportati dal pentito si inseriscono nel quadro tracciato da tempo dalle principali organizzazioni per i diritti umani, che hanno ripetutamente condannato il clima di giustizia sommaria portato avanti a Davao da Duterte.