"Ristretti Orizzonti" lancia l’Osservatorio su 41bis, ergastolo e Alta Sicurezza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2016 Un osservatorio sui circuiti di Alta Sicurezza, del regime del 41 bis e dei condannati all’ergastolo ostativo. È questa la sfida che si è prefissata la redazione della rivista Ristretti Orizzonti. Una redazione composta soprattutto dai detenuti di Padova che da anni conducono una meritoria attività di informazione sul carcere. Importante soprattutto per il loro Osservatorio sulle morti che avvengono all’interno delle patrie galere: ogni giorno aggiornano i dati e on line hanno messo a disposizione un dossier che relaziona costantemente sui decessi per suicidio, assistenza sanitaria distratta, morti per cause non chiare e overdose. Grazie al loro prezioso lavoro, tutti hanno la possibilità - dati ai quali attingono soprattutto i giornalisti, ricercatori universitari, giuristi - di accedere al loro archivio e venire a conoscenza dei detenuti morti suddivisi per cognome, età, luogo del decesso. La loro proposta è di provare a dar vita quindi a un Osservatorio, sul modello di quello sulle morti, che metta insieme tutti i soggetti coinvolti sui temi relativi al trasferimento da un carcere all’altro nei circuiti di Alta Sicurezza; per tenere sotto controllo le continue limitazioni ai percorsi rieducativi che avvengono nelle sezioni AS (poche attività, carceri in cui non viene concesso l’uso del computer, sintesi che non vengono fatte per anni); per monitorare la concessione delle declassificazioni, che dovrebbe essere non vincolata a relazioni sulla pericolosità sociale che risultano spesso stereotipate, con formule sempre uguali e nessuna possibilità, per la persona detenuta, di difendersi da accuse generiche e spesso prive di qualsiasi riscontro; per accogliere le testimonianze e le segnalazioni dei familiari delle persone detenute, che non trovano da nessuna parte ascolto: per raccogliere sentenze e altri materiali, fondamentali per non farsi stritolare da anni di isolamento nei circuiti di Alta Sicurezza e per spingere la Politica a occuparsi di questi temi con interrogazioni e inchieste; per cominciare a mettere in discussione, finalmente, il regime del 41 bis con tutta la sua carica di disumanità e per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41 bis davvero trasparente. I problemi elencati hanno creato disagi anche nei confronti di Ristretti Orizzonti: molti redattori - come il detenuto Giovanni Donatiello - erano stati trasferiti in altre carceri perché si ventilava l’ipotesi della chiusura dell’As1 di Padova, ma nonostante non chiuda più non l’hanno fatto più ritornare indietro. Il sistema non funziona affatto come dovrebbe, per questo Ristretti Orizzonti ha deciso di intraprendere questa iniziativa. I Radicali la hanno accolta con entusiasmo e hanno deciso di collaborare; Rita Bernardini ha spiegato che tale iniziativa "va nella direzione del diritto alla conoscenza e sappiamo tutti che nei luoghi di privazione della libertà i diritti vengono violati perché spesso sono luoghi oscuri e impenetrabili". Medicina penitenziaria. 5mila detenuti con Hiv, su 99.446 transitati nelle carceri nel 2015 quotidianosanita.it, 15 settembre 2016 Oltre 200 specialisti a confronto per il Congresso nazionale Simspe Onlus. È scientificamente dimostrato che la trasmissione di queste infezioni (Hiv-Hbv-Hcv) è 6 volte più frequente da pazienti inconsapevoli rispetto a quelli che ne sono a conoscenza. Tra i temi del convegno la gestione e la terapia delle epatiti virali croniche; la tutela della salute nei minori ristretti; la condizione nelle carceri europee; Hiv e co-infezioni con virus epatici. Nel corso del 2015 sono transitate all’interno dei 195 istituti penitenziari italiani quasi centomila detenuti, per l’esattezza 99.446 individui. Sulla base di numerosi studi nazionali di prevalenza puntuale, si stima possano essere circa 5.000 gli HIV positivi, circa 6.500 I portatori attivi del virus dell’epatite B e circa 25.000 i positivi per il virus dell’epatite C. Uno dei problemi principali è che circa la metà di questi sono ignari della propria malattia, ovvero non si sono dichiarati tali ai servizi sanitari penitenziari. È scientificamente dimostrato che la trasmissione di queste infezioni (Hiv-Hbv-Hcv) è 6 volte più frequente da pazienti inconsapevoli rispetto a quelli che ne sono a conoscenza. Il Congresso svolgerà a Roma dal 14 al 16 settembre la XVII Edizione del Congresso Nazionale Simspe-Onlus "Agorà Penitenziaria", presso la prestigiosa sede dell’Istituto Superiore di Sanità (Viale Regina Margherita, 299). Oltre 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia. L’appuntamento vuole essere momento di confronto fra le diverse figure sanitarie che operano all’interno degli istituti penitenziari e fornire spunti per una riflessione approfondita del fare salute in carcere, agli stessi operatori sanitari, a chi amministra gli Istituti e a chi ha il compito di stabilire le regole ed allocare le risorse. "La Simit, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali sostiene da sempre fortemente le attività di Simspe e di Agorà Penitenziaria, poiché all’interno delle carceri emerge forte l’esigenza di un corretto approccio e trattamento delle malattie infettive, con l’utilizzo di referenti e specialisti sul territorio nazionale - sottolinea Antonio Chirianni, Presidente Simit. D’altronde la trasmissione di alcune patologie sono favorite dal sovraffollamento delle carceri ed è necessario monitorare e tenere alta l’attenzione per un problema che ha risvolti sociali e economici assai rilevanti". Tra i tanti argomenti trattati, la gestione e la terapia delle epatiti virali croniche; la tutela della salute nei minori ristretti; le condizioni nelle carceri europee; Hiv e coinfezioni con virus epatici. In occasione del congresso sarà anche presentata Rose, Rete donne Simspe, per quanto riguarda la salute delle donne. "Si tratta del 17º congresso della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - spiega Luciano Lucania, Presidente Simspe-Onlus. L’abbiamo chiamato "Agorà penitenziaria" perché intendiamo ricreare una piazza virtuale in cui dibattere su tutte le tematiche del complesso mondo della sanità penitenziaria. L’obiettivo specifico di quest’anno è quello di avviare una riflessione sul nuovo modo di vivere in carcere dopo la riforma. È un argomento su cui di discute tanto, ma rimane ancora qualcosa da definire, da approfondire, da comprendere appieno". Una delle novità del tradizionale appuntamento annuale è la forte attenzione nei confronti delle malattie mentali all’interno delle carceri. "Il carcere oggi - spiega il presidente Simspe Lucania - si presenta in una maniera decisamente anomala rispetto a pochi anni fa. Questo perché è cambiato profondamente il nostro tessuto sociale: il fatto che oggi ci sia la possibilità di essere presenti in tutto il mondo in maniera virtuale complica particolarmente la nostra stabilità mentale. Questo aspetto comporta aspetti traumatici e drammatici all’interno delle carceri, una difficoltà che aumenta esponenzialmente nei casi di gravi problemi di dipendenza. I disturbi psichici sono una delle prime malattie nelle carceri: un problema da risolvere il prima possibile nella speranza che non comporti disturbi ben peggiori". Detenuti, una risorsa poco valorizzata. Dal lavoro una possibilità di riscatto di Maurizio Murgia laragnatelanews.it, 15 settembre 2016 "Si è sempre detto che tenere i detenuti in carcere sia un costo per la società (vero). Si è sempre detto che dovrebbero essere impiegati per fare qualcosa di utile. Scontare una pena potrebbe voler anche dire rimediare ai danni fatti adoperandosi per fare qualcosa di buono. Si è sempre detto che il recupero delle persone passa dall’educazione e dal riposizionamento entro specifici sistemi di recupero, che possano far riacquistare fiducia in se stessi e allontanino dalla delinquenza. Non si può certo generalizzare. Ci sono detenuti carcerati per piccoli furti e ci sono malavitosi organizzati. Il recupero può essere operato sui primi, dandogli una seconda possibilità [ndr]". Il nostro sistema carcerario però ha grossi limiti sia per strutture obsolete, fatiscenti e inadeguate, sia per normative che limitano e non permettono tale utilizzo e ricollocazione. Nel 2013 Strasburgo ci aveva additato e condannato per l’inadeguatezza delle carceri che sono ferme all’idea di prigione di quarant’anni fa. In Italia non c’è stato uno sviluppo ed un adeguamento del sistema carcerario. Non essendoci riscontri economici c’è stato sempre un palese menefreghismo, perché non crediamo o non vogliamo credere nel cambiamento, nell’innovazione e nel recupero repentino delle situazioni disagiate. Negli ospedali girano farmaci e macchinari, nell’esercito gli armamenti e tecnologia, nell’istruzione, libri e nuovi sistemi di comunicazione ed apprendimento e girano soldi e molti interessi. Nel sistema carcerario (dove poi molti imprenditori disonesti sono destinati a finire) non c’è volontà ne interesse in uno Sviluppo Possibile. Invece di rinchiudere chi potrebbe essere socialmente utile (anche imponendoglielo come pena) teniamo le persone chiuse nelle celle a non far nulla. Una volta si mettevano con la famosa palla al piede (almeno nei film - in America) a rompere i sassi, a fare le strade o ferrovie. Da noi mica sarebbe tanto sbagliato fargli rattoppare le strade o sistemare i giardini distrutti e abbandonati. Sotto un vigile controllo armato in aree circoscritte, potrebbe essere una cosa utile per la collettività e che dà soddisfazione a chi, avendo sbagliato in passato, può trovare una rivincita e magari alla scadenza della pena trovare un impiego e una nuova vita. (Se ad esempio a villa Ada si chiudessero per un paio di settimane dei carcerati a potare le piante, a sistemare le aiuole, a rifare l’impianto idrico, a riposizionare le panchine e i viali distrutte da incuria e pioggia e fango, a pulire a fondo e rifare recinzioni e messa in sicurezza, in piccoli gruppi si potrebbe ricreare una cosa bella - ma poi le società per la cura dei giardini? Potrebbero appaltarlo ugualmente gestendo loro stessi gli operai-prigionieri facendoli lavorare. Gli strumenti tecnologici per farli operare fuori dalle carceri ci sono: braccialetti, è solo un problema di volontà). All’estero (purtroppo sempre altrove), nel Nord Europa si sono studiate carceri che siano a basso impatto ambientale, che prevedono pannelli solari e impianti di climatizzazione. I prigionieri si occupano di gestire spazi verdi e coltivare i terreni. In Italia abbiamo solo l’efficace espressione maturata da alcuni ex detenuti che hanno costituito una vera e propria cooperativa che si impone di aiutare coloro che si dovessero trovare nelle loro stesse condizioni una volta scontata la pena. Un lavoro, un’attività che possa gettare le basi per una rinascita. "Made in Jail" è una bella iniziativa nata a Rebibbia che prevede prodotti, manufatti, magliette, felpe. L’attività viene svolta nei carceri e fuori gli istituti penitenziari. Ci sono veri e propri corsi di formazione e, un giorno, di avere maggiori possibilità di trovare lavoro. Una cosa bella almeno c’è, ma di lavoro da fare ce ne sarebbe tanto. C’è una risorsa, ci sono tante persone che potrebbero offrire aiuto e sentirsi parte attiva della società. La rabbia potrebbe trasformarsi in operatività in altruismo. Invece tutto si disperde e rimane soffocato rendendo inermi uomini e donne e aggiungendo al dolore di un errore, ulteriori sofferenze e il sentirsi non considerato, abbandonato da tutti. Questo non è recupero, non è scontare è solo aspettare. Rif. Norm: L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario adottato con l. 354/1975, attribuisce al lavoro un ruolo centrale nel processo rieducativo e di risocializzazione del condannato. A partire dalla l. 193/2000 "Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti", c.d. legge Smuraglia dal nome del suo proponente, sono introdotti nell’ordinamento strumenti e azioni per favorire la creazione e la gestione del lavoro di persone in esecuzione penale, dentro e fuori il carcere. Non è un paese per innocenti. Sull’uso politico della giustizia di Giorgio Mule Panorama, 15 settembre 2016 L’uso politico della giustizia costituisce un delitto gravissimo contro la democrazia perché ha la presunzione e la forza di sostituirsi alla volontà del popolo nel solco di un ragionamento che di fatto è una bestemmia. Il ragionamento è il seguente: a un singolo atto della magistratura, non dei giudici, si badi bene, ma della magistratura inquirente e quindi dei pubblici ministeri, deve corrispondere un comportamento di annientamento del destinatario dell’atto. Il destinatario deve cioè inabissarsi, scomparire. Se ha responsabilità pubbliche dovrà dimettersi, se è un dirigente di partito dovrà autosospendersi. Dovrà assumere una forma di catalessi, uno stato di mone apparente, fin quando la sua vicenda giudiziaria non sarà conclusa. Questo schifo ha permeato da ultimo il Movimento 5 Stelle, ma l’olezzo di questi comportamenti è facilmente rintracciabile nel vissuto di gran parte della sinistra dagli albori di Tangentopoli fino ai nostri giorni. Non vi dice nulla la ventennale caccia all’uomo nei confronti di Silvio Berlusconi? In questo impazzimento siamo riusciti a superare anche l’aberrazione che il sospetto sia l’anticamera della verità, pensate quanti passi indietro siamo stati capaci di fare. Nella farsa in corso a Roma si citano a capocchia articoli del codice di procedura penale (ultimamente va tanto di moda il 335) e li si equipara a provvedimenti che, nelle intenzioni della nuova inquisizione, dovrebbero avere la stessa forza di una sentenza definitiva. Si tratta invece solo dell’avvio di una verifica o, al più, di indagini che non sono sorrette da prove. L’iscrizione nel registro degli indagati è diventato per questi pazzi lo stigma dell’infamia, la certezza dell’immoralità. E solo un pazzo può mettere in atto questa devoluzione della ragione in favore di un potere, quello della magistratura inquirente, che oramai anche le pietre hanno capito essere soggetto al richiamo della ribalta politica (andatevi a guardare l’elenco di pm transitati dai palazzi di giustizia a quelli del potere). A questo punto tanto vale abolire il Campidoglio e affittare una palazzina adiacente a Monte Mario: ufficio del sindaco da una parte e Procura della Repubblica dall’altro lato della strada. Questa sudditanza non colpisce solo i Cinquestelle, sia chiaro. La vicenda di Stefano Graziano che raccontiamo attraverso le sue parole da pagina 54 è l’esempio perfetto. Graziano è presidente del Pd in Campania fino a quando alla fine dell’aprile scorso viene indagato con squilli di tromba per concorso esterno in associazione mafiosa. Si autosospende senza aspettare alcuna sollecitazione mentre invece i suoi compagni (sic!) di partito spingono i giornali a scrivere che sono stati loro a costringerlo, la segreteria del Pd diffonde il messaggio di essere "glaciale" verso di lui, Matteo Renzi fa soffiare ai retroscenisti di fiducia di non aver mai considerato Graziano uno dei suoi. Un cumulo di bassezze vergognose senza che questi signori si facciano mai sfiorare dal dubbio che il loro bersaglio possa anche essere innocente. I principali giornali italiani dedicano i titoli più importanti della prima pagina alla vicenda. Graziano subisce il "trattamento" e finisce in catalessi. Succede però che oggi un giudice abbia archiviato le accuse infamanti di collusione tra Graziano e la camorra. Sugli stessi giornali che urlarono la notizia, l’archiviazione merita poche righe ben nascoste nelle pagine interne. Il Pd abbozza. Sono passati meno di cinque mesi. Un uomo si può uccidere anche così. Il procuratore Salvi "la politica si liberi dalla dittatura dell’avviso di garanzia" di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2016 "La politica deve imparare ad affrancarsi da una lettura formalistica delle vicende giudiziarie e dei loro riflessi sul governo del Paese o delle città: un avviso di garanzia in sé non deve necessariamente limitare un’attività politica o l’esercizio di una funzione". Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma, invita a guardare avanti e superare l’estenuante conflitto tra politica e magistratura anche attraverso un’assunzione di responsabilità da parte dei partiti. Che dovrebbero imparare a "discernere in autonomia tra i fatti giudiziari politicamente rilevanti e quelli che non lo sono". D’altronde "ci possono essere fatti politicamente rilevanti anche nelle sentenze di assoluzione o di prescrizione. In questo", osserva appunto Salvi, "la politica deve riuscire a compiere delle valutazioni autonome". E superare in questo modo la tentazione della "supplenza" da parte delle toghe, rilanciata dall’esperienza Cinque Stelle a Roma. Guardare avanti e superare l’estenuante conflitto tra politica e magistratura è possibile. Basta avere uno sguardo diverso, responsabile e soprattutto onesto. Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma, propone un orizzonte di questo tipo, una volta preso atto che "sì, certamente siamo usciti da una fase conflittuale del dibattito sulla giustizia". Ma onestà, dal punto di vista di Salvi, vuol dire che "la politica deve imparare ad affrancarsi da una lettura formalistica delle vicende giudiziarie e dei loro riflessi sul governo del Paese o delle città. Deve assumersi la responsabilità di assegnare un peso e un valore ai fatti giudiziari". Intende dire che finora di fronte ai provvedimenti della magistratura i politici reagivano o contrattaccando o con i cappi in Parlamento? Intendo dire che un avviso di garanzia in sé non deve necessariamente limitare un’attività politica o l’esercizio di una funzione. Non ci si dimette solo perché si è indagati. Appunto, l’informazione di garanzia o un avviso di conclusione delle indagini non possono essere decisivi a prescindere dal contenuto. È quel contenuto, piuttosto, che la politica deve saper valutare. Si può distinguere tra indagini giudiziarie che già contengono aspetti politicamente rilevanti e casi in cui tale rilievo non si scorge. E l’approccio non meramente formalistico dovrebbe valere anche in senso rovesciato. A cosa si riferisce? Al fatto che non si può acriticamente registrare l’esito di un processo, ovvero se arriva una assoluzione o una condanna, per fare valutazioni politiche sulle persone coinvolte. Ci possono essere fatti politicamente rilevanti anche nelle sentenze di assoluzione o di prescrizione. In questo la politica deve riuscire a compiere delle valutazioni autonome. A proposito di prescrizione, è d’accordo con la proposta Casson che prevede di interromperla alla condanna di primo grado? Mi limito a chiedere che il legislatore, ora che siamo arrivati al passaggio decisivo in Senato, si lasci guidare da un principio: la prescrizione dovrebbe essere riportata alla sua funzione di garanzia e non a una scorciatoia per l’impunità. Se il titolare dell’azione penale resta inerte è inevitabile e necessario che intervenga la prescrizione. Ma se non c’è inerzia l’esito naturale di un processo penale è l’assoluzione o la condanna. I tempi di prescrizione devono essere correlati all’attività giudiziaria, in modo da non indurre una strategia difensiva tutta rivolta all’estinzione del reato. Ma il conflitto tra politica e magistratura è superato o no? Sì, è superato nel senso che sia nella magistratura sia in chi governa c’è ormai una consapevolezza: i problemi della giustizia sono così gravi e condizionano così pesantemente la tutela dei diritti e l’economia del Paese che si deve assolutamente trovare un accordo. Governo e Csm sono d’accordo sul fatto che una lunga parentesi politica, per un magistrato, non possa chiudersi col ritorno alla toga ma con il passaggio ad altri ranghi della pubblica amministrazione. Si può anche ragionare su un paletto di questo tipo ma francamente non mi pare una priorità, nella situazione in cui ci troviamo. Spero che il confronto tra politica e giustizia riesca a superare il terreno della mera sovrapposizione tra le due funzioni. Il tema è il rapporto tra la giustizia e le attese dei cittadini, ed è un tema difficile. Ma crede che i Cinque Stelle ci terranno inchiodati a un dibattito sui magistrati assessori? È un problema che non riguarda un singolo partito, c’è stata spesso negli ultimi anni l’illusione di poter aggirare con l’appello alla magistratura la questione dell’affidabilità della politica, della capacità dei politici di farsi interpreti del principio di legalità. Ma ripeto: quel problema non va aggirato, va superato con la capacità di saper discernere in autonomia tra i fatti giudiziari politicamente rilevanti e quelli che non lo sono. I guai dei nuovi professionisti dell’antimafia di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 settembre 2016 Mafia Capitale perde pezzi come Virginia Raggi. Il caso Ostia. La notizia è in realtà una non notizia perché la sentenza della Corte d’appello sulla presenza della mafia a Ostia era già arrivata qualche mese fa ed era stata tanto chiara quanto clamorosa: nel quartiere di Roma eletto dalla procura di Roma e dagli sceneggiatori al seguito a simbolo della Mafia Capitale la mafia non c’è e nella sentenza di secondo grado contro il clan Fasciani di Ostia i giudici hanno trasformato l’associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, riducendo la durata di molte delle condanne inflitte. La notizia era nota ma le motivazioni della sentenza, che ha ridimensionato quella che doveva essere la prima grande pistola fumante della presenza della mafia a Roma, da martedì sono pubbliche e rappresentano un colpo duro per la procura di Roma e i nuovi professionisti dell’antimafia capitale. Nelle 150 pagine della sentenza si dice esplicitamente quello che questo giornale scrive da tempo. Nell’inchiesta su Ostia manca la prova della "pervasività mafiosa". Non è provato "il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso". Le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e "non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento". La Corte d’appello, ovviamente, come ha fatto più volte il Foglio, riconosce che a Ostia, e probabilmente a Roma, vi sono stati "singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti" ma li circoscrive appunto a singoli atti: reati di usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto. Tutto questo è vero, ma da qui a dire che tra Ostia e la pompa di benzina di corso Francia sia maturata negli ultimi anni una cupola formata da padrini alla Don Vito Corleone che ha tenuto in ostaggio la Capitale d’Italia ce ne passa, perché "non è provato il carattere mafioso del gruppo criminale". "L’atteggiamento tenuto dai testi escussi nel corso del dibattimento - leggiamo dalle carte - non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie, o comunque, ad uno stato di diffusa soggezione" e in un caso particolare, quello legato a una storia di usura, "lo stato di soggezione (delle vittime, ndr) può essere ricondotto al debito contratto". Usura, non mafia. L’inchiesta su Mafia Capitale è ancora lunga e la sentenza su Ostia - contro la quale la procura di Roma ha fatto ricorso in Cassazione - è solo uno dei molti passaggi di un’indagine complicata. Ma le motivazioni sulla non presenza della mafia a Ostia rappresentano un nuovo colpo importante all’inchiesta più grande: quella su Mafia Capitale. E tra procura di Roma e comune di Roma non si può dire che sia un bel periodo per i nuovi professionisti dell’antimafia capitale. Prescrizione, la fiducia si allontana di Andrea Colombo Il Manifesto, 15 settembre 2016 Senato. Il testo va in aula, Renzi vuole evitare di blindare un patto con Alfano sulla giustizia. La tenuta della maggioranza potrebbe però essere messa a rischio da un emendamento del dem Casson. La decisione la prossima settimana. Fiducia o no? Fino a ieri mattina sembrava non ci fosse dubbio: troppo pericoloso sfidare l’aula su un tema delicato come la giustizia, sempre sotto i riflettori dell’opinione pubblica ma allo stesso tempo tale da mettere a rischio l’accordo con i centristi e dunque la tenuta della maggioranza. Poi il vento è cambiato e l’ipotesi di blindare il testo col voto di fiducia si è allontanata. Oggi la riforma del processo penale, in discussione dal 3 marzo, dovrebbe approdare nell’aula del Senato, sempre che i tempi del dibattito sulla legge per l’editoria non si allunghino troppo, e il governo dovrebbe autorizzare l’eventuale richiesta di fiducia. Se poi porla davvero o no lo si deciderà solo la settimana prossima. Dopo mesi di trattative l’intesa con i centristi è stata raggiunta a fine luglio, troppo tardi per varare la legge prima della pausa estiva. Fissa a 18 anni i tempi per la prescrizione per i reati di corruzione: è un’eternità ma sempre meno del tetto dei 21 anni che campeggiava nel testo licenziato dalla Camera. I centristi, pur non avendo ottenuto l’abbassamento del tetto fino a 16 anni e mezzo, possono comunque chiudere la partita onorevolmente. Per gli altri reati, i tempi per la prescrizione sono allungati di tre anni. L’ostacolo si chiama Felice Casson. Il relatore (Pd ma in dissenso dalla linea del gruppo) ha visto bocciato in commissione l’emendamento col quale proponeva di bloccare la prescrizione dopo la condanna in primo grado. Non si è arreso e ha deciso di ripresentare l’emendamento in aula, dove l’M5S lo voterà e dove, se si arriverà a un voto segreto, anche una parte del Pd e del Misto potrebbe sostenere l’ex magistrato. Il quadro è però più insidioso. Casson intende anche presentare un emendamento, limitato ai delitti ambientali, che fa decorrere i tempi della prescrizione non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quelli in cui la notizia di reato viene acquisita dal magistrato. La proposta ha un suo senso: basti pensare ai casi di malattie gravi o mortali provocate da crimini ambientali. L’emendamento è supportato anche da un esponente del Pd di assoluto rilievo in materia, Giuseppe Lumia, ex presidente della commissione Antimafia. Con l’appoggio di Lumia e trattandosi di un emendamento la cui razionalità è evidente, la possibilità che venga approvato appare decisamente più forte, ma a quel punto potrebbe trascinare anche il voto sul blocco della prescrizione dopo la condanna in primo grado. In questo caso l’accordo di maggioranza colerebbe a picco in un baleno. Ma se i motivi per porre la fiducia evitando ogni possibile incidente sono chiari, lo sono anche quelli che consigliano di evitare la forzatura. In un altro momento Matteo Renzi non ci penserebbe su un minuto. Ma questi non sono tempi normali. Dietro l’angolo c’è un referendum sul quale il premier si è giocato tutto, e blindare con la fiducia un patto con i centristi sul tema da sempre più incandescente, la giustizia, non sembra essere il viatico migliore. Per questo, al momento, le quotazioni del voto di fiducia sono in netto ribasso e il ministro della Giustizia Orlando non nasconde che preferirebbe evitarla. A decidere sarà però Renzi e lo farà dopo aver soppesato nel week-end non solo i pro e i contro delle diverse opzioni ma anche, anzi soprattutto, dopo aver ascoltato il responso della conta prevista dal capogruppo Zanda. Ma qualunque strada scelga di imboccare, l’esitazione di queste ore dimostra che, di qui alla prova del fuoco, ogni passo del governo verrà deciso calcolando prima di tutto il riflesso che potrebbe avere sul referendum Riforma del processo penale, più sintetici gli atti processuali di Claudia Morelli Italia Oggi, 15 settembre 2016 Gli emendamenti dei relatori alla riforma del processo penale in aula al Senato. Le notificazioni e gli avvisi ai difensori inviati via Pec. Il principio di sinteticità degli atti processuali entra nel codice di procedura penale; le notificazioni e gli avvisi al difensore saranno via Pec; tutela rafforzata per i soggetti incaricati della trascrizione delle registrazioni o della traduzione delle comunicazioni intercettate se in lingua diversa da quella italiana o in dialetto non facilmente intelligibile, la cui identità dovrà rimanere segreta. I relatori alla riforma del processo penale, in calendario dell’aula del Senato in questa settimana, Giovanni Cucca e Felice Casson (Pd), hanno cofirmato una manciata di emendamenti "tecnici" a un testo che in realtà rimane ad alto voltaggio per la maggioranza su altri temi, in particolare quelli della prescrizione e delle intercettazioni. I circa 400 emendamenti al testo, già faticosamente concordato dalla maggioranza (Pd e Ncd) in commissione giustizia a fine luglio, sono depositati e numerati in un fascicolo di 136 pagine. Per non entrare nel ginepraio obiettivo del governo, confermato in ambienti parlamentari Pd, rimane quello di chiudere la "partita" della riforma del processo penale, se fosse necessario (come già appare), con la fiducia su un maxiemendamento che accolga le poche puntuali modifiche di natura "tecnica", appunto. Lasciando fuori gli stessi tre emendamenti Casson sulla prescrizione, presentati a titolo "personale" ma che certo piacciono all’ala più "dura" del Pd e anche al Movimento 5 Stelle (almeno quello che ripropone di far cessare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado). Gli altri due si propongono di garantire tempi più lunghi di prescrizione (che decorre da quanto il pm ha notizia del reato) per i reati di disastro ambientale e per le cosiddette morti bianche a causa di infortuni sul lavoro. Fattispecie entrambe ben note a Casson, per esperienza diretta come sostituto a Venezia. Di comune accordo, i due relatori hanno invece firmato cinque emendamenti "tecnici", tra cui l’emendamento "sinteticità degli atti" sia per i provvedimenti del giudice che per gli atti di parte e quello della segretezza della identità di coloro che assolvono alle funzioni di trascrizione e traduzione di conversazioni in lingua straniera o dialetto intercettate. Altro emendamento interviene sulla disciplina dell’appello, estendendo la impugnabilità anche alle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e alle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. Un corposo emendamento Lumia tenta la volata "informatica" per il processo penale: le notificazioni e gli avvisi al difensore dovranno essere fatte via Pec. Non solo. La prima notifica a persona soggetta a indagini non detenuta, nel caso in cui la consegna personale sia stata impossibile, potrà essere fatta al convivente o al portiere. La nuova disciplina delle notificazioni proposta dalla maggioranza dunque mira a semplificare e snellire le procedure anche per restringere il pericolo delle invalidità con soluzioni che, certamente, faranno risentire gli avvocati, già molto critici sulla norma che dispone il dibattimento a distanza (soluzione "irragionevole e avventata" ha scritto nella lettera al Ministro l’Unione delle Camere penali). Al momento emendamenti soppressivi sono stati presentati dall’opposizione. Il Movimento 5 Stelle vorrebbe vedere soppressa la delega sulla riforma complessiva del codice di procedura penale e sulle intercettazioni nello specifico. Il senatore Maurizio Buccarella spiega a Italia Oggi: "Abbiamo presentato un centinaio di emendamenti che si occupano del merito delle questioni e che confermano la contrarietà del Movimento a tutte quelle soluzioni che si annunciano come restrittive dell’utilizzo degli strumenti di indagine o della libertà delle persone (il riferimento è alla introduzione del reato di registrazioni video- audio non autorizzate, ndr)". Quanto all’ipotesi fiducia, "sarebbe l’ennesimo strappo istituzionale, su un provvedimento che introduce nuove fattispecie incriminatrici e numerose deleghe al governo". Intanto ieri l’Aula della Camera ha respinto le pregiudiziali di costituzionalità presentate dall’opposizione sul decreto legge per l’efficienza degli uffici giudiziari, Cassazione e processo amministrativo telematico, aprendo la strada all’approvazione in prima lettura. Cyberbulli. "Punire anche gli adulti per la violenza sul web". La proposta già divide di Maria Novella De Luca La Repubblica, 15 settembre 2016 Al via alla Camera l’esame del ddl: oltre alla tutela dei minori, prevede pene fino a sei anni per le aggressioni via Internet. Ma i 5 Stelle attaccano: "Così si imbavaglia la Rete". Riparte nel cuore di una catena di eventi luttuosi il percorso della nuova legge sul cyberbullismo, approvata dal Senato nella primavera del 2015, ma profondamente modificata in commissione alla Camera. E dunque destinato a un iter lento e travagliato. Diviso tra due correnti di pensiero: tra chi ritiene che la via maestra per sconfiggere il cyberbullismo sia la prevenzione e l’educazione dei più giovani, e chi propone invece sanzioni assai più dure anche per gli aggressori adulti. Nato dalla tenacia di Paolo Picchio, papà di Carolina che si uccise a 14 anni perché perseguitata sul web, e della senatrice del Pd Elena Ferrara, che di Carolina era stata l’insegnante di musica, il testo approvato al Senato era composto di sei articoli, e dedicato esclusivamente ai minori. Il nuovo testo della Camera invece allarga la repressione a chiunque (anche adulto) compia atti di bullismo e cyberbullismo, attraverso ogni manifestazione della Rete: dunque non solo i social network, ma anche i blog, i forum, e le chat. Prevedendo, in più, un’aggravante per lo "stalking sul web" con una pena da uno a sei anni di carcere. Insomma una norma completamente riscritta dai deputati delle commissioni Giustizia e Affari Sociali, definita dai Cinquestelle "una legge- bavaglio contro il web" e soprattutto disconosciuta dai suoi autori, sia la senatrice Ferrara che Paolo Picchio, il padre di Carolina. "Il nostro testo - spiega Ferrara - era rivolto integralmente alla tutela dei bambini e dei ragazzi nell’età evolutiva, quando cioè i fenomeni di bullismo sono maggiormente diffusi e spesso con conseguenze tragiche". Con due punti cardine: "La possibilità, per la vittima minorenne, di ottenere dai gestori dei siti internet la rimozione dei contenuti offensivi, e un forte piano di prevenzione da attuare in collaborazione con il ministero dell’Istruzione e con la Polizia Postale". Perché la vera sfida, secondo Ferrara, è prevenire, e per i minorenni bulli la pena altro non può essere che "la messa in prova e poi la rieducazione". Diverso il discorso dei più grandi, che possono essere già oggi condannati attraverso i reati previsti dal codice penale. E l’ex maestra di Carolina Picchio ricorda che l’unico maggiorenne tra i persecutori della ragazzina di Novara venne condannato per stalking a un anno e quattro mesi di reclusione. Dunque con le leggi attuali. "Avevamo raggiunto un delicato accordo con i gestori dei siti, cui si possono rivolgere anche i giovanissimi da soli. Se si allarga a dismisura la platea dei ricorsi i minori rischiano di non essere più ascoltati". Il crinale è sottile. Perché anche gli adulti, come dimostra la tragica storia di Tiziana, possono diventare vittime dei cyberbulli, ma hanno già, per difendersi, una serie di strumenti legali e penali. La Camera ha ritenuto invece di dover allargare le tutele e inasprire le pene. Nel dettaglio, il testo presentato dai due relatori, entrambi del Pd, Micaela Campana e Paolo Beni, afferma che la legge è rivolta a "chiunque" abbia subito atti di bullismo e cyberbullismo, che si potrà rivolgere ai gestori dei social per far rimuovere quei contenuti. (Vengono indicati anche i blog, le chat, quello che per molti potrebbe diventare di fatto, un controllo della libertà di opinione in Rete). Nella riscrittura della Camera vengono ribaditi l’impegno della scuola e il ruolo dei dirigenti scolastici. Ma è all’articolo 6 che i due testi prendono strade opposte: laddove la proposta votata al Senato prevedeva, trattandosi di minori, come unica sanzione l’ammonimento, la Camera introduce l’aggravante per lo "stalking sul web" fino a 6 anni di carcere. "Non era questo lo spirito", dice Ferrara, "perché la vera strategia è educare piuttosto che reprimere". Tortora dalla prigione: "L’uomo qui è niente, ricordatevelo" di Valter Vecellio Il Dubbio, 15 settembre 2016 Il 15 settembre di trent’anni fa, il noto giornalista viene definitivamente assolto dopo sette mesi di ingiusta carcerazione. Dalla cella scrive parole durissime. Dopo sette mesi di ingiusto carcere e arresti domiciliari Enzo Tortora viene definitivamente assolto dalle accuse di associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È il 15 settembre di trent’anni fa. Un calvario che lo segna in modo indelebile. Il 18 maggio del 1988 muore, stroncato da un tumore, conseguenza - non è arbitrario sostenerlo - anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore. Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Sarebbe interessante sapere chi dà quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Rileggo ancora con emozione, indignazione, sgomento le lettere che Enzo mi invia dal carcere; e ancora corre un brivido lungo la schiena. Credo sia utile, necessarie, rileggerle, in giorni in cui tanti, mostrano di aver smarrito la memoria di quello che è stato. 16 settembre 1983 "Da tempo volevo dirti grazie. Hai "scommesso" su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua "puntata". Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il "caso Tortora è il caso Italia". Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non "onorevoli". Se dal mio male può venire un pò di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo". 2 maggio 1984 "Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l’Italia "ha abolito la pena di morte". Abbiamo un boia in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in "attesa" di un giudizio che non arriva mai. L’uomo qui è niente, ricordatevelo. L’uomo qui può, anzi deve attendere. L’uomo qui è una "pratica" che va "evasa" con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale". 15 luglio 1985 "In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell’obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s’è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d’ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente". 7 ottobre 1985 "Sono stato condannato e processato dalla Ngo, Nuova giustizia organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita". 2 aprile 1986 "Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all’estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano". 17 agosto 1987 "Siamo molti ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l’incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito. Sono ancora lì, al loro posto? Staremo a vedere". Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: perché?. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per "riscattarlo". Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova. Durante la strada parte è "stornato", non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la "stecca". A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un "ritorno". Il "ritorno" si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, "mai più ritrovato". Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora "brucia". Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. "Cinico mercante di morte", lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: "Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza". Le "prove" erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘o animale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino. Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti "pentiti": curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro "perché? " e al "contesto". A legare il riscatto per Cirillo raccolto ai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati "pentiti a orologeria"; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce "il venerdì nero della camorra", che in realtà si rivelerà il "venerdì nero della giustizia": 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104. Documenti ufficiali, non congetture. Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la "sua" ossessione. Nessuno dei "pentiti" che lo accusa è chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta fanno tutti carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Un errore, ed insieme un orrore, l’affaire Tortora. Un orrore per quello che è stato, che implica, fa intuire; e definirlo un errore è forse troppo semplice, perfino assolutorio; che quella patita da Tortora è stata un’ingiustizia che, manzonianamente, poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, "un trasgredir le regole ammesso anche da loro". E si torna al punto di partenza: perché è accaduto, perché si è voluto accadesse. Né si possono assolvere dicendo che non sapevano quello che facevano: se davvero non sapevano è perché decisero consapevolmente, di non sapere. Insomma, una colpa, se possibile, ancora più grave. Ora tutti riconoscono che l’intero castello accusatorio era più fragile di un castello di sabbia; e che Tortora era una persona perbene. Enzo diceva sempre che non era, il "suo" il "caso Tortora", ma "il caso Italia"; che resta, rimane, a cominciare dalla situazione delle carceri, e dall’irragionevole durata dei processi. Lo avevano ben compreso Marco Pannella, suo amico di sempre, che per lui si batte come un leone; e Leonardo Sciascia, che fin da subito si dichiara certo della sua innocenza. Sarà per questo che assistiamo a tante celebrazioni post mortem e alla memoria, molte certo in buona fede (altre se ne però lecitamente dubitare), senza che i radicali vengano mai invitati, tacitati, esclusi? Difensore revocato ancora in carica per le attività indifferibili di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2016 Corte di cassazione -Sezione V penale - Sentenza 14 settembre 2016 n. 38239. Nel processo penale, in caso di revoca o rinunzia del difensore di fiducia, il professionista può continuare a compiere "tutte quelle attività processuali il cui svolgimento risulti incompatibile con il decorso del termine concesso al difensore subentrante". Senza dunque che il giudice, in sua assenza, possa semplicemente procedere nella trattazione nominando un avvocato d’ufficio. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 14 settembre 2016 n. 38239, segnando un cambiamento giurisprudenziale. Il ricorrente, condannato per bancarotta fraudolenta aggravata, aveva denunciato la violazione del proprio diritto di difesa, perché la Corte territoriale dopo il deposito (tramite sostituto) della nomina del nuovo difensore di fiducia, a cui il giudice dell’appello aveva concesso il termine a difesa di sette giorni, aveva ugualmente proceduto nella trattazione nominando un difensore d’ufficio e pronunciando sentenza. Secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, ricorda la sentenza, "il giudice può legittimamente rigettare l’istanza di rinvio presentata dal fiduciario subentrante, in ragione di un concomitante impegno professionale, e nominare per la celebrazione dell’udienza un difensore d’ufficio in sostituzione di quello originario non comparso, attesa la permanenza nell’incarico del primo difensore, il cui mandato mantiene efficacia fino alla decorrenza del termine a difesa (n. 15778 /2015)". Per la V Sezione penale però tale principio non è "pienamente condivisibile, fondandosi su di una interpretazione letterale di un dato normativo senza tenere conto della sua ratio". Non vi è dubbio infatti, prosegue il testo, che "tanto la proroga del difensore rinunziante o revocato, quanto il diritto di quello subentrante di ottenere un congruo termine per preparare la difesa, sono previsioni dettate innanzi tutto al fine di evitare soluzioni di continuità nell’assistenza dell’imputato". Ciò non vuol dire che la concessione del termine a difesa debba comportare necessariamente la sospensione del procedimento per tutta la sua durata, sia perché l’articolo 108 non lo prevede, sia perché diversamente "non si comprenderebbe la stessa ragione della proroga del difensore revocato o rinunziante". Al contrario, "proprio tale proroga dimostra come il legislatore abbia presupposto che, nelle more del decorso del termine, possano essere compiuti atti che richiedono la presenza del difensore, anche al fine di evitare un uso strumentale della sostituzione". Ma quali? Per la Cassazione bisogna trovare un bilanciamento tra le diverse esigenze, che però non può tradursi "nell’indiscriminata facoltà del giudice di procedere in ogni caso avvalendosi del difensore revocato o rinunziante (o addirittura sostituendolo con un difensore d’ufficio)". In definitiva, argomenta la Corte, il professionista revocato o rinunziante può compiere le attività non procrastinabili, precisando però "l’urgenza processuale" può rivelarsi in riferimento a qualsiasi "adempimento processuale", secondo la prudente valutazione del giudice. Tuttavia, conclude la sentenza, siccome nel caso affrontato la situazione non giustificava "la sostanziale elisione della possibilità per il difensore subentrante di partecipare alla discussione", né è emersa la natura dilatoria della nomina, si è determinata una ingiustificata lesione del diritto di difesa dell’imputato. Ricicla chi deposita in banca denaro distratto alla società di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 38214/2016. È riciclaggio lo svuotamento delle casse della società di un gruppo, facendo transitare il denaro senza alcuna causale, su conti correnti personali di terzi, per poi utilizzarlo per aumentare il capitale di un’altra società. Il manager ha però diritto all’attenuante se il reato presupposto è l’appropriazione indebita e non la bancarotta. La Cassazione, con la sentenza 38214 depositata ieri, respinge il ricorso dell’amministratore per quanto riguarda la contestazione del reato di riciclaggio, ma lo accoglie riguardo al trattamento sanzionatorio. La pena doveva essere abbattuta per l’attenuante prevista dal comma 3 dell’articolo 648-bis del Codice penale, che scatta quando il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto per il quale è stabilità la pena della reclusione inferiore nel massimo ai cinque anni. La Corte d’appello, aveva, infatti, disatteso le indicazioni date dalla Cassazione con la sentenza di rinvio (43881/2014). In quell’occasione, la Suprema corte aveva individuato il reato presupposto nell’appropriazione indebita, chiarendo che la bancarotta fraudolenta in ambito societario è una figura di reato complessa, che comprende tra i propri elementi costitutivi una condotta di appropriazione indebita del bene distratto punibile di per sè (articolo 646 del Codice). Il giudice del rinvio non aveva applicato l’attenuante perché nelle more aveva acquisito la sentenza definitiva, con la quale gli autori del reato presupposto erano stati condannati per bancarotta fraudolenta: un "delitto" che supera il limite di pena fissato dall’articolo 648-bis del Codice. La Corte d’appello incorre però in un doppio errore. Il reato di bancarotta fraudolenta si consuma soltanto con la dichiarazione di fallimento intervenuta dopo la condotta di riciclaggio e non prima. In più, la Cassazione aveva rinviato proprio sul punto, mentre le altre decisioni erano passate in giudicato. Per la stessa ragione, non può essere accolta la parte del ricorso con il quale il manager negava la sussistenza del reato contestato perché non sarebbe stata impedita la tracciabilità. La Cassazione aveva, infatti, affermato che il reato di riciclaggio si considera integrato anche nel caso in cui venga depositato in banca denaro di provenienza illecita. Il bene ha una natura fungibile, per il solo fatto dell’avvenuto deposito il denaro viene automaticamente sostituito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante lo stesso ammontare. Reati tributari, sequestro preventivo anche con presunzioni di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 38142/2016. Il sequestro preventivo nei confronti di un socio, indagato per omessa dichiarazione delle somme derivanti dall’occulta distribuzione di dividendi di una Srl a ristretta base azionaria, può basarsi anche su presunzioni se assumono il valore di elementi di fatto. L’evasione fiscale perpetrata dalla società e la presenza di due soli soci che non hanno dato giustificazioni sulla destinazione delle somme evase dall’impresa, assumono una rilevanza fattuale tale che prescinde dalla eventuale sussistenza di presunzioni in campo tributario e pertanto ricorre il requisito necessario (c.d. fumus) per l’adozione della misura cautelare. A fornire questa interpretazione è la Cassazione sezione III penale con la sentenza n. 38142 depositata ieri. La vicenda processuale trae origine da contestazioni fiscali abbastanza frequenti nella prassi dell’amministrazione finanziaria: in presenza di somme ritenute evase da una società di capitali a ristretta base azionaria (provate da documentazione extracontabile rinvenuta dai verificatori), viene rettificato il reddito dei soci presumendo che gli importi evasi, in assenza di giustificazioni contrarie, e proporzionalmente alla loro partecipazione, siano stati distribuiti in modo occulto. In questo caso si superavano le soglie di punibilità del delitto di dichiarazione infedele in capo al singolo socio: era così disposto un sequestro nei suoi confronti. L’indagato ricorreva per cassazione evidenziando, tra l’altro, che la rettifica del reddito del socio era illegittima poiché la società era cessata da oltre un anno e comunque si basava su presunzioni tributarie (non essendovi prova della distribuzione di dividendi) del tutto irrilevanti nel processo penale. La Suprema corte ha ricordato che ai fini cautelari in quanto alla commissione del delitto è richiesto un "fumus" ed ha confermato l’invalidità a tal fine delle presunzioni tributarie (che impongono un’inversione dell’onere probatorio). Il giudice penale infatti, secondo un orientamento ormai consolidato, deve svolgere verifiche sull’esistenza e l’ammontare dell’imposta evasa in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale rispetto ai criteri formali che caratterizzano l’ordinamento tributario. Nella specie però si era in presenza di elementi fattuali idonei a supportare l’ipotesi dell’avvenuta commissione del delitto a prescindere dalle presunzioni tributarie. Gli indizi sull’evasione della società e la presenza di due soli soci, in assenza di giustificazioni sulla destinazione delle somme, integrano regole di comune esperienza che rendono plausibile la distribuzione degli utili non dichiarati in base alle partecipazioni. Toscana: Scaramelli (Pd) "i lavori di pubblica utilità portano vantaggi per tutti" gonews.it, 15 settembre 2016 "La Toscana renderà più forte e articolata la possibilità di scontare le condanne tramite lavori di pubblica utilità da prestare a favore della comunità, da attuarsi in associazioni di volontariato o negli enti locali. Una possibilità che rappresenta un’opportunità per tutti, in primo luogo per i detenuti, ma anche per il territorio e gli enti locali, così come per limitare il sovraffollamento carcerario e una maggiore sicurezza della collettività. Tutti i dati riguardo alla recidiva, infatti, dimostrano che le pene alternative sono più efficaci della sola pena detentiva, dato che tra i detenuti che ne hanno usufruito risulta molto più basso il numero di quelli che tornano in carcere per nuove condanne" - dichiara il presidente della commissione Sanità e politiche sociali Stefano Scaramelli (Pd). "In Toscana sono già 3487 su 6014 i detenuti che stanno eseguendo sanzioni sul territorio, e la risoluzione arriva anche a seguito delle istanze presentante alla Commissione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Abbiamo ritenuto necessario incrementare la partecipazione di tutti gli attori presenti sul territorio per l’individuazione dei percorsi di pena alternativa al carcere. La risoluzione, infatti, invita la Giunta regionale a coinvolgere maggiormente le istituzioni locali, in primo luogo i Comuni, nella definizione congiunta dei progetti e nell’individuazione di nuove figure professionali specifiche. La Regione Toscana, inoltre, coordinerà l’azione degli Enti locali nello sviluppo e nell’attuazione dei lavori di pubblica utilità, nel finanziamento dei percorsi di mediazione e nella co-progettazione nell’ambito dei fondi europei per il sociale. Un passo avanti in una battaglia di civiltà, dunque, quella di una pena che mira realmente alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, dalla quale potranno arrivare opportunità per i nostri Comuni e benefici al nostro tessuto sociale" - ha concluso il consigliere Pd Stefano Scaramelli. Puglia: l’allarme del Sappe "le carceri scoppiano, 48 tentati suicidi in solo 6 mesi" di Vincenzo Damiani borderline24.com, 15 settembre 2016 Sono 3.206 (3.051 uomini e 155 donne) le persone che affollano gli 11 istituti penitenziari, che sulla carte sono idonei ad ospitare solo 2.347 posti. Le carceri pugliesi scoppiano. Sono 3.206 (3.051 uomini e 155 donne) le persone che affollano gli 11 istituti penitenziari, che sulla carte sono idonei ad ospitare solo 2.347 posti. E altre 2.544 scontano la pena sul territorio regionale tra misure alternative, misure di sicurezza e sanzioni sostitutive della detenzione. Ogni giorno, tra le sbarre delle celle pugliesi, c’è più di un evento critico e di una colluttazione. È quello che emerge dai dati diffusi dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria in vista del consiglio regionale Sappe che si è svolto oggi a Cassano delle Murge. A presiedere l’assise sindacale il segretario generale Donato Capece ed il segretario regionale Federico Pilagatti. "La polizia penitenziaria nelle 11 carceri della Puglia, è formata da persone che nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante affollamento - al 31 agosto scorso erano infatti detenute 3.206 persone, quasi mille in più rispetto alla capienza regolamentare delle carceri - credono nel proprio lavoro, hanno valori radicati", dice Capece. Ù +"Nei primi sei mesi del 2016 nelle carceri pugliesi si sono contati 247 atti di autolesionismo, 48 tentati suicidi sventati in tempo dai Baschi Azzurri, 2 suicidi, 3 decessi per cause naturali, 228 colluttazioni e 25 ferimenti: numeri - sottolinea Pilagatti - che fanno capire, più di mille parole, con quale e quanto stress operativo si confrontano quotidianamente le donne e gli uomini della polizia penitenziaria della Puglia". Pordenone: il nuovo carcere dal riadattamento di una caserma, spesa prevista 23 milioni € ilfriuli.it, 15 settembre 2016 Via libera la nuovo penitenziario pordenonese. Questa mattina nel Palazzo delle infrastrutture e dei trasporti a Trieste è stato firmato il contratto di appalto per la realizzazione del nuovo penitenziario da 300 posti della circoscrizione di Pordenone a San Vito al Tagliamento, struttura che sarà realizzata nella caserma dismessa dall’Armi. L’ingegner Giorgio Lillini a nome del Ministero delle Infrastrutture e del Provveditorato opere pubbliche ed Enzo Ferragosti a nome della Associazione Temporanea di Impresa, Kostruttiva e Riccesi hanno apposto la loro firma alla presenza pure del presidente di Kostruttutiva Devis Rizzo e di Donato Riccesi. Presente anche il sindaco di San Vito al Tagliamento Antonio Di Bisceglie. Il contratto prevede la progettazione esecutiva e la esecuzione dei lavori individuando per la progettazione 30 giorni previsti a partire dalla registrazione da parte degli organi di controllo e le prove conoscitivi previste dal contratto stesso. A seguire vi sarà l’ approvazione del progetto da parte dell’Amministrazione ministeriale e il conseguente avvio dei lavori per i quali sono indicati 450 giorni ovvero 15 mesi. Al termine della firma è stata espressa la piana soddifazione da parte dell’ingegner Lillini cosi come fatto dalle imprese. I successivi atti prevedono anche la prossima firma del protocollo di legalità che potrà avvenire a San Vito entro la fine dell’autunno. Il sindaco ha anche convenuto la presentazione del progetto alla comunità entro Natale pere rendere partecipe la popolazione di questa imponente opera che - anche ha detta degli opera do del Provveditorato - è la più grande che si viene a realizzare in questo periodo in Friuli Venezia Giulia con i suoi 23 milioni di investimento. Il brindisi conclusivo ha suggellato questo passaggio decisivo per questa urgente e necessaria infrastruttura di cui da decenni la circoscrizione di Pordenone ha bisogno. Siena: il carcere virtuoso nella città del palio di Gianluca Testa Corriere della Sera, 15 settembre 2016 In soli settecento passi o poco più c’è un’altra conchiglia che si schiude. La prima e più illustre, complice la forma a spicchi immutata nel tempo, è Piazza del Campo. È qua che le contrade di Siena si sfidano nel palio. Per attraversarla in un qualunque giorno d’estate è necessario dribblare turisti smanicati e in calzoncini corti. Occorre evitare di calpestare i loro sandali, è necessario schivare gli stick per i selfie, gli ombrelli delle guide turistiche, le barriere immobili di stranieri che paiono colpiti dalla sindrome di Stendhal. Poco distante c’è la porta di accesso a un altro mondo, finora invisibile. Basta lasciare Piazza del Campo per via del Porrione (prima) e via del Pantaneto (poi). Sono sufficienti cinque o sei minuti ed eccoci qua, in piazza Santo Spirito. La luce della tarda mattina disegna i contorni della chiesa quattrocentesca, spicca il cotto della facciata. Su una panchina siede una giovane madre, nell’angolo una coppia di anziani fuma e discute. Eppure è qua che dovrebbe trovarsi il carcere. Ma dove? "Sono arrivato circa tre anni e mezzo fa. Quando mi presentavo come direttore del carcere erano in molti a rispondermi: "Perché, a Siena c’è un carcere?". Questo mi ha fatto molto pensare". A parlare è Sergio La Montagna. È gentile, giovane, passionale. Dalla casa circondariale di Ariano Irpino è stato trasferito qua, in Toscana. Si è trovato catapultato in una delle città più belle del mondo. Un luogo in cui nessuno (o quasi) sa che esiste anche un carcere. "Tutti sanno dove si trovano l’ospedale, il tribunale, l’università… Eppure non si sa dove si trova il carcere. Come se dovesse restare nascosto. Eppure non è una struttura avulsa dal contesto" ci spiega La Montagna. "L’articolo 27, ad esempio, parla della rieducazione del detenuto ma non dice che il compito è solo degli operatori. Il riferimento implicito è alla collettività. A tutti spetta questa responsabilità". Il direttore ci accoglie nel suo ufficio dopo aver varcato l’ingresso principale - una cancellata marrone quasi mimetizzata ma riconoscibile per le due bandiere appese (una italiana, l’altra europea) - e soprattutto dopo aver superato anche la "vera" porta del carcere. Al di là delle blindature e delle sbarre si apre un chiostro antico perfettamente ordinato. A prendersene cura è proprio uno dei detenuti. "Questo era un vecchio convento, ha pochi spazi. Ma quelli che ci sono li utilizziamo tutti. Ogni angolo viene sfruttato al meglio" racconta il direttore. E così anche questa seconda conchiglia si schiude. Merito della caparbietà e delle idee di La Montagna (nomen omen?). E merito di chi - con cuore, professionalità e, perché no, anche portafogli - ha reso possibile la costruzione di relazioni coraggiose e proficue. Sì, ora anche la città di Siena sa di ospitare un carcere. E per questo tende una mano. Le attività sono tante. Anzi, tantissime. Ma essendo una casa circondariale i detenuti non restano qua a lungo. "È quindi difficile organizzare iniziative e garantire continuità. Difficile, sì. Ma non impossibile" assicura il direttore. La capienza è di 81 detenuti, ma la presenza media è di 70. Sono prevalentemente nordafricani, albanesi, rumeni e arabi. Insomma, non ci sono problemi di sovraffollamento. Almeno non qua. Negli ultimi anni non solo è stata aperta per la prima volta una biblioteca, ma è stato realizzato anche un campo da calcetto grazie alla donazione della società Ecopneus ("È piccolo, le misure non sono regolamentari, ma ora non giocano più nel cortile pieno di buche" racconta La Montagna). Sono stati organizzati corsi di fotografia (percorso culminato con la mostra "Spirito di riscatto"), di scrittura creativa, per arbitri (grazie a Uisp), laboratori teatrali e - grazie alla Croce Rossa - anche di pittura e ceramica (le opere sono state donate al reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale Le Scotte). È tutto? Assolutamente no. Perché a Siena si realizza anche un bel magazine ("Spirito in libertà"). Grazie ai volontari "Amici delle biblioteche" si organizzano eventi e incontri con scrittori, in collaborazione con l’Istituto tecnico agrario Ricasoli è stata creata un’area verde dove si fanno colloqui nei mesi estivi, mentre in partnership con l’Unione italiana ciechi sono stati realizzati audiolibri (la voce narrante, ovviamente, è quella dei detenuti). "Per tutto questo devo ringraziare i volontari. Per me sono "gli angeli delle sbarre". Ma un grazie va anche alle istituzioni e a tutte quelle realtà private che hanno reso possibile la realizzazione di questi progetti" chiosa La Montagna. Già, tutto questo ha un costo. Ma qual è il budget del carcere? "Circa ottocento euro l’anno, quattrocento a semestre" risponde il direttore. Tutto questo all’amministrazione penitenziaria costa poco o nulla. A fare la differenza sono le donazioni. E il tessitore di relazioni è sempre La Montagna, che costruisce dove prima c’era il vuoto restituendo identità (e dignità) non solo al carcere ma anche agli stessi detenuti. "Non ci nascondiamo dietro la carenza di fondi" precisa. "Grazie alla sensibilità e alla disponibilità degli altri riusciamo a far tutto". Una delle operazioni d’integrazione più belle e ben riuscite è la realizzazione de "Le fiabe di Santo Spirito (e altri racconti)". Un volume stampato in un migliaio di copie che raccoglie storie tradizionali o originali scritte direttamente dai detenuti. La copertina? È un altro dono. A farlo, stavolta, è un cittadino eccellente. Ovvero Emilio Giannelli, vignettista del Corriere della Sera. L’idea è nata insieme all’insegnante che cura il laboratorio di scrittura creativa per stimolare i detenuti sul tema della fiaba. "La risposta è andata ben al di là delle aspettative" spiega con orgoglio il direttore. "Questo non è un libro fine a se stesso. È perfino finito sui banchi di scuola". Tutte le classi quarte e quinte delle primarie senesi l’hanno infatti inserito nel loro programma. Per tutti gli altri, il libro - realizzato con il contributo del Comune e dell’Università di Siena - si trova sugli scaffali delle librerie della città. Ora al direttore La Montagna resta un solo cruccio: la pizzeria gestita dai detenuti e aperta anche all’esterno. "Abbiamo una porticina laterale che permetterebbe l’ingresso dei clienti" ci spiega. Con una cena di beneficenza erano già stati raccolti duemila euro per l’acquisto del forno, ma il progetto non è stato approvato dalla Cassa delle ammende. Chissà, magari qualcuno potrebbe anche riconsiderare il valore sociale e civile di una simile iniziativa e fare qualche passo indietro. Pardon, in avanti. Padova: detenuto autolesionista, feriti due agenti penitenziari Il Mattino di Padova, 15 settembre 2016 Carcere Due Palazzi di Padova: l’uomo aveva tentato di tagliarsi con un temperamatite, le due guardie sono state colpite mentre cercavano di fermarlo. Per impedire che un detenuto della Casa di Reclusione di Padova si lesionasse il corpo con la lama di un temperamatite, due agenti di Polizia Penitenziaria sono rimasti feriti ieri (martedì) nella struttura detentiva di via Due Palazzi. Lo indica in una nota il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). "L’uomo, un detenuto dalla doppia cittadinanza italiana e della Guinea Equatoriale, è ristretto per diversi reati tra i quali quelli di lesioni, rapina, danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e sconta un cumulo di pena sino al 2025 - spiega il Segretario Nazionale Sappe del Triveneto Giovanni Vona - Non è nuovo ad atteggiamenti aggressivi verso il personale di Polizia e non più tardi di qualche mese fa si era reso protagonista di un analogo episodio. Ieri, l’uomo, ha tentato di appropriarsi di un temperamatite dall’ufficio di Polizia interno alla Sezione detentiva per poi usare la lama e lesionarsi il corpo. Gli agenti che si sono accorti immediatamente del fatto, lo hanno bloccato ma il ristretto ha reagito con violenza e li ha colpiti. I due poliziotti, ai quali va la nostra solidarietà e vicinanza, hanno impedito più gravi conseguenze, ma è evidente che resta alta la tensione con la quale quotidianamente si confronta il personale di Polizia Penitenziaria". Vona ricorda infine che "nei primi sei mesi del 2016 nelle carceri del Veneto si sono contati 142 atti di autolesionismo, 13 tentati suicidi sventati in tempo dai poliziotti, 3 suicidi, 141 colluttazioni e 47 ferimenti: numeri che fanno capire, più di mille parole, con quale e quanto stress operativo si confrontano quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria della Regione Veneto". Lucca: detenuto prima tenta di evadere poi il suicidio e poi aggredisce i poliziotti gonews.it, 15 settembre 2016 Ha prima tentato di evadere, bloccato in tempo dalla scorta di Polizia Penitenziaria che lo aveva accompagnato a una visita ambulatoriale in ospedale. Poi, stamane, ha tentato il suicidio e, salvato in tempo dagli Agenti, ha aggredito i poliziotti. "Ieri pomeriggio un detenuto con posizione giuridica "giudicabile", di nazionalità algerina, mentre veniva accompagnato per una visita medica all’ospedale di Lucca, ha tentato di evadere aggredendo i poliziotti penitenziari di scorta, che solo grazie alla loro professionalità e prontezza di riflessi hanno riportato alla calma il soggetto", denuncia Pasquale Salemme, segretario regionale Sappe della Toscana. "Stamane verso le ore 12.00, sempre lo stesso detenuto ha tentato prima di impiccarsi e poi, una volta che gli agenti gli hanno salvato la vita, ha aggredito un Ispettore di Polizia Penitenziaria e altri. Si tratta per altro di un soggetto spesso protagonista di gravi episodi, come aggressioni e ingestione di pile e lamette. Ultimamente, diversi soggetti con gravi problemi psichiatrici sono stati assegnati alla struttura detentiva lucchese, pur sapendo che essa non è idonea alla ricezione ed alla custodia di tali soggetti, che spesso non solo mettono a repentaglio la sicurezza interna, ma minano la tranquillità del resto della popolazione detenuta presente". Da Roma, il Segretario Generale del Sappe Donato Capece denuncia il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri. "È sintomatico", spiega il leader nazionale dei Baschi Azzurri, "che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni 90 sono passati oggi ad essere oltre 18mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italià. Il dato oggettivo è però un altro: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili. E credo si debba iniziare a ragionare di riaprire le carceri dismesse, come l’Asinara e Pianosa, dove contenere quei ristretti che si rendono protagonisti di gravi eventi critici durante la detenzione". Capece evidenzia infine come anche i gravi eventi critici accaduti nel carcere di Lucca siano "sintomatici del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale, a cominciare dall’espulsione dei detenuti stranieri, specie quelli - e sono sempre di più - che, ristretti in carceri italiani, si rendono protagonisti di eventi critici e di violenza durante la detenzione". Terni: con "Liberi dentro" il carcere si apre alla società esterna di Giulio Isola Avvenire, 15 settembre 2016 Una giornata dedicata al volontariato in carcere e alle attività con i detenuti. È stato intitolato "Liberi dentro" l’evento promosso della Caritas diocesana di Terni-Narni-Amelia, l’associazione di volontariato San Martino e la Proloco di Porchiano del Monte, che si tiene domani alle 19 presso la Casa Circondariale di Terni, con la presenza del vescovo Giuseppe Piemontese. All’interno del campo sportivo del carcere di Terni saranno allestiti degli stand esplicativi delle attività che vengono svolte da volontari e detenuti durante l’anno, con dimostrazioni alle persone esterne invitate per l’occasione e laboratori che vedranno protagonisti circa 200 detenuti tra l’estemporanea di pittura curata dal progetto Arte in carcere della Caritas, le performance teatrali curate da un insegnante dell’Ipsia, l’attività di apicoltura e altro ancora. Saranno, inoltre, offerte pizza e bevande a tutti i partecipanti a cura della Proloco di Porchiano del Monte. Una manifestazione che unisce l’opera di volontariato di diverse realtà ecclesiali e laiche in una fruttuosa cooperazione. Gesti di prossimità e solidarietà da parte di tante persone, vicine e lontane dalla chiesa, che incontrano in carcere altre persone bisognose e spesso sole, in un grande segno di fraternità e di misericordia. Un evento finalizzato a sensibilizzare la comunità esterna sui percorsi trattamentali-rieducativi attivi all’interno della Casa Circondariale di Terni: laboratorio di fotografia, di pittura, espressivi, di inglese, di fumetti, corso di apicoltura. Roma: convegno "Criticità della custodia cautelare e funzione rieducativa della detenzione" primapaginanews.it, 15 settembre 2016 Un convegno sui molti nodi non del tutto risolti sulla detenzione, sulla sua compatibilità con l’articolo 27 della Costituzione, sulle recenti misure per diminuire il numero dei detenuti e sul risultato che hanno ottenuto. Si terrà lunedì 19 settembre alle ore 15 presso la sala Isma del Senato della Repubblica, piazza Capranica 72. Il convegno, promosso dall’Associazione "Emerlaws" con il sostegno del Senato della Repubblica a Roma presso la Sala Isma, in Piazza Capranica, è titolato appunto "Le limitazioni della libertà personale: criticità della custodia cautelare e funzione rieducativa della detenzione". L’Associazione Emerlaws, Pronto Soccorso legale (emerlaws.it), nell’ottica di collaborare ad "abbattere il muro" e ad aprire le porte del carcere al dialogo con il mondo esterno, ed avvicinare la Costituzione dentro il perimetro della legalità, offre uno spunto di riflessione, sull’equilibrio tra la pena irrogata e il modus di espiazione della pena stessa. Il carcere non deve e non può rappresentare l’unico modo di espiazione della pena. Nel convegno si parlerà della condizione delle carceri, di come questa condizione posa incidere sulla personalità e sulla vita del cittadino-detenuto, di quali soluzioni elaborare: il rafforzamento del concetto di pena alternativa e la decarcerizzazione della pena stessa, per i reati diversi da quelli contro la persona fisica. Su questi temi i riflettori, non si devono spegnere mai! Il convegno sarà moderato dall’Avv. Gloria Gagliardi. Interverranno esperti del diritto che, rappresentando punti di vista differenti, affronteranno il complesso rapporto tra applicazione della legge e giustizia. I relatori - Il Professor Avv. Andrea Lollo, docente di Giustizia Costituzionale presso l’Università Degli studi Magna Grecia di Catanzaro, si intratterrà sul tema "I diritti dei detenuti nella giurisprudenza costituzionale ed in quella europea", il Dottor Antonio Calaresu, Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Roma, si soffermerà su "L’opportunità della custodia cautelare e le novità introdotte dalla legge 47/2015", il Professor Stefano Anastasia, Garante dei Detenuti Regione Lazio svolgerà una relazione su "Trattamento carcerario e rieducazione", la dottoressa Lucia Brischetto, Esperta in trattamento penitenziario del Tribunale di Sorveglianza di Catania, si interrogherà su "Il valore educativo della pena". E ancora, l’Avv. Ivano Chiesa, del Foro di Milano, che relazionerà su "La detenzione equa per tutti i reati", l’Avv. Paola Bevere, Presidente Associazione Antigone Lazio, che rifletterà su "Clima detentivo, condizioni strutturali e rispetto della legislazione penitenziaria", l’Avv. Valerio Spigarelli, Foro di Roma Ex Presidente dell’Unione delle Camere Penali, che riferirà su " Le misure alternative alla detenzione e la decarcerizzazione", il Prof. Saverio F. Regasto, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza Università degli Studi di Brescia che si confronterà su "Il risarcimento del danno da ingiusta detenzione", il Prof. Roberto Bartoli, Ordinario di Diritto Penale Università degli Studi di Firenze che interverrà su " Prospettive di riforma del sistema sanzionatorio". Interverranno inoltre: il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, la presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino ed ex parlamentare radicale Rita Bernardini, la senatrice del gruppo Misto Maria Mussini. Milano: convegno "Immagini della giustizia penale sullo schermo e nelle fiction tivù" di Paolo Colonnello La Stampa, 15 settembre 2016 Perché negli Usa hanno i Perry Mason, i Derby Shaw (Rapporto Pelican), i Rusty Sabich (Presunto Innocente), bravi, belli, intelligenti e svegli, mentre da noi gli avvocati sono di solito rappresentati come degli azzeccagarbugli? Si trovano nelle truffe di Totò, galleggiano sugli yacht dei Vanzina oppure sproloquiano con la faccia di Alberto Sordi, ma mai che i nostri legali risolvano un caso o, vincendo una causa, smascherino il vero colpevole. La questione, niente affatto secondaria, prelude a un’intera concezione della cultura popolare verso i temi della giustizia che finisce addirittura per incidere sull’esito stesso di certi processi, laddove soprattutto intervengono i programmi televisivi dando vita al cosiddetto "processo mediatico". Così al Palazzo di Giustizia di Milano - Aula Magna, domani ore 15,30 - si è deciso di dedicare alla questione addirittura un convegno intitolato: "Immagini della giustizia penale sullo schermo e nelle fiction tivù", cui parteciperanno il procuratore Francesco Greco, l’ex sindaco e avvocato penalista Giuliano Pisapia, l’ex presidente del Tribunale Livia Pomodoro, il presidente degli avvocati milanesi Remo Danovi e il critico televisivo e docente di storia televisiva Aldo Grasso. Lo spunto lo offrirà un libro appena uscito, intitolato Estetica della giustizia penale: prassi, media, fiction (Giuffrè editore), firmato dal professor Ennio Amodio, penalista di fama, professore emerito di procedura penale alla Statale e acuto osservatore della realtà mediatica. Dove l’etica della liturgia processuale, che Amodio analizza dimostrando come finanche la gabbia che campeggia nelle aule dei processi contribuisca a condizionare e spaventare l’imputato, lascia il posto, appunto, a un’estetica controllata dai media, non di rado trash, nella quale si riversano le eterne tifoserie italiane. Ma a cosa è dovuta questa differenza con il mondo giudiziario anglosassone? "In America e Inghilterra ci sono istituti giuridici che creano un collegamento tra giustizia e società civile: la giuria, l’elezione diretta dei pubblici ministeri e la magistratura che viene vissuta come appendice della professione forense", risponde Amodio. "Da noi inoltre la rappresentazione della giustizia è imperniata sulla presunzione di colpevolezza, mentre Oltreoceano c’è grande attenzione ad evitare di confondere la figura dell’indagato con quella dell’imputato". Il confronto però, negli Usa, è tra avvocato e poliziotto che, non a caso, si contendono il ruolo eroico sullo schermo. "Meglio avere a che fare con un pm, comunque. Dà più garanzie all’indagato". C’è poco da fare: il "buono" nella narrazione giudiziaria italiana è il magistrato, meglio se pubblico ministero, colui cioè che coordina le indagini e, come dice la parola, svolge una funzione pubblica, garantendo in teoria anche le ragioni dell’indagato. Una figura che può contare su "eroi" notevoli come Falcone e Borsellino. Mentre va rilevato come l’unico caso in Italia di avvocato ucciso dalla mafia sia quello "dell’eroe borghese" Giorgio Ambrosoli, assassinato perché curatore fallimentare della banca di Sindona. "Però nel cinema americano assistiamo a un capovolgimento: il magistrato molte volte è un pavido, mentre l’avvocato finisce per far trionfare non solo l’interesse del suo assistito ma anche quello pubblico", spiega Amodio. Che fissa una data fondante nella narrazione americana dell’eroe "legale": 1939, con un film intitolato Alba di gloria, dove un giovane avvocato impedisce che due detenuti vengano linciati dalla folla per essere consegnati a un tribunale. Si trattava di Abramo Lincoln, il presidente che pose fine alla schiavitù: è lui il capostipite degli avvocati eroi. Radio Carcere: il Giubileo dei carcerati e le prime adesioni alla marcia del 6 novembre Ristretti Orizzonti, 15 settembre 2016 Nella puntata del programma condotto da Riccardo Arena su Radio Radicale: il Giubileo dei carcerati e le prime adesioni alla marcia del 6 novembre per l’amnistia e per la riforma della giustizia, la mancata nomina del garante dei detenuti dell’Abruzzo e la lettera inviata da Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/486006 Privacy. L’arma spuntata che non garantisce il diritto all’oblio di Carlo Nordio Il Messaggero, 15 settembre 2016 Quando Julius Robert Oppenheimer, padre della bomba atomica, ne vide gli effetti sul campo, pronunziò le famose parole: "I fisici hanno conosciuto il peccato". Si pentì per due ragioni: la prima, perché aveva creato un mostro spaventoso; la seconda perché sapeva che quel mostro non si poteva sopprimere, nella scienza quel che è fatto è fatto e indietro non si torna. Edward Teller, padre della bomba all’idrogeno, invece non si pentì mai. Al contrario, sostenne che, per quanto molto più rovinoso di quello di Hiroshima, l’impiego dell’ordigno era pur sempre soggetto alle decisioni dell’uomo. E che, proprio per la sua potenza distruttiva, esso avrebbe evitato almeno altre guerre mondiali. Finora la storia gli ha dato ragione. L’uso sciagurato dei social network e dei motori di ricerca, che ha portato al suicidio la povera Tiziana Cantone, riassume, nella sua drammaticità, le posizioni apparentemente contraddittorie dei due illustri scienziati. È infatti vero che quando l’applicazione tecnologica di un’invenzione o di una scoperta diventa possibile, non si può più far finta che non ci sia. Ma è anche vero che scienza e tecnologia non marciano da sole: è la volontà dell’uomo a guidarle e renderle efficaci. Infatti la bomba H esiste, ma non è mai stata usata. Il problema vero delle applicazioni tecnologiche è che corrono a velocità molto più rapida della percezione che abbiamo dei loro danni collaterali: quando ne cogliamo gli effetti perversi, siamo già in ritardo. Questo vale nella biologia, nella genetica, e per quanto ci riguarda ora, nell’informatica. Perché gli indiscutibili vantaggi della globalizzazione delle comunicazioni ha portato, e porterà, altrettante distorsioni pericolose. "Ubi commoda ibi incommoda", dicevano i romani (dove ci sono vantaggi ci sono anche svantaggi). Enel caso di Tiziana Cantone gli incommoda sono stati funesti. La povera ragazza, in realtà, ha fatto quello che, per gioco o per malizia, fanno milioni di giovani quando filmano le proprie intimità. Alcuni, incautamente, rischiano la galera: infatti non sanno che puoi far sesso con un minorenne consenziente, ma se lo fotografi finisci in manette per produzione di materiale pedopornografico. Altri invece, senza commettere reati così gravi, pregiudicano la serenità e la salute del (della) partner, affidandone l’immagine, per i prossimi decenni, alla pubblica morbosità. Tiziana Cantone ha scherzato con l’ordigno micidiale, e questo le è scoppiato in mano. Se non interverrà qualcosa sarà una strage, perché il fenomeno, e lo diciamo da esperti del settore, è molto più diffuso di quanto si creda. La tragedia è che uno strumento normativo per impedire queste devastazioni non esiste, e se esiste è un’arma spuntata. Proprio perché la tecnologia anticipa sempre l’intervento del legislatore, non c’è attualmente alcuna possibilità concreta di impedire che un filmino, per quanto scellerato, finisca su un sito, e quindi diventi accessibile a tutti. Le Procure hanno già difficoltà a oscurare siti filo terroristici o pedopornografici. Per tutti gli altri l’impresa è scoraggiata dalle legislazioni dei Paesi dove operano i server, e soprattutto dal fatto che, una volta soppresso in un sito, il clip riappare da un’altra parte. È un classico caso in cui la tecnologia, come la virtù degli stoici, trova in sé stessa la sua giustificazione. C’è perché c’è. E noi siamo disarmati. In realtà, come diceva Teller, il rimedio ci sarebbe. Come la bomba H, anche la rete web è opera dell’uomo, e può benissimo essere controllata, limitata e anche ingabbiata. Basta saperlo fare, e soprattutto bisogna volerlo. Come? Con un’azione concertata a livello globale per individuare i server, vincolarli a obblighi rigorosi, e sanzionarli con estrema severità se contravvengono alle regole. Tutto questo, naturalmente, richiede un impegno governativo condiviso, disposto a infrangere il tabù della libertà di espressione - che in questi casi non c’entra nulla - e soprattutto i giganteschi interessi sottostanti. L’esempio di Tiziana Cantone, e di altre centinaia di vittime di persecuzioni, bullismo, maldicenze e cattiverie, dovrebbe ammonirci che il tempo è già scaduto. Privacy. Lo specchio disumano della rete di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 15 settembre 2016 I casi di cyber-stalkeraggio e diffusione del video di uno stupro: la sensazione è che esista qualcosa di precedente al piano del diritto che cominci dove prende avvio lo stesso linciaggio. In un punto cioè di rottura su cui si dovrebbe lavorare, dove a diventare irrimediabile è il superamento di una soglia che trasfigura ciò che ci sta attorno. La rete non ha fatto altro che espandere e rendere più visibile lo stigma della vergogna. In particolare nei confronti di chi è marginalizzato da una certa oppressione ed esclusione sociale. La rappresentazione della violenza acquista proprio grazie alla rete un grado di moltiplicazione fedele e imponente. Il problema non è il web ma come ci si arriva, con quali strumenti critici, affettivi e di intelligenza. Il suo utilizzo è proporzionale alle cose di cui si è dotati, spesso una miseria a cui ci si allena quotidianamente. Il massacro quotidiano, le sassate verso chi non può difendersi e che appena si volta (per capire da chi stanno arrivando) si accorge che il colpo arriva da altri siti insospettabili, è reso in questi giorni più chiaro da due episodi rimbalzati in tempi diversi sulle pagine dei giornali. Il primo attiene al suicidio di una donna trentunenne che in questi mesi è stata stalkerata e dileggiata fino allo spasmo dopo la diffusione di un video che ne riprendeva un rapporto intimo con un uomo. Il secondo episodio, altrettanto drammatico, coinvolge invece una minorenne priva di sensi che viene stuprata in una discoteca del riminese mentre delle sue coetanee riprendono il fatto e lo diffondono su whatsapp. Sono due vicende molto diverse che fanno però parte di una comune visione del mondo e delle relazioni umane disintegrate. Il suicidio in sé è incommentabile come volontà di procurarsi la morte, possiamo soffermarci sulle cause che hanno condotto alla pubblica lapidazione della giovane donna. Cause che vanno a incistarsi nella scelta libera di una sessualità vissuta come si crede. Nelle ragazze che diffondono il video della discoteca, il meccanismo è quello intollerabile dell’essere spettatrici di una violenza sessuale senza intervenire in difesa di chi la sta subendo. Il termine virale risponde in queste storie non solo alla condivisione compulsiva in rete ma anche, e forse soprattutto, a una deliberata pretesa di non farsi carico di ciò che accade alle persone in carne e ossa, né del dolore che si va a provocare. Al contrario si aumenta a dismisura la punizione e l’afflizione altrui. E sono stati mesi di sconfinato patimento quelli che ha vissuto Tiziana Cantone, questo il suo nome che aveva chiesto di poter modificare per cominciare una nuova vita. Il cyber-stalkeraggio nell’ultimo anno le aveva fatto perdere lavoro, amicizie e l’aveva sottoposta al parere del web (oltre che a quello di una causa giudiziaria) più impietoso del solito proprio perché al centro della videoregistrazione vi era un rapporto orale e consenziente con un uomo. Perché, a dirsi le cose come stanno, una donna che agisce la propria sessualità liberamente è pur sempre motivo di turbamento, getta cioè un senso di scompiglio nella singolare e collettiva percezione. Si può anche fare finta non ci riguardi ma almeno dovrebbe interrogarci per la ferocia in cui si è mostrata in questa vicenda. È un virus anche questo, insidioso e difficile da estirpare se non dopo un lungo e faticoso lavoro su se stessi. Così come complesso e indigeribile è ciò che spinge delle ragazzine a lasciare che uno stupratore si abbatta su una propria conoscente oltre che una propria simile. La spazzatura che investe chi entra in contatto con vicende simili, è il turbine di una violenza che sembra non placarsi. Arriva da un deserto affettivo e di relazioni da cui continuamente ci si dissocia ma che racconta una incapacità diffusa di guardare l’altro nella sua libera esistenza e manifestazione di sé. Qualcosa che è quasi banale chiamare una semplice declinazione della società spettacolare, nonostante ciò che Guy Debord definisce come "guerra dell’oppio permanente" andrebbe disossato e messo a tema meglio sotto la lente. Si parla spesso di "diritto all’oblio" (espressione giuridica che applicata alla rete è impossibile per la proliferazione spesso anarcoide e incontrollabile dei contenuti) e non si può stabilire se - intervenendo prima - il suicidio di Tiziana si sarebbe potuto evitare in qualche modo. La sensazione è tuttavia che esista qualcosa di precedente al piano del diritto e che cominci dove prende avvio lo stesso linciaggio. In un punto cioè di rottura su cui si dovrebbe lavorare, dove a diventare irrimediabile è il superamento di una soglia che trasfigura ciò che ci sta attorno. Perché infatti il punto non è né l’onore né la reputazione da salvaguardare, ma la vulnerabilità altrui fatta a pezzi. E una distopia che è ora ed è qui e che ci ha già travolti. Privacy. La mamma di Tiziana: "Plagiata dal fidanzato, la sentenza ultima mortificazione" di Conchita Sannino La Repubblica, 15 settembre 2016 Il racconto agli inquirenti: "Negli ultimi giorni stava male soprattutto per quella decisione, sentiva che non era stata fatta giustizia". Un giardino semplice e curato. Due sdraio, una panchina, la tettoia di tegole e molto verde. Tiziana, 33 anni, Tizi per un periodo felice e lontano della sua vita, si è suicidata guardando questo scorcio di prato e pace, nella casa di sua madre e sua zia, a Mugnano, cuore dell’hinterland napoletano. Si è tolta la vita stringendosi al collo un foulard azzurro che aveva collegato a una macchina della piccola palestra privata. Ma l’ha soffocata, prima, la diffusione tossica di quei video. E ora sua madre, Maria Teresa, 58 anni, in una dolorosa e lunga testimonianza in mano agli inquirenti della Procura di Napoli Nord, punta il dito contro S., l’ex fidanzato di Tiziana. È sconvolgente, per lucidità e dettaglio, il racconto della donna. Stando a quelle tre pagine firmate da una donna prostrata dal dolore, S. il compagno di Tiziana per un anno e mezzo, l’uomo che secondo il "narrato" di quei video hard sarebbe stato il compagno tradito da una ragazza bella, libera e gioiosamente desiderata, era in realtà - per sua madre, che riferisce i racconti di Tiziana - pienamente coinvolto in quel perverso e tragico gioco costato la vita a Tiziana. Aveva indotto sua figlia - aggiunge la madre - a girare i video con cinque o sei uomini, S. provava piacere nel sapere e nel vedere che lei si prestava a quegli incontri. Non solo: sempre il fidanzato le aveva procurato l’avvocato e aveva partecipato alle spese processuali della battaglia giudiziaria contro la diffusione di quei filmati. Una contesa che, forse, se si fosse sentito ingannato da quelle scene hot, S. non avrebbe mai accettato di intraprendere al fianco di Tiziana. "Cosa devo dire adesso? Da dove devo cominciare? Tutto quello che si poteva e doveva fare, i social network, la rimozione, la responsabilità delle persone, si doveva fare prima. Per la vita di Tiziana, la mia unica figlia: che mi sono cresciuta da sola perché quel padre di cui porta il cognome, non è mai stato un padre. Non si è mai, fin dalla nascita, interessato a lei". Le dieci di sera, una caserma dei carabinieri. Comincia così a dilagare il dolore di una madre. Il racconto viene ricostruito a fatica, tra mille interruzioni, dinanzi al pm Rosanna Esposito, al capitano Antonio De Lise, e a pochi (tutti turbati) sottufficiali. La vergogna e il dramma - "Mia figlia aveva provato il suicidio altre due volte. Da questa storia non riusciva più a liberarsi. Certo, era una ragazza sensibile... Ha convissuto per circa un anno, dall’estate del 2014 al settembre del 2015, con S., il suo fidanzato. Tiziana non era forte, forse anche per i suoi trascorsi. Difatti non aveva mai avuto un padre, non a caso aveva provato la via giudiziaria per cambiarsi il cognome, perché quello apparteneva a un uomo che non era mai stato un padre. Poi diventò sofferente, a volte si rifugiava nell’alcool. Ma era sempre stata una ragazza sana, normale, senza perversioni, senza autolesionismi". Cambiata da quell’uomo - Poi, secondo sua madre, eccolo il pericolo. Arriva S. quarant’anni circa. "Secondo me, lui la plagiava. Andarono a vivere insieme, e durante la sua convivenza io la vedevo cambiata. Tra me e lei c’era un particolare legame eppure lei aveva deciso di allontanarsi e lui mi dava sempre una brutta impressione... anche se mia figlia non mi ha mai raccontato qualcosa in particolare. Solo una volta, prima del Natale del 2015, la vidi sconvolta". Il motivo? "Tiziana - continua sua madre - mi raccontò di alcuni giochetti fatti con quell’uomo. Una sera ritornò di notte, forse era il novembre 2015, riferì che aveva litigato con lui. Era ubriaca. Si rifugiò in casa mia per quella sera. Venni a sapere che avevano fatto un video che aveva avuto una diffusione virale. Voi mi chiedete dei video che poi uscirono... Io posso precisare che gli stessi video furono girati nel periodo della sua convivenza". La donna aggiunge alcuni nomi di uomini, dice che proprio S. la mandò in Emilia a casa di alcuni suoi amici. "Tiziana mi riferì che sempre il suo compagno l’aveva indotta a girare alcuni video per far piacere a lui, con altri uomini. Considerata questa costrizione, lei aveva deciso di avere rapporti sessuali, ripresi con una telecamera, quantomeno con persone che lei gradiva. Il suo compagno, in realtà, non era presente a quei rapporti sessuali, ma provava piacere a sapere che lei andava con altri e nel vedere i filmati. E anche nel filmato più diffuso, in cui si parla di tradire il fidanzato, posso dire che quell’uomo, per me, ne era a conoscenza. In un filmato, quello girato nella cucina della loro abitazione, si sente la voce dell’uomo e compare una sagoma riconducibile a mio avviso a questo suo compagno". Non solo. La madre riprende dopo un altro crollo. "Tra l’altro il compagno di mia figlia cercò di rassicurarmi, nel corso di un nostro dialogo, che nei video diffusi in rete non era presente Tiziana ma c’era un fotomontaggio e che avrebbero provveduto a difenderla". Poi lei lancia l’accusa più pesante. Ma tutta da provare. "Secondo me, i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni... Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei". Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi. La mamma sostiene che forse lui voleva lucrare. La battaglia giudiziaria - "C’erano le cause in corso e dovevano sentirsi per forza. A Tiziana non andava di curare la causa giudiziaria, mentre quell’uomo ha sempre avuto interesse alla causa. Tra l’altro, all’esito del procedimento civile, mia figlia chiese sempre a lui di contribuire alle spese. Inizialmente lui si rifiutò, e poi mi sembra che acconsentì a partecipare. Tiziana voleva cambiare anche la sua avvocatessa, aveva saputo solo da un altro amico che la legale aveva postato su Facebook la notizia che aveva vinto la causa contro Facebook, neanche era stata avvisata". E soprattutto, c’era l’ultimo pesante turbamento: quella preoccupazione di dover versare circa 20mila euro. "All’esito del ricorso del Tribunale - conferma sua madre - quando mia figlia ha saputo che doveva pagare delle ingenti spese legali, era mortificata. Voleva far pagare tutte le spese al suo fidanzato perché lo riteneva colpevole". Gli ultimi giorni sono stati lo stillicidio di una sofferenza ormai intollerabile. "Stava male, ormai. Stava male per tutto quello che vedeva e sentiva, e in particolare per l’esito del procedimento anche perché riteneva che non era stata fatta giustizia, in particolare nei confronti dei piccoli editori che l’avevano calunniata ". Formalmente resta un suicidio. Ma è sua madre a consegnarci la cronaca di un massacro. Privacy. L’allarme del Garante Soro: "Ammettiamolo, la tutela è impossibile" di Raphaël Zanotti La Stampa, 15 settembre 2016 "Introdurre l’educazione civica digitale tra le materie scolastiche". "Possiamo parlare della maggiore o minore efficacia degli strumenti, della lentezza dei giudici o degli organi di controllo, però bisogna anche essere onesti: la tutela di una persona che finisce in un meccanismo del genere è praticamente impossibile". Il primo moto di Antonello Soro, garante per la privacy, è di compassione, pena, indignazione di fronte al caso di Tiziana Cantone, la 31enne che martedì si è tolta la vita perché perseguitata dal filmino hot diffuso su internet. Dottor Soro, ma non c’era il diritto all’oblio? "C’è ed è tutelato, ma non sempre basta a eliminare le conseguenze provocate da una diffusione virale e non risolve il problema che è a monte e che è il vero motore di questi drammi". Cioè? "La prima questione è quella della consapevolezza delle insidie che affrontiamo ogni volta che consegniamo alla Rete pezzi sempre più importanti della nostra vita privata. Una consapevolezza carente". La seconda? "È la ferocia e la violenza della nostra società. I social network sono lo specchio della mancanza di rispetto nei confronti delle altre persone, il continuo calpestare la dignità degli altri. È una questione che viaggia in parallelo con il diritto alla privacy: quando riguarda noi, lo difendiamo con le unghie e con i denti. Quando riguarda gli altri...". E il diritto all’oblio è impotente contro questa violenza? "Il diritto all’oblio ci pone interrogativi più generali, ma interviene sul mezzo - Internet - non sulle persone che popolano internet. Si può certamente cancellare, correggere errori pubblicati in rete, ma è impossibile una rimozione totale se prima non si interviene sul livello di odio e sull’invasione della sfera privata delle persone". Qualcuno potrebbe dire: però è stata lei a farsi fare quei filmati... "E qui torniamo alla questione iniziale, quella della consapevolezza. Senza quest’ultima, è un errore che poteva capitare a chiunque. Poi, però, la vicenda ha assunto dimensioni tali da diventare difficilmente affrontabile con i normali strumenti di tutela". È difficile eliminare un video da una piattaforma in rete? "In passato alcuni grandi social network o piattaforme si sono sottratti alle proprie responsabilità, ultimamente sono diventati più collaborativi. È un tema però complicato che oscilla su posizioni estreme: penso per esempio alle recenti polemiche sull’utilizzo di un algoritmo che censura la foto storica di Kim Phuc della bambina che scappa dall’attacco al napalm in Vietnam perché la riconosce come possibile foto pedo pornografica e al prendere tempo di un social network di fornire alla Procura di Milano le conversazioni di due terroristi che poi sono fuggiti". Torniamo alla vicenda di Tiziana Cantone: detto che tutti rischiano di finire in un meccanismo del genere e che gli strumenti di tutela a volte non bastano, come ci si può difendere? "Educando. Non sono favorevole a divieti e soluzioni neoluddiste. L’era digitale non è una prospettiva, ci siamo già dentro. E non è distinta dalla realtà, anzi è sempre più la realtà. Ritengo che sia utile preparare le generazioni future introducendo la materia di educazione civica digitale fin dalla prima elementare". Insegnare dunque sia a essere prudenti nell’utilizzo di Internet sia a non aggredire quando si è dall’altra parte? "Esattamente. Perché purtroppo, quando si agisce con gli altri strumenti, purtroppo a volte ormai la tragedia si è già verificata". Privacy. Ostaggi della violenza e dei ricatti: l’educazione digitale che ci manca di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 15 settembre 2016 Il patto necessario tra social, Polizia postale e famiglie per controllare le tecnologie. Cosa resta dell’educazione sentimentale, ai tempi feroci dei social network? Come possiamo capovolgere le regole di questo gioco perverso, in cui i carnefici vincono sempre e continuano a ridere maligni e impuniti, mentre le vittime si ritrovano senza identità e senza difesa? Sono due storie molto diverse, quella di Rimini e quella di Napoli. Ma qualcosa le lega. E ci chiama tutti in causa. A Rimini è stato commesso un reato contro una minorenne, che la diffusione delle immagini ha reso ancora più odioso. A Napoli una donna di trent’anni ha creduto di poter giocare un gioco che l’ha travolta. Entrambe le tragedie confermano che la violazione dell’intimità personale è ormai fuori controllo. La mancanza di un codice dell’amore e del sesso è assoluta. E la combinazione di narcisismo e voyerismo genera una spirale persecutoria cui è molto difficile sottrarsi. Il caso di Napoli - Tiziana Cantone aveva provato a cambiare città; ma la sua città le è venuta dietro, come nella terribile poesia di Kavafis, poiché "sciupando la tua vita in questo angolo l’hai sciupata su tutta la terra". Aveva anche provato a cambiare nome. C’è un elemento comune a tutte le testimonianze delle vittime del bullismo elettronico: è inutile iscriversi a un’altra scuola, trasferirsi in un altro luogo; dopo pochi giorni le immagini arrivano, la fama si diffonde, la persecuzione ricomincia. È una realtà parallela di cui i media tradizionali non si accorgono; ma in questi mesi in cui ci si occupava della guerra in Siria, del terrorismo in Europa, delle Olimpiadi di Rio, del terremoto di Amatrice, cresceva un mondo sotterraneo eppure visibilissimo in cui Tiziana Cantone diventava contro la propria volontà una star e una vittima, alimentando gruppi, chat, video, financo un mercato di t-shirt. Fino a quando due donne - non a caso, un’avvocata e una magistrata, sono riuscite ad arrivare a una sentenza che però non ha fatto in tempo a dispiegare i suoi effetti, non è riuscita a garantire davvero il diritto all’oblio, non ha salvato la vita di Tiziana Cantone. L’ha tradita un suo errore, amplificato dalla pretesa maschile di rivendicare il potere sulla sua anima e sul suo corpo, e prolungato all’infinito da una curiosità banale e malevola. Le possibili soluzioni - "I colpevoli siamo tutti noi" scrivono ora alcuni tra i carnefici. Torna in mente la testimonianza resa al "Tempo delle donne" dal padre di Carolina Picchio, la ragazzina che si è gettata dalla finestra dopo che la violenza subita a una festa era divenuta un video virale, lanciando un grido di accusa: "Sei stato tu, e tu, e tu". L’unica soluzione, ha detto il papà di Carolina, sarebbe che i colpevoli andassero nelle scuole, a raccontare quello che hanno fatto, a spiegare ai coetanei perché non si dovrebbe e non si potrebbe fare, mai più. Il secondo caso - Per questo lascia annichiliti la notizia che, proprio nei giorni del suicidio di Tiziana Cantone, un altro video è stato usato per dileggiare una ragazza ancora più giovane. Stavolta non è la vendetta di un ex fidanzato, o la vanteria di un seduttore; è la leggerezza delle "amiche", che anziché soccorrere o chiedere aiuto per la compagna in difficoltà - trascinata quasi incosciente nel bagno della discoteca da un ventiduenne albanese - si ingegnano per filmare la scena e recapitargliela il giorno dopo via WhatsApp. I problemi generazionali - C’è una generazione all’evidenza impreparata alla vita, all’amore, al sesso, ed esposta alle sirene di una rivoluzione tecnologica in sé asetticamente innocente, che rappresenta certo - come ci ripetiamo di continuo, come per tranquillizzarci - una grande chance, ma che abbiamo elevato a divinità contemporanea senza renderci conto della facilità con cui ci può divorare e distruggere. Il diritto all’oblio è stato sancito dai codici, ma è difficile da far rispettare: chi finisce schiacciato dalla macchina dei social fatica terribilmente a rialzarsi. Facebook, del resto, è nato per far del male alle persone, in particolare per vendicarsi di giovani donne, come racconta lo stesso film - "Social network" - sulla vita di Mark Zuckerberg, il cui recente viaggio in Italia è stato seguito come se fosse la visita di un Pontefice. E l’avvento della diretta non può che moltiplicare i rischi, le violazioni della privacy, i motivi di persecuzione. Questi padroni delle anime, che hanno sostituito i padroni delle ferriere in cima alle classifiche degli uomini più ricchi al mondo ma al contrario dei predecessori godono di ottima stampa (anche se come dimostra il caso Apple pagano malvolentieri le tasse), stanno accumulando una grande responsabilità. Certo, quel che è accaduto a Napoli e a Rimini non è colpa loro; è colpa nostra, della nostra incapacità di educare i ragazzi, della nostra permeabilità al narcisismo e alla malevolenza di massa. La necessità di una collaborazione più stretta fra social e inquirenti - Ma una collaborazione più stretta tra gli inventori dei social, la magistratura e la Polizia postale è solo il primo passo sulla via che porta a riappropriarci di noi stessi, dei nostri amori, delle nostre vite. In caso contrario, il tempo favoloso della rivoluzione digitale sarà ricordato come il tempo peggiore. Migranti. La sfida di Ban: dividersi il 10 per cento dei profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 15 settembre 2016 Assemblea delle Nazioni Unite. Ma gli Stati rifiutano di assumersi impegni concreti. Ogni giorno che passa 35 mila persone al mondo sono costrette a abbandonare la propria casa. In media 24 uomini, donne e bambini al minuto. Lo fanno per sfuggire alle violenze e alle persecuzioni di cui sono vittime, perché i loro diritti vengono violati, ma anche perché coinvolte in conflitti che si protraggono senza fine da decenni. Oppure perché il villaggio in cui vivevano semplicemente non esiste più, travolto da un’alluvione o distrutto da un terremoto. Fuggono perché non hanno alternative e perché per loro è diventato ormai impossibile restare nella terra in cui sono nati. Una diaspora silenziosa e senza confini che nel 2015 ha riguardato 65,3 milioni di persone in tutto il mondo, 5,8 milioni in più rispetto all’anno precedente. Per l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si tratta di numeri che "hanno toccato livelli mai raggiunti prima e comportano sofferenze umane immense". In pratica 1 persona ogni 113 è un richiedente asilo, uno sfollato o un rifugiato. E più della metà del totale, il 51%, è rappresentato da bambini. Di queste migrazioni forzate si occuperà il 19 settembre a New York un’assemblea straordinaria dell’Onu voluta da Ban Ki-Moon e con cui il segretario generale delle Nazioni unite spera di coinvolgere e responsabilizzare con impegni concreti i capi di stato e di governo al dramma dei profughi. "Un’occasione storica per concordare un patto globale e un impegno a un’azione collettiva", ha spiegato nelle scorse settimane. Il progetto, ambizioso, è di dare vita entro il 2018 ad un Global Compact che porti ogni anno i 193 stati membri a distribuirsi il 10% dei profughi riuscendo così a gestire finalmente il fenomeno senza lasciare più soli, come accade oggi, i paesi di primo approdo. Progetto lodevole nelle intenzioni, che sembra però destinato a rimanere sulla carta visto che nelle prime bozze di documento finale girate finora nel palazzo di Vetro non si andrebbe oltre una generica e scontata solidarietà, lasciando nella vaghezza totale - nonostante il documento non sia impegnativo per gli Stati - un’eventuale distribuzione dei profughi. In Europa siamo abituati a considerare il dramma di chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese come una delle conseguenze del conflitto siriano, giunto ormai al quinto anno, oppure delle dittature e delle precarie condizioni di vita esistenti in molti Stati africani. Dimenticando spesso che il problema riguarda l’intera pianeta. Dei 65,3 milioni di persone registrate dall’Unhcr nel 2015, 3,2 si trovavano in un paese industrializzato in attesa di una risposta alla loro domanda di asilo, 21,3 milioni erano rifugiati e 40,8 milioni erano sfollati all’interno del proprio paese. "Il numero più alto registrato, in aumento di 2,6 milioni rispetto al 2014", spiega l’Unhcr. Un incremento che in molte aree del pianeta ha avuto inizio dalla metà degli anni Novanta, ma che ha fatto registrare una vera e propria impennata negli ultimi cinque anni. Tre, secondo l’Alto commissariato Onu - le cause principali di queste fughe di massa: il fatto che molti conflitti, come ad esempio in Somalia e in Afghanistan, durano ormai da decenni; la nascita di nuove crisi o il riacutizzarsi delle vecchie (Sud Sudan, Yemen, Burundi, Ucraina, Repubblica Centrafricana, tra le altre) e, infine, una diminuita capacità di intervenire, dalla fine della Guerra Fredda, nel trovare soluzioni per rifugiati e sfollati. "Fino a dieci anni fa, alla fine del 2005 - prosegue l’Alto commissariato Onu per i rifugiati - l’Unhcr registrava circa sei persone costrette a fuggire dalla propria casa ogni minuto. Oggi questo numero è salito a 24 ogni minuto, quasi il doppio della frequenza del respiro di una persona". Siria, Afghanistan e Somalia risultano essere i primi tre Paesi "produttori" di profughi (rispettivamente 4,9 milioni, 2,7 milioni e 1,1 milioni di rifugiati) mentre la Colombia con il più altro numero di sfollati interni, 6,9 milioni, seguito da Siria (6,6) e Iraq (4,4). Da quando la crisi dei migranti ha investito il Cecchio Continente il segretario generale dell’Onu ha più volte chiesto all’Europa di fare di più per salvare le vite di chi fugge dalle guerre. Fino a convocare un’assemblea straordinaria sollecitando una soluzione a livello globale. "Un’occasione storica", l’ha definita, chiedendo a tutti gli Stati di farsi carico di una quota, il 10% ogni anno, dei milioni di disperati costretti senza più un luogo sicuro in cui vivere. La soluzione, però, non sembra essere a portata di mano. Nel documento che si sta mettendo a punto per le conclusioni del vertice di lunedì, abbonderebbe infatti la solidarietà ma mancherebbe ogni impegno, per quanto formale possa essere. Gli Stati, e a quanto pare Russia e Cina in particolare, si sarebbero infatti guardati bene dal fare promesse e questo anche se martedì, appena ventiquattro ore dopo la chiusura dell’assemblea alle Nazioni unite, sarà lo stesso presidente Obama a lanciare un appello ai potenti del mondo chiedendo di mettere fine alle sofferenze dei profughi. Niente da fare. La possibilità di un nulla di fatto, se non proprio di un insuccesso, rischia così di macchiare la fine del mandato di Ban Ki-Moon. "Invece di condividere le responsabilità, i leader mondiali le hanno evitate lasciando milioni di rifugiati in condizioni disperate, sull’orlo di un precipizio", ha denunciato due giorni fa Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, prevedendo il fallimento del vertice. Francia. Quella prigione dove muoiono misteriosamente gli italiani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2016 Grasses: i casi di Danilo Franceschini e Claudio Faraldi. La rivolta dei disperati che è avvenuta al carcere francese di Vivionne evoca il celebre romanzo "I miserabili" di Victor Hugo: lo scrittore ha urlato al mondo le condizioni disumane in cui vivevano nei primi anni dell’800 i detenuti nelle carceri francesi. Hugo, sperava di sensibilizzare l’umanità perché avvenisse un radicale cambiamento che potesse garantire, anche a chi ha sbagliato, il rispetto della propria dignità. Invece lo spettro di quei tempi è ancora in agguato, tanto da coinvolgere perfino i nostri connazionali. Nell’entroterra di Cannes c’è un penitenziario che per ben due volte è stato sotto l’attenzione della cronaca italiana. Parliamo del penitenziario francese di Grasses, tristemente famoso nel nostro paese per essere stato il teatro di due misteriosi decessi che hanno avuto come vittime i nostri connazionali. Nel 2010 vi era rinchiuso Daniele Franceschini con l’accusa di aver falsificato una carta di credito. Tante erano le lettere che spediva alla madre dove si lamentava delle condizioni degradanti nel quale riversava: dopo cinque mesi di prigionia venne ritrovato morto. Secondo la versione ufficiale delle autorità transalpine la causa del decesso sarebbe da attribuirsi a un arresto cardiaco, nonostante la vittima non avesse mai sofferto prima di problemi di cuore. I famigliari non ci hanno mai creduto e hanno intrapreso un’azione giudiziaria che continua ancora oggi. Nel 2014 ci furono le prime condanne: un anno con la condizionale per omicidio involontario al medico Jean Paul Estrade e l’infermiera Stephanie Colonna per non aver prestato le cure necessarie. Poi l’anno seguente il colpo di scena: il tribunale d’appello di Aix en Provence ha assolto l’infermiera, confermando però la condanna per il medico. L’aspetto grave di tutta questa vicenda fu che l’autorità francese riconsegnò il corpo privo di organi interni. Nel 2012 ci fu una durissima reazione dell’allora deputata radicale Rita Bernardini: "Il corpo di Daniele fu consegnato con molto ritardo dopo la misteriosa morte in carcere, privo di quelle parti interne del corpo che, se esaminate, avrebbero potuto dire molto sul suo prematuro decesso. Questa decisione appare come la firma posta in calce a un assassinio con tanto di copertura dello Stato". Nello stesso carcere francese, a due anni della tragedia, si era consumata anche un’altra morte sospetta di un giovane italiano: si chiamava Claudio Faraldi, 29 anni, di Ventimiglia e morì, solo in una cella, in circostanze ancora non chiarite. Risulta che ci sia un’inchiesta giudiziaria ancora in corso. La procura di Grasse aveva avviato una "informazione giudiziaria" per fare piena luce sulle circostanze che hanno portato al decesso di Faraldi, nell’ambito della quale la famiglia del connazionale si è costituita parte civile. Notizie ufficiali relative ai risultati dell’esame autoptico (non sono risultati segni di violenza), ai nomi del personale sanitario di turno la sera della morte e al dossier medico del ragazzo sono attualmente coperte da segreto istruttorio e potranno essere rese pubbliche solo al termine dell’indagine. Ma l’indagine rischia di andare per le lunghe visto che è stata recentemente assegnata ad un nuovo giudice istruttore, in quanto il precedente magistrato è stato trasferito presso altro tribunale. Situazioni degradanti denunciate anche da testimonianze di detenuti italiani "eccellenti" come quella di Chiara Rizzo, moglie di Amedeo Matacena. Indagata per aver favorito la latitanza del marito, e per aver schermato i beni di quest’ultimo, era stata arrestata a Nizza l’11 maggio del 2014 su mandato di cattura internazionale emesso dal gip di Reggio Calabria, e trasferita nel centro di detenzione femminile delle Baumettes, a Marsiglia, nonostante avesse fatto sapere attraverso il suo avvocato che si sarebbe costituita la sera dello stesso giorno a Reggio Calabria. Raccontò di essere stata sbattuta in una squallida e lurida cella, circondata da escrementi. Abbandonata a se stessa, senza acqua, senza luce, in compagnia di una lercia coperta sporca di vomito, aveva chiesto aiuto ma a nulla sono valse le sue urla angosciate, il suo battere a quella porta con le mani fino a lussarsi un dito. Riuscì poi ad ottenere l’estradizione ed era stata consegnata al confine alla polizia italiana ammanettata e scortata da agenti con i mitra spianati. Precauzioni a dir poco esagerate e ingiustificate. Stati Uniti. I condannati ai lavori forzati incrociano le braccia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2016 La protesta scattata in più di 20 Stati. Sciopero dei detenuti contro i lavori forzati nelle carceri americane. Come già anticipato da Il Dubbio, a partire da venerdì scorso i ristretti hanno incrociato le braccia per disertare il lavoro. Tale sciopero - uno dei più significativi degli ultimi decenni - è stato coordinato in più di 20 stati americani e non è un caso che sia stato messo in atto nel giorno del 45esimo anniversario della rivolta carceraria di Attica del 1971. L’iniziativa è stata organizzata e annunciata dai Lavoratori Industriali del Comitato mondiale dei lavoratori detenuti (Iwoc). Con il loro appello hanno annunciato che "la schiavitù è viva e vegeta nel sistema carcerario, ma entro la fine dell’anno non lo sarà più". Hanno ricordato che i prigionieri sono costretti a lavorare per pochi soldi o addirittura senza nessuna retribuzione e ciò è premesso dal 13esimo emendamento della Costituzione Americana: l’emendamento afferma che non è ammessa né schiavitù né servitù involontaria, se non come una punizione per un crimine commesso. Il problema è serio. La maggior parte dei prigionieri abili, presso le strutture federali, sono obbligati a lavorare gratuitamente e almeno 37 Stati permettono alle imprese private di far lavorare i prigionieri, anche se tali contratti rappresentano solo una piccola percentuale di lavoro carcerario. Judith Greene, un’analista di politica penale, ha detto al giornale on line Intercept: "Ironia della sorte, questi sono gli unici programmi di lavoro delle carceri dove i prigionieri prendono più di pochi centesimi all’ora". Nelle strutture visitate dalla Greene, i prigionieri lavorano tutto il giorno sotto il sole solo per tornare nelle celle e senza aria condizionata. "Le condizioni sono atroci, ed è giunto il momento che l’amministrazione penitenziaria del Texas ne prenda atto". Una situazione che è anche legata alla gestione privata delle carceri: più detenuti ci sono e più aumenta il giro d’affari. Ma qualcosa già sta cambiando. Recentemente il ministero della giustizia americana ha fatto sapere che metterà fine progressivamente agli accordi con le imprese che gestiscono le prigioni private. Chissà se lo sciopero dei detenuti rafforzerà tale decisione. Turchia. Nelle prigioni torna la tortura Il Dubbio, 15 settembre 2016 La tortura torna a essere praticata nei centri di detenzione della Turchia e alcuni strumenti di tortura utilizzati all’epoca dei passati golpe sono tornati in uso dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio scorso, che ha portato alla proclamazione dello stato d’emergenza. La denuncia arriva dall’avvocatessa Gulseren Yoleri, attivista dell’Associazione turca per i diritti umani (Ihd), citata dal quotidiano Cumhuriyet. La Yoleri ha spiegato di aver visitato alcuni centri di detenzione nelle province orientali di Sirnak e Mardin, insieme a una delegazione di 18 persone. "Ci è stato detto - ha denunciato - che ci sono azioni di tortura nei centri di detenzione. Le vecchie tecniche di tortura sono tornate in uso. È come se vecchi strumenti di tortura, come il "tratto di corda" (carrucola che solleva la vittima per i polsi legati dietro la schiena, ndr) e le scosse elettriche, fossero rimasti a lungo nascosti è ora fossero utilizzati di nuovo". Sotto lo stato d’emergenza sono stati eseguiti migliaia di arresti in tutto il paese, mentre la durata dell’arresto preventivo è stata prolungata fino a 30 giorni. Siria. Aleppo e le ultime speranze di Paolo Mieli Corriere della Sera, 15 settembre 2016 La tregua passerà alla storia per gli aiuti che giungeranno nella città, ma anche per l’essenza politica: la strategia di Obama è stata capovolta. Se l’armistizio funzionerà, da questi giorni di pausa potrebbe nascere un’intesa Usa-Russia in grado di restituire stabilità a quell’area. In queste ore potrebbero esserci, da parte dei jihadisti, attentati e azioni militari anche clamorose. Eppure questa nuova iniziativa di pace per la Siria - la diciottesima - potrebbe funzionare. Anzi, in un certo senso ha già funzionato. Non solo perché da lunedì consente agli aiuti internazionali di portare sollievo ad Aleppo e ad altri centri semidistrutti dai bombardamenti, ma anche per il fatto che alla base della tregua tra russi e americani c’è un chiarimento. Chiarimento che riguarda il ruolo di Al Nusra, la formazione nata nel 2012 da una costola di Al Qaeda che ha fin qui combattuto gomito a gomito con l’Esercito libero siriano finanziato e armato in funzione anti Assad dagli Stati Uniti. Negli ultimi tempi il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva avuto buon gioco a far osservare al collega americano John Kerry la singolarità di questa alleanza - sia pure indiretta - tra gli Stati Uniti e una formazione jihadista composta, per così dire, da eredi degli attentatori delle Torri Gemelle. La reazione un pò ipocrita era stata quella di indurre i qaedisti siriani a cambiar nome. A fine luglio 2016 il loro leader, Abu Mohammed al Joulani, è comparso in video per rivelare che Al Nusra aveva rotto con Al Qaeda, salvo poi, quasi ad attenuare l’impatto emotivo dell’annuncio, specificare che quella rottura era piuttosto una "separazione consensuale". Al Joulani aveva proclamato che da adesso in poi Al Nusra si sarebbe chiamata Jabhat al-Fatah al-Sham (Fronte per la conquista del Levante). A Domenico Quirico - inviato dalla Stampa a Idlib, dal marzo del 2015 la capitale qaedista in Siria - non era sfuggito che si trattava di "mimetismi, trucchi semantici per attrarre altri gruppi islamisti minori, Ajnad al Sham, Liwa al Haqq, piccoli ma feroci". Mimetismi, proseguiva il giornalista, approntati all’istante in modo da "continuare a ingannare un Occidente che sogna sempre un Islam educato e meno assassino". E invece, secondo Quirico, quei "nuovi qaedisti" uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come quelli di Daesh. Anche se lo fanno con qualche accorgimento ipocrita come non usare la videocamera e non proclamare ipotetiche avanzate verso Roma. Ma le loro finalità sono identiche a quelle del califfato. E i militanti delle diverse formazioni jihadiste, pur divise da rivalità talvolta anche accese, sono interscambiabili. Lo si è potuto notare nell’aprile scorso quando l’Isis ha riconquistato Yarmouk (a otto chilometri da Damasco) precedentemente caduta nelle mani di Al Nusra. Finita la battaglia, i qaedisti sconfitti non hanno avuto esitazione a farsi riassorbire dall’esercito combattente di al Baghdadi. Sono ormai molti anni che gli Stati Uniti e con loro l’Europa commettono gravi errori tattici e strategici in quest’area geografica. Già ai tempi di Gorge W. Bush, poi praticamente nel corso dell’intera amministrazione Obama. In modo più accentuato dopo le rivoluzioni arabe del 2011. La politica americana delle alleanze è stata a tal punto sgangherata da consentire a Putin di metterne in campo una che è parsa fin dall’inizio più coerente e soprattutto solida. Perno di questa politica russa è stato il principio dei due tempi: prima si dovrà sconfiggere l’Isis, in un secondo tempo decidere della sorte di Assad. Come nel 1944 quando gli alleati imposero al diviso fronte antifascista italiano di anteporre la guerra a nazisti e fascisti e rimandare a tempi successivi le decisioni sulla dinastia sabauda. A volte, come è oggi in Siria, le cose possono essere ancora più complicate. Durante la Seconda guerra mondiale, in quella che sarebbe stata la Jugoslavia, il primo a dar vita ad una resistenza cetnica contro le truppe hitleriane fu il quarantottenne serbo Dragoljub "Draza" Mihailovic, fedelissimo del re Pietro II in esilio a Londra. Con l’appoggio degli inglesi, nel maggio del 1941 Mihailovic affrontò i nazisti sull’altopiano di Ravna Gora e riuscì a resistere. In seguito si mossero i comunisti di Tito, meglio organizzati talché presto presero il sopravvento sui monarchici di "Draza" e si scontrarono con essi. Mihailovic continuò a battersi contro i tedeschi ma, logorato dagli ustascia croati di Ante Pavelic, ritenne di stringere accordi con l’esercito italiano. Tito ne approfittò per chiederne l’esautoramento e Winston Churchill faticò non poco a convincere Pietro II a concederglielo. Così gli alleati lo lasciarono solo, anche se ancora nel luglio del ‘44 andò a raggiungerlo e a confortarlo il colonnello americano McDowell. Però, dopo che la penisola fu liberata da Tito e dall’Armata rossa, Mihailovic anziché essere considerato una figura importante della resistenza (quantomeno quella della prim’ora) fu tratto in arresto e, nel 1946, fu fucilato. Al processo tenne un comportamento fiero, e dopo la morte fu insignito di riconoscimenti dal presidente americano Truman e da quello francese de Gaulle. Nel maggio del 2015 è stato riabilitato con tutti gli onori da una sentenza della Corte suprema serba. Eppure, in sede di giudizio storico, nessuno ritiene che l’anticomunista Winston Churchill abbia sbagliato allora a "scegliere" Tito. Quando le guerre si allungano e si complicano viene sempre il momento in cui - se si vuole imprimere una svolta all’azione così da ottenere in tempi ragionevoli il risultato che si persegue - si deve avere il coraggio di rivedere le proprie scelte precedenti. In Siria non ci sono personaggi paragonabili a Tito o a Mihailovic, ma è da tempo evidente che non si può pensare di combattere l’Isis con una qualche efficacia e nel contempo cercare di far cadere Assad, per giunta in combutta con formazioni qaediste. La "tregua di Aleppo" passerà alla storia - speriamo - non solo per gli aiuti che giungeranno ai superstiti di quella città, ma per quella che ne è l’essenza politica. Kerry, annunciando l’approvazione statunitense a futuri raid degli aerei di Assad contro gli jihadisti ha di fatto capovolto quella che fin qui (diciamo fino ad alcuni mesi fa) era stata la politica obamiana. Una politica che, non dimentichiamolo, nell’estate del 2013 era stata sul punto di trascinare l’America in guerra contro Assad. Se l’armistizio funzionerà e saprà superare i prevedibili sabotaggi dei gruppi ribelli, dalla pausa di questi giorni potrebbe nascere un’intesa tra Russia e America in grado di restituire stabilità a quell’area. Ci vorrà del tempo, certo, ma per la prima volta dopo anni si ha qualcosa in cui sperare. Siria. Damasco ai tempi della guerra: i siriani si raccontano alla radio di Sonia Grieco Il Manifesto, 15 settembre 2016 Su Hay El-Matar le storie di miliziani, soldati e rifugiati. Partendo dagli ingredienti di una classica soap, si toccano questioni calde: il settarismo, la radicalizzazione, la diffusione delle armi tra i giovani, il reclutamento nelle milizie, lo sfollamento, l’emigrazione. Hay El-Matar (distretto dell’aeroporto), alla periferia di Damasco, è un luogo inventato, come lo sono i suoi abitanti, le cui vicende quotidiane sono raccontate nell’omonimo radiodramma che dal 5 settembre è trasmesso dalla Bbc Radio Arabic. Scritta e interpretata da siriani per siriani, questa fiction radiofonica prodotta in Libano dalla Bbc Media Action con la casa di produzione Batoota Films e il finanziamento dell’Unione europea, ha l’obiettivo di stimolare una riflessione "su che cosa significa essere siriano in questo momento", ci spiega Maurice Aaek, Content manager e Senior Trainer di Bbc Action Media, arrivato in Libano dalla Siria due anni fa. "Hay El-Matar è pensato come uno spazio comune dove le storie quotidiane degli abitanti, gli amori, le speranze, le invidie, i tradimenti, i progetti, i disaccordi, s’intrecciano con la realtà della guerra, che inevitabilmente li condiziona, e possono diventare uno stimolo alla discussione pubblica dei temi con cui oggi i siriani si confrontano ogni giorno. Partendo dagli ingredienti di una classica soap opera, si toccano questioni calde e specifiche, come il settarismo, la radicalizzazione, la diffusione delle armi tra i giovani, il reclutamento nelle milizie, lo sfollamento, l’emigrazione che ormai riguarda tutte le famiglie siriane. I temi che emergono dall’interazione dei personaggi nella comunità che abita questo sobborgo, però, non sono legati esclusivamente alla guerra. Si affrontano anche altre questioni, la violenza di genere, quella domestica, la corruzione. Tutti questi temi sono poi approfonditi in un talk show che va in onda il sabato". Non esiste un sobborgo chiamato El-Matar a Damasco, ma ne esistono in altre città siriane, a Daraa e ad Hasaka, e per gli autori questo nome descrive uno dei dilemmi che assilla i siriani in Siria oggi: restare o andare via. L’ambientazione è ispirata a questi tipici sobborghi in cui vive la classe media, misti dal punto di vista religioso e approdo di tanti sfollati. Rispecchia una realtà diffusa in Siria e il fatto che sia vicino a Damasco, meno toccata dalla guerra, dipende dalla scelta di voler evitare che il conflitto diventi preponderante nel racconto. Tra i protagonisti di questa soap opera radiofonica, dai temi importanti ma dai toni leggeri, che va in onda tre volte a settimana per un totale di 150 puntate, ci sono una giovane coppia che pensa di intraprendere il viaggio verso l’Europa, una decisione che innesca discussioni e scontri; una donna determinata che gestisce un ristorante e si oppone alle pressioni del marito per farle chiudere l’attività; un tassista che fa la spola tra Damasco e Beirut; un militare in servizio in un check point; un giovane che pensa di arruolarsi in una milizia; una famiglia di sfollati; due giovani che vivono un amore contrastato. C’è lo spaccato di una comunità che si confronta con la guerra, lo sfollamento, l’incertezza, ma continua a pensare al futuro, a innamorarsi, a divertirsi, a litigare. Questo spazio comune s’inserisce in un altro spazio comune, la fiction: "In Siria e in altri paesi dell’area il mese del Ramadan è la stagione del lancio delle nuove serie - continua Aaek - Oggi nel paese la divisione tra sostenitori e oppositori del governo si manifesta anche nella scelta dei canali e dei programmi televisivi, ma durante il Ramadan del 2013 i siriani si ritrovavano uniti nel seguire le nuove serie. Venivamo da un’esperienza di successo un anno prima in Egitto con la serie Tv Shubra, ambientata in un sobborgo del Cairo abitato da musulmani e cristiani, così abbiamo pensato di riproporre il progetto per la Siria. Abbiamo scelto la radio perché in Siria c’è una Tv governativa, non nazionale. Non ci schieriamo politicamente. E abbiamo scelto il radiodramma perché è un format diffuso e seguito nel paese, c’è un’audience abituata, anche se Hay El-Matar è una formula nuova sia per il pubblico sia per gli autori: dura un anno, non è legata al mese del Ramadan. Infine, abbiamo deciso di trasmetterlo sulla radio della Bbc, perché copre tutto il paese e l’area". Il target è quello dei giovani siriani, in Siria e nei paesi in cui sono fuggiti nel corso di oltre cinque anni di guerra che ha spopolato il paese e reso rifugiati milioni di persone. E per arrivare ai giovani, la produzione ha scelto di usare i social media e gli strumenti multimediali (podcast, Facebook, Souncloud). La produzione è frutto di ricerche, consulenze e forum group. Sebbene si tratti d’intrattenimento, Hay El-Matar è una piattaforma tesa a coinvolgere i siriani che vivono in Siria e nella regione in un dialogo che dia loro il senso della propria terra e della vita in Siria, il senso di un’identità minacciata dalle divisioni, dalle violenze e dai tanti muri (reali e non) che oggi si alzano sulla loro strada.