Rieducazione? Gli istituti penitenziari italiani sono strutture obsolete di Tiziana Primozich ofcs.report, 14 settembre 2016 Le carceri italiane sono sovraffollate e non esistono requisiti standard dal punto di vista strutturale che rispondano alle indicazioni dell’articolo 27 della Costituzione. Il 5 settembre 2016 un episodio di violenza ad Airola non nasce all’interno di una struttura per la detenzione di adulti bensì in un carcere minorile, luogo dove generalmente è presente un’attività tesa alla rieducazione. Domenico Alessandro De Rossi, responsabile dell’Osservatorio nazionale Diritti della Persona privata della libertà della Lidu Onlus (Lega italiana dei Diritti dell’Uomo), come si spiega questo episodio? "Bisogna fare un passo indietro e fare un’analisi delle modifiche legislative avvenute dopo la storica sentenza Torreggiani emessa dalla Cedu di Strasburgo ai danni dell’Italia. In quella sentenza di condanna si chiedeva al nostro Paese in un tempo ben definito, e ormai scaduto, di mettersi a posto in termini sistemici, non solo in termini materiali. Il numero dei detenuti italiani, pari a circa 54mila unità, è di gran lunga superiore alla capienza dei nostri istituti di pena che prevede un massimo di 47.709 persone. Da qui alcune intuizioni del ministro della Giustizia ed alcuni provvedimenti legislativi. Tra tutti la legge 11 agosto 2014 n. 117, che consente la reclusione all’interno delle carceri minorili anche di donne e uomini adulti fino al compimento dei 25 anni. Il motivo è stato quello di spostare di fatto una cospicua parte della popolazione carceraria maggiorenne da una sede all’altra. In previsione del momento in cui il soggetto da detenuto rientra nel tessuto sociale da uomo libero, si rende necessaria la rieducazione. Cosa è accaduto nelle nostre carceri in tal senso dopo la condanna di Strasburgo? "Purtroppo nulla che possa risolvere lo status quo: i nostri istituti di pena sono obsoleti prima di tutto su piano strutturale. Addirittura in alcuni casi si tratta di carceri edificate ai primi dell’800, magari all’interno di castelli medievali. Il risultato è che il minimo consentito dalla legge riguardo i metri quadrati a disposizione del carcerato, che è misurato in uno spazio di vivibilità di 3 metri quadrati, è di impossibile realizzazione all’interno di strutture così antiquate. L’edilizia carceraria non ha realizzato nel tempo il moderno concetto di detenzione. A questo proposito voglio ricordare un’esperienza lavorativa di qualche anno fa, quando fui chiamato in un paese islamico per conto delle Nazioni Unite, con il compito di ripensare l’intero sistema penitenziario. In quella occasione mi battei affinché il detenuto avesse oltre agli incontri di tipo affettivo con la famiglia, anche i rapporti amorosi con la moglie. Vinsi la mia battaglia in un paese islamico puntando sul fatto che lì l’omosessualità è un reato. La stessa proposta fatta, nella qualità di consulente del nostro ministero della Giustizia, fu bocciata malamente". In un momento di crisi economica in cui l’Italia a gran fatica cerca di rialzare la testa, quale può essere la soluzione per l’universo della detenzione? "Il ministro Orlando ha da poco concluso gli Stati Generali dell’esecuzione penale con otto tavoli specialistici che hanno indicato delle soluzioni per una situazione che può esplodere da un momento all’altro. Dal canto mio e della Lidu sono in procinto di costituire un tavolo tecnico interdisciplinare composto da me, da un esperto del Dap, dal neuropsichiatra Pierluigi Marconi, da alcuni avvocati tra cui il costituzionalista Riccardo Scarpa. Questo gruppo di lavoro ci consentirà di esprimere il nostro parere sul delicato tema della detenzione ed eventualmente di stilare un documento che possa essere di pubblica utilità nell’ipotizzare soluzioni concrete e fattibili. Noi della Lidu siamo convinti che il mondo politico debba servirsi di tecnici esperti, ma nonostante i nostri ripetuti appelli al ministro Orlando che offrivano gratuitamente la nostra consulenza ed esperienza, ogni missiva inviata è rimasta lettera morta". Magistrati e merito, la svolta di Orlando di Errico Novi Il Dubbio, 14 settembre 2016 "Siamo di fronte a una svolta rivoluzionaria". Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, ritrova l’espressione evocata esattamente due mesi fa, il 13 luglio, quando firmò con Giovanni Legnini il protocollo d’intesa tra avvocatura e Csm. Ripropone l’idea della rivoluzione nella giustizia ora che con lo stesso Legnini e con il ministro Andrea Orlando ci si avvia a disegnare un ruolo più incisivo per la classe forense nei Consigli giudiziari. Un tema cruciale: perché in questi organismi distrettuali vengono offerte al Csm le valutazioni di professionalità anche sui magistrati in lizza per gli incarichi direttivi. Proprio su questo snodo dell’autogoverno della magistratura si è svolto il dibattito organizzato ieri dallo stesso Cnf alla Sala Fellini di Roma. Al tavolo dei relatori si avvicendano - con Mascherin - Orlando, Legnini e i due vertici della Cassazione, il primo presidente Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo. Tutti, pur con sfumature di differenza, convengono sull’utilità di un diritto di voto pieno, per i rappresentanti dell’avvocatura, nei Consigli giudiziari. Ne conviene soprattutto Orlando: "Si tratta di vedere in che forma garantire tale diritto di voto, ma si può senz’altro procedere in questa direzione", secondo il ministro della Giustizia. "Ascolteremo le valutazioni del Csm", aggiunge, e si riferisce al parere in arrivo dal plenum sulla proposta di riforma complessiva dell’Ordinamento giudiziario avanzata dalla commissione ministeriale da lui nominata, con a capo Michele Vietti. "Certo è che la valutazione sul campo delle capacità organizzative per quei magistrati che aspirano a funzioni direttive non può prescindere da una valutazione di tutti coloro che sono chiamati a valutare in concreto il funzionamento degli uffici", e quindi degli avvocati innanzitutto. Orlando dice chiaramente di non vedere in tutto questo "alcun pericolo per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura". E sul numero di avvocati a cui riconoscere il diritto di voto in ciascun Consiglio giudiziario, aggiunge che "ce ne potrà essere più di uno", anche se prima di procedere si "ascolterà il Csm". Questione di ore. Certo il guardasigilli è determinato sul punto. Lo fa intendere con chiarezza alla platea dell’incontro organizzato dal Cnf: "Si può ipotizzare uno stralcio della disciplina dei Consigli giudiziari dal resto della riforma". La regola potrebbe tradursi fin da subito in un disegno di legge del governo. Anche se lo stesso ministro allude "a qualche passo indietro che sembra prefigurarsi nelle ultime ore" all’interno del Csm. Dubbi, prevalenti tra i togati, la cui consistenza viene misurata così da Legnini: "Il nodo è nelle segnalazioni degli avvocati sui capi degli uffici: ma si tratta di contributi che possono arricchire il lavoro di valutazione", chiarisce il vicepresidente del Csm, "a condizione di muoversi senza alimentare il timore della magistratura di veder leso il principio di autonomia". Si potrebbe cominciare per gradi, propone Canzio. Che anticipa alla Sala Fellini l’emendamento proposto qualche ora dopo in plenum (e respinto a maggioranza): "Trasferire nei Consigli giudiziari il modello adottato nel Consiglio direttivo della Cassazione, dove siede il presidente del Cnf con diritto di voto pieno". Si gira verso Mascherin e ironicamente gli chiede: "Lei, Mascherin, è un avvocato, vero?... E allora perché non dovrebbe avere diritto di voto, in ciascun consiglio giudiziario, almeno il presidente del Consiglio dell’Ordine di quel distretto? Mi sembra il primo passo. E posso assicurare che in Cassazione, quando è intervenuto l’avvocato Mascherin, nessun magistrato si è sentito leso nelle proprie prerogative di autonomia e indipendenza". In gioco la fiducia dei cittadini. La svolta che si preannuncia va oltre la specifica questione del merito tra i magistrati in carriera. Ha a che vedere con quella collaborazione tra i "protagonisti della giurisdizione" annunciata dal protocollo di luglio Csm-Cnf, che è "un modo per proporre una giustizia davvero al servizio del cittadino", come osserva Mascherin. E anche, come riconosce Canzio, "un aiuto alla legittimazione della magistratura nella società, rafforzato proprio dal contributo dell’avvocatura". Forse è qui lo snodo cruciale del dibattito, che fa propendere per una previsione ottimistica sull’esito della riforma di Orlando: le toghe mai come in questo momento avvertono la necessità di presentarsi in una condizione di concordia e dialogo sereno con la classe forense per allontanare l’ombra della autoreferenzialità nell’opinione pubblica. È quel "definitivo superamento dei conflitti, che siano tra magistratura e politica o tra magistratura e avvocatura o all’interno dello stesso mondo togato", evocato da Legnini. "I conflitti allontanano gli obiettivi di una giustizia più efficiente". La stagione della giustizia come terreno di scontro permanente è insomma definitivamente superata e non riproponibile, se non si vuol perdere del tutto la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Ancora Orlando ricorda come "non abbia senso pensare che una partecipazione degli avvocati alle valutazioni sui magistrati e sulle loro capacità organizzative possa mettere in discussione l’autonomia delle toghe: se questo rischio esistesse allora i costituenti non avrebbero dovuto prevedere la presenza a pieno titolo dei componenti laici neppure nel Csm", argomenta in modo difficilmente contestabile il guardasigilli. Oltretutto la sinergia tra i due ordini è funzionale anche a una "maggiore promozione della capacità manageriale nella griglia di valutazione dei capi degli uffici", come dice Orlando. Che mette in conto il parere problematico del Csm, ma che una legge la metterà comunque sul tavolo. Le inchieste sui rifiuti attraversano l’Italia di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2016 In pochi giorni il ciclo dei rifiuti entra nelle ennesime indagini della magistratura, quelle di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e della Dda di Firenze e nello scioglimento di un Comune, quello di Corleone (Palermo). Non solo Roma, dunque, è al centro della radiografia che investigatori e inquirenti stanno facendo della gestione dell’igiene urbana. Ieri il capo della procura campana, Maria Antonietta Troncone, ha chiesto e ottenuto dal Gip l’arresto di 20 persone (di cui 7 ai domiciliari), tra i quali vari amministratori locali e il presidente della Provincia di Caserta, Angelo Di Costanzo. Le accuse, a vario titolo, sono turbata libertà degli incanti, corruzione di pubblici ufficiali per atti contrari ai doveri d’ufficio, truffa ai danni di enti pubblici e abuso d’ufficio. Gdf e Ros dei Carabinieri hanno svelato come le procedure di gara per l’assegnazione del servizio di raccolta, conferimento, trattamento e smaltimento dei rifiuti e di altri servizi collaterali nei Comuni di Alvignano, Piedimonte Matese e Casagiove, fossero state profondamente contaminate ab origine e in itinere, attraverso specifiche e illecite intese. Sempre ieri 120 forestali distribuiti tra Toscana, Veneto e Basilicata e 250 militari della Gdf, hanno dato esecuzione al provvedimento giudiziario emesso dal Gip di Firenze, su richiesta della Dda diretta dal Procuratore capo Giuseppe Creazzo, nell’ambito di un’inchiesta che vede coinvolti 31 soggetti a vario titolo indagati per i reati di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, truffa ai danni di un ente pubblico e falsità ideologica. Il provvedimento cautelare ha riguardato sei imprenditori, cinque toscani e un veneto, interdetti dalle cariche ricoperte all’interno delle proprie aziende. Per capire perché l’igiene urbana sia sempre più terreno di formidabile accordo corruttivo in tutta Italia, basta leggere quanto scrive il ministro dell’Interno Angelino Alfano nelle motivazioni dello scioglimento del Comune di Corleone (Palermo) pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 210 dell’8 settembre. "Le attività connesse alla gestione del ciclo dei rifiuti - scrive Alfano - sono quelle che suscitano maggiore interesse da parte della criminalità organizzata, sia per gli enormi proventi che ne derivano sia per la possibilità di esercitare un capillare controllo del territorio". Il Comune di Corleone sfruttando le difficoltà incontrate dalla società incaricata della raccolta, ha garantito a società private, collegate a consorterie mafiose locali, lo svolgimento del servizio di raccolta rifiuti. Secondo quanto emerge anche dagli atti della commissione d’accesso, il Comune ha perseguito gli interessi delle famiglie mafiose, addirittura fin dai primi momenti di crisi dell’Area territoriale ottimale Palermo 2 oggi in fallimento, ostacolando le procedure comunali relative all’istituzione dell’Area di raccolta ottimale (Aro), prevista dalla disciplina regionale. Grave è infatti la circostanza, riassume il Viminale, che nonostante nel 2014 l’Ufficio tecnico comunale avesse preparato tutta la documentazione costitutiva dell’Aro, oltre al Piano di intervento per la raccolta dei rifiuti solidi urbani sul territorio di Corleone, dopo l’approvazione da parte della giunta, la relativa delibera consiliare non sia mai stata adottata, per espressa volontà dell’allora sindaco Leoluchina Savona. Per contro, lo stesso sindaco, da febbraio 2015, ha avviato una gestione straordinaria del servizio disponendo, con proprie ordinanze contingibili e urgenti, interventi sussidiari attraverso noli affidati a due imprese, di cui una riconducibile ad un soggetto vicino ad una famiglia mafiosa del luogo, che ne è di fatto l’amministratore e l’altra amministrata da un componente del consiglio di amministrazione della prima. Nei confronti delle ditte, il prefetto di Palermo Antonella De Miro, lo scorso 15 luglio ha emanato provvedimenti interdittivi, disponendo anche, per una delle imprese, la cancellazione e per l’altra il diniego dell’iscrizione nella cosiddetta white list, istituita presso la prefettura di Palermo. Ecco perché a Ostia la mafia non c’è di Vincenzo Imperitura Il Tempo, 14 settembre 2016 Le motivazioni della sentenza senza il 416 bis. Manca la prova "della pervasività" mafiosa nel tessuto sociale di Ostia; e non è stato sufficientemente provato "il diffuso clima d’intimidazione - ed il conseguente stato di assoggettamento e condizione di omertà - propri del metodo mafioso". E poi ci sono le dichiarazioni del pentito Sebastiano Cassia che "non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento". Su questi tre bastioni si regge la decisione della corte d’Appello di Roma che, nella sentenza di secondo grado contro il clan Fasciani di Ostia, ha rivoluzionato la sentenza del primo giudice, trasformando l’associazione mafiosa in semplice associazione a delinquere, e riducendo drasticamente la durata delle condanne inflitte a capi e gregari che gravitavano attorno alla figura di Carmine Fasciani. Nelle 150 pagine di motivazioni della sentenza, i giudici confermano molto di quanto emerso in primo grado, riconoscendo rilevanza criminale alla famiglia Fasciani, concludendo però che la stessa non sia paragonabile alle associazioni mafiose "tradizionali": "Ritiene la corte - scrivono ancora i giudici - che non possono esservi dubbi sul fatto che Carmine Fasciani e sua moglie Bartoli fossero a capo di un gruppo organizzato finalizzato alla commissione di reati di usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi ed all’acquisizione di attività economiche in modo occulto". Tutte attività criminali tipiche dei clan che operano in Calabria o in Sicilia o Campania, ma che a Roma non sono bastate per sancire la mafiosità dell’organizzazione che aveva il proprio feudo a Ostia. Per supportare l’ipotesi del 416 bis, la distrettuale antimafia aveva poi sottolineato "l’uso indiscriminato della intimidazione", l’atteggiamento intimorito di alcuni testi escussi nel dibattimento, e "il comportamento compiacente ed intimorito tenuto dai professionisti comparsi nella vicenda societaria, segnatamente dal direttore dell’istituto bancario Latorre; dal custode nominato Miglio; dal commercialista Proteo, dalla dipendente di Assobalneari". Oltre ovviamente alla storiaccia legata alle assegnazioni di abitazioni da parte dell’Enasarco. Argomenti che non hanno però convinto i giudici di Appello che sono arrivati anzi a conclusioni piuttosto differenti. "Il materiale probatorio raccolto - scrivono - depone per singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti, mentre difetta la prova pervasiva del potere coercitivo del gruppo Fasciani". E inoltre "l’atteggiamento tenuto dai testi escussi nel corso del dibattimento non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie, o comunque, ad uno stato di diffusa soggezione". In un caso, quello di Cococcia e di sua moglie (vittime di usura da parte di Fasciani) "lo stato di soggezione può essere ricondotto al debito contratto", in un altro invece (quello del pugile Lilli, a cui secondo le ricostruzioni dell’accusa avevano sparato da un auto in corsa per uno sgarro alla famiglia, e che in aula disse di non essersi accorto di nulla e che non aveva nessun problema con i Fasciani) "non vi è prova certa che la sua deposizione sia mendace". E poi ci sono i professionisti: gli stessi che secondo l’accusa avrebbero a vario titolo favorito la scalata degli uomini di Carmine Fasciani al tessuto economico sano del mare di Roma e che in aula avrebbero reso testimonianze compiacenti nei confronti degli imputati. "Il comportamento compiacente tenuto dai vari professionisti - scrivono ancora i giudici di Appello - può avere spiegazioni diverse: quanto al direttore di banca, non necessariamente lo stesso doveva essere intimorito, ben potendo essere semplicemente desideroso di "compiacere" un cliente dell’istituto; il custode giudiziario non ha manifestato un particolare timore, ma si è limitato a rispondere a questioni proposte da un soggetto "notoriamente" legato ai beni in sequestro; e l’impiegata di Assobalneari era portatrice di interessi dell’ente e il suo comportamento potrebbe essere stato determinato anche solo dalla necessità di ottenere lo scopo perseguito". Sulla vicenda dell’occupazione sistematica delle case popolari di Ostia infine, l’intera vicenda, riportano ancora le motivazioni della sentenza, "potrebbe rappresentare semplicemente l’adesione della famiglia Fasciani ad un diffuso malcostume in tema di assegnazione di unità abitative". I sindacati a Boldrini: "Approvare subito la legge contro il caporalato" di Antonio Sciotto Il Manifesto, 14 settembre 2016 L’appello alla Camera. Il ddl 2217 attende l’ok ormai da un anno: manca l’ultimo step. "Strumento prezioso per contrastare lo sfruttamento e il lavoro nero". La presidente: "Basta condizioni disumane nei campi e fine dei ghetti". Sembra incredibile, ma la nuova legge di contrasto al caporalato e al lavoro nero in agricoltura non è ancora stata approvata. Tanti buoni propositi nei mesi scorsi, soprattutto ricordando le tragiche morti che hanno funestato l’estate del 2015, ma dopo l’ok del Senato, incassato prima della pausa estiva, a questo punto non sappiamo quando il ddl 2217 avrà anche quello definitivo della Camera. I sindacati ieri hanno incontrato la presidente della Camera Laura Boldrini nel suo ufficio a Montecitorio, particolarmente sensibile al tema tanto che più volte - sia a Roma che nelle campagne meridionali - ha incontrato i braccianti, soprattutto donne, sia italiane che immigrate. Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil hanno sollecitato la messa in esame del provvedimento, e la presidente - "compatibilmente con quelli che sono i regolamenti parlamentari", ha tenuto a precisare - si è impegnata a non mollare la presa sul tema. "Si metta fine a questa vergogna - ha dichiarato Boldrini al termine dell’incontro con i sindacati - Ci sono lavoratori sfruttati per 10-12 ore, pagati 20 o 22 euro, con condizioni disumane. E ci sono ancora tanti ghetti dove sono costretti a vivere tanti immigrati senza alcuna garanzia e senza il rispetto delle condizioni minime di dignità: dobbiamo fare in modo che situazioni simili non esistano più in Italia". Una parte della soluzione, secondo la presidente della Camera, "è sicuramente il provvedimento in discussione, apprezzato prima di tutto dalle persone che lavorano e dai sindacati: perché evidentemente il reato di caporalato non bastava, e adesso bisogna responsabilizzare e sanzionare le aziende che sfruttano i braccianti. Perché ci sono aziende regolari, che assumono applicando i contratti e rispettando i dipendenti, ma ci sono anche aziende che violano i diritti minimi". Secondo Stefano Mantegazza, segretario generale della Uila Uil, che ha parlato a nome delle tre sigle di categoria, "il testo della legge in discussione è condivisibile ma serve un’approvazione veloce". "Ci auguriamo un iter rapido della legge, perché la campagna di raccolta estiva è passata con la stessa normativa di sempre e quindi con le stesse condizioni di sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici". Luigi Sbarra, segretario Fai Cisl, chiama "tutti i gruppi parlamentari alla compattezza per centrare l’obiettivo". Ivana Galli, segretaria Flai Cgil, sottolinea che "nelle campagne c’è un assoluto bisogno dei nuovi strumenti che la legge può assicurare". Tra l’altro una settimana fa i sindacati avevano denunciato la non applicazione del Protocollo firmato in maggio da parti sociali e istituzioni, per il fatto che il governo non aveva ancora erogato i fondi promessi. Allarme che era stato fatto proprio dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano. Secondo l’ultimo Rapporto Agromafie e Caporalato, elaborato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, a essere vittime del caporalato sono indistamente italiani e stranieri, circa 430 mila persone nel nostro Paese, peraltro in crescita (di circa 30/50 mila unità) rispetto a quanto stimato nel rapporto precedente. Più di 100 mila lavoratori vivono in condizione di grave sfruttamento e vulnerabilità alloggiativa. Le agromafie e il caporalato muovono insieme, in Italia, un’economia illegale e sommersa che ha un valore che si aggira tra i 14 e i 17,5 miliardi di euro. Le mafie hanno diversi settori di interesse: si va dall’import-export oltreoceano dei nostri prodotti agroalimentari, alla contraffazione (quella agroalimentare costituisce il 16% del totale con un business da un miliardo di euro) di pane, vino, macellazione e pesca, solo per citare i comparti più esposti. Molto colpita anche la logistica, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, dei mercati ortofrutticoli e dei diversi passaggi che caratterizzano la filiera. Da nord a sud, poi, si rilevano fenomeni di sofisticazione legati all’Italian sounding, così come il nuovo intreccio tra agromafie e energie rinnovabili. Una spia dell’interesse delle mafie rispetto al settore agricolo è testimoniata dal fatto che quasi il 50% dei beni sequestrati o confiscati a queste organizzazioni sono proprio terreni agricoli (30.526 sul totale di 68.194 nel 2015). Pozioni, torture e tratta di schiavi. Colpita la mafia nigeriana in Italia di Elisa Sola Corriere della Sera, 14 settembre 2016 Operazione contro le violente organizzazioni africane presenti nel nostro Paese: 44 arresti anche a Roma e Bologna. A Torino due le bande rivali: i Maphite e gli Eiye. Si entra nella setta con un rito animista, bevendo pozioni di sangue e gin, acqua e tapioca. Alle donne si tagliano i peli pubici. Gli uomini vengono picchiati per provare la forza. Chi è dentro è schiavo per la vita. Provare ad uscire vuol dire morire. L’adepto sarà obbligato a spacciare, a clonare carte, a uccidere, se uomo. A prostituirsi, se donna. Se avanzerà di grado, potrà fare il tesoriere. O l’addetto alle punizioni corporali. O "l’annunciatore" delle decisioni del boss. In tutta Italia - Esiste una mafia, radicata in Italia, organizzata e violenta almeno quanto quelle "nostrane". È la nigeriana. Il 13 settembre, dall’alba e per tutta la giornata, sono scattate le manette per 44 affiliati, al termine di un’inchiesta portata avanti dalla squadra anti-tratta della polizia locale di Torino. Otto investigatori che per tre anni e mezzo hanno seguito e intercettato i membri di un’associazione a delinquere che il gip di Torino Loretta Bianco ha riconosciuto "di stampo mafioso", contestando, come chiesto dal pm Stefano Castellani, il reato 416 bis. Gli arresti sono stati eseguiti a Torino, Novara, Alessandria, Roma, Bologna, Verona e Pavia. Le bande - L’operazione si chiama "Athenaeum" perché le bande criminali sono nate negli ambienti universitari nigeriani. Le confraternite in Europa si sono espanse. Esattamente come nella ‘ndrangheta, esiste una "casa madre", la Nigeria, dove i boss possono contare su appoggi politici e la corruzione della polizia. E i gruppi nei territori in cui i nigeriani sono emigrati. I capi sono indiscussi. La gerarchia è piramidale. L’inchiesta di Torino è nata quando una donna, costretta a prostituirsi, ha deciso di parlare. È emerso che nel capoluogo piemontese si fronteggiano due bande rivali. I Maphite ("Famiglia vaticana") e gli Eiye ("Uccelli"). La lotta è per il controllo della "cosiddetta area 10", la periferia Nord di Torino. Spaccio di eroina e cocaina, prostituzione, tratta di esseri umani sono i motivi per cui negli ultimi anni centinaia di persone sono state accoltellate. Spesso in faccia. Ma nessuno parlava per paura. O per omertà. "È molto pericoloso per me rispondere a queste domande - dice uno spacciatore sentito come teste dagli inquirenti -:gli appartenenti a questi gruppi possono uccidere in Nigeria". Dei Maphite, spiega: "Hanno i loro club, i loro bar, non denunciano perché non sono in regola. I Maphite sono appena arrivati in Italia, sbarcati a Lampedusa. Non hanno nessun rispetto per la vita, possono accoltellare, uccidere, perché hanno già sofferto troppo attraversando il deserto e il mare per arrivare in Italia". Dal "Don" al "professore" - Le donne vengono costrette a prostituirsi per strada. Ragazze povere, portate via dalle proprie famiglie. Violentate alla frontiera dalla polizia libica. Imbarcate sui gommoni che sbarcano nel nostro Paese. Mentre i capi e i loro vice indossano giacca e cravatta. Le riunioni della setta dei Maphite si tenevano all’hotel Boscolo tower di Bologna. Il 21 settembre 2013, il grande capo nigeriano arrivato da Londra per sedare un conflitto diceva: "Voglio che voi ragazzi vi mettiate d’accordo tutti per eleggere il vostro Don oggi, che porterà avanti questa famiglia…". Nel ricordare che chi "sgarrava" in Italia, avrebbe avuto un parente ucciso in Nigeria, aggiungeva che là "il capo della polizia è il nostro migliore amico". Le grida di persone frustate e picchiate in piccoli appartamenti a Torino sono state registrate dagli inquirenti, che hanno raccolto cinquemila pagine di intercettazioni e sequestrato agende con i nomi dei mafiosi e i ruoli: Don, professore, annunciatore, per i Maphite. Gli affiliati degli Eiye invece si chiamano come gli uccelli. Prima di ogni incontro segreto fischiano, per presentarsi agli altri, ognuno con il proprio canto. Figlio disabile e moglie a lavoro: niente domiciliari per il detenuto La Stampa, 14 settembre 2016 Situazione familiare difficile a casa: figlio disabile a casa e moglie obbligata a lavorare. Ciò nonostante, l’uomo, rinchiuso in carcere, non può puntare alla detenzione domiciliare. Non vi è una situazione di emergenza tale da renderne necessaria la presenza tra le mura domestiche. Ciò perché alla gestione familiare possono contribuire i genitori di lui e i genitori della coniuge. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 37859/16, sezione prima penale, depositata il 12 settembre. Casa. Posizione difficile per l’uomo: è in carcere a scontare "sedici anni di reclusione per associazione di tipo mafioso ed estorsione", e, allo stesso tempo, si ritrova con una situazione familiare difficile. Più precisamente, a casa ha "un figlio di 11 anni, portatore di grave handicap" che necessita di assistenza continua, e sua moglie deve non solo badare al ragazzo ma anche mantenere il proprio lavoro. A fronte di questo quadro, l’uomo chiede di poter essere ammesso alla "detenzione domiciliare speciale", così da poter offrire un sostegno al figlio e alla moglie. Per i giudici del Tribunale di sorveglianza, però, non vi era una situazione di emergenza. Soprattutto perché la donna "è costantemente supportata dalla famiglia di origine e dalla famiglia" del detenuto. Famiglia. E anche in Cassazione la richiesta avanzata dal detenuto viene ritenuta eccessiva. Confermato, quindi, il no all’ipotesi della "detenzione domiciliare speciale". Pure per i magistrati, difatti, non si può parlare di "assoluta concreta impossibilità della moglie di occuparsi del figlio", nonostante ella sia impegnata "nello svolgimento di un lavoro che la teneva fuori dalla abitazione". In particolare, viene evidenziato, alla luce delle "relazioni fatte dal Servizio sociale", che i genitori della coppia "seguivano con assiduità il percorso del ragazzo e prestavano tutta l’assistenza imposta dai doveri di solidarietà familiare". Così la "famiglia allargata", accudendo "anche materialmente il ragazzo", può rendere meno gravosi i compiti della donna, consentendole di "prestare attività lavorativa" regolarmente. Tutto ciò rende non necessaria la presenza del detenuto a casa. Niente procurata inosservanza di pena per la moglie che non vigila sul marito in permesso di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 settembre 2016 n. 37980. Non sussiste il reato di procurata inosservanza di pena se di fatto al soggetto non può essere contestato un nesso causale con l’autore dell’illecito principale. Questo il principio della Cassazione con la sentenza n. 37980/2016. La vicenda. La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui un soggetto condannato e recluso presso il carcere di Chieti - a seguito di un permesso di sette giorni - non aveva fatto rientro presso la casa circondariale. E il problema non si è posto tanto sul capo di imputazione (evasione) da attribuire al soggetto latitante, quanto andare a definire il comportamento della moglie. Questo perché secondo quanto stabilito dal tribunale di Chieti la moglie era stata accusata e condannata per procurata inosservanza di pena (ex articolo 385 cp). Sul punto i Supremi giudici hanno mostrato diverse perplessità in funzione di un non meglio specificato comportamento che la donna avrebbe dovuto tenere nei confronti del marito. Se, infatti, era vero che la donna era stata ritenuta affidataria del marito in carcere in base a un verbale predisposto dal Magistrato di sorveglianza, i giudici, tuttavia, avevano omesso di effettuare ogni tipo di accertamento in ordine alla condotta specifica che l’imputata avrebbe posto in essere per aiutare il coimputato a evadere. La Corte puntualizza, infatti, che la decisione si era limitata a riportare il fatto che i due non avrebbero fatto ritorno presso l’albergo dove il reo avrebbe dovuto trascorrere il periodo indicato nel permesso, ma nulla era stato evidenziato sulla condotta della moglie. Moglie senza responsabilità. In questo modo viene a mancare ogni elemento per il riconoscimento di una sua qualche responsabilità nel reato contestatole, non potendo ritenersi "come sembra aver fatto la Corte d’appello, che dalla sottoscrizione del "verbale di affidamento" potesse derivare una sua responsabilità a titolo quasi oggettivo, prescindendosi da ogni valutazione sull’eventuale aiuto che avrebbe prestato per favorire il marito a sottrarsi dall’esecuzione della pena". La sentenza di merito pertanto è stata annullata nei confronti della moglie di fatto incolpevole e invece è stato ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal marito in evidente colpa per quanto fatto. Niente espulsioni automatiche per i familiari di cittadini Ue di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2016 Corte Ue - Sentenza 165/14 del 13 settembre 2016. Stop a espulsioni automatiche e a provvedimenti di diniego al permesso di soggiorno di cittadini extra Ue, familiari di cittadini di Paesi membri, senza una valutazione del livello di pericolosità sociale dell’interessato. Solo nei casi di una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale dello Stato membro ospitante, le autorità nazionali possono negare il permesso di soggiorno o procedere all’espulsione di un cittadino di uno Stato terzo che ha l’affidamento esclusivo dei figli, cittadini Ue. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a stabilirlo, con due sentenze depositate ieri (C-165/14 e C-304/14). Nel primo caso, che ha visto l’intervento di ben otto Governi, incluso quello italiano, a un cittadino colombiano, padre di due minorenni cittadini Ue con residenza in Spagna, era stato negato il permesso di soggiorno per i suoi precedenti penali. L’uomo, che aveva in affidamento esclusivo i due figli, regolarmente accuditi e scolarizzati, era stato condannato con sospensione condizionale della pena. La domanda di permesso di soggiorno era stata respinta e la Cassazione spagnola, prima di decidere, ha chiamato in aiuto gli eurogiudici. Nodo centrale è se sia compatibile col diritto dell’Unione una norma interna che vieta, senza possibilità di deroga, la concessione del permesso di soggiorno a causa di precedenti penali, anche nel caso in cui ciò provochi l’allontanamento forzato di un minore cittadino di uno Stato membro. Chiarito che il diritto di soggiorno nello spazio Ue dei cittadini di Paesi membri non è incondizionato, ma subordinato alle condizioni previste dal Trattato e dalla direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini Ue e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, la Corte ammette che i motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza possono essere invocati per bloccare il soggiorno, ma solo in casi eccezionali e tenendo conto che "quanto più forte è l’integrazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari nello Stato membro ospitante, tanto più elevata dovrebbe essere la protezione contro l’allontanamento". Non solo. La deroga al diritto di soggiorno dei cittadini Ue e dei loro familiari è un’eccezione all’esercizio di un diritto (ad esempio, la libera circolazione del figlio cittadino Ue), da interpretare in modo restrittivo. Nel rispetto - osserva la Corte - del principio di proporzionalità. Con la conseguenza che un provvedimento (espulsione o diniego al permesso di soggiorno) va adottato solo dopo una valutazione del comportamento personale dell’interessato. È evidente che la sola esistenza di una condanna pregressa non giustifica in modo automatico il no al soggiorno proprio, perché in sé non è una minaccia "reale e attuale nei confronti di un interesse fondamentale della società". Nella stessa ottica, non possono essere presi in considerazione motivi di prevenzione generale, funzionali unicamente a "dissuadere altri stranieri". Senza dimenticare - precisa la Corte - l’obbligo di testare la proporzionalità di una misura alla luce dell’interesse superiore del minore e del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Carcere e volontariato. Perché fa paura alle "Patrie Galere"? di Carmelo Musumeci agoravox.it, 14 settembre 2016 "Art. 17 Ordinamento Penitenziario: Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa. Le finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa". Con la riforma del 1975, l’apertura al volontariato nel sistema penitenziario è stata una vera rivoluzione culturale carceraria, che ha dato importanza alla comunità libera nel recupero del detenuto. È stato come se il Legislatore avesse ammesso che il prigioniero può migliorare solo dentro la società e non certo escludendolo totalmente da essa. Credo che le migliaia di persone che ogni giorno entrano in carcere e dedicano la loro energia e il loro tempo ai prigionieri siano la parte più sana della nostra società e, di conseguenza, delle nostre "Patrie Galere". Ed è grazie a loro che la maggioranza della popolazione detenuta riesce ad avere ancora un contatto con l’ambiente esterno e a sentirsi meno emarginata. Probabilmente per questo il "nemico numero uno" per l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) non è il detenuto, ma il volontario che entra a casa sua, lavora gratuitamente, vede, ascolta e poi va fuori. Qualcuno mi rimprovera che quando scrivo di carcere parlo solo dei detenuti; penso che abbia ragione. E questa volta ho deciso di dare voce e luce a una volontaria rendendo pubblica parte di una sua lettera che ho ricevuto in questi giorni. Per proteggerla dall’Assassino dei Sogni non farò il suo nome, né indicherò il carcere da lei citato; ma se, in seguito, questa volontaria sarà d’accordo e qualche parlamentare sarà disposto a fare un’ interrogazione parlamentare, renderemo pubblici i dettagli. Mio caro Carmelo, (…) devo anche informarti che ho sospeso di andare a (…) e quindi di fare i colloqui. È stata una decisione molto sofferta, dopo sei anni che ho passato là dentro, scambiando parole e cuore con tutti quei ragazzi che ho visto. È stato un periodo tosto ma che mi ha dato tanto. Ho imparato tanto, mi ha insegnato a sbarazzare la mente da qualunque pensiero avverso, stupido, di controllo, di pregiudizio. Ho ricevuto tanto, tanto, tanto. Mi dicono che ho anche dato, ma è stato di sicuro reciproco. Le persone che conosco e che non hanno contatto con il carcere non capiscono e mi hanno avversato sempre, ma l’importante è che io sappia e loro, comunque, che piaccia loro o no, si sono beccati i miei racconti perché credo che le coscienze vadano scosse anche quando non vogliono! Il motivo della mia rinuncia è stato un certo "movimento" interno al carcere (chissà che giochi ci sono dentro…), ma di sicuro le guardie (con la direzione) hanno incominciato a ostacolare i volontari (che odiano) sempre di più. Pensa che in una mattina mi hanno fatto 3 perquisizioni e che due dei nostri migliori volontari sono stati privati dell’art. 17 per essere stati trovati in possesso di buste da lettera e francobolli (che non potremmo portare, ma che dovrebbe fornire il carcere. Cosa che non fa.) Ho "sentito" che per la prima volta in 6 anni, era meglio avere paura. Non avrei voglia di diventare un capro espiatorio. Non credo che ci sia altro da aggiungere, a parte commentare che se il carcere non rispetta neppure i volontari che donano il loro tempo e affetto sociale a chi ha sbagliato, allora la rieducazione è veramente difficile, il desiderio di ricominciare a vivere si atrofizza e si trasforma in odio. Soprattutto, fa sentire innocente anche chi non lo è. Per costruire una società più sensibile di don Alberto De Nadai (Garante dei detenuti di Gorizia) Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2016 Il 16 ottobre 2015 un comunicato del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ribadisce con l’articolo 97 dell’Ordinamento Penitenziario, ciò che era già proposto nella Riforma Penitenziaria del 1975, cioè la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa delle persone detenute. Il legislatore ha voluto sottolineare con forza questo articolo perché "non ci può essere rieducazione se non si coinvolge la società e se non le si aprono le porte del carcere". In base a questa disposizione, già dai primi mesi del 2015 noi volontari penitenziari abbiamo pensato in modo critico alla "rieducazione" e abbiamo lavorato per ridurre il danno del carcere in modo che le persone, quando finiscono la pena, non si sentano del tutto inadeguate e abbiano un mestiere. Abbiamo coinvolto vari Enti di Formazione al Lavoro per poter presentare un progetto rieducativo all’Istituzione Carceraria. Hanno aderito alle nostre proposte l’Enfap, per un corso di elettricista e Formedil per un corso di tecniche di manutenzione edile. La Fondazione Carigo ha finanziato il corso Formedil di 40 ore. Appena ad agosto 2016 l’Amministrazione Carceraria, dietro pressione del Presidente della Carigo che era in attesa di una risposta per non perdere i finanziamenti, ha accolto il progetto e mercoledì 14 settembre 2016 avrà inizio il corso con sei detenuti. Difficile lavoro perché in carcere domina il vuoto culturale e Formedil è un sfida: contamina il vuoto con la forza dell’esempio degli insegnanti per un impegno sociale. Grazie alla Fondazione Carigo questi tecnici della Formedil hanno scelto di essere parte, come noi volontari, della comunità esterna che entra in carcere e sceglie di fare un percorso sociale con i detenuti. Vedere delle persone dedicare il loro tempo, le loro energie e la loro intelligenza per insegnare un mestiere, fa capire che l’impegno sociale può rendere ricca di relazioni e di interessi la vita stessa delle persone. Abruzzo: la pantomima del Garante dei detenuti di Laura Arconti Il Dubbio, 14 settembre 2016 Da un anno la nomina è all’ordine del giorno del Consiglio regionale, ma viene rinviata. Come ieri. Il 12 aprile di quest’anno, quando sul primo numero de Il Dubbio uscì la prima puntata del mio Dossier sui Garanti regionali dei detenuti, pensavo sinceramente che quella antica questione di diritti negati, immobile da anni, sarebbe rimasta tale per molto tempo ancora. Fin dal 1987 l’Italia aveva sottoscritto la convenzione dell’Onu contro la tortura, impegnandosi a dotarsi di uno strumento di garanzia dei diritti delle persone in custodia dello Stato, ma soltanto alla fine del 2013 era stata istituita la figura del Garante Nazionale, e la nomina del professor Mauro Palma era finalmente arrivata nel febbraio 2016. La pubblicazione del mio lavoro fu completata in poco meno di due mesi, ed oggi l’intero Dossier si legge nell’archivio del nostro giornale col titolo "Viaggio tra i Garanti dei detenuti nelle regioni italiane". Due situazioni sono cambiate, da allora: in Sicilia il Garante è stato nominato dopo tre anni di sede vacante e dopo vicende non molto edificanti che si leggono nel Dossier; è stato nominato il Garante regionale del Lazio. Tutto il resto è immutato, sia dove esiste la Legge ma non è stato scelto il Garante, sia dove non c’è ancora neppure una legge. In due Regioni è stata presentata una proposta di legge, che sta vagando di commissione in commissione in attesa del dibattito d’Aula. C’è una Regione in cui la vicenda del Garante Regionale sta assumendo l’aspetto di una pantomima teatrale: l’Abruzzo. La legge risale al 2011, ma sul Garante non si vuol decidere. Dapprima non se ne parlava affatto, poi fu presentata la candidatura di Rita Bernardini, che notoriamente, come Marco Pannella ed il Partito Radicale si occupa da decenni di carcere e di giustizia: fu osteggiata con il ridicolo pretesto di una condanna per una azione politica di disobbedienza civile ben nota e politicamente significativa, poi audita in Consiglio. Di riunione in riunione, da più di un anno il Consiglio Regionale mette all’ordine del giorno la nomina del Garante, rinviando sistematicamente la discussione. Il Garante Nazionale, al Congresso Straordinario del Partito Radicale tenutosi nel carcere di Rebibbia la settimana scorsa, ha dichiarato che sarebbe intervenuto personalmente per evitare il protrarsi di una tale grave inadempienza. Ieri il Consiglio Regionale d’Abruzzo era convocato con la nomina del Garante all’ultimo punto dell’ordine del giorno: il Garante Nazionale, nell’impossibilità di essere presente (è in Piemonte per altre riunioni fissate da tempo) ha emesso un comunicato e inviato una lettere al Presidente del Consiglio Regionale d’Abruzzo Giuseppe Di Pangrazio, chiedendo che "l’attesa nomina del Garante Regionale non venga procrastinata oltre". Ebbene, all’inizio della riunione il consigliere Giorgio D’Ignazio ha proposto una variazione dell’Ordine del giorno portando l’ultimo punto (nomina del Garante) al punto primo: dopo una sospensione, la riunione è ripresa con un certo ritardo, e lo stesso Consigliere D’Ignazio ha proposto il rinvio della votazione sul Garante dei detenuti: la proposta è stata prontamente accolta e fatta propria dal presidente dell’assemblea, ed il Consiglio è passato agli altri argomenti previsti, senza fissare alcuna data per il tema rinviato. Dopo aver assistito in diretta streaming via Internet ad una buona parte della seduta, che altro potevo fare? Ho informato il Garante Nazionale dello sviluppo della vicenda, ed ora ne informo i lettori del Il Dubbio. Non aggiungo commenti. Emilia Romagna: protocollo d’intesa per promuovere il teatro tra i detenuti Agi, 14 settembre 2016 Favorire lo sviluppo del teatro in carcere, sviluppando programmi per il recupero e il reinserimento sociale degli ex detenuti, riconoscendo la dignità culturale e trattamentale di questa attività sia per gli adulti che per i minori e giovani, valorizzandone la sua importante funzione di collegamento con la società. È il senso del protocollo approvato ieri dalla giunta regionale dell’Emilia Romagna, che ha rinnovato fino al 2019 un accordo che coinvolge gli assessorati regionali alle Politiche di welfare, alla Cultura e alla Scuola e formazione, il Provveditorato amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, il Centro per la giustizia minorile dell’Emilia Romagna e Marche e l’Associazione coordinamento teatro carcere Emilia Romagna. Soggetti che saranno impegnati attraverso l’attività teatrale, il suo coordinamento e il potenziamento delle risorse pubbliche e private nello sviluppo di programmi per il recupero e reinserimento e per la tutela del diritto alla salute, intesa come benessere fisico, psichico e sociale. Milano: il direttore del carcere "il modello Bollate non si discute" di Roberta Rampini Il Giorno, 14 settembre 2016 Massimo Parisi difende il metodo improntato alla fiducia malgrado le cinque fughe in due anni: "I progetti di reinserimento pagano". Difende il "modello Bollate" anche dopo l’evasione di fine agosto di una donna rom italiana, il direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi. La quinta fuga in due anni non mette dunque in discussione il carcere modello dove ben 200 detenuti sono ammessi al lavoro esterno con l’articolo 21 e altre centinaia usufruiscono di permessi premio. Eppure, direttore, l’evasione di un detenuto deve fare riflettere. O no? "Quando accade un episodio del genere nessuno di noi minimizza il problema. Le fughe o meglio i mancati rientri sono degli eventi critici che per noi rappresentano il fallimento su una singola persona e non dell’intero carcere. Quando si verificano sono motivo di riflessione sul detenuto per comprendere i motivi, valutare se ci sono affinità tra le evasioni, capire come migliorare il sistema di sorveglianza e se possiamo prevenire altre fughe". L’altra faccia della medaglia di un sistema penitenziario che scommette sui detenuti? "Sicuramente sì. In una recente inchiesta su carceri aperti come il nostro, si conferma che la recidiva dei detenuti è di gran lunga inferiore, a Bollate è del 16% rispetto a un media nazionale che supera il 50%. Per arrivare a questi risultati riponiamo fiducia nei detenuti e investiamo in progetti di reinserimento che a volte non vanno a buon fine o devono fare i conti con questi eventi critici". Come arrivano i detenuti al lavoro fuori dal carcere? "Ogni detenuto prima di essere ammesso al lavoro all’esterno deve fare un percorso di reinserimento sociale e poi viene sottoposto ad una valutazione. Quando gli viene concesso il regime dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario si scommette su di lui perché il suo percorso è stato lineare e positivo. Se poi per un colpo di testa o altri motivi decide di non rientrare in carcere mettendo in discussione tutto e aggravando la sua posizione con la giustizia, è difficile da prevedere". Quindi andate avanti cosi? "Sicuramente la fuga di un detenuto suscita preoccupazione nell’opinione pubblica, ma i risultati positivi di questi anni con i detenuti ci inducono a proseguire con questo modello che si basa sul cosiddetto patto trattamentale: l’amministrazione penitenziaria offre opportunità e il detenuto s’impegna attivamente in percorsi che gradualmente lo possono riportare, in modo adeguato, nel contesto sociale". Brescia: Canton Mombello, si ristruttura in attesa di un nuovo carcere Corriere della Sera, 14 settembre 2016 Un tavolo per coordinare l’opera. Lavoro ai detenuti, Bonometti: "Pronti a collaborare". Il progetto per il nuovo carcere va avanti, ma intanto via ad alcune opere di ristrutturazione per garantire efficienza a Canton Mombello. È la sintesi della mattinata in cui il principale carcere cittadino è stato ufficialmente intitolato a Nerio Fischione, appuntato della Polizia penitenziaria morto nel 1974 per sventare l’evasione dalla casa circondariale di tre detenuti. Una cerimonia semplice e toccante in cui si è parlato anche del futuro della struttura che ha ormai cento anni e che dimostra tutta la sua età e i suoi acciacchi. I cantieri di restauro - A parlare del futuro della Casa circondariale è stato il sottosegretario Cosimo Maria Ferri, magistrato, già membro del Csm per magistratura indipendente, prestato al dicastero di via Arenula nel governo Letta prima e in quello Renzi poi. Accanto a lui il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, che ha assicurato il massimo impegno sul fronte della dotazione organica, cronicamente deficitaria, dell’istituto. In attesa che prenda forma l’ipotesi di trasferire Canton Mombello nell’ampliamento dell’attuale carcere di Verziano, la casa circondariale di via Spalto San Marco 20 sarà presto oggetto di una serie di lavori che prevedono l’adeguamento funzionale e normativo dei reparti al nuovo regolamento che prevede celle aperte durante il giorno e sorveglianza dinamica. Una sorveglianza che, visti i numeri del personale in servizio (stigmatizzati anche dalle note dei sindacati Sinappe e Cgil), ha bisogno anche di qualche supporto tecnologico e così i futuri interventi prevedono nuovi impianti di sicurezza e automazione dei varchi per il controllo degli accessi. Accanto a questo verranno migliorate le cucine dei reclusi, risanate e consolidate sia la cupola della rotonda centrale sia la palazzina destinata ai detenuti protetti. "Interventi non più rinviabili che cercheremo di fare in economia - ha spiegato il sottosegretario Cosimo Maria Ferri - per non togliere risorse all’impegno preso di dotare Brescia di un nuovo carcere". Il progetto - Un progetto che ha vissuto di tanti "stop & go", di frenate e accelerazioni: dall’ipotesi di ristrutturare una caserma dismessa, alla eventualità di destinare al nuovo carcere le aree adiacenti a Verziano, finanziando gli oneri per la nuova costruzione attraverso la permuta del carcere storico in centro città. Il mercato non aiuta una soluzione di questo tipo e i tempi per coronare il progetto potrebbero non essere rapidissimi (non prima del 2018 si è detto in qualche occasione). La voglia di provarci comunque non manca: "Noi ci siamo, mettiamoci attorno ad un tavolo e lavoriamo, i tempi sono maturi per dotare Brescia di un nuovo carcere individuando le risorse necessarie a realizzarlo. Canton Mombello così com’è non è più proponibile". Marco Bonometti, presidente degli industriali bresciani, presente ieri alla cerimonia non vuol sentire ragioni: "Il nuovo carcere o lo facciamo adesso o non lo facciamo più. Come industriali, poi, siamo pronti a fare la nostra parte sul fronte del lavoro. Ci sono tutte le condizioni affinché si possa stabilire un legame fra mondo del lavoro e realtà carceraria". Parole preziose come manna per chi ogni giorno si occupa di trattamenti rieducativi. Impegni, però, troppo spesso rimasti sulla carta, tra burocrazia farraginosa e regolamenti di non semplice attuazione. Parma: Via Burla, il 15 settembre iniziano i lavori di ampliamento del carcere parmatoday.it, 14 settembre 2016 Verrà realizzato il nuovo padiglione che ospiterà 200 detenuti, secondo il Piano Carceri: i lavori dovrebbero terminare entro il gennaio 2018. Il 15 settembre inizieranno i lavori per l’ampliamento del carcere di via Burla a Parma. Secondo le previsioni i lavori per il nuovo padiglione saranno completati entro il gennaio del 2018 e, al termine, ospiteranno 200 nuovi detenuti. È l’applicazione del Piano Carceri, un strumento di anni fa, antecedente alla sentenza Torreggiani. Nessuno sembra essere contento della decisione di iniziare i lavori, che verranno realizzati dalla ditta Devi di Brescia. Per effettuare i lavori all’interno dell’area del carcere verranno trasportati materiali eccezionali. Per i poliziotti della Penitenziaria sarà un lavoro in più, con i dodici nuovi posti di servizio che sono già stati istituiti per monitorare il cantiere. Per i 320 agenti attualmente in servizio - sempre in carenza di organico - non sarà facile da gestire. Il Sappe in una nota chiede "all’Amministrazione, di inviare un congruo numero di agenti in missione per garantire la sicurezza della struttura". "Sono stati infatti istituiti - prosegue la nota di Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Errico Maiorisi, vice segretario regionale altri 12 posti di servizio, rispetto a quelli già esistenti. Tutto ciò creerà ulteriori difficoltà operative, considerato che il reparto di Parma, per soddisfare le attuali esigenze di sicurezza e tutti gli altri servizi, dovrebbe avere un organico di 417 unità di polizia, mentre, effettivamente, ne sono impiegati solo 320; le oltre 100 unità mancanti sono impiegate in altre strutture o in altri servizi". Ferrara: i detenuti si danno all’agricoltura nel "galeorto" estense.com, 14 settembre 2016 Nuove attività al carcere dell’Arginone. Il sottosegretario alla giustizia: "Puntiamo alla pena umana e rieducativa". Darsi all’agricoltura non sarà più un hobby ma un lavoro per i detenuti. Il "galeorto", questo il soprannome dato al campo all’interno del carcere di via Arginone, verrà ampliato e sfruttato per vendere i prodotti coltivati al mercato ortofrutticolo locale. Ad annunciare la novità è il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri, in città per l’intitolazione della casa circondariale al maresciallo Costantino Satta. Ma l’orto non sarà l’unica new entry dietro le sbarre: in programma anche l’apertura di una stamperia e di un laboratorio per l’imbustamento di cibo ecologico per animali. "Crediamo nel ponte tra la realtà penitenziaria e la società civile - spiega il sottosegretario - e, considerando che l’agricoltura è l’economia forte a Ferrara, faremo partire attività legate a questo settore nell’istituto ferrarese, dove gli ospiti sono già impegnati in attività domestiche e tirocini sulla raccolta differenziata". Il progetto agricolo è diviso in vari step: "Innanzitutto trasformeremo questa attività volontaria in una lavorativa per i detenuti, poi porteremo esperti dall’esterno per dare consigli sulle colture più adatte all’area. Successivamente amplieremo e sfrutteremo i 5 ettari dell’orto per produrre frutta e verdura da immettere sul mercato ortofrutticolo tramite le cooperative che si occuperanno dei controlli e della commercializzazione esterna dei prodotti". I detenuti non saranno solo contadini ma anche tecnologici. "A breve sarà attivata una stamperia per la realizzazione di penne, pen drive e gadget con scritte ed incisioni grafiche: uno strumento utile e moderno che crediamo interesserà a molti ospiti del carcere" commenta Ferri. L’ultima azione sarà "dare vita a un laboratorio per l’imbustamento di cibo ecologico per gli animali". "Il governo sta puntando sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che si basa su un nuovo concetto di pena certa, umana e rieducativa - dichiara Ferri. Investire sul percorso rieducativo ed umano permette alle persone che stanno scontando una pena di non cadere nell’ozio ma di lavorare e apprendere mestieri e competenze da spendere nel mondo esterno. Solo così si abbassa la recidiva". L’attenzione sembra rivolta anche alle casse dello Stato ("chi lavora sarà retribuito e ci pagherà una parte delle spese di mantenimento che abbiamo nell’ospitare queste persone") e fuori dai nostri confini. Secondo il sottosegretario, infatti, "l’Europa ci sta guardando come un modello da seguire: stiamo passando da fanalino di coda a paese guida del diritto penitenziario grazie al governo Renzi". In questo contesto "si inserisce il rinnovo della Carta dei figli dei genitori detenuti, appena firmata dal Ministero della Giustizia, dal Garante per l’infanzia e dall’associazione Bambini Senza Sbarre per tutelare i figli dei detenuti" conclude il sottosegretario che, nella sua visita al galeorto ferrarese, è stato accompagnato da don Bedin. Benevento: i detenuti si occuperanno di verde pubblico e dell’Archivio comunale ntr24.tv, 14 settembre 2016 Protocollo d’intesa tra Comune e Casa Circondariale di Benevento per l’avvio al lavoro di detenuti nella manutenzione del verde e degli spazi pubblici, ma anche nell’attività di archiviazione e documentazione cartacea presso l’Archivio Comunale. Nella giornata di ieri la Giunta Mastella ha dato l’ok all’accordo. Cinque i reclusi che lavoreranno a titolo volontario e gratuito in favore della collettività: a guidarli ci sarà un tutor che provvederà ad affidare i compiti lavorativi e ne coordinerà i servizi da svolgere. Il controllo relativo al rispetto delle prescrizioni da parte dei detenuti-lavoratori rimarrà demandato esclusivamente agli operatori di Polizia Penitenziaria. Milano: orafo uccise ladro in casa, la Procura chiede l’archiviazione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 settembre 2016 Rodolfo Corazzo aveva sparato e ucciso un rapinatore albanese, entrato a rubare con due complici. Il pm: "Fu legittima difesa". Per la procura di Milano è stata legittima difesa. Per questo il pm Grazia Colacicco ha chiesto l’archiviazione per Rodolfo Corazzo, il gioielliere che la sera dello scorso 24 novembre a Rodano nel Milanese, ha ucciso, sparando alcuni colpi pistola, un rapinatore albanese entrato nella sua casa insieme a due complici, ancora latitanti, i quali avevano anche minacciato la figlia di 10 anni. L’uomo, con un regolare porto d’armi, era stato indagato come atto dovuto per eccesso colposo in legittima difesa. "Finito un incubo" - "È la fine di un incubo". È il commento a caldo di Rodolfo Corazzo, dopo la notizia della richiesta di archiviazione da parte del pm. "Ringrazio la magistratura per la sensibilità - ha detto l’orefice al telefono - e i carabinieri di Pioltello e Monza che dopo quella sera sono passati innumerevoli volte sotto casa mia". "Mia figlia è ancora un po’ scossa e spaventata nelle ore serali", ha poi aggiunto. Rodolfo Corazzo quella sera era appena tornato dal lavoro. Dopo aver parcheggiato la moto nel garage della sua villetta venne assalito da tre banditi con il volto coperto da passamontagna. Venne picchiato e trascinato in casa dove c’erano moglie e figlia. Il tragica sparatoria - I banditi, dopo essere saliti nelle camere da letto e aver preso dei soldi, trovarono in un’altra stanza dei gioielli che il commerciante aveva negato di possedere. A quel punto si accanirono, minacciando di uccidere tutta la famiglia. Inoltre durante la rapina la figlioletta di 10 anni venne minacciata e portata all’ultimo piano da uno dei malviventi per cercare i gioielli. Furono due ore di terrore al termine delle quali l’orefice reagì sparando un colpo in aria con la sua Glock per intimidire i malviventi. I tre scapparono ma risposero subito al fuoco con due pistole appena rubate. In tutto vennero esplosi 10 colpi, tre sparati dal gioielliere e sette dai banditi. Valentin Frrokaj, albanese ergastolano e latitante, rimase ucciso. Le indagini condotte dai carabinieri, sono state coordinate dal pm Alberto Nobili e Grazia Colacicco, che hanno ritenuto "compatibile" le versione resa dall’uomo con i fatti accertati e hanno dunque ravvisato che sia stata "legittima difesa". "Finalmente - ha commentato Piero Prociani, legale dell’orefice - si restituisce dignità a una persona che ha tentato di difendere sé e la propria famiglia". Prociani ha ricordato che gli altri due rapinatori sono ancora ricercati. Terni: "Liberi dentro", giornata dedicata al volontariato in carcere di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 14 settembre 2016 Venerdì 16 settembre nell’istituto penitenziario di Terni. Vi parteciperà anche il vescovo, Mons. Giuseppe Piemontese. "Liberi dentro" è l’evento promosso della Caritas della diocesi di Terni-Narni-Amelia, l’associazione di volontariato San Martino e la Proloco di Porchiano del Monte, venerdì 16 settembre dalle 16 alle 19 presso la Casa Circondariale di Terni, alla quale prenderà parte anche il vescovo, Mons. Giuseppe Piemontese. All’interno del campo sportivo dell’istituto di pena saranno allestiti degli stand esplicativi delle attività che vengono svolte da volontari e detenuti durante l’anno, con dimostrazioni e laboratori che vedranno protagonisti circa 200 detenuti: l’estemporanea di pittura curata dal progetto Arte in carcere della Caritas, le performance teatrali curate da un insegnante dell’Ipsia, l’attività di apicoltura e altro ancora. Una manifestazione che unisce l’opera di volontariato di diverse realtà ecclesiali e laiche in una fruttuosa cooperazione. Gesti di prossimità e solidarietà da parte di tante persone, vicine e lontane dalla chiesa, che incontrano in carcere altre persone bisognose e spesso sole, in un grande segno di fraternità e di misericordia. Un evento finalizzato a sensibilizzare la comunità esterna sui percorsi trattamentali-rieducativi attivi all’interno della Casa Circondariale di Terni: laboratorio di fotografia, di pittura, espressivi, di inglese, di fumetti, corso di apicoltura. Ogni laboratorio effettuato nel corso dell’anno avrà il proprio spazio dimostrativo dove far conoscere quanto realizzato dalle persone detenute con impegno e voglia di riscatto sociale. Si potrà anche acquistare il CD musicale "Il sole non muore", realizzato interamente dai detenuti. L’acquisto del CD permetterà di raccogliere fondi destinati alla realizzazione di nuove attività rieducative. Il CD è acquistabile presso la libreria Alterocca e il Centro Musicale Jalenti. Milano: Congresso eucaristico nazionale, le ostie arrivano dal carcere di Opera agensir.it, 14 settembre 2016 Ciro, Giuseppe e Cristiano: tre detenuti che nel carcere di Opera stanno scontando condanne pesanti per omicidio. Sono loro ad aver prodotto e donato al Congresso eucaristico di Genova (15-18 settembre) oltre 16mila ostie, preparate artigianalmente nel laboratorio allestito nell’istituto penitenziario milanese nell’ambito del progetto "Il senso del pane", e che saranno consacrate durante tutte le celebrazioni dell’evento dagli oltre 70 vescovi e cardinali presenti alla tre giorni ligure. "Abbiamo lavorato durante il mese di agosto per produrre le ostie per il Congresso", spiega Cristiano, "e siamo contenti di poter essere presenti anche noi, attraverso il nostro impegno, a questo evento così importante per la Chiesa italiana. Grazie al progetto ‘Il senso del panè, ho capito il significato di redenzione e misericordia dell’Eucaristia. Per noi che viviamo in carcere, tale valore è visibile concretamente, grazie al percorso di conversione che compiamo nel laboratorio. Ma, con la nostra testimonianza, siamo certi che anche a Genova, dove tutta la Chiesa italiana riflette sull’Eucaristia, faremo arrivare il nostro messaggio, perché abbiamo potuto sperimentare la misericordia di Dio, che si fa cibo di salvezza per tutti noi". "Il senso del pane" è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti che, nel carcere di Opera, grazie alla collaborazione del direttore dell’istituto penitenziario Giacinto Siciliano, ha allestito un laboratorio artigianale per la produzione di particole, che vengono donate gratuitamente alle parrocchie che ne fanno richiesta, inviando una mail a ilsensodelpane@gmail.com. Attualmente, sono oltre 200 le realtà che utilizzano le ostie, che sono state consegnate personalmente dai detenuti anche a papa Francesco: il Papa li ha ricevuti in udienza lo scorso 9 aprile e ha consacrato le particole lo scorso 15 maggio, a Pentecoste. Oggi, le ostie sono arrivate in tutti i 5 continenti: dagli scenari di guerra del Kurdistan iracheno, di Gerusalemme e della Siria, ai luoghi più cari alla devozione popolare, come Lourdes e Cracovia, fino ad arrivare a "terre di frontiera" come Nairobi, in Kenya (Africa), nel Nicaragua e a Cuba (America) o nel carcere di Colombo, capitale dello Sri Lanka (Asia). "Persone di ogni parte del mondo", specifica Arnoldo Mosca Mondadori, ideatore del progetto, "si uniscono in una rete meravigliosa il cui legame è la coscienza che l’Eucaristia è il cibo oggi necessario per la vera pace di ogni essere umano". Palermo: Padre Puglisi, alla "Festa con 3P" i detenuti del carcere minorile di Trapani blogsicilia.it, 14 settembre 2016 Si chiama "Festa con 3P" (ricordando il modo in cui si firmava Padre Pino Puglisi) ed è la nuova manifestazione organizzata dall’Arcidiocesi di Palermo nel XXIII anniversario per mano mafiosa del sacerdote-martire. Una festa musicale (e non solo) aperta a tutti che si terrà il 15 settembre dalle 20.30 nel Piano della Cattedrale di Palermo, pensata per coinvolgere non solo coloro che conoscevano Padre Puglisi ma tutta la cittadinanza e soprattutto le nuove generazioni. Parteciperanno anche un gruppo di ragazzi detenuti al carcere minorile di Trapani che hanno chiesto di partecipare all’evento "spendendo" in questo modo il permesso di libera uscita che hanno a disposizione. "Il 15 settembre, anniversario della morte di padre Puglisi, noi non piangiamo un uomo morto - afferma il delegato arcivescovile don Francesco Michele Stabile - ma viviamo della gioia di un uomo risorto di cui intendiamo fare memoria. Padre Puglisi non appartiene soltanto alla comunità ecclesiale, ma a tutta la società civile per la quale ha lavorato ed in particolare per Brancaccio che voleva dotare di servizi. Inoltre vogliamo ricordare il prete ucciso per mano mafiosa quale figura di grande educatore che ha accompagnato la formazione di tanti giovani". La "Festa con 3P" nasce dall’intenzione di presentare a tutta la città la figura di padre Puglisi come operatore di comunione e di gioia con un messaggio ecumenico trasversale di impegno sociale e civile. Sarà anche un modo diverso, nuovo e allegro di ricordare il sacerdote p. Puglisi attraverso le sue parole che daranno il via alle performance dei singoli artisti sul palco davanti alla Cattedrale. Non sarà uno spettacolo qualsiasi in quanto la condizione posta agli artisti è stata di riconoscersi proprio nel prete di Brancaccio. Hanno aderito in maniera gratuita molti artisti: Roberto Lipari, Salvo Piparo, Sei Ottavi, Lucina Lanzara, Lassatil Abballari, Coro Polifonico del Balzo, Stefania Blandeburgo, Compagnia del Ciclope, Pirati dello Spirito, Sergio Munafò, Compagnia Movimento e Danza, Cris Peace, Volontari Clown Vip. Prevista la partecipazione straordinaria di Moni Ovadia e don Luigi Ciotti che faranno una riflessione universale sul messaggio di p. Puglisi. "Il vescovo ha chiamato a raccolta tutti quanti sono legati al messaggio di padre Puglisi - afferma il Direttore artistico della festa Massimo Sigilló - l’iniziativa è stata sposata dalle comunità che si riconducono in lui per un momento gioioso in cui veicolare un messaggio alla città. Gli artisti che hanno aderito in forma assolutamente gratuita, possono proporre soprattutto ai giovani che non hanno conosciuto p. Puglisi e la sua opera". Alla "Festa con 3P" interverranno anche l’arcivescovo Corrado Lorefice che al termine pronuncerà un discorso. Nel corso della festa sarà possibile avere frasi di padre Puglisi che si potranno portare a casa. La manifestazione sarà preceduta alle ore 18 da una celebrazione Eucaristica in Cattedrale. Palermo: "Esopo a modo nostro", in scena la favola dei detenuti dell’Ucciardone Agi, 14 settembre 2016 Dopo l’Iliade e l’Odissea è tempo di "Esopo a modo nostro". In scena domani alle 18, a Palermo, al parco di villa Pantelleria, lo spettacolo diretto da Preziosa Salatino con otto entusiasti detenuti dell’Ucciardone che hanno dai 20 ai 40 anni: Giuseppe Augello, Salvo Ciancio, Luca Di Silvestro, Santo Fauci, Maurizio Inzerillo, Bebe Olariu, Tony Palazzotto e Giovanni Scurato. Lo spettacolo si inserisce nel progetto "Classici in strada", giunto alla sua terza edizione, con il coinvolgimento di una rete di scuole e associazioni palermitane impegnate nel promuovere la conoscenza dei testi classici attraverso lo strumento del teatro, realizzando eventi in strade e piazze dei quartieri più disagiati della città. La scuola pilota della rete è il liceo scientifico "Benedetto Croce", con la sezione carceraria Ucciardone. A coordinare il progetto la professoressa di Lettere Isabella Tondo. "È una grande soddisfazione per chi ha creduto in questo progetto, vederlo proseguire anche al di fuori delle mura del carcere e approdare in un teatro della città- dice Marco Anello, Dirigente dall’Ambito territoriale di Palermo- Auguro a tutti gli attori che si sono impegnati in questi percorsi di continuare su questo cammino e raggiungere altri e maggiori successi". Lo spettacolo "Esopo a modo nostro" racconta in maniera genuina e auto-ironica il percorso di un gruppo di detenuti (diversi per età, provenienza e carattere) alle prese con le favole morali dello scrittore greco. Lepri presuntuose, topolini riconoscenti, lupi prepotenti, cicale scanzonate e operose formiche sono stati il pretesto per riflettere su vizi e virtù dell’essere umano. "Un incontro importante- quello della scuola e del teatro in carcere- dice la regista Preziosa Salatino- anche perché i nostri laboratori sono stati arricchiti da lezioni tematiche degli insegnanti, che hanno appassionato molto i partecipanti. Lo scorso anno i detenuti hanno riscritto e interpretato in siciliano passi dell’Iliade e dell’Odissea, quest’anno l’hanno fatto con Esopo, grazie anche a delle favole tradotte da Giovanni Meli. La risposta di tutti è stata entusiasmante". Sui migranti Juncker oggi presenta il conto di Carlo Lania Il Manifesto, 14 settembre 2016 Strasburgo. Via libera al Fondo di 30 miliardi di euro per investimenti nei paesi di origine. Ad annunciarlo sarà il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker nel discorso sullo stato dell’Unione che terrà questa mattina a Strasburgo. Lo stanziamento di 30 miliardi di euro deciso ieri sera dal collegio dei commissari e destinato alla creazione di un Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, primo passo di quel migration compact di cui si è più volte parlato nei mesi scorsi e con cui l’Europa conta di arginare gli arrivi dei migranti ai suoi confini. I soldi saranno destinati soprattutto a investimenti da realizzare in Africa e nei "paesi vicini" (i Balcani) in cambio di un maggiore controllo delle frontiere e della creazione di campi profughi dove esaminare le eventuali richieste di asilo. La crisi dei migranti è solo uno dei temi che Juncker affronterà oggi illustrando la nuova agenda dei lavori di un’Unione europea ormai senza più la Gran Bretagna e alla quale il presidente della commissione Ue proporrà un rilancio sul piano degli investimenti, tornerà a proporre la lotta all’evasione fiscale e nuove misure per fronteggiare il terrorismo. Tutti temi caldi che verranno ripresi anche nel vertice dei capi di stato e di governo che si terrà venerdì a Bratislava. L’accordo raggiunto ieri sui fondi per il migration compact rappresenta in qualche modo un compromesso. 3,1 miliardi di euro verranno del budget dell’Unione europea e sono destinati a moltiplicarsi per dieci grazie alle leve di investimenti. Il progetto iniziale prevedeva che una somma analoga arrivasse dagli Stati membri, arricchendo così ulteriormente il Fondo. La resistenza di molti Paesi ha però impedito che questo avvenisse. Alla fine si è deciso che ogni Paese sarà libero di scegliere il progetto sul quale investire, soluzione che offrirebbe maggiori garanzie sull’effettivo uso dei fondi. È probabile che proprio la destinazione dei soldi non si trasformi in un ulteriore motivo di discussione tra gli Stati. Per l’Italia, così come per tutti gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo, i paesi di maggiore interesse sui quali investire sono infatti quelli dell’Africa occidentale e del Corno d’Africa, vale a dire i luoghi di origine della maggior parte dei migranti in arrivo sulle nostre coste. Cosa ribadita la scorsa settimana anche nel vertice Eu-Med che si è tenuto ad Atene. Non è detto però che tutti siano d’accordo e la questione finirà inevitabilmente per ritornare nel vertice di Bratislava. Insieme a un altro punto di sicura rottura tra gli Stati. Oggi Juncker tornerà infatti a insistere ancora una volta sulla necessità che ogni paese si faccia carico della sua quota di profughi arrivati in Italia e Grecia nel corso del 2015. Si tratta di quei ricollocamenti di cui si parla ormai da un anno senza che però si riesca a metterli davvero in atto per l’ostruzionismo mostrato da molte capitali che sicuramente non gradiranno l’insistenza del presidente della commissione Ue. Di ricollocamenti ieri ha parlato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in visita ufficiale in Bulgaria, chiedendo anche una revisione del trattato di Dublino. Quello dei migranti, ha detto il capo dello Stato, è "un fenomeno di carattere epocale e se l’Unione europea non adotta un serio programma di gestione del fenomeno, diventerà ingovernabile". E un appello all’Europa perché attivi finalmente il meccanismo dei ricollocamenti è arrivato anche dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati che ha ricordato come l’Ue abbia deciso un piano biennale per il ricollocamento di 160 mila profughi. "Tuttavia - ha concluso l’Unhcr - il numero dei posti messi a disposizione continua a essere del tutto inadeguato e l’attuazione del programma inutilmente lenta e difficoltosa". Migranti, povertà e aiuti all’Africa: le debolezze della strategia europea di Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchi lavoce.info, 14 settembre 2016 L’aumento del numero dei profughi e dei migranti economici dall’Africa riporta in primo piano il tema degli aiuti allo sviluppo. La proposta italiana del "Migration compact" vuole replicare l’accordo con la Turchia. Ma investire nella crescita dei paesi africani richiede precise scelte di bilancio. Accordi economici e politici - La crescita del numero di profughi o migranti economici (spesso difficili da distinguere) che attraversano il Mediterraneo per arrivare in Europa ha riproposto di recente il tema degli aiuti economici ai paesi africani per frenare le migrazioni. Non è una novità. Già durante il vertice europeo di La Valletta del novembre 2015 si era parlato di un possibile "trust fund" di 1,8 miliardi di euro a favore dei paesi africani. Successivamente, nel vertice economico di Davos del gennaio 2016, il tema era stato riproposto sia da Frans Timmermans (vicepresidente della Commissione europea), sia da Wolfgang Schäuble ministro delle Finanze tedesco: quest’ultimo aveva evocato il termine di "piano Marshall per l’Africa". La natura del vertice di Davos aveva favorito un approccio di tipo economico al problema, sottolineando l’interesse europeo a favorire rapporti meno squilibrati con il continente africano e aprendo a ragionamenti di "co-sviluppo". Di fronte però al massiccio flusso di profughi siriani attraverso il mare Egeo, il 18 marzo l’Europa ha firmato un accordo con la Turchia di tipo squisitamente politico, che ha posto bruscamente fine ai passaggi verso la Grecia, di fatto spostando di nuovo il problema verso il Mediterraneo centrale. L’accordo con la Turchia (e il suo indubbio successo nel frenare il flusso dei profughi siriani) è stato probabilmente di stimolo alla presentazione di una proposta del governo italiano (il cosiddetto "Migration compact") formalizzata in una lettera alla Commissione europea il 15 aprile. Nella versione originaria, la proposta italiana offre una ridefinizione della politica di cooperazione verso progetti di investimento con strumenti già esistenti a carico del budget Ue; l’emissione di prodotti finanziari Ue-Africa che facilitino l’accesso dei prodotti africani nei mercati europei e il miglioramento della gestione delle rimesse; una migliore cooperazione in materia di sicurezza; la realizzazione di strumenti di migrazione legale verso l’Europa; schemi di redistribuzione dei migranti all’interno dell’Ue. In cambio, si richiede ai paesi africani un impegno nel controllo delle frontiere e nella riduzione dei flussi irregolari. Tuttavia, già nel Consiglio europeo del 28 giugno, si ha l’impressione che dopo le prevedibili resistenze tedesche alla creazione degli eurobond, la proposta italiana si orienti a un più prosaico scambio tra risorse finanziarie e controllo dei flussi, sul modello turco. Ma se non si vuole che la definizione di nuovi rapporti tra Europa e Africa resti confinata nel parcheggio delle buone intenzioni di Bruxelles, è necessario considerare che una semplice replica dell’accordo con la Turchia appare difficilmente praticabile nel continente africano. La prima difficoltà risiede nel fatto che i paesi destinatari delle proposte sono più di uno. La seconda è che ormai la quasi totalità delle migrazioni è gestita da organizzazioni di trafficanti e in molti paesi africani esiste purtroppo una rete di collusione e di corruzione tra queste e le forze dell’ordine. Occorre poi una riflessione sui risultati, spesso fallimentari, della cooperazione internazionale: già molti anni fa William Easterley in "I disastri dell’uomo bianco" e Dambisa Moyo in "La carità che uccide" denunciavano l’impostazione calata dall’alto che minaccia l’imprenditoria locale e causa la diffusa corruzione delle classi dirigenti africane. Questione di scelte - Investire nello sviluppo dei paesi africani significa operare scelte di bilancio concrete. Gli aiuti pubblici allo sviluppo stanziati dai paesi Ue ammontano a 56,2 miliardi di euro (è la somma dei fondi diretti Ue di quelli dei singoli Stati, ultimo dato al 2013): cifra pari allo 0,43 per cento del reddito nazionale lordo, ancora lontano dall’obbiettivo dello 0,70 per cento fissato per il 2015. Una goccia in confronto a quanto l’Europa spende, per esempio, sul versante agricolo: 100 miliardi di euro tra il 2014 e il 2020 per il Feasr (Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale), per mantenere una agricoltura spesso non competitiva. Considerata la complessità del continente africano, la riuscita della proposta europea dipende dalla capacità di rimettere in discussione rapporti economici complessivi che vanno al di là dei rapporti tra istituzioni. L’Africa non è più quella del secolo scorso: l’influenza cinese è molto importante, una classe di consumatori comincia a emergere, ma su tutto incombe una crescita demografica senza precedenti. Sarà banale dirlo, ma per impostare in maniera diversa il rapporto con l’Africa occorre coinvolgere le multinazionali, aprire maggiormente l’Europa ai prodotti africani, agire sui bassi livelli fiscali e non pensare unicamente a una replica dell’accordo con la Turchia. Migranti. Cara Foggia, Alfano apre inchiesta dopo denunce di Repubblica ed Espresso La Repubblica, 14 settembre 2016 L’istruttoria della prefettura dopo l’inchiesta del settimanale e l’appello di Scalfari sulle condizioni di vita nella struttura: i richiedenti asilo attendono l’esito della procedura sulla protezione internazionale. La prefettura di Foggia apre un’istruttoria sul Cara di Foggia, la struttura che ospita i richiedenti asilo che attendono l’esito della procedura di richiesta della protezione internazionale, dopo l’appello di Eugenio Scalfari su Repubblica ("il governo fermi l’inferno del Cara") in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta di Fabrizio Gatti sull’Espresso. L’inchiesta della prefettura foggiana è scattata su input del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e la vicenda è stata discussa dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica durante un vertice convocato in prefettura. È stato definito un programma di interventi strutturali interamente finanziati dal ministero dell’Interno per la realizzazione di una nuova rete di recinzione, di una strada perimetrale interna, di un sistema integrato di video sorveglianza e anti-intrusione e di un nuovo corpo di guardia, nonché il potenziamento dell’impianto di illuminazione esterna, ha anticipato il ministro Alfano. Sulla struttura, ha riferito Alfano, sono state disposte verifiche e in passato erano già state rilevate criticità che "avevano indotto la prefettura di Foggia a chiedere al gestore del Centro un potenziamento del personale e dei servizi di gestione". Sono stati poi individuati e definiti, ha concluso il ministro dell’Interno, "gli interventi di manutenzione straordinaria ritenuti necessari e sono stati programmati gli interventi nell’area esterna al Centro per la demolizione dei manufatti occupati e utilizzati abusivamente da cittadini extracomunitari". "Le poche parole di presentazione dell’inchiesta di Gatti dicono tutto", aveva scritto Scalfari: "Sono entrato clandestino nel Cara di Foggia, dove mille esseri umani sono trattati come bestie e per ciascuno di loro le coop percepiscono 22 euro al giorno". Poi l’appello al governo Renzi: "So bene che il nostro presidente del Consiglio ha molte cose da fare in Italia e in Europa, ma a nome dei nostri giornali, e credo di tutti i nostri lettori che tra carta e web sono oltre cinque milioni, gli chiedo di far ispezionare immediatamente quel Centro che accoglie all’Inferno un migliaio di persone e chiedo anche alla Procura di Foggia di disporre indagini sulle coop che dovrebbero gestire con competenza e amicizia quei rifugiati e invece ignorano, direi volutamente, l’inferno che sta sotto i loro occhi". Federico Gelli (Pd), presidente della commissione parlamentare di inchiesta sui migranti, ha annunciato una visita: "Quanto letto impone un immediato sopralluogo al Cara di Foggia per verificare lo stato attuale di una struttura che invece di essere un centro di accoglienza assomiglia più a un ghetto - ha commentato - in cui i diritti dei migranti vengono quotidianamente violati con disprezzo per l’essere umano". Del tema si occuperà l’ufficio di presidenza della commissione, convocato per mercoledì 14 settembre. Guerra. Dottori e parà nello scontro Gna-Haftar di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 settembre 2016 Libia. Partita l’operazione Ippocrate: 60 medici per un ospedale militare a Misurata e 235 soldati. Si intensifica il conflitto tra il governo di unità e il generale: il premier al-Sarraj sotto pressione perché negozi. Un nome evocativo quello scelto dal governo italiano per l’operazione militar-sanitaria in Libia: 300 militari (60 tra medici e infermieri, 135 per il supporto logistico e 100 parà della Folgore a protezione del contingente) voleranno a Misurata accompagnati dal fondatore della professione medica, lo scienziato Ippocrate. Così è stata ribattezzata l’operazione partita ieri per l’apertura di un ospedale militare nella città costiera libica a metà tra Tripoli e Sirte, primo ufficiale dispiegamento di truppe italiane nel paese post-Gheddafi. Lo hanno ufficializzato ieri in parlamento il ministro degli Esteri Gentiloni e la ministra della Difesa Pinotti, tra le proteste delle opposizioni. Se prima i feriti gravi venivano evacuati in Italia, ora l’assistenza sarà fornita sul posto. Ma, prova a precisare Gentiloni, non ci sono stivali sul terreno: "In Libia non ci sono boots on the ground, forse meds on the ground, cioè medici con la necessaria protezione militare". La richiesta di un ospedale, aggiunge Pinotti, era stata "formalizzata dal primo ministro al-Sarraj con una lettera al premier Renzi l’8 agosto". "Non è un’operazione militare travestita da umanitaria - continua - In Libia non andremo a fare altre cose". Pochi dottori e molti parà - dicono - spediti a curare i feriti delle brigate di Misurata, il gruppo armato nato nel 2011 e oggi impegnato in quel di Sirte, città da settimane sotto attacco aereo Usa per strapparla all’Isis che però è ancora lì dov’era prima. La decisione di appoggiare il governo di unità nazionale (Gna) del premier al-Sarraj, voluto dall’Onu, le sta salvando: negli ultimi anni si sono macchiate di crimini gravi, massacri di civili, trasferimenti forzati, case e villaggi dati alle fiamme e distrutti, crescendo a dismisura grazie alle armi confiscate all’ex esercito di Gheddafi e a quelle ricevute nei primi mesi del conflitto dall’Occidente, sotto l’egida Nato. Ora sono considerate appendice all’esercito governativo di al-Sarraj. Milizia contro milizia: è Misurata ad essere principale antagonista alle truppe del generale Haftar, braccio armato del parlamento ribelle di Tobruk, ex riferimento occidentale. La Libia rischia di diventare una bolgia peggiore di quanto sia stata finora. Difficile gridare allo scoppio della guerra civile, visto che è già realtà: nel paese operano innumerevoli gruppi armati, islamisti, tribali, laici, ognuna al soldo di autorità diverse e avversarie. Ad approssimarsi è un altro conflitto, quello tra Gna e Tobruk. Il braccio di ferro si gioca nella Mezzaluna petrolifera, i porti petroliferi di Ras Lanuf, Sidra, Brega e Zueitina, principale fonte di sopravvivenza del governo di unità in un periodo di grave crisi economica: perdere quelle entrate significherebbe collassare del tutto, con una popolazione alle prese con svalutazione del dinaro, mancanza di carburante e servizi, inflazione in crescita costante. Forte della lunga serie di alleati esterni (Egitto, Golfo e Francia), del controllo pressoché totale di cui gode in Cirenaica e dello scarno consenso popolare al Gna visto come imposizione occidentale, Haftar punta sull’impossibilità per il governo di unità di perdere quelle risorse e allo stesso tempo di aprire un nuovo fronte bellico: il generale vuole un posto di rilievo nell’esecutivo al-Sarraj. Per farlo occupa i porti togliendoli alle milizie di Ibrahim Jadran, che li avevano presi due anni fa. Nelle mani del Gna erano andati con la "fedeltà" (in cambio di milioni di dollari e stipendi governativi, nella pratica un’estorsione) dichiarata dal signore della guerra Jadran al al-Sarraj. Non a caso le guardie petrolifere di Jadran - 20mila uomini - hanno lasciato i pozzi senza combattere. Il bottino è di un certo peso: sebbene la produzione di greggio sia enormemente calata dal 2011, oggi dal sottosuolo libico vengono estratti 300mila barili al giorno degli 1,6 milioni potenziali, il 97% dell’export libico. L’occupazione dei porti è giunta a pochi giorni dalla partenza del primo cargo da dicembre 2014. Per questo ieri si è sollevato il coro unanime della comunità internazionale: Usa, Italia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno ribadito che il governo di Tripoli è "il solo autorizzato ad usare tali risorse" e chiesto ad Haftar l’immediato ritiro. Sottoscrive anche Parigi, nonostante il neppure troppo occulto sostegno militare garantito al generale con cui ha organizzato operazioni congiunte. Il governo di unità chiede alle sue forze armate di riprendersi i pozzi, ma dietro le quinte potrebbe negoziare - su pressione internazionale - con Haftar per evitare lo scontro aperto. Guerra. L’umanitario che camuffa il militare di Giulio Marcon Il Manifesto, 14 settembre 2016 Libia. Il rischio è che - a dosi omeopatiche - la presenza italiana cresca e si arricchisca di ruolo. Già siamo presenti con corpi speciali in operazioni "sotto copertura". Altroché missione umanitaria. D’altronde fu chiamata così anche la guerra in Kosovo. "Anche ad Amatrice siamo andati a fare una missione umanitaria". Con questo ineffabile riferimento la ministra della difesa Pinotti ha giustificato ieri - di fronte alle commissioni esteri e difesa - l’invio di 300 militari (100 parà, 135 per il supporto logistico e 65 medici, nonché una portaerei armata di tutto punto nei paraggi: mancano solo gli F35) in Libia, in un contesto dove ci sono tante micce accese: quelle del terrorismo, del conflitto interno, della ribellione separatista del generale Haftar, dello scontro geopolitico tra le potenze occidentali. Il paragone dell’invio di militari in Libia al soccorso alle vittime di un terremoto arricchisce il catalogo delle discutibili uscite della ministra. Un anno e mezzo fa la Pinotti prefigurava 5mila paia di scarponi italiani in Cirenaica e Tripolitania venendo poi fortunatamente smentita dal premier Renzi. "L’Italia - diceva la ministra sul Messaggero - è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord… Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a 5mila uomini, in un paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per l’Italia, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente". Per il momento la ministra si accontenta di 300 soldati. Un anno prima (eravamo al marzo del 2014) della sua uscita sulla Libia, parlando degli F35 la Pinotti affermava intervistata dall’attuale presidente della Rai: "Di fatto i cacciabombardieri servono perché, a parte che se tu hai delle truppe, dove c’è necessità di avere una difesa aerea, però potrebbe succedere che qualcuno decide di sparare… oggi purtroppo le armi sono micidiali". A parte il micidiale eloquio, uno scenario perfetto per la Libia. Di interventi militari camuffati da missioni umanitarie sono pieni i libri di storia. Trecento militari sono ancora un numero limitato, è vero. Ma anche in Vietnam gli americani mandarono all’inizio dei contingenti ridottissimi e poi sappiamo come è andata a finire. Il rischio è che - a dosi omeopatiche - la presenza italiana cresca e si arricchisca di ruolo e presenza sul territorio. Già siamo presenti con corpi speciali delle forze armate che agiscono in operazioni "sotto copertura" grazie ad una misura prevista da uno degli ultimi decreti sulle missioni all’estero che tiene all’oscuro il parlamento su tutte le operazioni militari che il governo ritenga di mantenere segrete. La situazione in Libia si presta benissimo a questa escalation: il paese è diviso in due, il governo centrale è delegittimato, il terrorismo ancora impera in molte aree del paese e lo scontro geopolitico tra i paesi occidentali e della Nato per il controllo del petrolio arricchisce in modo funesto il quadro. Altroché missione umanitaria. D’altronde fu chiamata così anche la guerra in Kosovo. Ora siamo davanti ad uno scenario diverso, ma che segue la stessa logica. I trecento militari possono diventare molti di più e l’ipocrisia della missione umanitaria trasformarsi in una guerra. Droghe. Legalizzazione cannabis, pro e contro di Francesco Flaviano Russo lavoce.info, 14 settembre 2016 Il parlamento riprenderà tra poco l’esame del disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis. Gli argomenti portati a favore e contro il provvedimento sono numerosi. È dunque utile riassumerli e discuterli. Dalle entrate fiscali al sovraffollamento delle carceri, ecco i probabili effetti. Effetti su entrate fiscali e numero di consumatori - Il parlamento riprenderà tra poco l’esame del disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis. Credo sia utile riassumere - e discutere - i principali argomenti a favore e contro. Legalizzare la cannabis farà aumentare le entrate fiscali? Sicuramente nascerà un mercato legale, ma ciò non vuol dire che quello illegale scomparirà del tutto. Anzi, è molto probabile che ne rimarrà comunque uno illegale parallelo, un po’ come succede in alcune città per le sigarette. Un esempio concreto viene dagli Stati Uniti: gli stati di Washington e Colorado hanno legalizzato l’uso ricreativo della cannabis, ma la quota di mercato illegale continua ad attestarsi, rispettivamente, al 30 e 40 per cento. Più alte saranno le tasse sulla produzione e consumo e più alta sarà la quota di mercato illegale e, quindi, più basso il gettito. L’ideale sarebbe iniziare con un livello di tassazione relativamente basso, per esempio intorno al 40 per cento come per l’alcool, in modo da attirare il maggior numero possibile di clienti dal mercato illegale. Aumenterà il numero di utilizzatori? Con la legalizzazione verranno meno le sanzioni, la sostanza avrà una maggiore visibilità e la semplice riclassificazione da proibita a legale potrebbe far sparire le remore morali di alcuni. Diminuirà anche il prezzo, perché calerà drasticamente il costo necessario a portare la cannabis sul mercato. Ma già oggi in Italia di fatto non ci sono sanzioni per il consumo e la detenzione di piccole quantità e la cannabis è facilmente reperibile a un prezzo basso. Infatti, i dati dell’European monitoring center for drugs and drug addiction indicano che il 32 per cento degli italiani adulti ha fatto uso "una tantum" di cannabis. Negli Usa, il consumo in Colorado e Washington è cresciuto più rapidamente rispetto al resto del paese. Tuttavia è anche vero che nei due stati l’utilizzo di cannabis era in crescita già prima della legalizzazione. Come ricorda Piero David, poi, uno studio del dipartimento per la Salute pubblica del Colorado mostra addirittura una diminuzione dell’uso di marijuana da parte dei giovani dopo la legalizzazione. Aumenterà la spesa sanitaria? - Legalizzare la cannabis farà aumentare il consumo di droghe più dannose? La cosiddetta teoria della "Gateway Drug" prevede una progressione naturale dal consumo di marijuana a quello di eroina, cocaina e droghe sintetiche. La teoria, però, non considera che gli effetti di queste sostanze sono completamente diversi tra loro e dunque i loro consumatori tipici hanno caratteristiche personali molto diverse. Né ci sono evidenze empiriche robuste a favore dell’esistenza di una transizione, semmai, a rivelarsi come propedeutico è il consumo di alcool. Crescerà la spesa sanitaria? Senza entrare troppo nel merito, è bene ricordare che molti effetti negativi della marijuana dipendono dagli additivi nocivi utilizzati nella produzione. La legalizzazione, con conseguente controllo della filiera, permetterebbe di commercializzare una cannabis più pulita. E si potrebbe evitare il diffondersi di prodotti come l’Amnèsia, ottenuta aggiungendo alla marijuana metadone, eroina o altre sostanze chimiche, che induce il passaggio verso droghe più nocive. Le etichette sulle confezioni potrebbero poi riportare obbligatoriamente il contenuto di principio attivo (Thc) per rendere i consumatori più consapevoli della quantità di sostanza assunta. Non è possibile farlo quando ci si rivolge al mercato illegale e di conseguenza spesso se ne consuma più di quanto si desidera. Quindi, anche ammettendo un aumento del consumo post-legalizzazione, l’impatto finale sulla spesa sanitaria è dubbio. Meno reati con la legalizzazione? - Legalizzare la cannabis farà diminuire il numero dei reati violenti? Se la vendita della sostanza espone di per sé al rischio di incarcerazione, allora il costo aggiuntivo di un reato è più basso. E in un mercato illegale, la violenza è l’unico modo per risolvere le dispute commerciali, non essendo possibile il ricorso ai tribunali. Su questo aspetto, molto dipenderà dalla dimensione del mercato illegale. Scenderà il reddito della criminalità organizzata? La cannabis è la droga più trafficata e consumata al mondo, quindi le organizzazioni che oggi gestiscono il mercato registreranno perdite, anche se parte di quello illegale persisterà. Una delle caratteristiche delle organizzazioni criminali moderne è però la loro capacità di infiltrare l’economia legale, si può dunque presupporre che non perderanno del tutto la loro influenza sul segmento legale del mercato. Si ridurrà il sovraffollamento delle carceri, con effetti positivi per i detenuti, il bilancio dello stato, il sistema giustizia e le forze di polizia? Per il persistere del mercato illegale parallelo sarà comunque necessaria l’attività di contrasto, con arresti, processi e incarcerazioni, ma i soggetti interessati saranno sicuramente molti di meno. Francia. Scoppia la rivolta nella prigione di Vivionne di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2016 Lunedì scorso la protesta ha coinvolto una sessantina di reclusi. Tragedia sfiorata nel carcere francese di Vivionne. Lunedì sera, dopo le 22, alcuni detenuti hanno sottratto le chiavi alle guardie carcerarie e hanno aperto tutte le celle della loro sezione. A quel punto una sessantina di detenuti hanno occupato una parte della prigione appiccando un incendio. Per fortuna la rivolta si è conclusa senza vittime. Non è la prima volta che i detenuti ristretti nelle galere francesi intraprendono azioni di rivolta per comunicare al mondo esterno il loro disagio a causa delle pessime condizioni del sistema penitenziario. Lo denunciava già nel 2007 il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, che in un rapporto definiva "disumano e degradante" il trattamento riservato ai detenuti nei penitenziari francesi. Ma non solo. Un ‘inchiesta del giornale on line RU89 aveva denunciato la pratica delle perquisizioni corporali dei detenuti, vietate in Francia dal 2009 perché ritenute "degradanti, umilianti e lesive della dignità umana". Dal 2011, l’Osservatorio Internazionale delle Prigioni in Francia ha lanciato una campagna per sostenere i ricorsi individuali contro le prigioni francesi e, nella maggior parte dei casi, ha vinto in tribunale. Negli anni scorsi il Garante nazionale dei detenuti in Francia ha diffuso un rapporto che mette in luce come le perquisizioni sui detenuti nudi, anche se illegali, continuino ancora. I detenuti sono costretti a questa pratica ogni volta che vengono a contatto con il mondo esterno. Per questo sono state condannate le direzioni delle carceri di Rennes, Oermingen e - nemmeno a farlo apposta ?-quella di Vivionne. Situazioni degradanti che hanno coinvolto anche due nostri connazionali fino a portarli alla morte. L’ex presidente francese nel 2007 aveva caratterizzato la sua campagna elettorale con la tolleranza zero, in continuità con il suo mandato da ministro degli Interni. La presidenza Sarkozy, oltre che a un generico inasprimento delle pene, puntava molto sull’edilizia carceraria. Era già pronto, per quanto mai realizzato, un piano per portare la capienza dei penitenziari francesi a 80mila posti, invece dei 55mila posti attuali. Questo sia per far fronte a leggi sempre più dure, anche per reati minori, sia per il sovraffollamento carcerario che in Francia (come in Italia) è un problema enorme. L’attuale presidente Hollande aveva deciso di cambiare direzione, ma dopo i recenti attentati terroristici tutto è cambiato in peggio. Nella notte tra il 19 e il 20 luglio, cinque giorni dopo la strage di Nizza, il parlamento francese ha prorogato per la quarta volta lo stato di emergenza, che durerà quindi fino alla fine di gennaio del 2017. Dichiarato per la prima volta dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, lo stato di emergenza dà ampi poteri alla polizia in materia di perquisizioni e di obbligo di domicilio coatto, consente al governo di vietare le manifestazioni e inasprisce le pene per i reati legati al terrorismo. Rispetto alle condizioni già in vigore prima dell’attentato di Nizza, sono state accolte diverse misure proposte dall’opposizione di destra, come le perquisizioni dei bagagli e dei veicoli durante i controlli d’identità anche senza la richiesta di un magistrato. Si ventilò perfino una proposta di legge ? per fortuna bocciata dal Consiglio di Stato ? di far rinchiudere i sospettati di Jihadismo in centri di detenzione amministrativa, ovvero senza passare dalla magistratura ordinaria. Il pericolo di una sorta di Guantánamo è stato scongiurato, ma tanti altri sono i problemi che gravitano all’interno dei penitenziari d’oltralpe. Domani pubblichiamo l’approfondimento. Egitto. A processo 26 operai dei cantieri navali, a giudicarli la corte marziale di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016 Questa è una storia di lotta operaia. La storia di 26 lavoratori egiziani che rivendicano diritti. Che, per farlo, organizzano un sit-in sul posto di lavoro, ai cantieri navali di Alessandria. E che, per averlo fatto, sono in carcere da quattro mesi. Una prigionia che, di proroga in proroga della detenzione preventiva, arriva fino all’udienza fissata per il 18 settembre. Ai cantieri navali di Alessandria il 22 e il 23 maggio centinaia di operai svolgono due sit-in pacifici. Chiedono l’adeguamento del salario a quello minimo nazionale, l’assicurazione sanitaria, la ripresa della produzione su alcune linee dei cantieri, le dimissioni dell’amministratore delegato della compagnia e il versamento dei dividendi arretrati sui profitti. Il 24 maggio quasi 2500 operai dei cantieri vengono bloccati fuori dai cancelli. I militari non li fanno entrare. Da allora la produzione rimane ferma per mesi. Intanto, nei confronti di 26 tra organizzatori dei sit-in e semplici partecipanti viene aperta un’inchiesta per violazione dell’articolo 124 del codice penale, che prevede da tre mesi a un anno di carcere per i lavoratori del settore pubblico che volontariamente si astengano dal lavoro. Invano, finora, gli operai hanno sottolineato che, a differenza di uno sciopero, il loro sit-in non ha bloccato la produzione contrariamente a quanto accaduto il 24 maggio, e non certo per loro responsabilità. Come in molti altri casi raccontati in questo blog, da Shakwan ad Ahmed Abdallah, quest’ultimo finalmente rilasciato recentemente su cauzione, inizia l’attesa del processo. Dopo una lunga serie di rinvii a partire dal 18 giugno, il processo è ora previsto domenica. Naturalmente, di fronte a una corte marziale. Come in altri 18.000 casi dopo la caduta di Mubarak. I civili non dovrebbero mai essere processati dai tribunali militari: è un principio elementare. In Egitto invece è la norma e i promotori della campagna "Stop ai processi dei civili in corte marziale" vengono a loro volta perseguitati. A coloro che protestano ha risposto la Federazione dei sindacati egiziani, controllata dal governo, ricordando la parte finale dell’articolo 204 della Costituzione del 2014: "Imputati civili non dovranno essere processati dai tribunali militari salvo che per reati che riguardano un attacco diretto alle istituzioni militari, alle forze armate, alle loro basi e a ogni organismo posto sotto la loro giurisdizione, comprese le industrie militari". Dal 2007, la Società dei cantieri navali di Alessandria è di proprietà del ministero della Difesa egiziano. Industria militare, dunque. Tutto torna. Egitto. L’app "I Protect" segnala con un’allerta la posizione di chi viene arrestato di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 14 settembre 2016 Sparizioni forzate, una telefonata ti salva la vita. Un vecchio spot televisivo raccontava che "una telefonata allunga la vita", sono passati gli anni ma sembra proprio che il concetto rimanga immutato: ad allungare, se non salvare la vita, potrebbero essere oggi dei messaggi dal proprio smartphone e una mail. Una possibilità che, in Egitto, viene data da un’applicazione chiamata I Protect. La tecnologia può a volte non essere solo un Grande Fratello ma il suo contrario: una garanzia per il rispetto dei diritti umani. Lo spiega bene la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf) che ha rilasciato questo strumento per chi ne fosse interessato. Funziona, per il momento, su telefono con sistema Android e consente di inviare fino a tre allerte e una mail all’Ecrf circa la propria posizione. Una necessità dovuta al fatto che attualmente in Egitto le libertà civili e i diritti umani sono sotto attacco costante da parte degli apparati di sicurezza del regime di Abdel Fattah Al-Sisi. Un recente rapporto di Amnesty International ha infatti messo in luce come, solo nei primi otto mesi del 2015, siano 1250 le persone vittime di sparizioni forzate. Secondo il lavoro dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani, le persone vengono prelevate anche nelle proprie abitazioni e davanti alle loro famiglie, poi scompaiono in strutture non ben identificate per moltissimi giorni, senza nessuna possibilità di assistenza legale. In nome della lotta al terrorismo si tortura, si rapiscono e sono fatti scomparire principalmente attivisti, giornalisti e studenti. Una tragica tendenza che non risparmia nessuno, mostrata sempre da Amnesty International, confermata dall’accertata sparizione di ragazzi di 14 anni. Sono svaniti nel nulla, e le testimonianze circa alcuni casi di detenzione hanno chiaramente rivelato l’uso sistematico della tortura. "I Protect - secondo le parole del direttore esecutivo di Ecrf Mohammed Lotfy, riportate dal quotidiano inglese The Guardian - potrebbe far monitorare l’operato delle forze di sicurezza e costringerle a seguire i protocolli e ridurre così i rischi di scomparsa forzata". In realtà il vero obiettivo è quello di poter intervenire nelle prime 24 ore dall’avviso dell’ "arresto" poiché, come ha dichiarato Lotfy, è solo in questo lasso di tempo che si è "in grado di intercedere per la vittima". Dopo diventa illegale qualsiasi tentativo di intervento. Soprattutto attraverso l’applicazione si vuole impedire che l’arrestato venga messo in isolamento e portato in strutture più grandi dove poi si diventa invisibili. I Protect in realtà discende direttamente dalle applicazioni volte alla sicurezza per le donne che potrebbero essere in pericolo di violenza sessuale, un settore ad esempio in forte espansione in paesi come l’India. Il Guardian ha anche riportato un pensiero che sembra comune al Cairo e cioè che centinaia di persone sarebbero trattenute all’interno del Ministero degli Interni, negli uffici nazionali delle forze di sicurezza a Lazoghly Square. Naturalmente le autorità, per bocca del ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar, già appartenente al disciolto ISS, apparato segreto di polizia ai tempi di Hosni Moubarak, negano qualsiasi notizia. Durante un’intervista, rilasciata a marzo all’agenzia Mena, Ghaffar ha parlato esplicitamente di zero casi di sparizioni forzate. Chiunque avanzi delle critiche sull’operato degli apparati di sicurezza (Nsa) viene bollato come vicino ai Fratelli Musulmani. Si comprende allora, a fronte di tanta "trasparenza", perché lo sviluppatore abbia deciso di non rivelare la propria identità e di mascherare l’installazione di I Protect sugli smartphone. Infatti, come ha spiegato: "dopo aver inserito tutti i dati l’applicazione si trasforma in una calcolatrice ed è solo l’utente che la può convertire con una parola chiave". La pervasività dello Stato egiziano nelle linee internet ha fatto in modo che siano cresciute molto le applicazioni di criptazione dei messaggi, il vantaggio di I Protect sembra essere quello che, senza accorgimenti alla James Bond, i dati vengono condivisi esclusivamente tra l’arrestato e l’Ecrf. Si tratterebbe in questo caso di un vantaggio non indifferente, infatti già nel 2013 era stato lanciato un programma che permetteva di avvisare i contatti dell’utente se esso veniva arrestato durante qualche tipo di protesta, il problema era che una volta venutane a conoscenza la polizia perseguiva chi veniva trovato con questa applicazione sul telefono. Stati Uniti. Stop al business delle prigioni private di Sergio Segio Il Manifesto, 14 settembre 2016 È consueto che in Italia il carcere non faccia notizia, a meno non si tratti di violenze o fughe, utilizzabili per alimentare domande securitarie. Infatti, quasi nessuno si è accorto, nonostante la presenza del ministro Andrea Orlando, che a Venezia il 7 settembre è stato presentato il bel docufilm "Spes contra spem. Liberi dentro", con la regia di Ambrogio Crespi, voluto e prodotto da "Nessuno tocchi Caino", da tempo impegnata per l’abolizione della pena di morte nel mondo e, in Italia, nella ancor più ardua battaglia contro l’ergastolo "ostativo", quello che rende la pena effettivamente perpetua, a meno non si "collabori con la giustizia", ovvero si mandi qualcun altro in galera al proprio posto. Il docufilm mostra e dimostra come, nonostante e contro l’ergastolo, un gruppo di condannati nel carcere milanese di Opera, da decenni dietro le sbarre, spesso nell’isolamento del famigerato articolo 41bis, continui a coltivare speranza e recupero di umanità. Quello che appariva meno scontato è che ai media nostrani, pronti a enfatizzare quelle che assai raramente avvengono in Italia, sfuggano anche le rivolte carcerarie, quando si verificano in altri Paesi. Come quella che il 7 settembre in Florida, all’Holmes Correctional, ha visto la ribellione di 400 reclusi. Una premessa alla ben più imponente e produttiva protesta invece pacifica indetta, significativamente nell’anniversario della rivolta di Attica del 1971, il 9 settembre, nelle prigioni di 24 Stati: il più grande sciopero dei prigionieri nella storia degli Stati Uniti. Tanti i motivi alla base, nel paese che detiene il record dell’incarcerazione di massa, con quasi due milioni e mezzo di reclusi, un quarto della popolazione detenuta di tutto il mondo. Uno è quello preminente: la protesta contro condizioni di semi-schiavitù, con forme intense di sfruttamento che vedono i carcerati costretti a lavorare per pochi centesimi l’ora o addirittura gratis. Un sogno di tanti imprenditori, questo, che qualcuno ha provato a realizzare anche in Italia. Negli Usa, del lavoro recluso senza diritti si avvantaggiano multinazionali come Wal-Mart, McDonald, Victoriàs Secret, Nordstrom, AT&T Wireless, realizzando profitti incalcolabili, considerando che i detenuti lavoratori statunitensi sono ben 900 mila. Si tratta di uno dei capitoli più cospicui del business penitenziario. L’altro, connesso a questo, è quello delle carceri private (che pure, ricorrentemente e non a caso, trova alfieri e proponenti anche nel nostro Paese). Adesso, la buona notizia è che il 18 agosto il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato l’intenzione di chiudere e revocare i contratti a tutte le prigioni private, che gestiscono una fetta non indifferente del sistema, circa 130 mila detenuti. La decisione fa seguito a un’approfondita indagine dalla quale è risultato che, oltre a essere costose (e, come è facile capire, autoriproducenti), le carceri privatizzate conseguono risultati inferiori a quelle pubbliche. Nella politica penitenziaria Usa, insomma, sinora non si è trattato di delitto e castigo, né tantomeno di riabilitazione: si è trattato di una questione di soldi. Ora, forse, le intenzioni dichiarate di Obama e del Dipartimento della Giustizia e, dall’altra parte, il movimento dei detenuti, con la grande capacità di mobilitazione che dimostra, incepperanno il lucroso meccanismo, concausa, assieme alla "war on drugs", dell’enorme espansione delle carcerazioni negli Stati Uniti negli scorsi decenni. Chissà che queste ventate positive non portino consiglio ed emulazione anche in Italia, dopo il lungo e grande - ma ancora privo di effetti concreti - lavoro degli "Stati generali dell’esecuzione penale" e, anche, il troppo lungo silenzio dei detenuti.