Treviso dopo Airola: aumenta il disagio dei giovani in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2016 Venerdì scorso tre ragazzi hanno protestato, compiendo atti di autolesionismo. Ancora disagi all’interno degli istituti penitenziari minorili. Dopo quello di Airola venerdì mattina è stata la volta di Treviso dove tre giovani - un mestrino, un palermitano e un tunisino - hanno messo in scena una protesta che ha creato scompiglio all’interno della struttura. Gli agenti penitenziari sono intervenuti cercando di calmarli, ma i tre hanno cominciato a commettere atti di autolesionismo fino a ingerire delle lamette da barba: è stato necessario ricoverarli all’ospedale di Treviso, dove hanno però continuato ad urlare e a disturbare nonostante fossero all’interno di una stanza adibita all’accoglienza proprio di detenuti. "Nonostante i richiami - conferma il direttore generale dell’Usl Francesco Benazzi - hanno effettivamente continuato a urlare e a creare confusione". Il rappresentante nazionale del Sappe, Capece, sottolinea come arrivino "segnali preoccupanti dall’universitario penitenziario minorile. Abbiamo registrato con preoccupante frequenza e cadenza, il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minorenni". Ancora non si conoscono i motivi della protesta, ma sicuramente - siamo alla quarta rissa all’interno delle carceri minorili nel giro di pochi mesi - c’è il rischio di una escalation del disagio tra i giovani detenuti e la polizia penitenziaria. Il quadro attuale - secondo gli ultimi dati aggiornati al 31 agosto di quest’anno - è che abbiamo un totale di 501 detenuti ristretti agli istituti minorili. Sempre secondo gli ultimi dati aggiornati dal dipartimento di giustizia minorile, risulta che su 501 detenuti, ben 291 sono coloro che hanno l’età tra i 21 e 25 anni di età. Da quando negli istituti penitenziari minorili possono soggiornare giovani adulti fino ai 25 anni di età, oggi un po’ dappertutto i maggiorenni sono la maggioranza. A Torino sono ad esempio 20 su 37, a Treviso 8 su 14, a Bari 10 su 20. In alcuni istituti essi vengono separati in modo rigido dai minorenni, in altri si cerca una sapiente mescolanza. Ma la difficoltà trattamentale non è dovuta solo dalla presenza dei giovani adulti: a causa della riduzione dei finanziamenti pubblici e privati, c’è difficoltà di portare avanti corsi scolastici e azioni educative personalizzate. Ad esempio l’istituto penitenziario di Treviso dove sono avvenuti gli ultimi fatti di violenza, risulta avere delle criticità. La struttura fu realizzata intorno agli anni Quaranta: un tempo era la sezione dei detenuti politici per reati di terrorismo. Dal 1981 è istituto per i minori, l’unico in Italia ad essere ancora inserito in una struttura penitenziaria per adulti. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, la collocazione e la struttura dell’edificio, piuttosto vetusto, non permettono di rispettare alcuni criteri fissati per gli istituti per i minori: ad esempio le recinzioni esterne, che qui sono le stesse del carcere, quindi doppie, con alte reti metalliche e garitte. Anche gli spazi all’interno sono ridotti e non accoglienti: l’infermeria è minuscola, gli uffici degli operatori pure; la sala comune, con tre biliardini e un bagno, è ricavata in un casotto nel cortile interno, dove c’è un tavolo da ping-pong in cemento; persino gli uffici del direttore e quelli amministrativi sono alloggiati in una casetta nel cortile di entrata, a ridosso della casa circondariale. Le celle dei ragazzi detenuti sono antiquate, con la turca separata, c’è il lavandino con l’acqua calda ma le docce sono comuni. In complesso il tutto è piuttosto fatiscente, anche se negli anni sono state tentate delle migliorie. Inoltre - sempre a causa della struttura inadeguata - non c’è la possibilità di separare gli adulti dai minorenni. Il numero degli agenti penitenziari risulta sotto organico e non usufruiscono dell’interpello annuale per i trasferimenti: il personale resta quindi da anni sempre nello stesso istituto e c’è il rischio che vadano in burnout. Poi c’è il tasto dolente, ovvero la riduzione dei finanziamenti pubblici. Il risultato è che sono diminuite le ore dei corsi di formazione e solo il 15 per cento dei ragazzi che partecipano a progetti lavorativi, gode di una borsa lavoro (200 euro al mese); gli altri non percepiscono nessun compenso o rimborso. Se negli ultimi mesi avvengono risse all’interno degli istituti penitenziari minorili, forse qualche disagio reale c’è e andrebbe risolto prima che si verifichino altri episodi ben più gravi. Lo svuota-carceri che il governo non applica, solo 22 detenuti stranieri rimpatriati di Lodovica Bulian Il Giornale, 13 settembre 2016 Sono 18mila gli immigrati in cella, in 2mila potevano andarsene. Non solo l’immigrazione incontrollata. Anche le maglie della rete criminale che riconsegnano alle nostre carceri sempre più detenuti stranieri. E poi, la piaga latente del sovraffollamento e lo spettro della radicalizzazione dietro le sbarre. Un mix esplosivo che rischia di acuirsi, mentre gli strumenti legislativi per disinnescarlo rimangono paradossalmente sottoutilizzati. Almeno quelli che consentono il rimpatrio degli stranieri condannati, che sarebbero in grado di decongestionare gli istituti penitenziari e di limitare l’emarginazione in cella, germe dell’estremismo religioso. Nonostante in Italia il trasferimento dei detenuti nei loro Paesi d’origine sia possibile dal 1988 in base alla convenzione di Strasburgo del 1983, e sia stato reso più agevole da una Decisione quadro del 2008 che disciplina le riammissioni nell’ambito dei confini Ue, il meccanismo resta di fatto inapplicato. Impantanato nella burocrazia di accordi bilaterali, negoziati avviati o da avviare, trattati da ratificare con i Paesi di provenienza dei condannati. Il risultato è che su una popolazione carceraria che conta 18.166 stranieri, pari 33,5% del totale, nel 2014 (ultimo dato disponibile del Dap) sono stati rimpatriati appena 22 detenuti secondo la convenzione di Strasburgo e solo 74 in applicazione della Decisione Quadro. In tutto, dunque nel 2014 sono stati 96 i detenuti rimpatriati su una platea potenziale di diecimila condannati stranieri in via definitiva. Senza scomodare la convenzione di Strasburgo, ma solo applicando la ben più agile normativa europea, il comitato di esperti degli Stati generali dell’esecuzione penale riunitosi a febbraio ha quantificato in almeno duemila i rimpatri mancati. Celle che potevano essere liberate e soldi che potevano essere risparmiati. Al 31 luglio 2015 infatti risultavano detenuti nei penitenziari 3.782 cittadini comunitari. Se si considera che il 58,8% degli stranieri è condannato in via definitiva, la riammissione avrebbe permesso agli istituti di alleggerirsi, appunto, di 2mila persone. E al ministero della Giustizia di non sborsare 300mila euro al giorno (Antigone stima una spesa di 150 euro a detenuto), quasi 110 milioni di euro l’anno. Se poi vi si aggiungono i condannati extra comunitari - i marocchini sono il 17% del totale degli stranieri - compatibili con il trasferimento, la spesa pubblica scenderebbe di mezzo miliardo. Se i numeri sono ancora esigui, il ministro Andrea Orlando ha rivendicato lo sblocco di un sistema congelato da tempo: "Abbiamo avviato i negoziati con Tunisia, Senegal, Cina, Gambia, Argentina, Colombia, Filippine, Uruguay e Nigeria. Ratificato il trattato con l’Egitto e il Kazakistan. Firmato un trattato con il Marocco, Emirati Arabi, Kenya, oltre a convocare nell’immediatezza del mio insediamento una riunione di tutti i procuratori generali che hanno competenza, per avviare il percorso di rimpatrio". In attesa che sia effettivamente eseguito. Processo penale, rinvio con "fiducia" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2016 Il governo non vuole che il voto definitivo arrivi a ridosso del referendum. Penalisti proclamano sciopero contro "emendamento Gratteri". Slitta l’esame in Aula, al Senato, della riforma del processo penale (che contiene anche le norme su prescrizione e intercettazioni) per lasciare il passo alla legge sull’editoria; ma il tempo perduto potrebbe essere recuperato con la richiesta del voto di fiducia da parte del Governo, a fronte degli oltre 400 emendamenti presentati in Aula. Il Governo vuole evitare che l’approvazione definitiva del provvedimento (destinato a ritornare alla Camera dopo il passaggio al Senato) avvenga troppo a ridosso del voto referendario. La riforma del processo penale, benché in calendario, non figura nell’odierno ordine del giorno dell’Assemblea di Palazzo Madama, in cui risulta soltanto la legge sull’editoria, ritenuta prioritaria. Subito dopo (a fine settimana o più probabilmente la prossima) dovrebbe cominciare l’esame dell’atteso provvedimento e per recuperare terreno il governo sta valutando di chiedere il voto di fiducia, dettato non tanto dal rischio di maggioranze trasversali su emendamenti "scomodi" - come quello presentato dal Dem Felice Casson nella veste di senatore, e non di relatore del Ddl, che interrompe la prescrizione con la sentenza di condanna di primo grado, gradito ai 5Stelle ma contestato da Ap (e da una parte del Pd) - quanto, invece, dall’esigenza di non allungare troppo i tempi a causa dei 400 emendamenti presentati, che potrebbero far slittare il voto finale del Senato ad ottobre e il sì definitivo della Camera a novembre, proprio a ridosso del referendum costituzionale. Inoltre, a Montecitorio incombe anche la legge di Bilancio. Dei 400 emendamenti, i sei dei relatori Casson-Cucca (Pd) propongono, fra l’altro, aumenti di pena per il reato di estorsione (il minimo sale da 6 a 7 anni); il recupero del periodo di sospensione della prescrizione (18 mesi sia in appello che in Cassazione) se la sentenza successiva alla condanna è di proscioglimento (oggi è scritto di "assoluzione"); la garanzia di mantenere segreta l’identità dei traduttori (da lingue straniere o dal dialetto stretto) necessari per la trascrizione di intercettazioni nei procedimenti per mafia e terrorismo. A titolo personale, Casson propone di bloccare la prescrizione dopo la condanna di primo grado e per alcuni reati (delitti ambientali di inquinamento, doloso o colposo, da cui derivino la morte o lesioni personali, nonché delitti in materia di lavoro) far decorrere i termini dall’acquisizione della notizia di reato. Intanto gli avvocati penalisti hanno deliberato due giorni di sciopero se il Senato non stralcerà l’emendamento "Gratteri" contenuto nell’articolo 33 del Ddl, che estende in modo "indiscriminato, ingiustificato e inaccettabile la partecipazione a distanza dell’imputato al processo". Casson mina l’intesa: "Modifiche alla prescrizione per i reati ambientali" di Errico Novi Il Dubbio, 13 settembre 2016 L’ex sostituto procuratore di Venezia rimette sul tavolo la proposta di interrompere il decorso della prescrizione alla condanna di primo grado. E si apre la strada con un grimaldello: tempi del processo completamente diversi per i reati ambientali. Dalle parti del governo non ci pensavano proprio a una fiducia sulla riforma del processo penale. Non fosse altro perché i lavori in commissione Giustizia già erano stati estenuanti e sembrava potesse bastare. Oltre un anno di stop per le difficoltà a trovare un’intesa tra Pd e Ncd sulla prescrizione, poi a luglio l’insperata fumata bianca con il testo finalmente pronto per il rush finale in Aula. Ma a ventiquattr’ore dall’esame del Senato sull’ampio ddl piomba un’incognita enorme. A crearla saranno le modifiche rilanciate proprio da uno dei due relatori, Felice Casson, ex pm e, come ama definirsi, "tecnico del diritto a disposizione del Parlamento". L’ex sostituto procuratore di Venezia rimette sul tavolo la proposta di interrompere il decorso della prescrizione alla condanna di primo grado. Una logica che contraddice frontalmente quella dell’intesa trovata da Orlando, Zanda e D’Ascola in commissione, dove è stato dimezzato l’extended time previsto alla Camera per l’Appello. Non solo: Casson si arma di tutto punto col corredo di un’altra proposta destinata a essere un vero e proprio grimaldello perché assai più "potabile". Si tratta di un emendamento che prevede un’eccezione per tutti i reati collegati al disastro ambientale, compreso quello di "Morte come conseguenza di inquinamento". "Sono delitti legati a comportamenti subdoli", spiega Casson, "penso all’Eternit di Casale Monferrato come al petrolchimico di Porto Marghera, di cui mi sono occupato personalmente: gli amministratori sapevano che i criteri di produzione provocavano l’esposizione degli operai ad agenti cancerogeni, ma tenevano nascosta la questione". Ed è per questo che "analogamente a quanto successo in Piemonte, negli anni Settanta in Laguna diversi lavoratori morirono di angiosarcoma quando i reati erano già prescritti". Ecco perché "proponiamo che per questa limitata tipologia di delitti la prescrizione decorra non dal momento in cui il reato viene commesso ma da quando il pm ne ha notizia". E qui è difficile liquidare l’ipotesi con lo stigma dell’irragionevolezza. Tanto è vero che l’idea è piaciuta non solo ad alcuni senatori della sinistra dem come Lucrezia Ricchiuti, ma addirittura al capogruppo pd in commissione Giustizia Beppe Lumia, che ha sottoscritto l’emendamento. Ora, sui reati ambientali Casson sfonda una porta aperta anche con Renzi e Orlando, e rischia di raccogliere una marea di consensi in Aula. Ma proprio questo potrebbe attrarre l’attenzione anche sull’altra sua proposta che stoppa il cronometro della prescrizione dopo la condanna in primo grado per tutti i reati. Se facesse breccia anche quest’ultima, salterebbe tutto lo schema definito con Ncd. È chiaro che i centristi minaccerebbero il dissenso sull’intero provvedimento, e i cinquestelle si infilerebbero di corsa in queste contraddizioni. Ecco perché nonostante tutto, davvero il governo potrebbe essere costretto a porre la fiducia. "Io non credo, il tema della prescrizione è un particolare in mezzo a un ddl che riforma il processo in generale", dice Casson. Ma il suo pare un ottimismo da tecnico, più che da parlamentare. La giustizia che il mondo ci invidia, dall’evasione fiscale alla lotta al terrorismo di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 13 settembre 2016 Se l’apparato giudiziario ha lacune storiche, vantiamo squadre specializzate studiate all’estero anche per l’ integrazione dei metodi scientifici. Come quella che ha inchiodato Apple, il pool della sicurezza sul lavoro e gli esperti di delitti che analizzano il Dna. Fra i palmeti di Cupertino, nel cuore della californiana Silicon Valley, conoscono poco Garibaldi e pure Cristoforo Colombo. Ma lui sì, lui sanno chi è: approccio silenzioso, passione economica, sguardo azzurro e felino. E quel nome antico: Francesco Greco, un po’ quiete e un po’ tempesta, ascolto e castigo. Per i colossi del web il neo procuratore di Milano è judge tax, l’inquirente delle tasse, capo di una squadra di alti professionisti dell’evasione fiscale con i quali bisogna necessariamente fare i conti. Al punto che nel dicembre scorso la Apple ha piegato la testa in segno di resa versando all’Erario 318 milioni di euro per porre fine a una contesa che molto probabilmente l’avrebbe vista soccombere. In ballo c’erano 880 milioni non dichiarati all’Italia e dirottati nel profittevole paradiso d’Irlanda. Con il robusto assegno risarcitorio, Cupertino (che ha ora anche la grana dei 13 miliardi contestati dall’Europa) spera che Greco e i suoi uomini tolgano gli occhi di dosso ai tre dirigenti indagati per evasione fiscale. "Io sono laico e contrattualista", ricorda il procuratore per dire che non vuole il sangue dell’indagato. Solo le tasse. Oltre ad Apple, nel mirino ci sono anche Google e Amazon. Il gigante di Mountain View si avvia a trattare con il Fisco una cifra intorno ai 230 milioni di euro evasi, quello dell’e-commerce attende invece la tempesta col fiato sospeso, sempre per le stesse ragioni: imponenti redditi maturati nella Penisola e dichiarati altrove. Tre indagini, tre bacchettate mondiali e un pool che l’estero guarda con molta ammirazione e qualche timore. Se n’è accorto anche il "Times" che ha voluto celebrare l’operazione Google in prima pagina: "Londra impari dall’Italia". Fra le nebbie dei tribunali si fa dunque largo qualche luce anche se la nomea è ben radicata: giustizia lenta, kafkiana, inconcludente e via dicendo. D’altra parte il corpaccione è afflitto da malattie di vecchia data: 4,2 milioni di fascicoli arretrati nel settore civile, decine di condanne della Corte di Strasburgo per irragionevole durata dei processi, risorse limitatissime. C’è, insomma, un pesante fardello con il quale magistrati, investigatori e politici si confrontano quotidianamente. Ma ciò non toglie che l’Italia della legge vanti alcune eccellenze. E la prima è la Costituzione: "Se la raffrontiamo con gli esempi migliori del costituzionalismo mondiale possiamo constatare facilmente ch’essa non sfigura affatto", la celebra un giurista del calibro di Gustavo Zagrebelski, presidente emerito della Corte costituzionale. Alcune norme, figlie legittime della nostra Carta, hanno dato buoni frutti. Per esempio, quelle sulla sicurezza nei luoghi di lavoro intorno alle quali il Pm Raffaele Guariniello ha creato a Torino il suo habitat investigativo. Alcuni processi da lui fermamente voluti e ottenuti hanno fatto scuola oltreconfine. La vicenda "Eternit", nonostante il calice amaro della prescrizione, è in corso di imitazione in vari Paesi per il tipo di accusa: disastro ambientale doloso e omissione volontaria di cautele antinfortunistiche. ThyssenKrupp rappresenta invece un esempio di velocità d’indagine su una materia nuova, scivolosa e complessa: 2 mesi e 19 giorni per trovare le prove contro i dirigenti dell’acciaieria, considerati responsabili del rogo che provocò la morte di 7 operai nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007. Indagine che ha portato alla storica sentenza per omicidio colposo degli imputati e alla pena più dura mai emessa per morti legate al lavoro: 9 anni e 8 mesi all’ad Herald Espenhahan. "Mi hanno chiamato da Parigi e da Bruxelles e in ottobre andrò in Brasile per una conferenza su queste vicende", racconta con orgoglio Guariniello. Terrorismo, doping e alcol Milano e Torino, quindi, ma in altri ambiti anche Roma, Palermo, Bolzano, Firenze, Udine. "Pool che funzionano grazie soprattutto a un impegno di carattere personale, a una grossa capacità di lavoro e motivazioni di chi persegue certi delitti. Il problema è che non si può parlare di sistema", aggiusta il tiro Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia del governo Prodi ed ex presidente della Corte costituzionale, che non resiste alla tentazione della strigliata: "Restiamo tuttavia deficitari per organizzazione del lavoro e per geografia giudiziaria che definirei ottocentesca". Il tallone d’Achille della giustizia civile ha in sé "l’alto tasso di litigiosità dei cittadini e l’eccessivo numero di avvocati", rincara la dose il giurista Valerio Onida, anche lui ex presidente della Consulta. Troppe denunce, troppe pretese, troppi fascicoli. Qualcosa di bello? "Direi l’indipendenza della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato e l’obbligatorietà dell’azione penale". Ci invidiano questo, dice. E qualche reparto d’élite che sviluppa indagini grazie a competenze eccezionali. É il caso della lotta al terrorismo internazionale che vede impegnati sul campo il Gico della Guardia di Finanza, i Ros dei carabinieri e le Digos della polizia, oltre alle procure. Grazie all’esperienza maturata negli anni di piombo, il nostro Paese vanta un serbatoio di esperienza dal quale hanno attinto e attingono con interesse dall’estero e in particolare gli americani, soprattutto dopo la strage delle Torri Gemelle. "L’Fbi è venuta più volte da noi", ricordano a Milano. Esistono poi specificità che abbracciano settori fino a qualche anno fa ignorati dal codice penale. Come la legge sulla guida in stato di ebbrezza del 2010 che ha via via ridotto il numero degli ubriachi al volante e quella sul doping introdotta nel 2000 e culminata nel 2012 con un’inchiesta che ha avuto importanti sviluppi oltreconfine. Si tratta dell’indagine di Bolzano sul caso Schwazer, capace di destare l’interesse delle polizie tedesca, francese e inglese. L’Italia delle indagini scientifiche lavora sempre più spesso con i mostri sacri dell’investigazione mondiale e non ha nulla da invidiare ai laboratori londinesi di Scotland Yard e a quelli del Bundeskriminalamt di Wiesbaden, la polizia criminale tedesca. Anche perché oramai tutti i nuclei speciali si ritrovano sotto l’ombrello comune dell’Enfsi, l’European network of forensic science institutes, l’organismo tecnico di riferimento delle polizie europee che definisce gli standard tecnici utilizzati. E così succede che talvolta siano proprio i nostri carabinieri e poliziotti in camice bianco a brillare. Un esempio? L’inchiesta sul duplice omicidio di Lignano Sabbiadoro (19 agosto 2012, Paolo e Rosetta Burgato, 69 e 65 anni, massacrati nella loro villa) che viene spesso citato ai congressi come esempio di investigazione integrata. Il pm Claudia Danelon con i carabinieri del comando provinciale e i loro colleghi del Ris di Parma comandati da Giampietro Lago e della Crimini Violenti hanno trattato il delitto come un paziente in codice rosso, tutto e subito: analisi molecolare avanzata, information technology, studio delle celle telefoniche e l’elaborazione di un algoritmo con l’Università di Firenze allo scopo di selezionare l’imponente flusso di contatti. La soluzione è arrivata in meno di un mese: gli assassini erano due fratellastri cubani, che uccisero i Burgato per rapina. "Lignano è uno dei 50 casi su cui abbiamo lavorato dal novembre 2011, anno in cui è stato creato il reparto che conta una quarantina di unità e opera con dispositivi integrati con Ros, Ris e sezioni locali - ragguaglia il comandante della Crimini violenti Paolo Vincenzoni - di questi, quattro sono in corso, 2 non sono stati risolti e il procedimento è stato archiviato, tutti gli altri, 44, sono stati risolti, l’88 per cento". Ma la "scientifica" di più antica tradizione a livello europeo è quella della Direzione centrale della Polizia criminale. Fondata nel 1902 da un allievo di Cesare Lombroso, il padre della criminologia, inventò il sistema di identificazione delle impronte digitali poi impiegato anche dagli altri Paesi. "Da lì è stata un’evoluzione continua, fino alla banca dati del Dna e alla nuova frontiera in fase di studio, il sequenziamento, che porterà a comprendere dal Dna le caratteristiche fenotipiche della persona", cioè l’aspetto dell’assassino, preannuncia Egidio Lumaca, direttore di divisione della Polizia scientifica. Ci sono quindi gialli risolti grazie alla scienza, ci sono gruppi investigativi d’eccellenza, c’è un pugno di magistrati forti e appassionati e c’è quella vecchia Costituzione "che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi", per dirla con Zagrebelski. La lenta, esasperante, kafkiana, inconcludente giustizia italiana è anche questo. E i giganti della Silicon Valley hanno alzato il ditone e si stanno grattando la testa. Il Csm affiancherà i magistrati nelle inchieste sul terremoto di Fabrizio Colarieti Gazzetta del Sud, 13 settembre 2016 Il Csm affiancherà i magistrati di Rieti e Ascoli Piceno in prima linea nelle inchieste sul sisma del 24 agosto. A confermare l’impegno è stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, nel corso di un incontro avvenuto ieri nell’aula Alberto Caperna del Tribunale di Rieti. "L’incontro è stato molto fruttuoso - ha spiegato Legnini a margine della riunione-e il Csm farà quanto nei suoi poteri per assistere gli uffici giudiziari impegnati nelle inchieste sul terremoto. Abbiamo soprattutto ascoltato i capi delle due procure per avere un quadro completo sulle necessità e sulle domande di giustizia. Abbiamo parlato di maggiori risorse e strumenti, della possibilità per le procure impegnate nelle indagini di attingere alle migliori esperienze che abbiamo e, naturalmente, nel caso ce ne sia bisogno, di potenziare gli organici m questa fase di emergenza che vedrà un importante aumento di procedimenti sia penali che civili". All’incontro, oltre i vertici delle due procure, hanno partecipato anche il primo presidente della suprema Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, il procuratore generale presso la corte d’appello di Roma, Giovanni Salvi, quello di Ancona, Vincenzo Macrì, il presidente della settima Commissione del Csm, Francesco Cananzi, e alcuni consiglieri, tra cui i togati Aldo Morgigni, Luca Palamara, Lorenzo Pontecorvo. Maria Rosaria San Giorgio e la laica Paola Balducci. Dalla riunione è emerso che il Csm è pronto a mettere in campo non solo maggiori risorse umane, ma anche un pacchetto di regole e norme secondarie per fare fronte a emergenze come queste. "È nostro compito - ha spiegato Legnini - studiare strumenti di collaborazione a carattere generale per fare fronte alle emergenze, anche insieme al Dipartimento di Protezione civile che ringraziamo per lo straordinario lavoro che sta facendo qui". Le indagini penali, la risposta della giustizia e la vigilanza sulla ricostruzione, "non sono ostacoli", ha detto ancora il vicepresidente del Csm, "bensì risorse per chi sta fronteggiando l’emergenza". La rivolta delle donne di Melito di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 13 settembre 2016 Melito. Un paesino della costa ionica, il più a Sud dell’area grecanica, zona dove ancora c’è chi parla il greco, o meglio il grecanico. Bellezze naturali notevoli, bei palazzi, ma anche strade sterrate, costruzioni non completate, mancanza di marciapiedi. Venerdì, alla manifestazione organizzata da Libera contro lo stupro di gruppo, c’erano tutti i sindaci dell’area grecanica coi loro gonfaloni, insieme a quello della Regione Calabria. Alcune centinaia di persone, ma non molte del Paese, tante le donne. Eppure, è terribile quello che è successo. Non un caso isolato, nel "profondo" Sud. In Italia, secondo l’Istat, le donne che hanno subito violenza sessuale prima dei 16 anni sono 2 milioni 284 mila e di queste quasi 200 mila hanno subito violenze sessuali gravi come lo stupro, circa 650 mila sono state costrette a toccare le parti intime dell’abusante e 2 milioni 154 mila sono state toccate sessualmente contro la loro volontà. Tante, anzi troppe, in gran parte sommerse. Certo, non ci aspetteremmo il pubblico disinteresse anche tra le donne : "Sì, ma la ragazza..." e giù con toni, sguardi, e puntini di sospensione che aggiungono violenza alla violenza. In un Paese come il nostro, dove tanto si discute di burkini e di donne musulmane, dobbiamo combattere con forza contro le nostre arretratezze. Vergogna per il poliziotto che suggerisce al fratello di far finta di niente, vergogna per chi la considera puttana o solidarizza con i maschi bestiali che l’hanno violentata, vergogna per questi uomini bestie che si sentono padroni dei corpi di ragazzine. La ragazza, che porterà nel corpo e nell’anima questa atroce ferita, deve sapere che è stretta da un grande abbraccio di tante donne che in Italia, in Calabria, a Melito stesso solidarizzano con lei. Sì, perché a Melito esistono donne, che già prima che si sapesse della vicenda, si stavano e si stanno tuttora impegnando per eliminare la violenza. Zina Croce è una di quelle, è di Melito, commissaria regionale per le pari opportunità del Consiglio Regionale per 11 anni fino al 2011. Fa parte di Fidapa, l’associazione melitese che a marzo le aveva dato il compito di organizzare una giornata sulla violenza contro le donne, a cui aveva partecipato anche la consigliera di parità regionale, il centro antiviolenza di Cosenza, Carla Monaco della Rai regionale. In quell’occasione il fenomeno della violenza di genere è stato sviscerato in tutti i suoi aspetti e origini, trattando anche le persecuzioni che le donne con professionalità e capacità di autodeterminazione incontrano nel loro percorso lavorativo, anche nella Pubblica amministrazione. Fidapa di Melito si era raccordata con il centro antiviolenza di Cosenza e in particolare con Antonella Veltri per avere aiuto per l’apertura di uno sportello comunale contro la violenza. Ieri Fidapa ha chiesto di nuovo aiuto al centro di Cosenza, formato solo da volontarie, il quale tra l’altro ha intenzione di costituirsi parte civile nel processo. Bisogna sconfiggere la cultura maschilista e anche mafiosa che ritiene gli uomini violenti intoccabili. Le donne che lottano per la libertà femminile ci sono, anche a Melito, ma spesso sono invisibili. Queste donne coraggiose, generose e intelligenti non devono essere lasciate sole. Ha ragione Titti Carrano, Presidente di Dire, Rete Nazionale dei Centri antiviolenza, quando chiede che la ministra Boschi si rechi a Melito. Lo Stato deve esserci, per dare fiducia alla parte bella, civile, appassionata di Melito che oggi combatte. È dalla stretta azione tra donne del territorio, della società civile e dello Stato che si potrà vincere questa dura battaglia. Per questo sono certa che la Ministra Boschi andrà a Melito, o comunque troverà il modo di sostenere la ragazza e le donne militesi. Lo stalking è condominiale di Eugenio Antonio Correale Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 20985/2016. Pace in casa propria: una richiesta legittima ma che in condominio è, a volte, difficile da soddisfare. Le liti anche violente e il disturbo sono frequenti. Ma si possono fermare. E il convegno organizzato dal Quotidiano Condominio il 22 settembre 2016 alle 14.30 presso la sede del Sole 24Ore a Milano si occuperà anche di questo, con riferimento al disturbo. Allargando lo sguardo, si ricordano veri e propri atti persecutori commessi in ambito condominiale da persone che trascendono sino a rendere difficile la vita ai loro vicini di casa. In questi casi si parla di delitto di stalking (articolo 612 bis del Codice penale), punito con la reclusione da reclusione da sei mesi a quattro anni (invece, per le semplici "molestie", la pena è l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a euro 516). La recente sentenza della Cassazione n. 26878/2016, infatti, ha confermato la condanna per stalking a carico del condomino che aveva esasperato un suo vicino di casa, determinando grave stato di ansia e costringendolo a sottoporsi a terapie tranquillanti e ad assentarsi dal luogo di lavoro Emblematico e fortunatamente estremo è il caso esaminato dal Tribunale di Padova con sentenza del febbraio 2015; alcuni condomini avevano lamentato comportamenti particolarmente pesanti: minacce e insulti ai vicini di casa, rumori, bestemmie e altre amenità analoghe. Il Tribunale ha emesso condanna per stalking poiché le condotte dell’imputato avevano ingenerato un profondo stato di ansia nei condomini, costretti a sprangare le porte di casa e a limitare le proprie uscite per non incontrarlo. Già il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto che l’indagato si allontanasse dal condominio e la misura aveva avuto l’effetto di riportare la tranquillità tra i condòmini. Analoga vicenda è stata decisa dal Tribunale di Genova, che ha condannato i responsabili di "piccole, insistenti, destabilizzanti torture quotidiane": spiare dalle finestre, suonare musica a tutto volume nel cuore della notte, bussare alle pareti con un bastone, buttare la spazzatura dal balcone e, per completare, anche minacce. Occorre precisare che molte sentenze hanno ritenuto che il delitto di stalking si realizzi quando il comportamento minaccioso o molesto abbia cagionato grave e perdurante stato di turbamento ovvero abbia ingenerato fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona cara, sino a costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita, e comunque, per la fattispecie anche due sole minacce o molestie (Cassazione, sentenza 20895/2011). Peraltro, (sentenza 35778/2016) sempre la Cassazione ha aggiunto che non è sempre necessario che allo stato di ansia e di paura si associ il mutamento di abitudini. Anche se limitata a due sole condotte, comunque, la fattispecie definibile come "stalking condominiale" è alquanto complessa e di non agevole dimostrazione nella pratica, soprattutto quando le angherie sono rivolte a più persone e appaiono tra loro slegate. Ma proprio questa stessa sentenza (20895/2011) ha precisato che integra il delitto di atti persecutori la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, e non si richiede, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente a una sola persona, quando sia arrecata offesa a diverse persone tra loro accomunate e abitanti nello stesso edificio e si provochi turbamento a tutte le altre e la minaccia fatta a uno può comunque spaventare anche altri. Nel caso ricordato vessazioni e minacce erano rivolte nei confronti di due donne abitanti nel medesimo condominio "sì da esserne per questa ragione occasionale destinataria come la precedente persona minacciata o molestata, il fatto genera all’evidenza il turbamento di entrambe". Emissioni fastidiose, il reato scatta anche se sono "occasionali" di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2016 Corte di cassazione - Sentenza 24817/2016. La Cassazione (Sezione III, sentenza 7605/2012) ha già affrontato l’annoso problema dei rapporti di vicinato con particolare riguardo alle immissioni di odori e vapori molesti. Il caso riguardava l’attività di un panificio che provocava emissioni di vapore e di fumo sino a imbrattare un condominio vicino. La Corte aveva ritenuto di configurare a carico del titolare del panificio la responsabilità penale per la violazione dell’articolo 674 del Codice penale "in quanto l’agente, a prescindere dal superamento o non dei limiti di emissione, è, comunque, tenuto ad adottare tutte le cautele necessarie per evitare fuoriuscite di gas, vapori o di fumo atti ad imbrattare o molestare le persone. Il prevenuto, quale titolare dell’esercizio in questione assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti che gli sono addebitabili, non risultando che abbia fatto nulla per reprimere o limitare le emissioni di fuliggine oleosa prodotta quotidianamente dal suo panificio". Ma non basta: nella sentenza si legge anche che "si osserva che l’evento di molestia non si ha solo nei casi di emissioni inquinanti in violazione dei limiti di legge, in quanto non è sufficiente che le stesse siano vietate da speciali norme giuridiche, ma è sufficiente il superamento del limite della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.". La stessa Cassazione, con la recente sentenza 24817/2016, sullo stesso tema ha affermato un principio analogo, cassando la sentenza di un Giudice per le indagini preliminari che aveva prosciolto l’imputato (che aveva bruciato occasionalmente della plastica): "Il G.I.P. ha prosciolto l’imputato perché non sussisterebbe il reato in quanto la condotta non avrebbe carattere permanente, ma (solo) occasionale (...). Tale conclusione non è per nulla condivisibile e disattende quanto pacificamente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui il reato di getto di cose pericolose, di cui all’art. 674 cod. pen., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente. La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono connesse all’esercizio di attività economiche legate al ciclo produttivo (sentenza 2598/97), mentre con riguardo specifico all’emissione molesta di gas, vapori o di fumo, la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen., è un reato non necessariamente, ma solo eventualmente permanente". Secondo la Corte, quindi, il reato sussiste anche con un solo atto mediante il quale si provoca un’emissione molesta. Ma l’idoneità della condotta a produrre emissioni moleste deve essere dimostrata. Santità, ci aiuti a scuotere le coscienze Il Dubbio, 13 settembre 2016 Alcuni condannati all’ergastolo ostativo, reclusi a Rebibbia, hanno scritto a Papa Francesco. "Vorremmo suicidarci, ma da cristiani sappiamo che se lo facessimo sarebbe un peccato. La vita che Dio ci ha donato non la possiamo disdegnare a tal punto. Il punto però è "che prospettive umane e dignitose della "Vita donata" abbiamo noi ergastoli ostativi? Siamo padri, nonni, figli... abbiamo perso tutto! Ventiquattro anni di carcere consecutivo distruggono ogni figlio dell’Uomo. Siamo arrivati all’amara conclusione che solo la morte potrà salvarci. Dio ci perdonerà. Se abbiamo sbagliato stiamo pagando. La vendetta non è del giusto, ma del malvagio, di chi non ha timore a trattare i suoi simili come bestie, carne da macello. Invece, siamo uomini che hanno peccato e che peccano, ma che hanno bisogno di qualcuno che dia la loro Speranza. Sì Padre! La speranza cristiana: quella virtù che assieme alla Fede e alla Carità è trina rappresentanza del Nostro Dio. Ci aiuti! Faccia sentire la sua Voce su questo tema così importante: quello del "fine pena mai": una pena di morte in bianco. Una pena detentiva che non ha una fine, non ha nemmeno un fine. L’unico fine può essere la violenza dello Stato contro l’individuo. Pochi giorni fa abbiamo sentito la Sua voce levarsi per mettere in pari questioni: "violenza islamica" "violenza cattolica". A queste due violenze andrebbe aggiunta la "violenza di Stato". Questa violenza perpetrata impunemente contro l’individuo persona ha un nome: ergastolo ostativo. È una violenza cieca, poiché minaccia e fa non contro tutti i detenuti nelle carceri italiane, ma solamente contro coloro che stanno scontando il cosiddetto ergastolo ostativo. La Costituzione italiana all’art. 27 recita che "le pene devono tendere alla rieducazione", con ciò il fine "pena mai" assume un carattere incostituzionale oltre che disumano e cristianamente inaccettabile: Dio ha perdonato e quando ha inflitto il castigo questo è stato sempre circostanziato e temporaneo. Lei Santità ha anche abolito la pena dell’ergastolo. Santità, solo un Suo diretto e deciso intervento può scuotere le coscienze della classe politica e della pubblica opinione di questo Paese inducendole a ripensare per l’ergastolo una quantità di pene da scontare, che, superati i venti anni di carcere o anche i venticinque fino a ventisei o in casi particolari anche ventisette, liberi la persona detenuta. Ventisei anni è il limite minimo attuale fissato dalla Corte costituzionale e quindi anche dalla Legge penitenziaria per l’ergastolano - ma non per l’ergastolano ostativo - che dopo almeno ventisei anni di carcere, "Liberazione anticipata" compresa - può accedere alla "Liberazione condizionale". Liberazione condizionale che, se concessa, lo libererebbe dopo cinque anni trascorsi in libertà "condizionale " appunto. Il fatto è questo istituto giuridico del diritto penale è un simulacro vuoto il cui accesso è impossibile nei fatti. Le statistiche relative alla sua applicazione se consultate stanno a dimostrarlo. Consapevoli dei mille impegni che La riguardano, fiduciosi e fedeli aspettiamo. Un abbraccio chilometrico pieno di buone speranze di Pace per i Cristiani di tutto il mondo. Noi abbiamo fatto tesoro di alcuni Suoi insegnamenti". Giuseppe Perrone, Guseppe Gambacorta, Filippo Rigano, Marco De Rosa e Umberto Colella Modena: Ufficio Garante visita Castelfranco, criticità strutturali e piccoli miglioramenti di Jacopo Frenquellucci Ristretti Orizzonti, 13 settembre 2016 Da una parte arrivano segnali positivi come "la normalizzazione della situazione relativa alla perdurante vacanza del magistrato titolare", "il dato numero relativo alle presenze in istituto ampiamente sotto controllo" e "l’assunzione con regolare contratto di lavoro di 9 internati nella cooperativa sociale che si occupa di parte dell’azienda agricola e delle serre". Dall’altra però rimangono criticità come "il nodo irrisolto relativo a un piccolo nucleo di internati stranieri irregolari che non vengono riconosciuti dal Paese di provenienza" e "la sempre più difficile presa in carico da parte dei Servizi territoriali per le tossicodipendenze di appartenenza". L’Ufficio della Garante delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna si è recato giovedì scorso in visita alla Casa di reclusione di Castelfranco Emilia per effettuare una serie di colloqui con la popolazione internata e per confrontarsi con la referente dell’area educativa su alcune singole posizioni. Per quanto riguarda i rapporti con la Magistratura di sorveglianza, "si registra positivamente che dall’1 agosto è tornato in servizio il magistrato che ha la titolarità della funzione", segnala Bruno, che riferisce anche di "un ulteriore dato positivo legato alla gestione da parte di una cooperativa sociale dell’azienda agricola e delle serre che ha portato, in questo periodo, all’assunzione con regolare contratto di lavoro di nove internati". Tra le preoccupazioni della figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, "un piccolo nucleo di internati stranieri irregolari che non vengono riconosciuti dal Paese di provenienza, nei confronti dei quali quindi non si può procedere all’espulsione dallo Stato, anche se richiesta espressamente dall’internato stesso". Inoltre, spiega la Garante, "potrebbero essere oggetto di persecuzione in ragione delle attuali condizioni politiche del Paese". Altra criticità riscontata è la sempre più difficile presa in carico da parte dei Servizi territoriali per le tossicodipendenze di appartenenza che, "a fronte di un progressivo taglio delle risorse a disposizione, sempre più spesso risultano non avere fondi per finanziare programmi di recupero residenziali- chiarisce- nei confronti di soggetti che hanno alle spalle svariate esperienze di progetti fallimentari anche per la mancanza dell’adeguata collaborazione da parte dell’utente". Cuneo: si lavora per una "nuova idea di carcere", ecco le attività dei Garanti dei detenuti di Simone Giraudi targatocn.it, 13 settembre 2016 "Il carcere dovrebbe essere davvero una parte della città: un’immagine che trovo sempre indicativa è quella dei fiori sul balcone del municipio di Cuneo, che vengono dal carcere e sono curati da uno dei richiedenti asilo". È con queste parole che l’assessore del comune di Cuneo Gabriella Aragno ha concluso la conferenza stampa tenutasi alle 11 di ieri mattina (12 settembre) in sala Giolitti nel palazzo della Provincia, incentrato sulla situazione carceraria in provincia Granda e sul ruolo del garante dei diritti dei detenuti nelle quattro strutture presenti. Ad aprire il dibattito è stato il presidente della provincia e sindaco di Cuneo Federico Borgna: "Formare i nostri cittadini sul ruolo delle carceri e del garante è importante. Lo stato deve sostenere le persone che fanno più fatica, "categoria" che sicuramente comprende anche chi è stato privato della libertà". Dello stesso parere il garante della Regione Piemonte, Onorevole Bruno Mellano: "In questi anni si è sviluppata, in ambiente carcerario, la concezione dei meccanismi di controllo esterno, di cui ovviamente il garante è parte importante; lo studio effettuato in provincia di Cuneo può essere importante per definire la situazione a livello nazionale". E davvero la nostra provincia spicca in tutto il paese sotto l’aspetto delle politiche carcerarie: è infatti quella con più istituti penitenziari (quattro, per un totale di 553 detenuti su 960 posti disponibili), e che sia riuscita a nominarne i garanti. Tutti e quattro, Alessandro Prandi (carcere di Alba), Mario Tretola (carcere di Cuneo), Rosanna Degiovanni (carcere di Fossano) e Bruna Chiotti (carcere di Saluzzo), hanno presenziato alla conferenza stampa e regalato alcune riflessioni in merito al proprio ruolo nelle realtà di competenza. "In questi mesi di chiusura del carcere - ha detto Prandi - purtroppo i percorsi culturali intrapresi in passato dai detenuti si sono interrotti, ma sono invece proseguite le attività di organizzazione degli eventi all’esterno. Inoltre, ci siamo informati in merito alla riapertura del carcere stesso: sembra siano stati investiti 2milioni di euro, e che i lavori inizieranno entro l’anno". Mario Tretola, invece, si è soffermato sul ruolo del volontariato all’interno del carcere e di come sia spesso difficile e faticoso l’incontro proficuo tra lo staff e i detenuti: "Faticoso, sì, ma anche importantissimo; è necessario costituire una vera rete forte e sinergica, così che fuori e dentro il carcere sia possibile realizzare sempre più attività." "Il personale delle strutture conta spesso poche persone e bisogna superare la logica del carcere come zona di contenimento per mettere davvero alla prova i detenuti in vista di un nuovo percorso sociale, perché no puntando su formazione e informazione: a Cuneo stiamo infatti pensando di realizzare progetti assieme alla biblioteca civica, e di potenziare il servizio di preparazione del personale. Interessante, sarebbe anche istituire una "Sala della Spiritualità", per garantire una vera liberà di culto all’interno della struttura." "A Fossano - sottolinea Rosanna Degiovanni - tendiamo a supportare i trattamenti rieducativi, essendo la nostra una Casa di reclusione a custodia attenuata. Importante per noi, quindi, sono la formazione professionale e l’inserimento nel mondo del lavoro: è il lavoro, infatti, uno dei principali meccanismi di riduzione della recidiva". Il garante fossanese ha quindi illustrato alcuni dei laboratori già in funzione e sottolineato come non siano ancora sufficienti: "Servono più attività e la struttura presenta ancora locali non utilizzati: l’amministrazione penitenziaria dovrebbe puntare più sulla formazione, anche a fronte del fatto che più del 50% dei detenuti è di origine extracomunitaria". Tra i progetti in partenza nella Casa di reclusione d’Acaja uno in particolare potrebbe rappresentare una nuova realtà importante non solo a livello provinciale, ma nazionale: l’istituzione, in concerto con l’Ordine degli avvocati di Cuneo, di uno "Sportello del detenuto". Prosecuzione ideale dello Sportello del cittadino, servirebbe a fornire ai detenuti un orientamento legale di base, e (nel caso ne avessero bisogno) indicazioni importanti relative all’assistenza legale, tramite l’istituzione di una lista di rappresentanti legali gestiti da una turnazione progressiva: secondo i membri dell’Ordine presente in conferenza stampa, si potrebbe partire già nei prossimi mesi. Per Bruna Chiotti, invece, è spesso difficile "dare prospettive e speranze reali ai detenuti, il che è frustrante: spesso ci sentiamo impotenti, bloccati nel nostro tentativo di reinserire i detenuti nella società". "In un carcere come quello di Saluzzo - ha continuato Chiotti - le risposte possono solo essere interne: si devono creare attività e in particolar modo sensibilizzare le realtà esterne al carcere: ci sono storie umane terribili, e la società civile non può tirarsi indietro." E sulla concezione del carcere come segmento non disgiunto dalla città a cui appartiene, si è puntato molto, identificando anche come "ambasciatori" di questa rivoluzione di pensiero i media in senso lato, nell’ottica che la persona sia una realtà differente dal reato che ha commesso. "I detenuti del carcere di Cuneo (che a fronte di una capienza di 425 unità sono ora come ora poco meno di 200) hanno apprezzato l’introduzione della figura del garante - ha sottolineato Claudio Mazzeo, direttore del carcere del capoluogo - perché rappresenta per loro un punto fermo da cui farsi ascoltare esterno alle istituzioni. Il fatto che non esista una "idea comunitaria" di carcere, e che le varie strutture provinciali siano estremamente diverse, penso sia uno scoglio da superare; se vogliamo un carcere diverso, però, dobbiamo impegnarci tutti, assieme, unendolo al territorio e alle istituzioni. Si sta andando in questa direzione, certo, ma la strada è ancora lunga". Reggio Calabria: al via attività di reinserimento sociale per i carcerati strettoweb.com, 13 settembre 2016 Oggi, martedì 13 settembre alle ore 16:00, presso la Villetta di S. Caterina, di fronte la scuola elementare "Ibico", il Sindaco Giuseppe Falcomatà, insieme al Garante dei diritti dei detenuti Agostino Siviglia, agli Assessori Giuseppe Marino e Antonino Zimbalatti, alla presenza del Presidente del Tribunale di Sorveglianza Vincenzo Pedone e della Direttrice del Carcere di Arghillà Maria Carmela Longo, in occasione dell’inizio dei lavori volontari e gratuiti in favore della collettività da parte dei primi tre detenuti del carcere di Arghillà, consegnerà agli stessi le pettorine da lavoro, dando il via formale a questa importante iniziativa in tema di giustizia riparativa e di reinserimento sociale, avviata con la sottoscrizione del Protocollo d’Intesa del 7 giugno u.s. Durante la cerimonia verrà presentato il dettagliato programma di lavoro che, grazie alla collaborazione con Avr S.p.A., vedrà i detenuti impegnati nella manutenzione delle aree verdi cittadine. Napoli: spari contro la noia, l’ultima follia dei figli di Gomorra di Grazia Longo La Stampa, 13 settembre 2016 Allarme per le "stese" che terrorizzano i rioni. I passanti costretti a buttarsi a terra per non essere colpiti. Gli ultimi due denunciati: "Incutiamo paura, è un passatempo". In sella a moto o scooter, quasi sempre in due: così le nuove leve dei clan sparano all’impazzata terrorizzando gli abitanti. Queste scorribande si chiamano "stese" proprio perché i passanti sono costretti a stendersi a terra per sfuggire ai proiettili. L’ultima svolta dei baby camorristi è quella del puro sadismo per combattere la noia. Sparando all’impazzata, nella cosiddetta "stesa", non per punire o intimorire gli esponenti di un clan rivale, ma per il gusto di leggere il terrore negli occhi di chi rischia di diventare bersaglio. Con un’indifferenza agghiacciante quasi più della violenza stessa, i due giovani, di 18 e 20 anni, denunciati dai carabinieri per la stesa di sabato notte a Marigliano, provincia napoletana terra del clan Filippini-Lucenti, hanno ammesso di aver sparato, per fortuna con una pistola a salve, "perché ci piace vedere la paura in faccia alle persone". La noia come motore principale di due scorribande, a bordo di uno scooter. "Non sapevamo cosa fare, e allora abbiamo pensato di divertirci così, spaventando la gente" è la terrificante giustificazione. Dalla febbre del sabato sera, alla "paranza" del sabato sera. Se un tempo ci divertiva andando in discoteca, ora si preferisce terrorizzare il prossimo e imporre la propria autorità emulando i divi della fiction Gomorra. Entrambi i denunciati sono di San Vitaliano e appartengono famiglia camorriste. Il maggiore, Remo Filippini, è il figlio di un esponente di spicco del clan Filippini-Lucenti, mentre il diciottenne, Luigi Palermo, è il nipote di un altro affiliato dello stesso clan. Remo Filippini era già noto alle forze dell’ordine per reati contro il patrimonio, mentre il diciottenne era in permesso dalla comunità, dove si trova per una rapina commessa da minorenne. Almeno quattro i colpi esplosi, prima tra i clienti di alcuni bar e poi vicino le case popolari nei pressi del complesso del rione Pontecitra. Sul posto i carabinieri, agli ordini del comandante provinciale di Napoli Ubaldo Del Monaco, hanno trovato e sequestrato alcuni bossoli di una semiautomatica a salve. L’arma è stata sequestrata: si tratta di una pistola modificata con alcune cartucce nel caricatore. È stata recuperata in un nascondiglio nel retro di un’abitazione. La stesa di Marigliano segue di pochi giorni quella nel centro storico del capoluogo campano, ai quartieri spagnoli. Ma in quel caso un proiettile si è conficcato nel soffitto dell’abitazione del figlio di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso dalla camorra cutoliana negli Anni 80 all’imbocco della Tangenziale. L’episodio di sabato notte, invece, più che un’intimidazione per vendetta o per imporre il proprio potere, racconta che la pistola è diventata uno strumento per combattere la noia. Più in generale, tuttavia, la stesa avviene sempre all’ombra della fascinazione criminale per la vita dei boss. Lo rivelano anche i social media. Su Facebook decine di gruppi raccontano la quotidianità violenta dei baby-gangster. Si chiamano "O sistema", "Pane e malavita", "Detenuti noi siamo qua". E non pensiate si tratti di un fenomeno marginale: la pagina "Noi carcerati" conta oltre 70 mila fan. Spopolano le citazioni delle serie tv "Gomorra", "Narcos" e "Romanzo Criminale". La sudditanza psicologica adolescenziale per la vita dei boss viaggia in rete. I ragazzini dal grilletto facile condividono i video delle "stese" nei gruppi di WhatsApp. Postano selfie su Instagram dove appaiono con facce seriose e pistole in mano. Tatuaggi, barbe lunghe e canzoni neomelodiche. Gli ex bambini delle paranze nelle foto non ridono mai. Gli slogan sono un elogio alla malavita, non c’è traccia d’ironia: "Meglio un amico camorrista che carabiniere", "la camorra è rispetto e onore", "chi galera non prova, libertà non apprezza", "nessuna pietà per gli infami", "noi pregiudicati viviamo da leoni e moriremo da leoni", "meglio schedati che servi dello Stato". Molti giovani camorristi portano lunghe barbe "alla talebana": sono i cosiddetti "barbudos", e il Gup del Tribunale di Napoli Nicola Quatrano li paragona ai "militanti del jihad perché entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l’unica chance per dare un senso alla propria vita e per vivere in eterno". Ma il sindaco Luigi De Magistris cerca di essere ottimista: "È in atto un tentativo di riposizionamento di pezzi di criminalità che vogliono cercare di occupare pezzi di territorio, ma non ci riusciranno perché la risposta dello Stato, della stragrande maggioranza dei napoletani e delle istituzioni sarà forte. È un momento difficile che supereremo, perché sono convinto che la Napoli migliore vincerà". Anche il cardinale Crescenzio Sepe ribadisce che "Napoli non è solo Gomorra, ci sono tanti giovani con sani ideali". Napoli: il giudice sui baby boss "ossessionati dalla morte, come gli jihadisti" di Dario Del Porto La Repubblica, 13 settembre 2016 Ossessionati dalla morte come i miliziani del Califfato. Sono i ragazzi che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, quelli che avevano deciso di "rottamare" i vecchi boss per prendersi il cuore della città e invece sono finiti al cimitero oppure in galera. Li descrive così, nelle motivazioni della sentenza al processo sulla cosiddetta "paranza dei bambini" di Forcella, il giudice Nicola Quatrano, che ha chiuso con 43 condanne il giudizio istruito dai pm Henry John Woodcock e Francesco De Falco con il procuratore aggiunto Filippo Beatrice. "Un filo sottile ed esistenziale lega i giovani che scorrono in armi nel centro storico di Napoli per uccidere e farsi uccidere e i militanti della Jihad. Entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l’unica chance per dare un senso alla propria vita e vivere in eterno", scrive il giudice, negli anni 90 pm di punta della Tangentopoli napoletana, oggi molto impegnato sul fronte dei diritti umani. Il magistrato si sofferma anche sul look di questi ragazzi che, scrive, "si distingue da quello classico camorrista e assomiglia piuttosto ai modelli che i media sociali hanno reso "virali" in tutte le periferie del globo, quelli per intenderci delle gang giovanili o dei cartelli sudamericani". Ma i loro "modelli e stili di comportamento", si legge nella sentenza, "hanno preso qualcosa anche dall’emergere impetuoso dell’estremismo islamico". Un’influenza che si è manifestata "non certo sul terreno dell’ideologia e della religione", quanto piuttosto "nell’aspetto esteriore diversi imputati per un certo periodo hanno esibito una folta barba "alla talebana", frutto anche questo, probabilmente, del lavoro dei media sociali". E poi c’è quel "filo sottile ed esistenziale" rappresentato dalla ricerca della morte. Il giudice cita la tragica parabola di Emanuele Sibillo, definito "la vera mente del gruppo, dotato di intelligenza e vero carisma", ucciso in un agguato all’età di soli 19 anni, "dopo una vita breve e intensissima". Emanuele, argomenta il magistrato, "oggi è l’eroe eterno dei vicoli e delle stradine del centro cittadino, venerato quasi come San Gennaro sull’altare che la famiglia ha eretto in sua memoria nell’androne del palazzo dove abitava". Il fratello, Pasquale detto Lino, è stato condannato a 16 anni di reclusione, mentre agli altri imputati sono state inflitte pene fra i 2 e i 20 anni. Ripercorrendo le fasi del processo, il giudice ricorda come l’obiettivo del gruppo fosse "un progetto di rottamazione dei vecchi esponenti di vertice della camorra". Piano naufragato, secondo il magistrato, anche per "l’efferatezza del loro modo di fare" e per la scelta di "ricorrere a gesti sanguinari e violenti". Un modo di agire che "li ha resi invisi, in primo luogo, agli abitanti dei loro stessi quartieri". Le storie dei giovanissimi criminali napoletani, più volte raccontate nei reportage di Roberto Saviano, sono anche al centro del docu-film Robinù, realizzato da Michele Santoro con Monica Oliva e Micaela Farrocco e hanno ispirato nei giorni scorsi le riflessioni del pm Woodcock che, conversando con Repubblica, aveva invitato la borghesia cittadina "ad uscire dall’isolamento". Nella requisitoria pronunciata al processo sulla "paranza dei bambini", il pm Woodcock aveva anche espresso l’auspicio "che a questi ragazzi, una volta scontata la pena, possa essere data una seconda opportunità". Il sogno di una vita normale, per salvare chi è ossessionato dalla morte. Fermo (Ap): Soroptimist per i figli dei detenuti, in dono la dotazione per la scuola informazione.tv, 13 settembre 2016 Un regalo per i bambini che vivono l’esperienza del carcere, per un momento di colore e di emozione. L’organizzazione Soroptimist porta avanti a livello nazionale un progetto per la promozione dei diritti umani. Il gruppo fermano ha portato nel carcere di Fermo materiale di cancelleria e degli arredi per un angolo della sala colloqui, proprio dedicato ai più piccoli. La presidente Soroptimist Di Fermo, Tunia Gentili, con una delegazione di socie, ha portato scatoloni e regali, oltre a una grande dose di umanità e considerazione per le persone: "Abbiamo incontrato la direttrice della casa circondariale di Fermo, Elenora Consoli, e con lei abbiamo messo a punto questo progetto che è per Soroptimist una iniziativa di livello nazionale. In tutti i territori dove sono le carceri ci occupiamo soprattutto dei più piccoli, dei bambini che hanno in qualche modo a che fare con questa realtà perché hanno un padre, un fratello, un parente in cella. Ci rendiamo conto della difficoltà di incontri e momenti da vivere tra queste mura, speriamo che il materiale che abbiamo portato possa portare sollievo. Un ringraziamento va anche all’educatrice Lucia Tarquini che ci ha appoggiato in tutto il percorso". La dirigente Consoli, insieme con il comandante della Polizia penitenziaria Gerardo D’Errico e il responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti, ha parlato di trenta minori coinvolti in qualche modo con i detenuti a Fermo: "Grazie a Sorptimist allestiremo un piccolo spazio colorato per i più piccoli, per far loro vivere meglio i momenti di incontro con i propri cari. Tutti avranno materiale per la scuola che sta per cominciare, siamo molto felici di questo supporto che ci arriva da una realtà importante del territorio, ennesimo segnale di vicinanza da parte del fermano per questo nostro carcere". All’incontro ha partecipato anche l’assessore ai servizi sociali del comune di Fermo, Mirko Giampieri, che ha ricordato l’esperienza che si è da poco conclusa con due detenuti che hanno svolto lavori socialmente utili in giro per la città, a pulire le strade intorno all’ospedale. Frosinone: rugby e società, Fir e Coni presentano il "Progetto Carceri" di Duccio Fumero blogosfere.it, 13 settembre 2016 Ieri a Frosinone il presidente Gavazzi e Giovanni Malagò hanno presentato il progetto che porta il rugby nei carceri. I valori del rugby alla base del reinserimento nel tessuto sociale: è questa la missione ultima del Progetto Carceri FIR, che vede tre Club direttamente collegati a case circondariali partecipare al Campionato Italiano di Serie C e numerose altre Società impegnate a diffondere il gioco ed il modo di essere tipico della palla ovale in numerose case circondariali ed istituti di pena minorili di tutta Italia. L’impegno nelle carceri ha un ruolo centrale nel programma di responsabilità sociale della Federazione Italiana Rugby e ieri a Frosinone, in occasione dell’amichevole pre-stagionale tra i Bisonti - la squadra dell’istituto frusinate, per il quarto anno iscritta alla Serie C laziale e presieduta da Germana De Angelis - e la selezione dell’Università LUISS di Roma sono stati il Presidente del Coni Giovanni Malagò ed il Consigliere Federale Stefano Cantoni, responsabile del progetto per conto di Fir. Presenti anche i vertici dell’amministrazione penitenziaria e Walter Rista e Stefano Cavallini in rappresentanza de La Drola di Torino e La Dozza di Bologna, le altre due squadre di Serie C direttamente collegate ad istituti carcerari, il Segretario generale del Coni Fabbricini, il Provveditore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria Cinzia Calandrini, il Presidente di Asi Claudio Barbaro, il direttore dell’istituto di Frosinone Francesco Cocco e Paolo Del Bene, direttore dell’area sport di Luiss. "Il Coni è un unicum nel mondo, un modello che non vuol dire solo Giochi Olimpici e medaglie ma agisce anche su un binario parallelo. Che è rappresentato da chi non gode necessariamente delle luci della ribalta, perché tra le nostre mission c’è lo sport per tutti. Non abbandoneremo mai chi persegue ed è protagonista di tali iniziative, sinonimo di un Paese evoluto che privilegia la pratica motoria a ogni livello. Complimenti al mondo del rugby, che non si caratterizza solo per eventi come il 6 Nazioni ma anche per questo progetto dall’alto contenuto sociale e valoriale. Saremo sempre al vostro fianco" ha dichiarato il Presidente del Coni Giovanni Malagò. "Il progetto tecnico federale di Fir - ha dichiarato Stefano Cantoni, oggi presente a Frosinone in rappresentanza del Presidente federale Alfredo Gavazzi - vuole essere inclusivo ad ogni livello, e la possibilità di utilizzare i valori caratterizzanti del nostro sport come strumento di reinserimento sociale di questi ragazzi è coerente con questo obiettivo. Oltre a La Drola, La Dozza ed ai Bisonti - ha aggiunto Cantoni - il rugby è presente grazie all’impegno di numerose Società anche in molti altri istituti in tutto il territorio nazionale, pur senza partecipare a competizioni agonistiche". "Proprio per quelli che sono i nostri valori fondanti - ha concluso Cantoni - riteniamo che il nostro sport sia particolarmente indicato per lasciare un segno profondo in questi ragazzi, aiutandoli nel proprio percorso riabilitativo. Bisonti, La Drola e La Dozza hanno tracciato il percorso, confidiamo che un numero crescente di realtà possano presto seguire il loro esempio prendendo parte ai Campionati federali". Il capitano dei Bisonti Rugby, il numero otto nigeriano Precious, da dieci anni detenuto presso l’istituto ciociaro, ha spiegato come "il rugby rappresenti per noi una parte fondamentale della vita all’interno del carcere. Gli allenamenti, le responsabilità individuali e collettive, l’obbligo di rispettare le regole del campo sono per noi un momento importante di crescita, come atleti e come individui. Il rugby è diventato fondamentale nella nostra quotidianità". Isernia: premio nazionale poesia organizzato dall’Area Educativa della Casa circondariale isernianews.it, 13 settembre 2016 Si intitola "Colei che ha cambiato la mia vita" il premio nazionale di poesia organizzato dall’Area Educativa della Casa Circondariale di Isernia, in collaborazione con la Fidapa BPW Italy sezione di Isernia, presieduta da Rita Santoro. L’iniziativa, incentrata sulla figura della donna, è rivolta ai detenuti di tutti i penitenziari italiani. Il concorso, ideato dal funzionario giuridico pedagogico R. Francesca Capozza, ha un duplice obiettivo. Il primo consiste nel promuovere nel detenuto un percorso introspettivo volto a sottolineare la significativa centralità della figura della donna nella propria vita, come modello ed esempio positivo cui far riferimento per una evoluzione funzionale della propria personalità. Il secondo obiettivo consiste nel proporre alla Comunità una ulteriore occasione di approfondimento e tutela-valorizzazione della figura femminile all’interno di una società in cui purtroppo sono ancora evidentemente presenti condizioni di abuso e violenza, sia psicologica che fisica, perpetrati ai danni delle donne. "La significativa adesione al progetto - afferma il funzionario - da parte della presidente Santoro, fortemente sensibile e attenta alla tematica in oggetto, è stato essenziale per la effettiva realizzazione di tale opportunità. La Fidapa sezione di Isernia, da sempre promotrice di eventi in favore della tutela e valorizzazione della donna, ha accolto con grande entusiasmo tale iniziativa esplicitando concreto interesse al suo compimento". Il concorso consiste nel comporre una poesia mirata alla descrizione ed espressione di ricordi e vissuti emotivo-affettivi relativi alla figura femminile (madre, sorella, moglie, figlia, compagna, amica, ecc..) che ha cambiato positivamente la vita del detenuto. Gli elaborati dovranno pervenire entro e non oltre il 30 dicembre 2016. La premiazione avverrà entro il 30 marzo 2017 nella Sala Teatro del penitenziario di Isernia. Migranti. Ci mancava il muro di Calais di Annamaria Rivera Il Manifesto, 13 settembre 2016 Europa-fortezza. Iniziata dalla Spagna a Ceuta e Melilla, la corsa a costruire barriere sempre più "invalicabili" a difesa dell’Europa e dei singoli Stati si ripropone sul confine anglo-francese con dettagli tendenti al bieco. Intanto sempre più migranti trovano la morte nel tentativo disperato di attraversare comunque le frontiere. I dati ufficiali parlano di un vero genocidio. Ci mancava il muro di Calais, progettato dal Regno Unito in accordo con la Francia, per completare il quadro dell’Europa-fortezza. Questa locuzione, che da molti anni usiamo in senso traslato, oggi è divenuta puramente descrittiva. L’imminente costruzione della "Grande Muraglia di Calais" (come è stata definita con un certo sarcasmo) non è che tappa ulteriore del processo di fortificazione non solo dell’Europa, ma anche di singoli Stati, nonché del dilagare di protezionismi e nazionalismi, a loro volta culla delle formazioni di estrema destra. Per non dire della tentazione ricorrente di esternalizzare e militarizzare le frontiere, prolungando così i bastioni della fortezza fino all’Africa subsahariana. Fa impressione osservare la mappa delle barriere anti-migranti che, erette lungo le frontiere nazionali, punteggiano sempre più fittamente il territorio europeo. Pioniera in questo campo è stata la Spagna, con le famigerate, blindatissime barriere nell’enclave di Ceuta e Melilla, in territorio marocchino. Costruite a partire dal 1998, anche col contributo finanziario dell’Unione europea, sono costate la vita a non pochi migranti. Basta ricordare che tra settembre e ottobre del 2005 almeno tredici subsahariani furono colpiti a morte dai proiettili di gomma della Guardia civile, mentre tentavano rischiosamente di oltrepassare gli sbarramenti. Per non dire delle centinaia di persone da lì deportate nel deserto del Sahara e abbandonate a una morte quasi certa. Da allora e soprattutto in coincidenza con l’attuale "crisi dei rifugiati", numerosi Stati, anche tra i ventotto dell’Unione, hanno ripristinato i controlli alle frontiere, sospendendo così la libertà di circolazione degli stessi cittadini europei: uno dei pochi elementi, concreto e simbolico, che dava loro il senso di una comune appartenenza. Ma non solo: hanno anche eretto muri e barriere di filo spinato, in qualche caso sorvegliati dall’esercito. Lo hanno fatto dapprima l’Ungheria e l’Austria - immemori del ruolo che svolsero nel 1989 rispetto all’apertura della Cortina di ferro - alimentando in tal modo reazioni a catena: Slovenia, Croazia, Serbia, Macedonia, Bulgaria, Lituania, Estonia hanno, a loro volta, eretto muri contro gli "alieni". Come scrive l’antropologo Michel Agier, se la frontiera permette ancora relazioni e scambi, "il muro rende i migranti "indesiderabili" e (…) autorizza ogni genere di violenze". Inoltre, "rafforzando il fantasma dell’invasione e della contaminazione", soggiunge, "i muri incrementano la paura e richiamano ancora altri muri". E non servono affatto a bloccare migranti e rifugiati, i quali tenteranno comunque di dare l’assalto, costi quel che costi, al nuovo muro, per quanto "invalicabile" e sorvegliatissimo. O saranno sospinti verso itinerari ben più lunghi e rischiosi, che faranno lievitare le tariffe dei passeur. Ricordiamo che la "Grande Muraglia di Calais", dal costo ragguardevole di 2,7 milioni di euro, alta quattro metri e lunga più di un chilometro, sarà finanziata dal Regno Unito, ma costruita dai servizi francesi della DIR, la Direzione interdipartimentale delle strade. Insomma, quando si tratta di guerra ai migranti non c’è Brexit che tenga. A render più bieco questo progetto c’è un dettaglio estetico, per così dire: la Dir ha assicurato che sarà un muro, sì di cemento, ma adornato di piante e fiori nel lato rivolto agli abitanti di Calais; il lato opposto, quello che guarda alla "giungla" - la più grande bidonville di migranti in Europa -, sarà di nudo cemento, il più liscio possibile per impedirne la scalata e quindi l’assalto ai camion diretti nel Regno Unito. Il muro anglo-francese prolungherà e rafforzerà la recentissima barriera, alta quattro metri e sormontata da filo spinato, che separa l’autostrada dalla "giungla". Qui, nonostante gli sgomberi, tuttora si affollano, in condizioni indegne (malgrado la solidarietà attiva di tante associazioni) un gran numero di profughi: secondo il censimento compiuto lo scorso agosto dall’Ong Help Refugees, sono più di novemila, provenienti in massima parte dal Sudan e dall’Afghanistan. Fra loro, 865 minorenni, dei quali 675 non accompagnati. Il più giovane ha appena otto anni. Di sicuro questi autentici dannati della terra tenteranno altri percorsi, ancor più rischiosi, e i passeur si organizzeranno di conseguenza. Finora almeno una quarantina di loro hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’altro versante del canale della Manica, incrementando l’infinita ecatombe dell’Europa-fortezza. Chi ritiene sia scorretto ed enfatico parlare in proposito di genocidio, mediti sui dati seguenti. Secondo il Missing Migrants Project, se nel 2016, fino a oggi, i migranti morti e "dispersi" su scala mondiale sono stati 4.310, di questi ben 3.226 erano diretti in Europa. Tradotto in percentuale, ciò vuol dire che, il tentativo di raggiungere una meta o l’altra del nostro continente è costato la vita al 74, 8% del totale delle vittime di migrazioni su scala planetaria: una percentuale ancor più elevata di quella dell’intero anno 2015, quando il "primato" europeo si fermava al 72,11%. Un tal lugubre record è l’esito di decenni di blindatura delle frontiere, di costruzione di muri, reticolati e dispositivi di sorveglianza, di misure d’intimidazione, violenza, segregazione e deportazione dei migranti. Il "primato" non porterà bene all’Europa: priva di memoria, progetto, concordia, in preda al delirio da invasione, per quanto fortificata essa sia, rischia di frantumarsi miseramente insieme ai muri che ha elevato. Migranti. Il governo fermi l’inferno del Cara di Foggia di Eugenio Scalfari La Repubblica, 13 settembre 2016 Sul nostro Espresso uscito domenica scorsa, insieme a molti articoli, reportage e inchieste ce n’è una che fa rabbrividire. L’autore è il nostro collega Fabrizio Gatti, il titolo dice "Sette giorni all’Inferno" e l’inchiesta si svolge in un centro di accoglienza per immigrati. Le poche parole di presentazione dicono tutto: sono entrato clandestino nel Cara di Foggia, dove mille esseri umani sono trattati come bestie e per ciascuno di loro le coop percepiscono 22 euro al giorno. Nelle undici pagine che seguono, Gatti visita ogni stanza fingendo di essere un rifugiato di lingua inglese entrato in quel luogo d’angoscia per puro caso. Qualche volta alcuni abitanti di quell’inferno sospettano che sia un investigatore. Quelli che vivono in quel luogo sono persone di varia provenienza, per lo più africani che si dividono in diverse camarille e si disputano i cibi e i luoghi e le pochissime provvidenze che la gestione delle coop gli fornisce. Tra di loro ci sono anche donne, fanciulle, ragazzetti tra i 10 e i 12 anni che spesso vengono stuprati da gruppi di nigeriani che poi li fanno prostituire fuori dal campo. La notte molti riescono ad uscire da quell’inferno circondato da fil di ferro e da ringhiere, con buchi che i più esperti varcano per poi ritornare dopo aver fatto sporchi giochi con controparti locali. Ai cancelli del campo la sorveglianza è compiuta da numerosi militari e agenti di polizia che però non entrano mai dentro i locali. Chi vi entra sono le persone che prestano servizio nelle coop e forniscono ai rifugiati pasti che, a quanto il nostro autore ha verificato, piacciono più ai cani randagi che entrano in massa in quel caseggiato e ai topi che ne traggono graditissimi alimenti. Questa è la situazione. I contatti col mondo esterno sono limitati agli incaricati delle coop, i quali forniscono anche qualche medicina se vedono malati e bisognosi di soccorso. I medici naturalmente non sono mai arrivati anche quando ci sarebbe stato urgente bisogno di loro. In un brano dedicato alle porte, Gatti così scrive: "Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi, il loro movimento comunque va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi e a non agevolarne la fuga. Infatti se scoppia un incendio questa è una trappola". Ma c’è dell’altro, c’è il caporalato nigeriano. "I ragazzi sono tornati ieri sera alle dieci. Hanno mangiato la pasta della mensa tenuta da parte da qualche compagno di stanza e a mezzanotte sono andati a dormire. Dopo tre ore di sonno hanno preso la bicicletta fornita dai nigeriani sfilando uno dietro l’altro per recarsi sui luoghi di lavoro. I braccianti che vivono in questo ghetto di Stato lavorano fino a 14 ore al giorno e guadagnano 16 euro, poco più di un euro all’ora e una mensa che piace soprattutto ai cani". So bene che il nostro presidente del Consiglio ha molte cose da fare in Italia e in Europa, ma a nome dei nostri giornali, e credo di tutti i nostri lettori che tra carta e web sono oltre cinque milioni, gli chiedo di far ispezionare immediatamente quel Centro che accoglie all’Inferno un migliaio di persone e chiedo anche alla Procura di Foggia di disporre indagini sulle coop che dovrebbero gestire con competenza e amicizia quei rifugiati ed invece ignorano, direi volutamente, l’inferno che sta sotto i loro occhi. I rifugiati devono essere assistiti con competenza e sensibilità non così. Il presidente del Consiglio disponga subito un’ispezione in quei luoghi. Migranti. Sette giorni all’inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato di Fabrizio Gatti L’Espresso, 13 settembre 2016 Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno. La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage. No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio "Sisifo" della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca "Senis Hospes", amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato. Telecamere e buchi nella rete - Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare. I fantasmi respinti - Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. "Al mercato di Foggia", spiega, "gli italiani le comprano a tre euro al chilo". Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? "Dal Ghana, ho chiesto asilo", rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: "No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?". Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: "Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra". Lui non capisce subito. "Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?". "No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?", vuol sapere Suleman. No. "Allora non hai mangiato Steve, hai fame?", chiede con apprensione. No, grazie. "Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?". Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori. Gli schiavi in bicicletta - Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capi bianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire "cumpà". Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba. Le spie dei gangster nigeriani - "Ehi Steve, South Africa, come stai?", chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. "Steve, prendi", ha insistito: "Sono piatti avanzati oggi". Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. "Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?". È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. "Cumpà, che succede?", chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. "Cumpà, di dove sei?". Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: "Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai". Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. "Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai". Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. "Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?". I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. "Io non parlo inglese", torna ad arrabbiarsi Cumpà: "Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri". Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: "Vai via" seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: "Madou, la preghiera". Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco. L’assalto dei cani randagi - Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. "In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana", spiega Nasrin. Con i documenti? "No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa". Allora perché sei qui? "Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia". Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica. Benvenuti all’inferno - Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: "La prima cosa bella che ho avuto dalla vita…". Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: "Viviamo nel sogno di poi…". Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: "Benvenuti". Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola. Lo sconto sulla dignità - I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il "maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600". Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio "Sisifo" di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica "Senis Hospes", che per conto di "Sisifo" gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. "Tali attività…", scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di "Senis Hospes", "rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose". Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: "Benvenuti". Migranti. Identificati 12mila trafficanti nel 2016. "La maggior parte di nazionalità turca" di Emanuele Bonini La Stampa, 13 settembre 2016 I dati diffusi dall’Europol, l’agenzia anti-crimine europea. L’Italia accesso preferenziale. I trafficanti di esseri umani non si fermano. Anzi. Crescono in numero e capacità di adattare le attività a seconda delle esigenze. Sono più di 12mila, secondo Europol. Tanti ne ha individuati l’agenzia anti-crimine europea solo nei primi otto mesi dell’anno. Una cifra che "ha continuato ad aumentare", soprattutto se paragonata al 2015, e che certifica la difficoltà a smantellare le reti criminali dietro i flussi migratori. Reti che in questo momento hanno nell’Italia uno dei principali punti di snodo, perché comunque la via del Mediterraneo centrale resta molto sfruttata. Ma dalla Turchia, Paese con cui l’Ue ha un accordo per lo stop dei flussi, arriva una brutta notizia: la nazionalità turca è la prima per numero di trafficanti. Il rapporto Europol - Dall’1 gennaio a oggi l’Europol ha stimato in oltre 12mila i trafficanti di esseri umani via terra. Numeri in rialzo, dovuti anche al calo degli arrivi via mare. Dall’1 gennaio al 28 agosto sono entrati in territorio europeo attraverso imbarcazioni 272.070 immigrati, meno dei 354.618 sbarcati nello stesso periodo dello scorso anno. In un anno le cose sono cambiate: i pattugliamenti del Mediterraneo si sono rafforzati, prima con le operazioni Mare Nostrum e Triton, ora con il servizio di guardia costiera europea. E la rotta balcanica è stata chiusa dall’accordo tra Unione europea. "I trafficanti hanno dimostrato un’abilità costante ad adattarsi ai controlli alle frontiere e a trovare nuovi modi di operare per aggirare le restrizioni e continuare a mantenere un business altamente redditizio", riconosce l’agenzia anti-crimine dell’Ue. Chi gestisce il business dei migranti - Il risultato è visibile dai gestori degli affari. Se nel 2015 erano soprattutto romeni, egiziani e siriani, nel 2016 sono stati principalmente turchi (+295,3%) e siriani (+39,5%). Non un caso, tenuto anche conto del fatto che su suolo turco si trovano circa 3 milioni di rifugiati siriani. Il cambio di gestione che ha prodotto una diversa modalità di pagamento: secondo Europol rispetto allo scorso anno i migranti pagano di più in contanti (dal 52% al 64% dei casi) e soprattutto saldano il conto attraverso lo sfruttamento lavorativo (da 0,2% a 5% dei casi). La base italiana - Europol ha individuato in Austria, Svizzera e Italia i principali punti di accesso nel resto d’Europa. Nel 2016 "la rotta del Mediterraneo centrale continua a essere il primo itinerario seguito per accedere" nell’Ue, e ciò spiega perché i tre Paesi in questione offrano i valichi per il resto del continente. L’agenzia europea teme la formazione di "colli di bottiglia e campi profughi illegali lungo le frontiera interna dell’area Schengen". Già ne esistono tre di tali imbuti, uno dei quali a Como (gli altri due a Dunkirk, lungo il confine belgo-francese, e Idomeni, tra Grecia ed ex repubblica jugoslava di Macedonia). Robert Crepinko, responsabile del Centro contrabbando migranti europeo di Europol, ha ribadito il "sostegno agli Stati membri per individuare e smantellare le reti del crimine organizzato rete criminale coinvolto nel traffico di migranti". Un aiuto mai così necessario. Migranti. Le verità sui profughi e il contropiede di Žižek di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 13 settembre 2016 Il filosofo-star sloveno sta per tornare con un saggio, in uscita tra un mese in America, che sulla questione migranti rovescia parecchi cliché. Pensavate che Slavoj Žižek non potesse sorprendervi più? Sbagliato. Il filosofo-star sloveno sta per tornare con un saggio, in uscita tra un mese in America, che sulla questione migranti rovescia parecchi cliché. Perché a preoccupare il pensatore marxista, ma anche lacaniano, ma anche un po’ hegeliano (il suo spritz intellettuale ha ingredienti variabili senza dare mai alla testa) non è la destra xenofoba, ma i liberal. La premessa di Against the Double Blackmail - Refugees, Terror and Other Troubles with the Neighbours(Contro il doppio ricatto - Profughi, terrorismo e altri guai con i vicini) è che - spiega Žižek a Quartz - "è un fatto che la maggior parte dei profughi venga da una cultura incompatibile con la nozione europeo-occidentale di diritti umani". Per questo il filosofo lancia "un disperato appello alla sinistra" perché la smetta di minimizzare le tensioni legate alle ondate di arrivi e di bollare qualsiasi critica all’Islam come islamofobia. A questo punto uno può pensare che anche Žižek stia cedendo alla dittatura del politicamente scorretto (difendi i migranti? Sei un ipocrita di sinistra). E invece Žižek resta di sinistra senza essere ipocrita, con un contropiede di quelli che un Finkielkraut o un Berman non sapranno mai più far scattare. Anzitutto li chiama prossimi e non profughi, perché "il prossimo è qualcuno che ci è vicino ma non è uno di noi. Per questo amare il prossimo come se stessi non è semplice". La sofferenza non purifica, spiega, non ti rende più nobile, semmai ti fa fare qualsiasi cosa per sopravvivere. E allora che facciamo di questi prossimi? "È facile essere umanitari pensando che gli altri siano buoni. E se non lo sono? Io sostengo che dobbiamo aiutarli lo stesso, assicurando una vita dignitosa a chiunque raggiunga le nostre spiagge". A costo di ridiscutere il concetto di democrazia, se la maggioranza è contraria all’accoglienza, "in nome di uno standard etico più alto". Che si sia d’accordo o no, un po’ di novità dopo anni di monotonia "scorretta". Migranti. Quegli stereotipi sulla libertà delle donne di Dacia Maraini Corriere della Sera, 13 settembre 2016 La legge prevede che ciascuno si vesta come desidera. Ma se guardiamo le cose da un punto di vista culturale, ci rendiamo conto che sono ci due forme di costrizione molto simili. Ho davanti a me una fotografia che ritrae quattro giovani donne che corrono sulla spiaggia coperte da un indumento che porta il curioso nome di burkini. Sembrano contente. In effetti, sappiamo che se non fossero coperte in modo da lasciare liberi solo piedi, mani e faccia, non potrebbero correre in spiaggia né fare il bagno. Quindi? Quindi ben venga il burkini se lascia alle donne musulmane la libertà di correre in spiaggia. La parola burkini viene da una combinazione di burqa con bikini. La parola in sé rivela che si tratta di un compromesso fra due costrizioni che riguardano il linguaggio del corpo femminile: il compromesso fra un potere punitivo che lo vuole coperto integralmente fino a scomparire del tutto (come nel burqa integrale) e un altro potere mercantile che lo vuole esibito come un umiliante richiamo che ricorda la reificazione sessuale. Dove sta la libertà in questo crudele gioco del coprire e dello scoprire? È da considerarsi una libera scelta quella di usare un costume (tipo tanga) che mette in evidenza, spesso in maniera sfacciata e brutale le parti più sessuate del corpo femminile? È vera libertà quella di coprirsi in modo che tutto quello che può sfiorare le parti sessuate venga nascosto, e la pelle non possa mai vedere il sole? La legge prevede che ciascuno si vesta come desidera. E su questo non ci piove. È arrogante pretendere di stabilire come si debba conciare una donna che vuole fare un bagno in mare. Ma se guardiamo le cose da un punto di vista culturale, ci rendiamo conto che sono due forme di costrizione molto simili. La vera libertà consisterebbe nello stare comodi, nella possibilità di muoversi liberamente, di prendere il sole senza fare il verso alle peggiori pubblicità della seduzione mediatica, nello stare in armonia con la natura sfuggendo sia al linguaggio delle ideologie che del mercato. Ma dove sta la gioia di vivere, quando si chiede alle donne di adeguarsi a una convenzione stereotipata: il linguaggio della seduzione o della negazione della seduzione? Il proprietario simbolico del corpo femminile, o chiede che questo corpo diventi sempre più appetibile ed esposto perché il mercato lo pretende: oppure ordina, in nome di una religione punitiva, di coprirlo in modo assurdo per evitare proprio quello sguardo concupiscente che, sempre nel mondo dei linguaggi emblematici, viene considerato pericoloso e immorale. Dove sta la libertà? Droghe. L’Escobar tv e Saviano: "È la droga il potere delle mafie, basta proibizionismo" di Gianluca Di Feo La Repubblica, 13 settembre 2016 La droga, le mafie e due Sud a confronto, con il loro orgoglio e i loro mali. Uno scambio di idee che spazia dal cinema alla geopolitica, dalla letteratura al crimine. Da una parte Wagner Moura, l’attore brasiliano interprete di Pablo Escobar nel successo planetario di "Narcos", la serie di cui Netflix ha appena messo in rete la seconda stagione. Dall’altra Roberto Saviano, il creatore di "Gomorra". L’uno ha dato il volto all’inventore dell’industria della cocaina. L’altro ha mostrato al mondo l’evoluzione più spietata della camorra. Ed entrambi erano ansiosi di incontrarsi, seppur in un colloquio triangolato tra Los Angeles, New York e la redazione di Repubblica. "Roberto, ho letto i tuoi libri, hai dimostrato talento e coraggio", esordisce Moura: "Una volta sono andato a un festival in una città del Brasile solo per vederti ma all’ultimo momento non sei venuto per motivi di sicurezza". "Già, il Brasile resta un posto difficile per i miei movimenti", replica Saviano: "Io seguo il tuo lavoro da "Tropa d’Elite", il film sugli squadroni della morte che ha cambiato il racconto criminale nell’immaginario mondiale". "Tropa d’Elite", come "Narcos" e "Gomorra" sono la prova di come un film o una serie possano denunciare dinamiche criminali fondamentali, le stesse che vengono descritte tutti i giorni senza però incidere sull’opinione pubblica. Moura: "La nuova stagione del cinema brasiliano è influenzata dal neorealismo italiano, sia dal punto di vista politico che estetico. Negli anni Sessanta però queste opere avevano un seguito tra le élite, adesso arrivano a milioni di persone, provocando un dibattito largo. Questa secondo me è una delle ragioni d’essere dell’arte - che sia cinema, teatro o letteratura: permette alle persone di vedere se stesse, contestualizzando l’individuo nella società. Certo, ci sono state reazioni contrastanti a "Narcos" tra i colombiani, perché sono stufi di sentire parlare del loro paese in questo modo. E li capisco perfettamente". Saviano: "Lo stesso fastidio che hanno i colombiani quando si parla di Escobar, lo hanno gli italiani quando si parla di mafia: è un’insofferenza comune, unica nel mondo. Ma sono convinto che la Colombia paradossalmente possa essere un modello, perché proprio discutendo così a lungo dei problemi è riuscita a intraprendere un percorso nuovo: il potere di Escobar e dei cartelli successivi è stato contrastato perché se ne è parlato moltissimo". "Narcos" denuncia anche un grande fallimento: la sconfitta della guerra alla droga come è stata condotta in Sudamerica negli ultimi decenni. Moura: "Io ho un’opinione molto personale che nasce dal vivere in Sudamerica e osservare quello che succede. La guerra alla droga è un fallimento. È una strategia che nasce negli Stati Uniti che sono i più grandi consumatori ma questo conflitto si combatte solo nei paesi che producono ed esportano droga, generando una violenza enorme in Messico, Perù, Colombia, Bolivia, Brasile. Penso che bisogna trovare un modo di legalizzarla: non sono un esperto, non so dire quale sia il metodo migliore di farlo. Mi rendo conto che la dipendenza è un male, che molti muoiono per overdose e ci sono tante famiglie distrutte. Ma ritengo che l’obiettivo di ogni politica sia quello di salvare la vita. E dobbiamo riflettere su quante vite sono state distrutte in questa guerra in Sudamerica e cercare di trovare un giusto equilibrio. Perché io credo che l’abuso di droga sia un problema di salute pubblica, non una questione di polizia". Saviano: "Io credo che il proibizionismo sia fallito. Anzitutto bisogna ricordare come il 90 per cento dei soldi dei cartelli sudamericani viene riciclato negli Usa e in Europa: il denaro finisce in quei paesi dove la droga viene consumata. Il problema principale del proibizionismo è occuparsi sempre e solo della repressione. E di non comprendere come sia possibile, al di là della posizione morale - e cioè che le droghe fanno male -, affrontare il tema cercando di interrompere il rapporto economico e sociale tra organizzazioni criminali e dipendenza. Cito l’esempio dell’Uruguay che era colonizzato dai cartelli messicani. Ebbene dopo la legalizzazione della marijuana i cartelli messicani lo stanno abbandonando perché non sono riusciti a fare il salto sulla cocaina. Quando si dice "Se legalizziamo l’erba invitiamo le persone a consumare coca" si compie un errore madornale. Se permettiamo ai cartelli di vendere marijuana, poi spacceranno cocaina; invece se legalizziamo l’erba interrompiamo il rapporto di crescita". Nella nuova stagione di "Narcos" vengono rimarcati gli aspetti umani della figura di Escobar e la sua volontà di essere amato dalla popolazione. Ricorda alcuni capimafia italiani, il caso più famoso è Raffaele Cutolo, che si presentano come moderni Robin Hood. Lei Moura ha incontrato a Medellin persone che ancora venerano Escobar. Moura: "I colombiani sanno bene chi è Escobar e quanto male ha causato. Ma ci sono persone che vivono in posti dove lo Stato non c’è. Nelle favela brasiliane l’unico volto dello Stato è la polizia: gli abitanti non vedono scuole, ospedali, libri né speranza di miglioramento sociale. Questi sono i luoghi perfetti per lo sviluppo di un altro potere e i narcos si comportano come se fossero il governo, fornendo lavoro, medicine, giustizia. Non puoi incolpare chi a Medellin abita nel quartiere che Escobar ha costruito: lo venerano perché gli ha dato una casa. Escobar veniva dalla stessa povertà: voleva essere amato, voleva diventare il presidente della Colombia ma è per questo che ancora oggi parliamo di lui. Dobbiamo renderci conto delle responsabilità dei governi che hanno abbandonato queste popolazioni, rendendole preda di mafie, guerriglie e paramilitari". Saviano: "Nel consenso generato da Cutolo a Napoli e in quello di Escobar a Medellin c’era la stessa spinta antiborghese. Avevano costruito la loro immagine come se fossero dei rivoluzionari. Oggi spesso i gruppi mafiosi si nascondono dietro a un impeto di rivolta. Il consenso che ottengono si basa su questo apparente moto contro il sistema mentre in realtà vogliono conquistare il sistema. Tanto è vero che l’Isis è una organizzazione che si dichiara islamista ma il cui Pil ha al primo posto le estorsioni, al secondo il contrabbando di petrolio e al terzo la droga: le caratteristiche di un’organizzazione mafiosa". Siria. La tenuta della tregua nelle mani dei gruppi ribelli di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2016 Da ieri sera in vigore il cessate il fuoco raggiunto con l’accordo Usa-Russia La chiave è Aleppo dove restano le fazioni più irriducibili. Quella entrata in vigore in Siria è una tregua limitata e fragile, non un vero cessate il fuoco: si continuerà a sparare, eccome. Sarà già un successo se si riuscirà a portare ai civili aiuti umanitari nelle zone assediate come Aleppo. In primo luogo continueranno le operazioni militari contro il Califfato dei due schieramenti, a guida americana e russa. Le formazioni jihadiste che restano estranee alla tregua controllano l’80% dei territori attualmente in mano ai ribelli. Non è un caso che alcuni gruppi jihadisti come Ahrar al Sham abbiano già annunciato che non la rispetteranno. La Turchia, inoltre, non si è impegnata a cessare le operazioni contro i curdi siriani. L’intervento turco ha cambiato le dinamiche della guerra. Ankara sta creando un rettangolo di 90 chilometri per 50 sotto il suo controllo, senza concrete reazioni da parte di Damasco, mentre l’Isis si ritira quasi senza combattere. Sotto la pressione curda, con il sostegno dell’aviazione Usa, il Califfato ha perso 30mila kmq di territorio. Ora l’offensiva curda è ferma e non sarà facile convincere i guerriglieri a sacrificarsi senza garanzie nei confronti di Ankara. Ma questo è un altro dei problemi degli americani e degli europei: incapaci persino di ammonire Erdogan che in cambio del fatto che si tiene tre milioni di rifugiati siriani martella a suo piacimento i curdi, cambia i loro sindaci nelle città turche e mette in carcere scrittori come Ahmet Altan, giornalisti e oppositori anche se non hanno niente a che fare con gulenisti e golpisti. I cosiddetti "valori occidentali" da queste parti vengono stritolati nelle logiche di raìs e zar, da Erdogan ad Assad a Putin, con la nostra complicità. In questo teatro di guerre a frammentazione e di omissioni, gran parte del Nord della Siria resterà un campo di battaglia. Cosa vale allora questo accordo tra Usa e Russia raggiunto la scorsa settimana Ginevra? L’obiettivo degli americani era far terminare le ostilità tra le truppe di Damasco e i ribelli "moderati", il cui peso militare è limitato e che in molti casi per restare presenti sul terreno hanno dovuto accordarsi con i jihadisti, meglio armati e organizzati. La favoletta dei ribelli moderati ormai non se la beve più nessuno ma serve a Obama per giustificare qualche tangibile risultato dopo anni di politica estera fallimentare nei confronti dei jihadisti e dare una mano a Hillary Clinton in una campagna elettorale dagli esiti imprevedibili. I russi hanno accettato le proposte Usa perché anche Assad è sotto pressione e i numeri esigui del suo esercito, sostenuto da milizie sciite e Hezbollah libanesi, non sono sufficienti ad affrontare tutti i fronti di guerra. Per i russi e il regime di Damasco diventa fondamentale rafforzare il controllo sull’asse di collegamento Nord-Sud, tra Aleppo e la capitale. Quanto alla ripresa dei negoziati è subordinata alla tenuta del cessate il fuoco ma è ancora presto per parlare di una transizione a Damasco: una potenza come l’Iran non scaricherà uno dei suoi alleati principali senza garanzie strategiche adeguate. La chiave di questa tregua resta Aleppo, il fronte più intricato e decisivo. A difendere i quartieri orientali assediati da Assad ci sono i ribelli Ahrar alSham, unità del Free Syrian Army, appoggiate dagli Usa, e Jabat al Fatah al Sham, la nuova formazione uscita dai ranghi di Al-Nusra, cioè di Al Qaeda, che ha l’appoggio delle monarchie del Golfo e della Turchia. Per evitare nuovi raid russi i moderati dovrebbero separarsi dai jihadisti, un’operazione assai complicata perché potrebbero essere spazzati via. Per questo, quando hanno annunciato l’accordo con i russi, gli americani hanno enfatizzato l’impegno di Mosca a non bombardare i qaidisti del fronte al Nusra, la formazione che ad Aleppo permette la sopravvivenza dei cosiddetti "moderati". I rischi di questa operazione sono evidenti ma gli Stati Uniti hanno dovuto accettarli perché la Russia, l’Iran e il regime di Damasco si sono rifiutati di riciclare Al Nusra tra l’opposizione "rispettabile" come avrebbero voluto Ankara e Riad. Sauditi e alleati del Golfo hanno investito miliardi di dollari per abbattere Assad e adesso vedono i loro miliziani minacciati da un accordo russo-americano che potrebbe condurre a operazioni militari congiunte contro i jihadisti oltre che nei confronti dell’Isis. La tregua, anche se reggerà qualche giorno o settimana, appare in realtà un sedativo sul corpo moribondo della nazione siriana, divisa e implosa dalla guerra civile e da quelle per procura tra le potenze regionali. Turchia. "Ora processiamo gli autori del golpe. Ma nella legalità" di Giulia Merlo Il Dubbio, 13 settembre 2016 Intervista a Metin Feyzioglu, presidente degli avvocati turchi. "Solo rispettando lo stato di diritto riusciremo a sconfiggere i golpisti, altrimenti sarà solo una dannosa caccia alle streghe". Metin Feyzioglu, avvocato e presidente della Turkish Bar Association, usa parole pesanti per descrivere il tentato colpo di stato del 15 luglio scorso e racconta di una Turchia ancora in lotta per la democrazia, contro i suoi avversari interni ancora non del tutto sconfitti. Quale ruolo stanno giocando gli avvocati turchi, in questo periodo di difficoltà per la democrazia? Oggi, gli avvocati turchi si sono assunti la responsabilità di fare da ponte tra le diverse realtà sociali. La Turkish Bar Association rappresenta 79 ordini e circa 90mila avvocati ed è una delle associazioni più capaci di porsi come interlocutore con la politica. Però è un fatto che la l’attuale legislatura è tenuta sotto scacco dall’esecutivo. Lei credeva nella possibilità che questo golpe avvenisse? In realtà, in Turchia abbiamo assistito a molti colpi di stato. Uno di questi è avvenuto quando io avevo 2 anni, nel 1971. Ne ricordo un altro nel 1980. Noi turchi siamo abituati agli interventi militari, ma quello di luglio è stato unico: non si erano mai visti soldati che puntano le armi sui civili e che bombardano l’assemblea nazionale. Da avvocato, come ha vissuto gli eventi che hanno seguito il fallito colpo di stato? Quello del 15 aprile è stato il peggior attacco della storia della repubblica turca, orchestrato dal Feto (L’Organizzazione terrorista Fethullahista, il cui leader è Fethullah Gülen ndr) ed evitato grazie all’opposizione di tutte le forze democratiche. Dopo questi tragici eventi, le autorità hanno subito iniziato un processo di purga per eliminare dalle organizzazioni politiche questo gruppo terroristico. Come Turkish Bar Association, però, abbiamo ripetuto con forza che il diritto ad un giusto processo e il principio contro l’autoincriminazione di persone inquisite devono essere rispettati, altrimenti le indagini diventeranno una inutile caccia alle streghe, che non distingue gli innocenti dai colpevoli e giova solo al Feto. Cosa auspica che cambi, nel modo di gestire questi processi? Distinguere tra i colpevoli e gli innocenti in modo efficiente è possibile solo se gli avvocati saranno coinvolti in modo costruttivo nei processi. La presenza di un avvocato può rendere le cose più difficili solo per un poliziotto o per un magistrato che non sono capaci di fare il loro lavoro. Ma se lo sanno fare, dovrebbero essere grati della presenza di un avvocato. Questo perché l’avvocato gioca un ruolo chiave nel rivelare la verità e chiunque impedisca agli avvocati di fare il loro lavoro, sta facendo gli interessi del Feto. Da osservatore privilegiato, ritiene che i media stranieri abbiano descritto correttamente l’attuale situazione in Turchia? Io ritengo che i media non abbiano capito del tutto il livello di gravità di ciò che è successo il 15 luglio. Il colpo di stato è stato orchestrato da spie infiltrate nell’esercito turco, con l’obiettivo di iniziare una guerra civile. Chi lo ha definito una farsa o un finto attacco vive su un’altro pianeta. Gli eventi non sono stati ricostruiti in modo corretto? La realtà è questa: un gruppo terroristico si è infiltrato nell’esercito turco, con un progetto iniziato 40 anni fa. Questa organizzazione è stata nutrita, sostenuta e usata da alcuni poteri stranieri. Il golpe è stato un’azione realizzata con il permesso, il coordinamento e soprattutto nell’interesse di questi poteri occulti. Ciò che va compreso è cosa li abbia spinti ad arrivare a tanto. In altre parole: che cosa è stato chiesto alla Turchia e cosa la Turchia non ha dato, perché si arrivasse al golpe? Lei che riposta si è dato? Io ritengo che la risposta sia: il progetto mai realizzato del Kurdistan. Il Kurdistan è uno stato che alcuni gruppi vorrebbero fondare nel nord della Siria e l’obiettivo in Turchia è quello di permettere al gruppo terroristico del PKK (partito dei lavoratori del Kurdistan) di tagliare fuori il sud-est del paese dal resto dello Stato, al fine di dar vita al progetto iniziato 35 anni fa di fondare uno stato indipendente. Si noti che l’organizzazione Feto, che ha orchestrato il golpe, è nata 40 anni fa, che il suo percorso ha spesso coinciso con quello del PKK e che le due organizzazioni condividono gli stessi sostenitori. Che cosa è mancato da parte della società civile turca? Non siamo riusciti a prevedere che questa organizzazione illegale, della cui presenza nello Stato eravamo tutti a conoscenza, sarebbe infine arrivata a tentare un colpo di stato. L’avvisaglia è stata nel, quando la Suprema assemblea dei giudici e dei pubblici ministeri è stata letteralmente occupata dal movimento di Gulen. Noi come avvocati abbiamo protestato e lanciato avvertimenti, ma nessuno ci ha ascoltato. Ora è imperativo ripulire, in modo immediato e legale, le organizzazioni pubbliche da questo gruppo terroristico. Ma attenzione, lo stato di diritto non può essere sospeso. La Turchia è sull’orlo del baratro nella sua lotta per diventare uno stato democratico e credo davvero che l’unica nostra speranza sia quella di seguire i principi dello stato di diritto. Che cosa auspica cambi? Dobbiamo ripartire dalla garanzia dell’imparzialità e indipendenza dei giudici. Bisogna creare un sistema giuridico capace di giudicare in modo equo e soprattutto affidabile. Altrimenti, gli unici a venire danneggiati da un meccanismo faccace saranno i cittadini. Egitto. Il consulente rilasciato: "In carcere per Giulio" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 settembre 2016 Caso Regeni. Parlano i due Abdallah. Ahmed racconta le pressioni della polizia per avere informazioni sul ricercatore, L’ex sindacalista degli ambulanti Mohammed nega (ma poi ammette) di averlo denunciato. Per celebrare la Festa del Sacrificio, Eid al-Adha, il Ministero degli Interni egiziano ha graziato 700 prigionieri. Nessuno di loro era in carcere per motivi politici. Attivisti e oppositori, veri e presunti, restano tutti dentro. Chi è uscito, ma senza grazia, è Ahmed Abdallah, presidente della Commissione Egiziana per i diritti e le libertà e consulente della famiglia Regeni. Dopo quattro mesi e mezzo di detenzione, isolamento e maltrattamenti, torna libero su decisione del tribunale che però non straccia le accuse contro di lui, atti sovversivi e proteste non autorizzate. E parla, quasi in risposta all’altro Abdallah, l’ex capo del sindacato ambulanti (ora diventato rappresentante di un sindacato filo-governativo, da più parti tacciato di collaborare con i servizi) che avrebbe avuto un ruolo nel caso di Giulio. Ahmed, da uomo - almeno per il momento - libero, indica proprio nel suo interessamento all’omicidio del giovane ricercatore la ragione della detenzione: "Non sono stato arrestato perché colpevole di qualcosa e non sono stato rilasciato perché trovato innocente - dice alla Stampa - La mia vicenda è interamente politica. Mi hanno preso per Regeni. I poliziotti dell’ultima prigione non sapevano neppure cosa facessi, menzionavano solo Regeni". Dopo le prime ammissioni della Procura generale egiziana che al pm Pignatone ha detto che accertamenti della polizia erano stati condotti su Giulio per tre giorni dal 7 gennaio, ha parlato anche Mohammed Abdallah. Indicato dal procuratore Sadek come colui che presentò un esposto alla polizia di Giza (all’epoca sotto Khaled Shalabi, noto torturatore), Abdallah nega. A metà: alla tv italiana dice di non aver mai mosso alcuna denuncia (andando contro le dichiarazioni delle autorità del Cairo), al quotidiano egiziano Aswat Masriya lo ammette. Lo avrebbe denunciato perché Giulio "faceva domande illogiche, non rilevanti per la sua ricerca, domande con un altro obiettivo". Non dice quali, lui che veniva definito da Giulio "miseria umana" per le pressioni che faceva per spillargli denaro. I dubbi restano: nel materiale portato la scorsa settimana dal procuratore cairota alla Procura di Roma l’esposto in questione non c’è, come non ci sono i successivi rapporti della polizia. Israele. Corte Suprema: è legale la nutrizione forzata dei prigionieri di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 settembre 2016 Adesso il governo Netanyahu ha gli strumenti legali per mettere fine agli scioperi della fame che i palestinesi attuano in carcere contro la detenzione senza processo. Le proteste locali e internazionali non sono servite. La Corte Suprema di Israele ha sentenziato due giorni fa la "legalità" della legge del luglio 2015 che consente di nutrire con la forza i prigionieri palestinesi in sciopero della fame. Secondo i massimi giudici israeliani salvare le vite umane è una priorità che va oltre le decisioni prese volontariamente da detenuti intenzionati a raggiungere determinati obiettivi. A nulla è valsa anche l’opinione dei vertici dell’Associazione medica israeliana che, in linea con l’orientamento internazionali, vede nella nutrizione forzata una forma inaccettabile di pressione fisica che si avvicina alla tortura. Adesso il governo Netanyahu avrà gli strumenti legali per mettere fine agli scioperi della fame che i prigionieri politici palestinesi spesso attuano per settimane, in qualche caso per mesi, per protestare contro la "detenzione amministrativa" (senza processo). Questi digiuni di protesta hanno avuto in questi ultimi anni un forte impatto e in diversi casi le autorità israeliane sono state costrette a negoziare accordi con i detenuti per evitare i riflessi internazionali della loro possibile morte in carcere. Francia. Rivolta dei detenuti, appiccato incendio nel carcere di Vivonne urbanpost.it, 13 settembre 2016 Francia, rivolta dei detenuti, ieri sera dopo le 22, nel carcere di Vivonne, vicino a Poitiers: circa 60 persone (sarebbero 187, in tutto, i detenuti nel penitenziario francese) avrebbero occupato una parte della prigione appiccando un incendio dopo essere riuscite a sottrarre le chiavi delle celle alle guardie carcerarie. A darne notizia Le Figaro: le fiamme sarebbero state già sedate grazie all’intervento dei pompieri e - come riportano fonti ufficiali - nella rivolta non sarebbero stati presi ostaggi, né vi sarebbero feriti tra i detenuti e le guardie. "Due detenuti hanno aggredito un sorvegliante e sono riusciti a sottrargli il mazzo di chiavi con cui hanno aperto tutte le altre celle del secondo piano dell’edificio" - questa la ricostruzione della dinamica dei fatti fornita dalla stampa francese - "mettendo a fuoco le passerelle e l’atrium". Iran. I diritti negati delle detenute… altro che svolta democratica di Domenico Letizia* Giulio Terzi di Sant’Agata** Il Dubbio, 13 settembre 2016 Anche se una parte considerevole della comunità internazionale vuole far credere e sperare in un’attualità iraniana diversa, decisamente più democratica e rispettosa della dignità umana, ciò che quotidianamente captiamo non è altro che la sistematica violazione dei diritti umani nel paese. Un recente rapporto della "International campaign for human rights in Iran" rende noto il trattamento riservato alle detenute politiche del carcere di Evin, in Iran. Una proposta transnazionale per l’affermazione dello Stato di diritto non può ignorare come in alcuni paesi la sistematica violazione dei diritti delle donne e della parità di genere rappresenti il primo passo da compiere per affrontare l’attualità politica dei diritti umani e delle convenzioni internazionali, che paesi come l’Iran, comunque, hanno sottoscritto e successivamente non rispettano. Il rapporto sulle detenute del carcere di Evin evidenzia una spaventosa regolarità nel trattamento inumano di queste donne, colpevoli solo di voler esercitare libero pensiero e di esprimere la propria opinione: cure mediche e ricoveri ospedalieri negati, rigorose restrizioni al "diritto di visita" da parte dei familiari, permessi spesso negati anche ai bambini delle detenute, negazione di un regolare contatto telefonico con i propri cari e una non adeguata alimentazione per le "ospiti" della struttura. La campagna intrapresa invita la magistratura iraniana, che ha competenza sulle prigioni iraniane, a rivedere immediatamente i casi di queste detenute. "Queste donne, che non hanno fatto altro che esprimere pacificamente la loro opinione, non dovrebbero essere proprio imprigionate e ora soffrono anche condizioni disumane e gravi problemi di salute" ha dichiarato Hadi Ghaemi, direttore della Campagna internazionale per i diritti umani in Iran. Il rapporto elenca le gravi violazioni registrate: - L’infermeria della prigione è senza medici specialistici e spesso mancano i farmaci adeguati; - I trasferimenti in ospedale per trattamenti e operazioni urgenti sono regolarmente negati; - Le razioni di cibo nella struttura penitenziaria non sono sufficienti e non forniscono un’adeguata alimentazione; - I colloqui e le visite da parte dei parenti e degli amici sono fortemente limitati, anche quando si tratta di bambini che si recano in visita alle proprie madri; - A volte, durante il periodo invernale i detenuti sono privati del calore. Queste donne sono state rinchiuse in cella con pene che variano da uno a venti anni, per reati politici e per diversa fede religiosa. Proprio perché prigioniere politiche subiscono condizioni estreme e più severe rispetto agli altri detenuti. Il rapporto mostra che tali condizioni violano le stesse leggi della Repubblica iraniana. Dal 2005, inoltre, nessun organismo delle Nazioni Unite ha ricevuto il permesso dalla Repubblica di potersi recare in visita ispettiva in qualsiasi reparto della struttura penitenziaria di Evin. Questo è il comportamento dell’Iran moderato che una parte dell’informazione e della classe politica vorrebbe far credere. Per i cittadini e gli imprenditori occidentali resta negato quel dovuto "diritto alla conoscenza" che rappresenta il diritto ad essere informati sull’attualità giuridica e politica anche dello stato iraniano e sulle continue violazioni di tutti i diritti fondamentali che il regime continua a perpetuare nei confronti del proprio popolo come recentemente riportato nel Rapporto 2016 di Nessuno tocchi Caino. *Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino **Presidente del Global committee for the rule of law - Marco Pannella Uruguay. Ex detenuto Guantánamo: fatemi rivedere la famiglia o mi lascio morire di fame globalist.it, 13 settembre 2016 L’Uruguay in imbarazzo per il caso di Ahmed Diyab: vuole raggiungere mogli e figli in Turchia. È una caso che sta facendo discutere a lungo: "O raggiungo la mia famiglia, o Allah". Con queste parole Jihad Ahmed Diyab, uno dei sei ex detenuti di Guantánamo accolti dall’Uruguay nel 2014, ha riassunto la sua situazione: da due settimane è in sciopero della fame per chiedere di poter raggiungere la moglie e i figli, attualmente rifugiati in Turchia. Nel piccolo appartamento che occupa nel centro di Montevideo, questo siriano di 44 anni nato in Libano, arrestato in Pakistan e poi spedito a Guantánamo per i suoi presunti legami con reti jihadiste, prosegue la sua battaglia da solo, disteso su un materasso e avvoltolato in una coperta che gli lascia scoperto solo il volto. Dopo che la stampa ha diffuso le immagini shock di Diyab, che, pallido e visibilmente indebolito, ha annunciato di andare avanti con la sua protesta, le autorità locali lo hanno fatto ricoverare in ospedale. Ma, non avendo gradito il modo in cui è stato trattato ha deciso di tornare nel suo appartamento, per riprendere lo sciopero della fame. "Il mese prossimo si sposa mia figlia, e io ho chiesto ad Allah che permetta che entro venerdì prossimo, che è il giorno del musulmano, io possa vedere la mia famiglia e stare con loro", ha detto in un’intervista al quotidiano La Diaria. Il governo uruguaiano ha assicurato che sta "facendo tutto il possibile" per rendere possibile il ricongiungimento famigliare di Diyab, ma sottolinea che la moglie, Usra Al-Husein, si rifiuta di raggiungerlo a Montevideo e che molti paesi si sono rifiutati di autorizzare il passaggio del siriano, anche se solo in transito verso la Turchia. Il ministero degli Esteri ha informato che si è messo in contatto con l’Unhcr e le autorità americane per cercare "una soluzione a tempi brevissimi", ma finora non è riuscito a trovarla.