"Troppa carcerazione preventiva". I Radicali: una malattia italiana di Sabrina Pignedoli Il Giorno, 12 settembre 2016 Intervista a Rita Bernardini: servono misure alternative. "Il caso Mancini? In Italia ci sono moltissimi detenuti nelle sue stesse condizioni: il tribunale decide per la scarcerazione con l’applicazione del braccialetto elettronico. Ma il braccialetto non si trova e, quindi, restano in cella". Rita Bernardini, nel comitato di coordinamento del partito dei Radicali, si occupa da molto tempo della situazione nelle carceri italiane. Come mai non si trovano braccialetti elettronici? "Perché i 2mila che sono stati messi a disposizione sono finiti subito. E dal 2001 che doveva essere indetto un bando di gara europeo per le forniture, ma non è ancora stato fatto". Perché tanto ritardo? "Come al solito questa cosa è stata gestita all’italiana. Abbiamo speso 110 milioni di curo per sei braccialetti durante la fase di sperimentazione e ora mancano i soldi". Costano così caro? "No. In realtà lo strumento è qualcosa di molto semplice, se pensiamo che la localizzazione è talmente diffusa che la possiamo fare anche noi attraverso il nostro telefonino. Quello che occorre è un’apparecchiatura che i detenuti non possano togliersi". E quindi anche chi dovrebbe uscire, resta in carcere. "Esatto, senza contare che si spende di più per mantenere una persona in cella, piuttosto che per acquistare un braccialetto elettronico. Questa è l’assurdità delle criminogene carceri italiane". Mancini è stato protagonista di una rissa in cui è morta una persona. Il giudice che doveva decidere sulla misura cautelare ha riconosciuto che si è difeso e non dovrebbe stare in cella. Non crede ci sia un abuso della carcerazione preventiva? "In Italia si fa un uso spropositato di questa misura preventiva. Dagli ultimi dati del Ministero, su una popolazione di 54.195 persone ristrette, 18.720 sono in attesa di giudizio, chi di primo grado, chi di quello definitivo. Rappresentano il 34,54%. Ma c’è un altro dato interessante". Quale? "Se consideriamo gli stranieri, su 18.311 detenuti, 7.662 sono in attesa di giudizio e rappresentano il 41,84%. Questo vuol dire che non hanno avvocati". L’applicazione di misure alternative al carcere, però, è aumentata. "Effettivamente è così, ma non sono ancora abbastanza perché la magistratura utilizza ancora un sistema che si basa sulla carcerizzazione: l’unica misura concepita è quella del carcere". A volte ci sono aspre polemiche per giudici che liberano persone che tornano subito a delinquere? "La percentuale di recidiva è molto bassa: circa il 95% rispetta le misure alternative che gli vengono imposte proprio perché non vuole tornare in carcere". Quali potrebbero essere le alternative alla detenzione? "Per esempio i lavori socialmente utili. Anche perché il carcere, così com’è in Italia, è un luogo che aumenta la possibilità di delinquere una volta usciti. L’ozio a cui sono costretti i detenuti, l’incapacità di fornire loro alternative anche di formazione professionale, li rende fortemente esposti a commettere reati. Ultimamente ho visitato molti carceri del sud: le situazioni sono pazzesche. E chi esce di lì viene facilmente assoldato dalla criminalità organizzata". Crede ci siano persone che debbono invece stare in cella? "Cambiando questo tipo di carcere sì. Sono le persone pericolose che non hanno fatto il percorso di riabilitazione previsto dalla Costituzione". Le carceri minorili sono piene di adulti: fino a 25 anni possono restare fra i ragazzi di Claudia Osmetti Libero, 12 settembre 2016 La carceri minorili - cioè quelle in teoria riservati a delinquenti minorenni, lo dice la parola - sono pieni di detenuti maggiorenni. Per capirci: in Italia un detenuto su sei, nelle strutture destinate ai minori, ha superato i diciott’anni. In alcuni casi la quota dei "giovani adulti" (così vengono definiti nel gergo carcerario) supera addirittura quella dei minori. Come a Torino, dove su 37 ragazzi dietro le sbarre 20 sono maggiorenni, o anche a Treviso (otto su 14), oppure ancora Bari (10 su 20). L’effetto della legge 117 del 2014, che ha spostato la possibilità di restare nel circuito penale minorile - per tutti quelli che hanno commesso un reato prima della maggiore età - fino al compimento dei 25 anni (prima era 21). Chi si trova in questa posizione, quindi, può fare richiesta di trasferimento nel caso sia stato incarcerato in un normale istituto penale e, una volta ottenuto il nullaosta del magistrato di sorveglianza, viene collocato in una delle 16 strutture adibite a ospitare minorenni. In teoria lo scopo del legislatore è nient’affatto sbagliato: si vorrebbe evitare di abbandonare questi "giovani adulti" nel circuito del carcere normale, per seguirli il più possibile in un processo di reinserimento. Però, c’è anche da dire che un ragazzo per cui è stata disposta la detenzione da quand’è minorenne fino ai 25 anni, probabilmente non è incappato in illeciti da poco. E siccome - anche se questi detenuti dovrebbero stare in sezioni separate rispetto ai minori, invece alla prova dei fatti ciò non avviene - succede che ragazzini si trovino a stretto contatto con uomini che potrebbero instradarli nel inondo del crimine. Per dire: nelle recenti rivolte scoppiate proprio nei carceri minorili, il ruolo dei detenuti maggiorenni è stato determinante. L’ultimo episodio è avvenuto ad Airola, nel Beneventano, una manciata di giorni fa: sui 13 carcerati che hanno sfasciato stanze e lanciato oggetti contro le guardie a causa del mancato arrivo delle sigarette, dieci erano maggiorenni. Stessa cosa a Casal del Marmo (Roma), la settimana scorsa: lì è scoppiata una maxi-rissa per chi doveva aggiudicarsi un tavolo da ping-pong, i pugni se li sono dati sette minorenni e (manco a dirlo) 21 maggiorenni. "L’obiettivo della legge è giusto - rimarca la radicale Rita Bernardini, presidente d’onore di "Nessuno Tocchi Caino" - i problemi, semmai, riguardano la gestione e l’amministrazione della detenzione minorile. Alle volte basterebbe un minimo di attenzione in più, nonostante va segnalatala presenza sempre maggiore di agenti preparati al rapporto con i detenuti anche giovani". A sentire i sindacati della polizia penitenziaria, c’è poco di cui stare allegri: "La giustizia minorile è alla deriva - attacca Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, - e così facendo viene meno pure il principio della rieducazione: vista la presenza massiccia di maggiorenni si è ribaltata la situazione, e siamo arrivati al punto che i più grandi hanno la possibilità di insegnare agli altri il crimine". Senza contare che, in effetti, il passaggio per i maggiorenni dai carceri minorili a quelli normali è impedito, anche e soprattutto, dall’endemica situazione di sovraffollamento di questi ultimi. "Certo, la questione principale resta quella delle carceri - conferma Bernardini - da qualunque parte la si veda. Nel senso che ospitano migliaia e migliaia di detenuti fino ai 25 anni che hanno commesso un reato minore quand’erano già maggiorenni: se anche loro avessero accesso alle strutture minorili, che rappresentano un’altra dimensione del mondo penitenziario e costano pure meno, si risolverebbero alcuni problemi". I figli dei detenuti non sono più invisibili di Gigliola Alfaro agensir.it, 12 settembre 2016 È stato firmato, martedì 6 settembre, il rinnovo del protocollo che riconosce la continuità del legame affettivo con il genitore in carcere. La Carta è stata sottoscritta dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, dal garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, Filomena Albano, e dalla presidente dell’associazione "Bambinisenzasbarre", Lia Sacerdote. Il protocollo, firmato per la prima volta nel 2014, è un documento unico in Europa che impegna il sistema penitenziario a confrontarsi con la presenza quotidiana del bambino in carcere, se pure periodica, e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta. Il guardasigilli Andrea Orlando, la garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano e la presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre onlus Lia Sacerdote hanno siglato, martedì 6 settembre, il rinnovo per altri due anni del protocollo d’intesa "Carta dei figli di genitori detenuti", avviato il 21 marzo 2014. Durante il biennio di applicazione, il protocollo è diventato un modello per la rete europea "Children of prisoners Europe" (Cope) con la quale la onlus firmataria sta conducendo una campagna di sensibilizzazione perché sia adottata nei 21 Paesi membri della rete. Per la tutela dei minori. L’intesa sottoscritta individua nuovi strumenti di azione e rafforza i risultati fin qui ottenuti: la tutela dell’interesse superiore del minore, al quale deve essere garantito il mantenimento del rapporto con il genitore detenuto, in un legame affettivo continuativo, riconoscendo a quest’ultimo il diritto/dovere di esercitare il proprio ruolo genitoriale; la promozione di interventi e provvedimenti normativi che regolino questa relazione, contribuendo alla rimozione di discriminazioni e pregiudizi attraverso la creazione di un processo di integrazione socio-culturale; l’agevolazione e il sostegno dei minori nei rapporti con il genitore detenuto. Il nuovo protocollo ritiene necessaria l’offerta di percorsi di sostegno alla genitorialità sia alle madri sia ai padri sottoposti a restrizione della libertà personale. Secondo dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, c’è stato un incremento degli spazi dedicati ai bambini (sale d’attesa e sale per i colloqui): realizzati in 130 istituti nel 2015 e presenti invece in 171 istituti nel giugno 2016. Aumentano anche ludoteche attrezzate: presenti nell’aprile 2015 in 58 Istituti, sono divenute 70 nel giugno 2016; le aree verdi attrezzate per i colloqui all’aperto risultano 99 nel giugno 2016, di cui 35 destinate ai soli minori. Inoltre, è stato dato impulso presso tutte le sedi, all’adozione di procedure per la prenotazione telefonica dei colloqui e lo svolgimento degli stessi in orari pomeridiani e festivi; la prenotazione dei colloqui risulta possibile, a giugno 2016, in 139 istituti. Bambini invisibili. "Sono tra gli 80mila e i 100mila i bambini che in Italia entrano in carcere avendo un genitore recluso. La presenza dei bambini in carcere è radicale con la loro esigenza di normalità", ricorda Lia Sacerdote, presidente dell’Associazione "Bambinisenzasbarre". "I contenuti del protocollo rinnovato non sono cambiati - spiega Sacerdote. Ma il testo è stato riordinato rispetto ad alcuni articoli: ad esempio l’articolo 1 ha riassorbito parte dell’articolo 3 diventando determinante con l’indicazione della scelta della misura alternativa al carcere quando un adulto ha figli piccoli. È prevista anche la possibilità per i figli di avere accanto il papà o la mamma nei momenti più significativi, come compleanni, il primo giorno di scuola, diplomi, recite, celebrazioni religiose. La definizione di necessità per la concessione dei permessi cambia: di solito vengono dati per le morti, invece adesso anche per tappe positive". Negli ultimi due anni, precisa la presidente di "Bambinisenzasbarre", "sono stati concessi dai magistrati dei permessi, ma finora è stato un aspetto marginale. Il ministero della Giustizia ha promosso gli Stati generali dell’esecuzione penale, conclusi ad aprile 2016: il nostro protocollo è stato recepito come un documento base". La questione, sottolinea, "non è un problema di buoni sentimenti. I figli dei detenuti sono sottoposti a un’emarginazione sociale solo proprio per essere figli di persone in carcere. La visibilità e la forza di una carta dà loro un riconoscimento non solo in quanto vittime, ma anche in quanto soggetti". "Da un’anticipazione di una nostra ricerca - prosegue Sacerdote -, emerge un miglioramento in questi due anni per i luoghi dell’accoglienza, ma per noi non basta adeguare gli spazi, c’è tutto un lavoro di formazione degli operatori penitenziari, in particolare della polizia penitenziaria assolutamente fondamentale per cambiare l’approccio. L’impegno di Bambinisenzasbarre continua sul campo perché le pratiche cambino. Anche il semplice fatto che si parli di questi bambini in modo diverso è un modo per condividere una responsabilità sociale anche con chi sta fuori dal carcere". Esempio positivo. "Questo protocollo è un esempio positivo perché sancisce il diritto dei bambini ad andare in carcere dai genitori detenuti", sostiene Viviane Schekter, vice presidente di Children of Prisoners Europe. "In Europa la situazione è variegata - aggiunge -. Nella maggioranza dei Paesi ci sono ong impegnate sul campo. Alcune hanno finanziamenti dallo Stato, come succede in Svezia e in Norvegia. Invece, in Svizzera e Francia lo Stato dà pochissimo. Un’altra difficoltà è avere dati certi sul numero dei bambini che sono separati dai genitori detenuti. In questo protocollo si prevede proprio un aggiornamento dei dati e spingerà anche gli altri Paesi a fare altrettanto. In alcuni Paesi ci sono dati, ma nella maggior parte sono solo stime. La scusa è che è impossibile avere dati certi: l’Italia che li raccoglie rompe un pregiudizio". Un patto per tutelare i figli dei detenuti di Agnese Moro La Stampa, 12 settembre 2016 Con la firma, lo scorso 6 settembre, del protocollo d’intesa tra Ministero di Giustizia, Garante dell’infanzia e l’associazione Bambinisenzasbarre (bambinisenzasbarre.org) si rinnova un’importante collaborazione, formalizzata già nel 2014 con una apposita Carta volta a tutelare i diritti dei 100.000 bambini e ragazzi che ogni anno frequentano le nostre carceri per andare a trovare i propri genitori. È stata anche l’occasione per mettere a fuoco dei cambiamenti necessari per eliminare dal carcere gli aspetti potenzialmente violenti o traumatici per i minori. Eccone alcuni: mancanza di libertà e di movimento; perquisizioni; divieto di portare i propri oggetti all’interno del carcere; paura di punizione se tale divieto viene trasgredito; eccessiva severità nel comportamento degli agenti che potrebbero tendere ad assimilare i familiari, e, quindi, anche i bambini, ai detenuti facendoli sentire colpevoli; eccesso di rigore nel comportamento degli agenti nei confronti dei genitori detenuti in presenza dei figli. Questo ultimo punto è delicato e importante. C’è il rischio che il genitore rimproverato, ripreso o punito in presenza dei figli sia percepito come un soggetto debole, e quindi incapace di proteggere, invece che come un riferimento sicuro; o anche come una vittima, mettendo in secondo piano il disvalore che il reato commesso dal genitore rappresenta, aprendo la strada a possibili emulazioni. Ovviamente tutto ciò richiede non solo di rimodulare le regole, ma anche di creare tra tutti i soggetti coinvolti un comune modo di sentire e una sensibilità nuova. A questo proposito Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, ha annunciato che i firmatari del Protocollo hanno presentato un progetto europeo che, se approvato, permetterà di avviare una prima fase sperimentale proprio sulla formazione della polizia penitenziaria a un modo diverso di rapportarsi con i bambini e i ragazzi che entrano in carcere per far visita ai propri genitori. "Per Bambinisenzasbarre - ha detto Lia Sacerdote - è sempre stata una questione prioritaria, e che comunque è stata già avviata con incontri sperimentali attraverso il Provveditorato della Lombardia e del Piemonte, utilizzando il modello di formazione che integra la nostra Ecole Enfants Parents, i laboratori di ricerca delle università con cui collaboriamo per un intervento di sistema". Da seguire con attenzione. I nostri lunghi 20 anni di antigarantismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 12 settembre 2016 Ecco qualche esempio di protogrillismo di sinistra in cui si possono rintracciare tracce politiche e mentali che poi confluiranno nell’orgia forcaiola dei 5 Stelle. In un Paese normale, capace di un minimo di rispetto per i valori di uno Stato di diritto, capace di comprendere quanta civiltà sia contenuta nella presunzione d’innocenza tutelata dalla nostra Costituzione, un avviso di garanzia per un assessore non dovrebbe essere motivo di dimissioni, l’iscrizione nel registro degli indagati dovrebbe essere un’ovvietà se sono in corso indagini e chi è indagato avrebbe il diritto di saperne le ragioni per potersi difendere con tutte le garanzie. Punto. Lo psicodramma della giunta 5 Stelle a Roma esplode invece perché la grillizzazione mentale ha fatto dell’avviso di un avviso di garanzia una condanna, con la santificazione di chi conduce le indagini e la demonizzazione di chi è indagato, come se ricevere un avviso di garanzia fosse di per sé un crimine. Si capisce che il grillismo entri in stato di confusione quando ad essere indagato è un grillino. Si capisce la maligna soddisfazione di chi vede funzionare così bene la legge del contrappasso. È un po’ triste però che nella guerra santa contro i grillini, la maligna soddisfazione per i loro guai stia prevalendo in modo così schiacciante sulla resipiscenza garantista che negli ultimi tempi sembrava si fosse finalmente imposta anche nel Pd e tra chi, negli ultimi vent’anni e ancor di più, la bandiera del garantismo non l’ha vista nemmeno da lontano. Vogliamo ricordare qualche esempio di protogrillismo di sinistra in cui si possono rintracciare tracce politiche e mentali che poi confluiranno nell’orgia forcaiola dei 5 Stelle? I ministri che durante Mani Pulite dovevano dimettersi a grappoli dopo un semplice avviso di garanzia, anche se in seguito risulteranno innocenti, e i grillini non esistevano ancora e l’eroico "popolo dei fax", versione mediatica della ghigliottina, veniva glorificato come espressione di genuina indignazione popolare. Il linciaggio simbolico con le monetine lanciate a Bettino Craxi, quando di Beppe Grillo si ricordavano soltanto le brillanti esibizioni comiche in tv con Pippo Baudo. La richiesta di dimissioni del governo Berlusconi nel ‘94 perché sui giornali i magistrati milanesi lanciavano un pubblico "preavviso" di garanzia, ma i grillini ancora non c’erano. E i girotondi attorno ai palazzi di Giustizia con l’elogio delle manette e la condanna preventiva del nemico politico, ma i grillini ancora non c’erano. Ecco, un esame di coscienza per carità, sa di autocritica. Ma un po’ di decenza e di memoria storica? Riapre il Parlamento, sulla giustizia arriva subito la prima fiducia della ripresa di Carlo Bertini La Stampa, 12 settembre 2016 Il primo scoglio sarà la Giustizia, con una serie di nodi che arriveranno al pettine dopo mesi di rinvii. Il governo per evitare guai potrebbe porre la prima questione di fiducia della stagione al Senato, sulla riforma del processo penale, nella parte che riguarda la prescrizione dei reati. A Palazzo Madama va in aula la riforma che tocca nervi sensibili come le intercettazioni e il tempo di prescrizione dei reati: ad agitare il Pd sono alcuni emendamenti di Felice Casson per far partire la prescrizione dal momento della conoscenza del fatto o della sentenza di primo grado: che smontano l’accordo con Ncd su cui il governo ha faticato a raggiungere un’intesa: accordo che fissa le sospensioni della prescrizione dopo il primo e secondo grado. E qualcuno nel governo sta pensando a porre la fiducia, per evitare la discussione in aula di 400 emendamenti che può essere pericolosa per la tenuta della maggioranza. Alla Camera c’è un’altra grana politicamente sensibile. Il decreto legge sul pensionamento dei magistrati, che riguarda un prolungamento solo per i giudici della Cassazione fino a 72 anni. I big del Pd non sottovalutano la questione, affidata non a caso a David Ermini, relatore e responsabile giustizia Pd di stretta fede renziana. Domani comincia l’esame in commissione Giustizia e le polemiche sono già messe in conto. Csm: basta proroghe sui pensionamenti Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2016 Dopo una settimana di discussione il plenum del Consiglio si prepara a bocciare il rinvio deciso dal Governo per i vertici della Cassazione. Il primo punto fermo è che bisogna smetterla con le proroghe dell’età pensionabile dei magistrati. Altri due riguardano la durata della legittimazione per chiedere il trasferimento e quella del tirocinio, che vanno riportate, rispettivamente, a 3 anni e a 18 mesi. Ma resta ancora aperta la questione più delicata del decreto legge 168/2016 che ha previsto la proroga di un anno (fino al 31 dicembre 2017) per i soli magistrati in età pensionabile che ricoprono posizioni apicali della Cassazione e della Procura generale presso la suprema Corte. Due le opzioni sul tavolo: escludere la proroga tout court oppure estenderla. E in tal caso, decidere se estenderla a tutti i magistrati o soltanto a quelli della Cassazione. Ipotesi, quest’ultima, non priva di profili di incostituzionalità, che a conti fatti riguarderebbe 3 consiglieri, mentre nel primo caso sarebbero interessati circa 60 magistrati (di cui 40 con funzioni direttive e semi direttive). È questo il risultato di una settimana di discussione in seno alla VI Commissione del Csm, in vista del parere richiesto dal ministro della Giustizia sul dl 168, che con ogni probabilità verrà approvato domani o martedì e portato in plenum mercoledì o giovedì. Più o meno contemporaneamente all’inizio dell’esame alla Camera, in commissione Giustizia, del Ddl di conversione in legge del decreto. "Sicuramente il nostro sarà un testo propositivo - fa sapere Luca Palamara, che presiede la VI Commissione. È necessario che la conversione in legge del decreto avvenga nel più breve tempo possibile perché c’è assolutamente bisogno di certezze". Incombe infatti il rischio di ricorsi al Tar sia sugli incarichi direttivi già conferiti che da conferire ma anche sui trasferimenti, perché, fra l’altro, il Dl non dice se i 4 anni di legittimazione valgono anche per i concorsi già aperti. Occorrerebbe una norma transitoria o un chiarimento. Ma il nodo più importante da sciogliere è quello della proroga e della sua eventuale estensione a tutti i magistrati (di merito e di legittimità) che entro il 2016 non abbiano ancora compiuto 72 anni, oppure soltanto ai consiglieri della Cassazione. Due opzioni che, ovviamente, scomparirebbero dal tavolo se si dovesse fare una scelta più radicale, a monte, cioè quella di dire no anche alla proroga per gli "apicali". Sul tavolo c’è, peraltro, un’altra opzione, indicata dall’Anm in modo netto, e cioè il ripristino, per tutti, dell’età pensionabile a 72 anni (il governo Renzi l’ha portata a 70 nel 2014 ma ha già varato due proroghe): anche in questo caso a Palazzo dei Marescialli non c’è ancora una posizione. Si fa solo osservare che, in linea di principio, il Csm non è contrario al rinnovamento generazionale con cui era stata motivata la riduzione a 70 anni a condizione, però, di un bilanciamento tra uscite e en- trate, cosa che non è avvenuta e che ha perciò portato alle proroghe a cascata. Su cui il Csm ora dice "basta". Venerdì ha preso posizione contro il Dl anche la Giunta Anm della Cassazione, secondo cui la proroga per i soli magistrati di Cassazione "apicali, direttivi superiori e direttivi costituisce un grave vulnus al principio della distinzione dei magistrati fra loro soltanto per funzioni", fissato dall’articolo 107 della Costituzione, poiché discrimina le toghe di merito da quelle di legittimità e, tra queste ultime, quelle con funzioni direttive dai "soldati semplici". Si critica poi il ricorso alla decretazione d’urgenza e si evidenzia una contraddizione: se il Dl è stato varato per far fronte all’enorme contenzioso della Cassazione, "è difficilmente comprensibile" l’esclusione dalla proroga dei "soldati semplici", che poi sono quelli che vanno in udienza e scrivono le sentenze. Dalle carceri alla sicurezza pubblica: selezione delle ultime massime penali Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2016 Carceri e sistema penitenziario. Permessi - Permesso di necessità - Concessione - Presupposto - Solo in caso di evento unico - Esclusione - Concessione anche nell’ipotesi di vicenda familiare particolarmente grave - Ammissibilità - Condanna per omicidio del richiedente - Irrilevanza. Il permesso di necessità va concesso al detenuto non solo in ipotesi di evento unico, ma anche nel caso di vicenda familiare particolarmente grave e non usuale, idonea a incidere profondamente nella vicenda umana del detenuto e nel grado di umanità della stessa sanzione detentiva. Ne consegue che rientra in questa nozione anche la grave malattia che affligge la moglie di un detenuto anche se questo è stato condannato per omicidio. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 1 settembre 2016 n. 36329. Indagini preliminari. Chiusura - Provvedimento di archiviazione - Non punibilità della persona sottoposta a indagini - Per particolare tenuità del fatto - Garanzia del contraddittorio - Necessità - Mancato rispetto - Nullità del provvedimento di archiviazione - Sussistenza. (Cpp, articolo 411; Cp, articolo 131-bis). Il provvedimento di archiviazione previsto dall’articolo 411, comma 1, del Cpp, anche per l’ipotesi di non punibilità della persona sottoposta alle indagini ai sensi dell’articolo 131-bis del Cpper particolare tenuità del fatto, è nullo se non si osservano le disposizioni processuali speciali previste dall’articolo 411, comma 1-bis, del Cpp, non garantendo il necessario contraddittorio sul punto le più generali disposizioni previste dagli articoli 408 e seguenti del Cpp. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 5 settembre 2016 n. 36857. Misure cautelari personali. Ricorso per cassazione - Per vizio di motivazione del provvedimento - Giudizio della Cassazione - Limiti - Verifica che il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che lo hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario - Sussistenza. (Cpp, articolo 192). In tema di misura cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indici di colpevolezza, alla Corte suprema spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che a esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto o meno ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 6 settembre 2016 n. 37018. Procedimento penale. Registri di cancelleria - Carattere di ufficialità del contenuto - Per le parti e i loro difensori - Esclusione - Valenza meramente interna - Errata annotazione - Conseguenze - Fattispecie. (Dm Giustizia 334/1989). I registri di cancelleria previsti dal Dm n. 334 del 1989, poiché per espressa previsione di legge sono tenuti in luogo non accessibile al pubblico e possono essere consultati solo dal personale autorizzato, non rivestono per le parti e i loro difensori carattere di ufficialità né possono essere considerati fidefacienti circa il loro contenuto, attesa la loro valenza meramente interna e l’assenza del carattere di pubblicità. (Fattispecie relativa a un’annotazione errata su registro mod. 16 circa la data di rinvio di un’udienza, invece correttamente indicata nel verbale di udienza, in cui la Corte ha escluso che potesse configurarsi la nullità ex articolo 178 del Cpp). •Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 31 agosto 2016 n. 35864. Prova penale. Perizia - Perizia grafologica - Conclusioni raggiunte - Scelta del giudice di merito di disattendere il percorso metodologico seguito dal perito - Obbligo di specifica motivazione - Necessità - Semplice prospettazione di un dubbio da parte del giudice - Sufficienza - Esclusione. In materia di prova, sebbene la perizia grafologica debba ritenersi basata su un percorso valutato più che su leggi scientifiche, occorre tuttavia che il giudice di merito dia conto delle specifiche motivazioni per le quali ritenga di disattendere il percorso metodologico seguito, non potendosi cioè basare sulla sola prospettazione di un dubbio che non espliciti neanche quale sarebbe stata la non condivisibile metodologia seguita al perito nel caso in esame. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 6 settembre 2016 n. 36993. Reati fallimentari. Bancarotta - Bancarotta distrattiva e documentale - Sussistenza contemporanea di entrambe le ipotesi - Concessione della circostanza attenuante della particolare tenuità del fatto - Applicabilità - Motivi. (Rd 267/1942, articolo 216). In materia di reati fallimentari, la contemporanea sussistenza di due ipotesi di bancarotta distrattiva e documentale non rende inapplicabile la richiesta di concessione della circostanza attenuante della particolare tenuità del fatto. Ben può darsi, infatti, che a fronte di più comportamenti di rilievo penale ex articoli 216 e seguenti della legge fallimentare, ciascuno dei quali produttivo di una modesta lesione del bene giuridico tutelato dalle norme suddette, il giudice ritenga le due circostanze equivalenti, o giunga a considerare prevalente quella favorevole al reo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 5 settembre 2016 n. 36816. Sicurezza pubblica a forze di polizia. Misure di prevenzione - Pericolosità sociale - Presupposto ineludibile della confisca di prevenzione - Pericolosità qualificata - Ablazione dei beni - Accertamento da parte del giudice - Accertamento del percorso esistenziale del proposto - Pericolosità limitata a un solo anno - Sopravvivenza del clan e assenza di un atto di dissociazione - Sufficienza ai fini della misura - Esclusione. In tema di misure di prevenzione la pericolosità sociale, oltre a essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche misura temporale del suo ambito applicativo. Ne consegue che, con riferimento alla pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta "pericolosità qualificata", il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale e un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato. Pertanto, a fronte di una pericolosità limitata a un solo anno, è alquanto riduttivo rapportare la pericolosità attuale del proposto alla sopravvivenza del clan e all’assenza di un atto di dissociazione. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza settembre 2016 n. 36640. Atto abnorme del Gip l’ordine di imputazione coatta in sede di archiviazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 12 agosto 2016 n. 34881. In materia di procedimento di archiviazione, costituisce atto abnorme, in quanto esorbita dai poteri del giudice per le indagini preliminari, sia l’ordine d’imputazione coatta emesso nei confronti di persona non indagata, sia quello emesso nei confronti dell’indagato per reati diversi da quelli per i quali il pubblico ministero aveva richiesto l’archiviazione. In tali situazioni, infatti, il giudice per le indagini preliminari deve limitarsi a ordinare le relative iscrizioni nel registro di cui all’articolo 335 del Cpp e non tracciare con la sua decisione un percorso che finirebbe con l’espropriare il pubblico ministero del suo diritto-dovere di esercitare l’azione penale, privandolo di capacità di determinazione al riguardo. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 34881 del 2016. Nella specie, sulla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero in relazione alle imputazioni di cui agli articoli 337, 341-bis e 582 del Cp, il giudice per le indagini preliminari aveva ravvisato nei fatti anche gli estremi del reato di cui all’articolo 368 del Cp e aveva conseguentemente disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero al fine della formulazione dell’imputazione per tutti i reati; la Corte ha ritenuto abnorme - annullandolo parzialmente - il provvedimento limitatamente al reato di cui all’articolo 368 del Cp, rispetto al quale doveva intendersi quanto segnalato dal giudice come una mera sollecitazione al pubblico ministero alla valutazione dell’ulteriore ipotesi di reato, con esclusione della possibilità della imposizione della formulazione dell’accusa. La nozione di provvedimento abnorme - Come è noto, la nozione di provvedimento abnorme, come tale censurabile con il ricorso in sede di legit­timità, costituisce una categoria concettuale di costruzione giurisprudenziale, in forza della quale la Cassazione, pur a fronte delle regole generali della tipicità e tassatività dei casi di nullità (articolo 177 del Cpp) e dei mezzi di impugnazione (articolo 568, comma 1, del Cpp), consente di rimuovere quel provvedimento giudiziario che risulti affetto da vizi in procedendo o in iudicando, assolutamente imprevedibili per il legislatore (che quindi non avrebbe potuto prevederli e regola­mentarli, sanzionandoli a pena di nullità), che ne minano alla base la struttura o la funzione. Sotto il primo profilo, dovendosi considerare abnorme il provvedimento del giudice che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risul­ti avulso dall’intero ordinamento processuale (cosiddetta abnormità strutturale); sotto il secondo profilo, dovendosi considerare tale il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere dell’organo che lo ha prodotto, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, sì da determinare una stasi irrimediabile del processo con conseguente impossibilità di proseguirlo, ovvero un’inammissibile regressione a una fase ormai esaurita (cosiddetta abnormità funzionale). In entrambi i casi, la rimozione dalla realtà giuridica non può che passare attraverso la denuncia dell’abnormità davanti al giudice di legittimità: in particolare, poiché proprio l’atipicità del vizio non consentirebbe il ricorso a uno specifico e predeterminato mezzo di gravame, l’esigenza di giustizia può essere appagata, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione, mediante il ricorso immediato per cassazione per violazione di legge (ex pluribus, sezioni Unite, 9 luglio 1997, Quarantelli; sezioni Unite, 10 dicembre 1997, Di Battista; sezioni Unite, 24 novembre 1999, Magnani; sezioni Unite, 31 maggio 2005, Proc. Rep. Trib. Brindisi in proc. Minervini). L’atto abnorme è quindi quell’atto che presenti, nei termini suindicati, difetti strutturali o funzionali assolutamente imprevedibili e comunque non previsti e sanzionati dall’ordinamento processuale, collocandosi a mezza strada tra l’atto nullo e l’atto inesistente. L’atto nullo è necessariamente tipico (articolo 177 del Cpp), trattandosi di atto affetto da vizi espressamente previsti e sanzionati dall’ordinamento con la sanzione della nullità (articolo 178 e seguenti del Cpp). L’atto inesistente è un non atto, nel senso che, ancora più radicalmente rispetto all’atto abnorme, manca dei requisiti minimi necessari a ricondurlo, almeno sotto il profilo formale, a un atto processuale (l’ipotesi tipica è quella della sentenza emessa a non iudice). La categoria dell’atto abnorme è assimilabile a quella dell’atto inesistente per il rilevato carattere della atipicità: in entrambe rientrano vizi che non sono espressamente previsti dal legislatore. La differenza è ravvisabile nella spessore qualitativo dell’anomalia, che nell’atto inesistente è genetica e radicale, tale appunto da determinare l’inesistenza materiale o giuridica dell’atto. L’atto abnorme è pur sempre un atto processuale, anche se affetto da vizi strutturali o funzionali che impongono di rimuoverlo. In questa prospettiva ermeneutica, per rimanere ai rapporti tra pubblico ministero e giudice per le indagini preli­minari, l’abnormità del provvedimento giudiziale è ravvisabile in tutti i casi in cui il giudice, con il provvedi­mento adottato, abbia finito con l’esorbitare dai propri compiti di controllo sull’ attività del pubblico ministero, in tal modo determinando una inammissibile invasione della sfera di autonomia riservato al pubblico ministero in tema di esercizio dell’azione penale, ovvero una indebita regressione del procedimento, in contrasto con il principio di irretrattabilità dell’azione penale, ovvero, ancora, una stasi irrimediabile del processo con conseguente impossibilità di proseguirlo (in tema, per i principi generali, la sentenza delle sezioni Unite, 31 maggio 2005, Proc. Rep. Trib. Brindisi in proc. Minervini). Liguria: il Sappe invoca il ministro Orlando "carceri liguri al limite" cittadellaspezia.com, 12 settembre 2016 "Dall’analisi del Sappe sull’andamento delle carceri liguri esce fuori un quadro negativo da non sottovalutare". Lo afferma Michele Lorenzo, segretario regionale del (Sindacato autonomo Polizia penitenziaria). Ecco i dati forniti dal sindacato stesso: "La Liguria penitenziaria nell’anno 2016 ha chiuso l’istituto penitenziario di Savona ed è stato privato del Provveditorato regionale accorpato con quello del Piemonte originando un Provveditorato interregionale che, al primo settembre, gestiva 5077 detenuti. La sola Liguria, composta da 6 istituti penitenziari, registra una presenza totale di 1.407 detenuti su una capienza regolamentare di 1.109 posti il che la colloca al quarto posto in Italia con tasso di affollamento pari a 125. Male anche l’organico della Polizia Penitenziaria che riporta dati preoccupanti: dal previsto organico pari a 1121 poliziotti penitenziari, oggi se ne contano solo 894 unità con una carenza di 227 unità ma il dato su cui riflettere e su cui intervenire è quello relativo ai distacchi fuori sede che equivalgono a 275 a vario titolo ed in varie sedi (per distacchi s’intende personale che svolge servizio in altra sede rispetto a quella di assegnazione e può avvenire sia su richiesta dell’interessato che per esigenze dell’Amministrazione). Inoltre questi dati non tengono conto del personale assente per malattia anche per lunghi periodi che incidono sul trend negativo dell’organico". "Tra le caratteristiche negative che riguardano la Regione si deve tenere conto delle condizioni sanitarie e della presenza di detenuti con particolari problemi; ad esempio al 1° Giugno nelle celle della Liguria erano presenti 43 detenuti con HIV, 215 con Epatite C e 338 tossicodipendenti ai quali bisognerebbe aggiungere i detenuti con problemi psichiatrici che dovrebbero essere ospitati nelle strutture protette denominate R.E.M.S. oggi non presenti in Liguria. In aumento anche gli eventi critici determinati dalla popolazione detenuta: nel 2015 la Polizia Penitenziaria ligure ha salvato 45 detenuti che avevano tentato il suicidio, anno in cui purtroppo si segnalano due suicidi, 606 atti di autolesionismo il che comporta l’invio del detenuto presso le strutture ospedaliere con impiego di unità per garantire la sicurezza nei luoghi esterni, 170 episodi violenti tra risse, colluttazioni ed aggressioni con 26 ferimenti, oltre a 11 incendi e 50 celle danneggiate. Questi sono solo alcuni esempi dei 1.531 eventi registrati durante il 2015 ai quali si è dovuta confrontare la Polizia Penitenziaria. Ma il primo semestre del 2016 è già in negativo registrando purtroppo un suicidio nel carcere di Genova Marassi e si sono già registrati 270 atti di autolesionismo, 89 colluttazioni, 49 danneggiamenti a celle e 19 tentativi di suicidio, così come è in fattore di attenzione il rischio di introduzione di oggetti non consentiti, La Polizia Penitenziaria ha intercettato e bloccato due coltelli, 10 telefoni cellulari e sventato 6 introduzione di sostanze stupefacenti. Questa mole di "problematiche" viene contrastata solo dalla tenacia e professionalità della Polizia Penitenziaria spesso non valorizzata e sempre in una forte carenza d’organico". "È ovvio - conclude segretario regionale Lorenzo - che la Liguria non può reggere tale ritmo, quindi è indispensabile che il Ministro Orlando chieda ai responsabili dell’amministrazione ligure il loro interessamento, ma soprattutto viene richiamata l’attenzione dei politici liguri, perché il combinato aumento popolazione detenuta, eventi critici e carenza della Polizia Penitenziaria, rischia di compromettere seriamente tutto l’assetto sicurezza delle carceri liguri e ciò che è collegato". Trento: carcere di Spini di Gardolo, nel 2015 i detenuti sono aumentati del 50% La Voce del Trentino, 12 settembre 2016 L’istituto statistica della provincia di Trento (Ispat) ha comunicato i dati relativi alle presenze nelle carceri di Trento nell’anno 2015. Il totale delle persone detenute nella carceri di Spini di Gardolo sono 352, divisi in 340 maschi e 12 femmine. Per età i detenuti maggiori presenti nella struttura sono quelli oltre i 50 anni, ma tutte le età sono rappresentate in modo trasversale. Il 15% dei detenuti non supera i 24 anni. 244 detenuti dei 352 sono stranieri e 108 invece italiani. Da segnalare il forte aumento dei detenuti rispetto al 2014 (erano 223 nel 2014) che sfiora il + 50%. Purtroppo, nel 2011, era stato firmato un accordo fra il governo Dellai e il ministro Alfano che è stato sempre disatteso nei suoi contenuti. L’articolo 9 dell’accordo (riportato in fondo all’articolo) parla infatti che nel carcere di Trento il massimo della capienza non può superare i 240 detenuti. Improvvisamente però nel settembre del 2015 il governo Renzi ha inviato nelle nostri carceri circa un centinaio in più di detenuti, la maggior parte dei quali "sex offender", cioè uomini gravati da pene per violenza sui minori, sulle donne, ecc., che ha creato problemi di sicurezza e di tutela per questi soggetti. La situazione da allora è diventata ingestibile sia a livello di sicurezza sia a livello sanitario, infatti si dovrebbero assumere altri operatori per arginare questo stato di emergenza, cosa che fino ad ora non è successa. È pur vero che l’assessore Zeni e il governatore Rossi stanno confrontandosi con il primario del pronto soccorso del carcere Dottor Ramponi per cercare una soluzione, ma i tempi sembrano lunghi. Da parte del ministro Alfano è grave aver violato e disatteso l’accordo preso con la provincia di Trento al momento della costruzione delle carceri di Spini. Sulla questione Fraccaro del movimento cinque stelle aveva anche presentato un’interrogazione e anche il sindacato di polizia penitenziaria aveva fatto reclamo. Treviso: proteste al carcere minorile, tre giovani detenuti finiscono all’ospedale di Marco Filippi La Tribuna di Treviso, 12 settembre 2016 I ragazzi ingoiano lamette, gridano e si azzuffano. Finiti all’ospedale, creano scompiglio nel reparto tra i pazienti. Se avessero voluto emulare i detenuti del carcere minorile di Airola, dove qualche giorno fa è scoppiata una vera e propria rivolta, oppure se avessero desiderato soltanto manifestare il loro profondo disagio questo ancora non si sa. Quel che è certo è che, all’Istituto penitenziario minorile di Treviso, venerdì mattina, tre giovani detenuti hanno messo in atto una singolare forma di protesta che ha provocato parapiglia e caos prima all’interno della struttura per minori di Santa Bona e poi, successivamente, all’ospedale "Ca Foncello". La vicenda è emersa dopo un intervento del sindacato di polizia penitenziaria "Sappe" nel quale, oltre a parlare della violenta forma di protesta, culminata anche con atti di autolesionismo, si fa cenno alla preoccupante frequenza con la quale si ripetono simili episodi e alla professionalità dimostrata dai agenti, costretti ad operare rischiando comunque la propria incolumità fisica. I protagonisti sono tre giovani reclusi nell’Istituto penale minorile di Santa Bona: un mestrino, un palermitano ed un tunisino. Tre giovani già noti per aver creato problemi in passato all’interno della struttura. Venerdì mattina, secondo le poche notizie filtrate sulla vicenda, hanno creato scompiglio e rissa all’interno della struttura. "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, - spiega in una nota stampa Donato Capece, segretario generale del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria - gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. Nonostante la folle protesta dei tre detenuti, i bravi poliziotti hanno contenuto al meglio le proteste. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere minorile di Treviso a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza, anche se le gravi violenze proseguite in ospedale aiuta a far comprendere la complessità della situazione". Ed in effetti, dopo aver creato scompiglio, i tre giovani detenuti hanno compiuto una serie di atti autolesionistici, ingoiando lamette, per i quali s’è rivelato necessario il loro ricovero al Cà Foncello di Treviso. E anche qui hanno iniziato ad urlare e a disturbare, nonostante fossero all’interno di una stanza adibita all’accoglienza proprio di detenuti. "Nonostante i richiami - conferma il direttore generale dell’Usl Francesco Benazzi - hanno effettivamente a urlare e a creare confusione". Il rappresentante nazionale del Sappe, Capece, sottolinea come arrivino "segnali preoccupanti dall’universitario penitenziario minorile. Abbiamo registrato con preoccupante frequenza e cadenza, il ripetersi di gravi eventi critici negli istituti penitenziari per minorenni. Ed è per questo che mi stupisco di chi "si meraviglia" se chiediamo una revisione delle recente innovazioni legislative che consentono la detenzione di ristretti adulti fino ai 25 anni di età nelle strutture per minori". Milano: idroscalo e degrado, il sì del sindaco all’impiego dei detenuti giardinieri di Paolo Foschini Corriere della Sera, 12 settembre 2016 Pronti a partire con i corsi di botanica e agraria. La proposta arriva dal provveditore delle carceri lombarde Pagano: l’importante è iniziare. La Città metropolitana ha subito dato il suo consenso a procedere all’iniziativa. Detto fatto. La prima riunione c’è già stata e i volontari delle Giacche verdi guidati da Alberto Scabioli sono pronti per tenere ai detenuti i primi corsi di botanica e giardinaggio. Lunedì 12 settembre sopralluogo tecnico con i centri sociali del Comune. Giovedì altro incontro operativo per definire le modalità delle borse lavoro e gli ulteriori passi burocratici da compiere. Ma il punto è che sarà una cosa veloce: entro poche settimane e salvo imprevisti allo stato non previsti l’arrivo dei detenuti all’Idroscalo per curarne la manutenzione sarà una realtà. E il sindaco Beppe Sala, qui nella sua veste di presidente della Città metropolitana, si dichiara orgoglioso di sposare il progetto al cento per cento: "L’esperienza dei cento detenuti che avevano lavorato per Expo era stata positiva da tutti i punti di vista e per questo sono molto contento che si possa ripetere all’Idroscalo. Ho fiducia nel suo avvio in tempi rapidi. E mi auguro che anche in questo caso sia, a sua volta, un punto di partenza per ulteriori collaborazioni". L’idea era partita dal provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano che, saputi i problemi di soldi per la manutenzione dell’Idroscalo e fatte le stesse considerazioni di Sala alla conclusione dell’Expo, raccolta l’adesione di quest’ultimo si è immediatamente mosso di concerto col direttore del bacino Alberto Di Cataldo che a sua volta non ha perso tempo. Così ieri pomeriggio, mentre là si concludevano i campionati italiani di canoa, Scabioli delle Giacche verdi si prendeva con lui l’impegno non solo di dare ai detenuti i primi insegnamenti sul lavori che dovranno fare ma anche di tener loro gli obbligatori corsi sulla sicurezza. Naturalmente andrebbe ricordato che, nella finora perdurante e totale o quasi assenza di fondi, se anche questo progetto andrà in porto lo si dovrà all’impegno di una serie di persone che dell’Idroscalo si sono evidentemente innamorate aldilà degli orari e mansioni che per contratto avrebbero. Come gli unici due cantonieri rimasti nell’organico del Parco, Maurizio Palomba e Corrado Raeli, che dopo aver fatto i salti mortali per rendere almeno presentabili le rive al pubblico dei campionati si son già detti pronti a collaborare con i detenuti fin da questo autunno, affinché acquisiscano pratica per quando il lavoro si farà più pesante in primavera. O come i funzionari Paolo Bianchi e Giannandrea Garavaglia, che domani accompagneranno i servizi sociali del Comune a capire sul posto quali compiti, oltre al verde, potranno essere affidati ai detenuti. Il coinvolgimento del Comune nasce dal fatto che, oltre alla componente di volontariato consentita attualmente dall’articolo 21 sul lavoro esterno, esiste uno strumento - quello delle Borse lavoro, gestite appunto dal Comune - che consente dare ai detenuti almeno un piccolo compenso. E poi c’è un altro grimaldello da sfruttare, vale a dire il Protocollo d’intesa già esistente e recentemente rinnovato tra Città metropolitana e provveditorato stesso: tutte cose che costituiranno l’ordine del giorno della riunione già fissata come si diceva per giovedì prossimo. Il difficile, come è ovvio, sarà più avanti. E cioè quando si tratterà di trasformare - se l’esperimento funzionerà come tutti si augurano - l’esperimento in esperienza duratura e in qualche modo consolidata: "Ma l’importante - aveva detto Pagano fin dall’inizio - è partire con quel che si ha e nel modo in cui si può. Perché le esperienze positive concrete poi ne generano altre. In Italia - prosegue ora - ci sono circa 20mila detenuti che per posizione giuridica potrebbero già uscire, anche in forma variamente controllata, ma restano dentro unicamente perché fuori non hanno neppure un domicilio, un posto dove andare, un lavoro per mantenersi. I progetti di reinserimento non sono un atto di buonismo, sono un investimento della società su sé stessa perché tolgono a molti tra quanti hanno commesso un reato il principale motivo per tornare a commetterne. Lo dicono i numeri: la recidiva tra chi sconta la sua pena lavorando all’esterno è quasi nulla rispetto a quanti se la fanno tutta in galera. E ventimila detenuti in meno nelle carceri vorrebbe dire, di conseguenza, migliori condizioni per chi in carcere deve invece restarci: con più possibilità di recupero anche per questi ultimi, a loro volta. Pulito chiama pulito: bisogna partire". Santa Maria Capua Vetere (Ce): in carcere è ancora emergenza acqua di Alberto Gatto Roma, 12 settembre 2016 In attesa della nuova condotta l’acqua è marrone e puzza, l’appello dei detenuti. È stata firmata ad inizio agosto la convenzione tra il Comune di Santa Maria Capua Vetere e la Regione Campania per l’erogazione dei fondi, pari a 2 milioni di euro, necessari a finanziare la realizzazione dei quattro chilometri di condotta che porteranno finalmente l’acqua all’istituto penitenziario sammaritano. Una misura che si è resa necessaria dopo le criticità che hanno interessato non solo i detenuti ma anche gli addetti ai lavori del carcere. Per fronteggiare l’emergenza idrica, in atto da mesi presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dovuta al mancato collegamento dell’impianto idrico dell’istituto all’acquedotto comunale, nei primi mesi del 2015 è stata notevolmente diminuita la presenza dei detenuti, disponendo, tra l’altro, il trasferimento di circa 130 detenuti, di cui 30 del circuito Alta Sicurezza, presso altri istituti campani. Per ora la condotta che porterà l’acqua al carcere di Santa Maria Capua Vetere non è stata ancora ultimata e detenuti e addetti ai lavori hanno affrontato l’ennesima estate alle prese con la mancanza d’acqua. La lettera dei detenuti. Una situazione insostenibile che ha spinto cinquanta detenuti a sottoscrivere e inviare al nostro quotidiano l’ennesimo appello: "Siamo i detenuti della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, le scriviamo questa lettera perché costretti dalla totale inerzia e non curanza degli organi competenti in materia e soprattutto per sensibilizzare l’Opinione pubblica sulla grave situazione di disagio e sofferenza in cui ci troviamo da anni. Ci troviamo a lottare da tempo con il problema dell’acqua. Non parliamo soltanto della scarsità nel periodo estivo ma della qualità dell’acqua che attualmente è di colore marrone e puzza. Pensate che per cucinare la direziono del carcere ci fornisce sette bottiglie di due litri a testa a conferma di quanto stiamo denunciando. Ovviamente queste sette bottiglie non riescono a soddisfare tutti i nostri bisogni: per uso personale, per pulire gli alimenti, gli indumenti etc. etc. Pensate che se proviamo a lavare una maglietta bianca con l’acqua dei rubinetti questa diventa gialla". I detenuti poi elencano anche una serie di lacune del carcere comuni a gran parte degli istituti penitenziari della Campania ma ci tengono a sottolineare il fenomeno dei roghi tossici che colpisce anche loro: "Non sappiamo spiegare il perché ogni sera intorno alle 20,30 danno fuoco a delle plastiche dietro la struttura penitenziaria e ovviamente la puzza acre del fumo invade le celle e l’aria diventa irrespirabile". Napoli: l’emergenza babygang e la spirale dell’indifferenza di Oscar Giannino Il Mattino, 12 settembre 2016 Traendo spunto dalle inchieste svolte in questi giorni dal Mattino, ho posto agli ascoltatori di Radio 24 una domanda secca. Come è possibile che nel nostro paese diamo da anni un’enorme attenzione nel dibattito pubblico alle trasposizioni delle gesta delle baby gang camorristiche nei libri, nelle serie televisive e cinematografiche, com’è avvenuto per Gomorra e come avverrà per Robinù di Santoro presentato al Festival di Venezia, quando invece nessuno dei media nazionali - giornali, radio, tv - riserva alcun rilievo paragonabile alla terrificante realtà che avviene ogni giorno, a Napoli e nel suo hinterland? Perché è proprio così. Si tratti del Corriere o del Tg Uno, dei talk televisivi o di Repubblica, nelle pagine e nelle edizioni nazionali non ci sono le sparatorie e gli omicidi, le "stese" e le molotov contro negozi e presidi di polizia e carabinieri. Non c’è niente, della terrificante avanzata a Napoli di una criminalità aggressiva e senza regole, che vede sempre più minorenni imbracciare i kalashnikov e credere ciecamente che quella sia l’unica via per farsi una vita e avere soldi. Al massimo c’è una breve di cronaca quando si arriva ai confini dell’irreale anzi oltre, come il bimbo di 8 armi fermato per l’aggressione a un altro giovane. Di fatto, la risposta prevalente negli sms e telefonate degli ascoltatori spiegava benissimo perché i media nazionali non diano alcun rilievo a questo fenomeno. Un misto di rassegnazione, assuefazione, fatalismo, e soprattutto totale sfiducia che ciò che determina questa clamorosa sconfitta della legalità possa davvero trovare soluzioni concrete. In parole povere, un’ennesima drammatica conferma del Sud lasciato a se stesso, alle sue piaghe considerate come ataviche da una parte, e irresolubili dall’altra, perché connaturate a un’etica privata e pubblica premoderna, e violenta in quanto arcaicamente pre-esistente a ogni patto di convivenza civile. Stiamo ancora messi così, inutile negarlo. Anzi, siamo considerevolmente regrediti negli ultimi anni, quanto a convinzione che sono non solo necessari, ma del tutto possibili interventi adeguati a debellare il deserto sociale, culturale ed economico su cui alligna il nuovo mito giovanile dell’affiliazione malavitosa. Da notare: anche molti ascoltatori napoletani esprimevano un eguale scoramento. Facciamo allora un solo esempio, di quanto invece si può e si deve fare. C’è, l’alternativa alla bandiera bianca e all’indifferenza verso la criminalità. E non è fatta solo dipiù poliziotti, carabinieri e magistrati, per il presidio territoriale e assicurare alla giustizia i colpevoli Su queste colonne avete letto che 1’80% dei detenuti negli istituti penitenziari minorili italiani sono meridionali. Stiamo parlando di alcune centinaia di giovani, non delle migliaia e migliaia degli anni 60 e 70 del Novecento, prima cioè della riforma penitenziaria del 1975. Ma quell’80% di giovani meridionali nelle carceri minorili dice tutto, del fatto cioè che lo Stato tenga gli occhi voltati dall’altra parte. Già la riforma dell’O.P. fissava la necessità di un ordinamento penitenziario ad hoc per i minori. Sono passati 41 anni, e non ce n’è traccia. Vedremo se il vulnus sarà sanato con la legge delega di riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, che galleggia in parlamento e che dovrebbe prevedere anche nuove norme penitenziarie specifiche per i minorenni e per i giovani adulti. Ma il punto è che, riforma o no, i giovani meridionali detenuti sono svantaggiati per quattro ordini di ragioni, rispetto ai pochi del Nord. Ai meridionali si applicano molto meno istituti alternativi alla custodia in carcere, come l’affido in comunità. Lo stesso vale per la messa in prova. La terza ragione è che al Sud la carenza di educatori nelle carceri minorili è ancor più grave che al Nord. E la quarta è che negli istituti del Sud sono detenuti anche maggiorenni, cioè esattamente i capi delle baby gang camorristiche che vogliamo sconfiggere. Importa poco sapere che la compresenza in una stessa struttura di minori e maggiorenni colpevoli magari di gravi e gravissimi reati sia legale, secondo il nostro ordinamento, giustificata dalla carenza di strutture. Il problema così diventa irresolubile davvero: poco impegno dello Stato per espiantare il mito camorrista nei quartieri delle città, e addirittura favoreggiamento dello Stato al proselitismo e all’affiliazione nelle carceri minorili, da parte dei capi detenuti nei confronti dei giovani presenti nella stessa struttura penitenziaria. Basterebbe poco per cambiare queste norme. E almeno negli istituti penitenziari stiamo parlando della necessità di qualche centinaio di educatori, non di decine di migliaia. Insomma uno sforzo di poco conto, rispetto all’immensa opera sociale che serve invece a Napoli e in Campania per sconfiggere dal basso la tentazione di imitare i protagonisti di Gomorra e di fare la loro stessa scelta di vita. Non raccontiamoci la pietosa menzogna che è tutto inutile, e che serve "ben altro". È l’aver rinunciato a un’agenda politica m cui campeggino anche solo alcuni primi passi necessari per sconfiggere la camorra, ad averci portato alla rinascita tumultuosa sul territorio di nuove gang e famiglie malavitose tra loro in lotta a colpi di facili d’assalto, una volta che si erano celebrati finalmente grandi processi contro le famiglie "storielle" delle grandi reti di criminalità organizzata. È colpa innanzitutto dei politici napoletani e del Sud, non tenere alte le richieste per questo tipo d’interventi, come vergognandosi di un Sud che non sia di successo e all’avanguardia. Ma parliamoci chiaro; la sconfitta non è solo della politica. È il più della società civile, ad essersi ammalato di sfiducia e impotenza. È un male che è entrato dentro di noi, quello che ci fa guardare Gomorra alla tv e chiudere le imposte se sparano sotto casa nostra. Dobbiamo esserne consapevoli. O ciascuno di noi per primo spezza la spirale dell’indifferenza, oppure altre migliaia di giovani napoletani e meridionali cadranno nelle spire della criminalità. Napoli: Davide, ex detenuto minorenne... lo ha salvato la pizza di Francesco Lo Dico Il Mattino, 12 settembre 2016 Nisida è un’isola timida. Se ne sta a due passi dalla riva senza avere il coraggio di nascondersi tra le onde. Per chi l’ha abitata da dentro, Nisida è un vecchio vascello che non è mai riuscito a salpare via. Una grande barca, aggrappata alla terraferma in un abbraccio di rocce e cemento, che è rimasta incagliata per sbaglio. Che ai giovani naufraghi che la abitano fa collera e rabbia, perché come loro non sa fare a meno del mondo. Di quel mondo che ogni isola che si rispetti deve tenere lontano, se non vuole morire di nostalgia. Anche Davide, perché Davide vogliamo chiamarlo, non vedeva l’ora di lasciarla. "Da là si vedevano i giochi d’artificio, e si sentivano pure i clacson se il Napoli vinceva e le persone che facevano festa", racconta. Nel penitenziario dell’isola, Davide ci ha trascorso appena un mese, nel 2009. Ma di quel piccolo mondo non ha bei ricordi. "Bastava un niente, per prendere schiaffi. Troppi schiaffi e poche parole. Pure un ragazzo che ha sbagliato ha diritto ad essere ascoltato. Non dico sempre, ma almeno qualche volta". Un’infanzia trascorsa al Mater Dei, "dove c’era poco da fare", dove la giornata era scandita dai rintocchi di un pallone contro il muro, contro i portoni, contro ogni cosa. Le prime gazzarre, le prime uscite, le prime donne. E le prime "innamorate" strette in pugno, lucide e fredde, con il cuore in gola e lo sguardo feroce. Dopo qualche furto, e qualche altra bravata, Davide finisce per la prima volta tra le sbarre a 14 anni, dopo una rapina a mano armata. Da lì una trafila di affidi falliti, di messe alla prova, fuori e dentro dal carcere. Molte volte, troppe volte. "Forse erano le circostanze, forse le debolezze, forse avevo voglia di sentirmi più grande", confessa Davide. E forse, di sentirsi qualcuno, in qualche modo, nell’unico posto che conosceva. "Ci ricascavo sempre perché ormai sapevo che cosa erano i soldi. Ne volevo tanti e li volevo subito. Più ne facevi e più ne volevi, più ne facevi e più ne spendevi". Nella vita di Davide Nisida è stata una parentesi poco felice. "Là molta gente non sa fare il suo lavoro. Ne succedono di cose, ma tante si fanno succedere perché i controlli non sono come dovrebbero essere", dice sibillino. Un brutto incidente in un cammino travagliato lungo sette anni, e largo quanto i pochi metri della sua cella. "Ad Airola ci ho trascorso tre anni - racconta - ma devo dire che lì mi sono trovato molto meglio. Non voglio dire che c’è compassione, perché "compassione" è una brutta parola, ma di sicuro posso dire che ti ascoltano. Se chiedi una sigaretta, te la danno. Ti parlano. E gli educatori riescono a tirarti fuori la speranza, quando la speranza non la riesci a vedere neppure tu". Le sigarette, ad Airola, sono state di recente il pretesto di una feroce rivolta. Si è parlato dei baby boss, dei più grandi che traviano i più piccoli. "Ma non è questione d’età - commenta Davide - lì si ragiona più in base alle esperienze. Chi ne ha fatte di più è più rispettato. E non manca mai chi influenza gli altri: li spinge avanti al suo posto per non inguaiarsi, una cosa che non mi è mai piaciuta". A farlo arrabbiare, della sua prima vita in galera, è stato quello che per gli altri diciottenni, quelli liberi, è spesso il giorno più bello. "Quando sono diventato maggiorenne volevo fare crescere la barba perché ero diventato un uomo. Ma a noi detenuti era vietato. Che cosa c’è di criminale nel portare i baffi, o tenere i capelli lunghi? Io certe regole non le ho mai capite, ma dove stanno scritte?". Gli hanno voluto bene ad Airola, ce lo ripete più volte. "Ma più di tutti mi ha voluto bene Antonio, per me è stato un padre". Antonio Franco, il presidente dell’Associazione Scugnizzi, è stato anche l’uomo che ha cambiato la vita di Davide. "È quando l’ho incontrato che ho capito di avere sbagliato tutto". Circa due anni fa, Franco lo ha messo alla prova. Davide è diventato uno dei provetti pizzaioli di "Finché c’è vita c’è speranza". "Ho imparato un mestiere, un mestiere che mi piace. Fare le pizze richiede passione e fatica, e se ti manca la voglia scappi dal forno dopo il primo giorno". Un anno e mezzo fa, Davide ha avuto il primo contratto di lavoro della sua vita. Ha 22 anni. E lavora in uno dei ristoranti dei Fratelli La Bufala, apprezzato per la sua puntualità e la sua bravura. "Mi sono sposato e ho una bimba di cinque mesi". Ancora non sa che cosa vorrà insegnarle. "Per ora mi godo la gioia che mi ha dato. Per insegnarle c’è tutto il tempo". Nisida è ormai lontana. Il viaggio è finito. E Davide non ha fretta. Ormai è tornato sulla terraferma. Cagliari: Carmelo Sardo presenta i suoi libri nel carcere di Uta cagliaripad.it, 12 settembre 2016 Presenterà i suoi libri nel carcere di Uta, martedì 13 settembre alle 10:30, Carmelo Sardo. Anche in questa occasione, come nelle precedenti (carceri di Milano, Roma, Padova, Sulmona, Palermo, Agrigento, Trapani, Siracusa) saranno presenti decine di detenuti, alcuni dei quali condannati all’ergastolo ostativo, una forma di ergastolo che non prevede la concessione di alcun beneficio per la mancata scelta di collaborare con la giustizia. È questo l’argomento centrale su cui ruotano le presentazioni dei libri di Sardo. L’incontro sarà introdotto dal direttore del penitenziario Gianfranco Pala e coordinato dall’educatore Davide Massa. Sono previsti interventi dei detenuti che in altre occasioni in altre carceri hanno interagito con l’autore. Sempre martedì, ma alle ore 18, l’autore presenterà il suo ultimo romanzo "Per una madre" nella libreria Murru di Cagliari. Relatore sarà Davide Grosso, letture a cura di Donatella Floris. Carmelo Sardo, originario di Agrigento, vice capo redattore Tg5, esordisce nella narrativa con "Vento di Tramontana", un romanzo che affronta in forma autobiografica i temi dell’ergastolo raccontando l’esperienza dell’autore nel supercarcere siciliano di Favignana all’epoca del suo servizio militare come agente di custodia. Proprio per i temi trattati di riscatto, di redenzione dei detenuti, viene invitato in diverse carceri italiane a parlare di ergastolo e di resipiscenza. Il suo secondo libro "Malerba" è un successo: scritto a quattro mani con il detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, vince il "Premio Leonardo Sciascia" Cinema. Le anime di Napoli divise dal film "Robinù" di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2016 Il cardinale e il pm. Sepe contro il documentario di Santoro. Woodcock: "Dovrebbero vederlo tutti". C’è una Napoli borghese che non reagisce al dramma dei baby boss che si ammazzano tra loro". Lo ha detto Henry John Woodcock, il pm che ha sostenuto l’accusa nel processo alla "paranza dei bambini" di Forcella. Parole pronunciate poche ore dopo aver assistito alla Mostra di Venezia all’anteprima di Robinù, il docufilm di Michele Santoro, Micaela Farlocco e Maddalena Oliva sui giovanissimi che si fanno la guerra a colpi di "kalash" nel centro storico e fanno avanti e indietro tra i vicoli e le carceri minorili. Più di un anno fa, a un convegno dell’Università Federico II, il pm lanciò la proposta di restituire il popolare Teatro Trianon ai ragazzini di Forcella. "La borghesia - afferma oggi Woodcock - dovrebbe decidersi a uscire dal suo isolamento, smettere di ignorare quel che sta accadendo e fare qualcosa". L’appello del magistrato, ripreso sulle pagine napoletane di Repubblica, ha scosso la coscienza della città e ha rinnovato un dibattito che punta il dito sulla "Napoli divisa in du e", definizione coniata da padre Alex Zanotelli dopo l’omicidio in piazza Sanità di Genny Cesarano, 17enne colpevole soltanto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il Cardinale Crescenzio Sepe, guida spirituale della comunità cattolica di Napoli, non è riuscito ad andare oltre le analisi minimaliste e gli appelli alla redenzione: "Robinù? Non credo che tutti i giovani siano così. Ai giovanissimi che sbagliano dico: ripensate alla vostra vita, recuperate la vostra giovinezza". A Napoli ci sono anche due Chiese: una che è a più agio coi salotti e il potere, un’altra che con pochi mezzi e a mani nude prova a strappare i giovani dai clan. "Ci sono due Napoli che non dialogano - sostiene il pm Giovanni Corona - e fino a quando la Napoli dei professionisti non dialogherà e coinvolgerà quella delle tante persone per bene che vivono nei quartieri difficili e nelle periferie, non cambierà mai niente". Corona è il sostituto procuratore che indagò sulla faida di Scampia del 2004, ventenni che si sparavano a vista per ereditare il potere dei Di Lauro, ma allora la parola "baby boss" non esisteva. "Dopo l’ennesima retata, dissi che noi pm eravamo il pronto soccorso di malati ormai gravi di cui avrebbero dovuto occuparsi prima politici, imprenditori, urbanisti, per risollevare quelle aree dal degrado in cui ci si "ammalava" di delinquenza". Corona fa qualche esempio: "C’è una metropolitana che va da Secondigliano al Vomero e che è vissuta come un problema di ordine pubblico. Smetterà di esserlo se invoglieremo ad andare a Secondigliano con un teatro, un palazzetto dello Sport o l’Università promessa da anni". Ed ancora: "Recentemente ho accompagnato una persona a prendere possesso del suo incarico in una scuola della periferia nord. È priva di lavagne elettroniche e di tutte quelle strutture comuni a qualunque scuola. Siamo andati in scooter. Eravamo gli unici col casco. Per strada a darci indicazioni c’erano solo bambini di 5 anni. Avevano in mano perfette riproduzioni di pistole calibro 9x21 e ci hanno salutato facendo finta di spararci". Come si esce da questa cultura? "Portando nelle periferie i migliori professori e le migliori menti di Napoli". Per far incontrare mondi che si evitano. "Così Napoli avrà una sola anima". Libri. "Voci del verbo andare", da Lampedusa a Berlino di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 12 settembre 2016 Le storie dei profughi africani che vivono nella capitale tedesca fanno da filo conduttore a "Voci del verbo andare", ultimo libro della scrittrice Jenny Erpenbeck. C’è un ponte immaginario che collega Lampedusa alla Germania; porta il nome di Oranien ed è una piazza che si trova a Berlino nel quartiere di Kreuzberg. Jenny Erpenbeck, scrittrice tedesca tra le più acclamate nel suo paese che ha all’attivo romanzi di grande pregio oltre che premi prestigiosi, è ospite al Festivaletteratura di Mantova che si conclude oggi; proprio nel 2013 ha conosciuto un gruppo di tredici persone, tra uomini e donne perlopiù africani che in centinaia sono riusciti ad arrivare a Berlino dopo essere sbarcati a Lampedusa. Il suo ultimo lavoro appena pubblicato per Sellerio si intitola Voci del verbo andare (traduzione di Ada Vigliani, pp. 349, euro 15) e prende spunto dalla sua esperienza diretta con alcuni migranti incontrati a Berlino… "Passavo spesso per Oranienplatz. Poi un giorno sono stata colpita dalle voci di un gruppo di stranieri che, suppongo, stavano protestando e chiedevano attenzione, aiuto; ho assistito alla scena del tentativo di sgombero. Ho trovato spontaneo avvicinarmi e parlare con ciascuno e ciascuna di loro. Quello è stato il primo di una serie di incontri. Così, mentre conversavo, scrivevo ciò che accadeva, che mi veniva detto raccogliendo un materiale che oltre alle interviste - durate complessivamente dalle 6 alle 8 settimane - ho pensato di sistematizzare in una narrazione che avesse uno sfondo di fiction. Il romanzo nasce in questo modo, dopo che ho guardato le storie di queste donne e uomini, riportate abbastanza fedelmente e di cui ho chiesto poi ulteriore conferma. Un ragazzo che ho conosciuto a Oranienplatz vive con me. Fatao è del Ghana ma è partito dalle coste libiche. La famiglia era talmente povera che non ha potuto frequentare la scuola, così ha deciso di spostarsi in Libia fino a quando non è scoppiata la guerra civile. Procurati i soldi necessari, ha deciso di partire alla volta di Lampedusa; ora fa piccoli lavoretti, del resto non può fare altro. È stato nove mesi a Bergamo per avere un permesso temporaneo. Ha anche pagato il posto dove dormire, un pezzo di pavimento". Il protagonista del suo romanzo è un filologo che vede la propria vita ribaltata e trasformata dalla frequentazione del centro profughi berlinese. "L’indigenza - pensa a un certo punto Richard - modifica e snatura persino quel poco che potrebbe sembrare semplice. Mantenere la dignità è uno sforzo che viene imposto quotidianamente ai profughi e li perseguita fin nei loro letti". Che significato hanno assunto le relazioni fra voi di cui poi lei parla anche nel libro? Le loro storie mi hanno coinvolta attivamente e ho cominciato a stringere un legame, in particolare con alcuni di loro. Così dalla curiosità di conoscere le loro vite sono passata ad accompagnarli negli uffici per fare dei documenti, ad andare insieme per avere informazioni circa le scuole e poi cose di ordine più contingente ma grave. Per esempio cercare di chiarire l’ingiustizia di un’accusa di furto con scasso e cose simili attribuite con molta facilità e noncuranza a chi in quel caso non le aveva certo commesse. Attraverso la letteratura lei muove una critica precisa alle politiche di accoglienza proposte in Germania, è così? Il flusso migratorio è proporzionale alla posta in gioco che è anch’essa enorme e che non può essere affrontata in solitudine. È vero, la Germania non mette in atto delle auspicabili politiche di accoglienza e io le contesto, tuttavia è qualcosa che andrebbe affrontato tra paesi europei, insieme. È una faccenda troppo complicata per liquidarla facilmente con un’inadeguatezza delle leggi - che pure ci sono ma che sono ingiuste e tra l’altro non funzionano, senza che si faccia niente di sensato per modificarle. Prima di ricevere il permesso di soggiorno o prima di assumere uno status che consenta ai profughi di immaginare un trasferimento dove desiderano, di cercare un lavoro o potersi permettere un’assistenza sanitaria, gli spostamenti tra un paese e l’altro sono parecchi. Le regolamentazioni specifiche dei singoli stati evidentemente non bastano, spesso si scontrano e non sono collegate in maniera ragionevole. Quindi in Italia c’è il dramma di Lampedusa, in particolare, e delle coste su cui il flusso preme ma molto spesso si tratta di un approdo dettato dall’esigenza di sopravvivere e non dal desiderio di arrivare proprio lì. Ecco perché quando sono rimasti un certo periodo nei centri di accoglienza molti di loro riescono ad avere il permesso (o a trovare il modo) di spostarsi. Poi, arrivati in Germania, non hanno permesso di soggiorno e quindi sono impossibilitati al lavoro. Tutto questo oltre che stupido è inaccettabile. Lo slogan "We became visible" torna spesso nelle prime pagine del suo romanzo ed è un invito, dialettico e di confronto, che nelle manifestazioni racconta qualcosa di drammatico sul senso dell’essere visti e sulla legittima rivendicazione di un posto per sé… Ho voluto insistere sull’espressione perché bisogna rompere la coltre che spesso cala sopra le vite dei rifugiati e dei profughi. Direi degli stranieri in generale; il paradosso è infatti che in Germania c’è un’abitudine alla presenza di migranti che quindi sono più che visibili nella vita quotidiana ma al contempo, e proprio in nome di quella visibilità, vi è l’impossibilità di bucare una superficie che non prevede venga loro riconosciuta attenzione. Diventare visibile, chiedere di esserlo, significa allora superare questa oscurità dello sguardo. Manca infine una visione in cui si ammetta l’esistenza di altre storie oltre la nostra. La stupidità sta nel fatto di accusarli della marginalità che gli stessi paesi accoglienti producono. Molti di loro, anche se arrivano da paesi poverissimi, facevano dei lavori, arrivano qui con dei talenti o delle cose da fare interagire all’interno della comunità ma non possono farlo. E non mi stupisce che questo procuri una insofferenza che spesso genera sacche di rabbia. Tra Lampedusa e Berlino quali sono le differenze attraverso le esperienze che le sono state raccontate? Non mi sembra che in Italia ci sia l’algidità che viene praticata in Germania né questo atteggiamento espulsivo di non accettazione a tutti i costi, soprattutto riguardo gli africani. Perché c’è una differenza tra i migranti, per alcuni la burocrazia è più lunga, farraginosa e sembra non finisca mai. Per altri invece vi sono una serie di agevolazioni. I passaggi burocratici tendono evidentemente a dissuadere chi decide di mettere radici in un luogo, tuttavia quel che si viene a produrre è un circolo vizioso che mette in moto tutto ciò di cui si dispone, anche quando è poco, per poter aggirare le restrizioni. Quindi si cercano vie di fuga da un paese europeo all’altro attraverso varchi che non siano così controllati, passaggi possibili; ed è un dispendio di energie, e di soldi, che non hanno. Nel 2015 però la Germania ha aperto ai siriani… E quell’apertura ha portato solo un peggioramento nelle condizioni degli africani. Si è fatto lo sforzo per i primi e non per i secondi, anzi i respingimenti per questi ultimi si sono inaspriti. Come se si potesse fare una gerarchia di guerre e di miseria. Cioè come fare apparire che mentre i primi scampano a una tragedia imminente (o che spesso si è già abbattuta), i secondi potevano avere qualche altra scelta invece della fuga. Ma la Germania non fa cose a caso e quindi se ha chiuso un occhio sul regolamento di Dublino solo per i siriani c’è una ragione. Intanto la spinta della Russia, nonostante il transito da Grecia e Turchia. Poi, certo, c’è anche un impeccabile sistema educativo siriano, e quindi di formazione teorico-pratica in generale, che consente alla Germania di immaginare affinità con quelle che diventano, in prospettiva, risorse utili da integrare. I siriani hanno avuto un processo di assimilazione e accettazione molto più rapido, solo qualche settimana in confronto agli anni, spesso 3 o anche 4, per gli africani che rimangono in un limbo. Quello dei siriani è certamente un popolo percepito più simile, più affine a quello tedesco. Certo non basta ma, come lei, molti altri - singoli o associazioni - hanno preso in carico la situazione dei migranti. A qualche anno di distanza dalla storia che ha raccontato nel suo libro che clima si respira in Germania? La presenza della destra e la pressione sull’opinione pubblica è considerevole. Seppure gli argomenti siano di una retorica spicciola. Quindi sembrerebbe che gli stranieri siano genericamente arrivati in Europa appositamente per delinquere, per rovinare il nostro stato socio-economico. Che la crisi sia provocata e resa insostenibile proprio a causa loro. Questo genere di argomentazioni certamente attivano la già critica considerazione di quanti non approfondiscono i problemi né le questioni e dunque immaginano sia così. Invece di perdere tempo, mi chiedo invece perché da parte delle istituzioni non ci sia ancora una presa d’atto riguardo l’organizzazione di corsi e apprendistati al lavoro per esempio. Oltre alla garanzia della prima sopravvivenza sembra che l’Europa non sappia costruire niente altro per chi arriva dal mare. I rifugiati fantasma senza diritto d’asilo. "Salviamo chi fugge dai disastri naturali" di Vladimiro Polchi La Repubblica, 12 settembre 2016 Ogni anno sei milioni di persone emigrano a causa dei disastri ecologici. Gli esperti: "Saranno 250 milioni nel 2050, è l’emergenza del secolo". Sei milioni di persone fuggono ogni anno dalle proprie case. Sono profughi "fantasma" senza tutele, né protezioni. Li chiamano "rifugiati ambientali": uomini e donne invisibili alle leggi e alle convenzioni internazionali, vittime di calamità naturali e cambiamenti climatici. Entro il 2050 saranno 200-250 milioni. Peccato che la Convenzione di Ginevra non riconosca loro lo status di rifugiato: così oggi chi scappa dalla guerra può chiedere asilo, chi fugge da fame o sete resta senza diritti. I numeri sono impressionanti: secondo il Centre for research on the epidemiology of disasters, negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case. Le migrazioni ambientali sono in gran parte migrazioni interne: solo nel 2015 il numero di sfollati per calamità naturali è stato 19,2 milioni in 113 diversi Paesi. L’ultimo caso è quello della Lousiana: nelle alluvioni del mese scorso sono state distrutte 60mila case. E i senzatetto sono stati più di 7mila. I rifugiati ambientali sono stati di recente anche al centro dell’attenzione del Papa: "I cambiamenti climatici contribuiscono alla straziante crisi dei migranti forzati. I poveri del mondo, i meno responsabili dei cambiamenti climatici, sono i più vulnerabili e ne subiscono gli effetti", ha detto Francesco due settimane fa in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato. Lo straordinario aumento di sfollati e profughi, fra l’altro, è dovuto anche a conflitti scatenati da politiche di appropriazione di risorse. Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali. A questo popolo invisibile è dedicato il convegno internazionale "Il secolo dei rifugiati ambientali?", organizzato da Barbara Spinelli, a Milano il 24 settembre (registrazione su rifugiatiambientali@ gmail.com). "Sono rifugiati ambientali quelli che sono costretti a fuggire da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche - spiega Spinelli - come lo sono coloro che fuggono dalla desertificazione e dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema attribuibili a cause naturali o attività umane: land grabbing, water grabbing, processi di "villaggizzazione" forzata, che negli anni Ottanta causarono la morte di un milione di persone per carestia in Etiopia, e ancora inquinamento ambientale, smaltimento intensivo di rifiuti tossici, scorie radioattive risultanti da bombardamenti". Il pericolo? È che questo popolo resti "trasparente" agli occhi delle leggi internazionali: né la Convenzione di Ginevra, né il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status di rifugiato a chi fugge a causa di catastrofi ambientali. Svezia e Finlandia sono gli unici Paesi europei ad aver incluso i profughi ambientali nelle rispettive politiche migratorie nazionali. Secondo le principali ong, tra le azioni da intraprendere resta centrale il riconoscimento giuridico. "Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre, persecuzioni politiche, religio- se o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile - sostiene ancora Spinelli - è pretestuoso e miope considerare queste popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto "approccio hotspot", che istituisce due categorie di migranti: i profughi di guerra, ai quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i migranti economici da rimpatriare automaticamente senza aver seriamente esaminato le eventuali loro legittime domande di asilo e senza concedere loro la possibilità di ricorso in caso di respingimento". Per il politologo francese, François Gemenne (tra i relatori del convegno), "che le migrazioni indotte dal clima costituiscano in futuro un fallimento o un successo, dipenderà non solo dall’impatto climatico, ma soprattutto dalle scelte politiche che facciamo oggi". Missione a Misurata, l’Italia invia in Libia 100 medici e 200 parà di Vincenzo Nigro La Repubblica, 12 settembre 2016 Domani il governo presenta il piano alle Commissioni Esteri e Difesa. Ma sul terreno la situazione peggiora Il generale Haftar occupa i terminal petroliferi dell’Est. I dettagli del dispiegamento sono stati concordati con il governo Serraj che da mesi aveva richiesto assistenza sanitaria per i suoi soldati impegnati contro l’Isis a Sirte. Il comando ha ultimato le ricognizioni ad agosto. Per la prima volta dalla rivoluzione del 2011, l’Italia decide di schierare un discreto contingente militare nella sua ex colonia. Rispondendo alle continue richieste di aiuto del governo libico impegnato a Sirte nella battaglia finale contro l’Isis, il governo italiano ha deciso di trasferire a Misurata un ospedale da campo, con 100 fra medici e infermieri e con un nucleo di protezione di 200 paracadutisti della Folgore. Domani il governo presenterà i suoi piani alle Commissioni Esteri e Difesa delle Camere; a rigore il passaggio parlamentare non sarebbe stato necessario, in quanto questo tipo di assistenza avverrà nel quadro delle operazioni umanitarie e militari già coperte dall’Onu. Ma il premier Matteo Renzi ha chiesto al ministro della Difesa Roberta Pinotti di ottenere comunque un sostegno parlamentare esplicito per una missione militare che ha risvolti politici e di sicurezza delicati. I medici militari e i parà che creeranno la cornice di sicurezza per l’ospedale verranno schierati all’interno della base dell’accademia aerea libica di Misurata, praticamente nella stessa area che ospita anche i gruppi delle forze speciali americane, inglesi e italiane che in questi mesi hanno sostenuto l’offensiva libica contro l’Isis a Sirte. L’Italia risponde alle richieste sempre più pressanti che nei mesi il governo libico ha avanzato prima ancora che partisse l’operazione militare contro i miliziani del Califfato che da 2 anni occupavano Sirte. Il primo a fare questa richiesta, quella di un aiuto medico, era stato il vice-premier Ahmed Maitig, che a Roma aveva anche avanzato l’idea che la Marina Militare potesse ormeggiare una nave-ospedale nel porto di Misurata. Maitig e il primo ministro Fayez Serraj hanno poi ripetuto più volte la richiesta, presentandola ufficialmente a Tripoli il 10 agosto al sottosegretario agli Esteri Enzo Amendola. Il 15 agosto, nel pieno dell’offensiva di Sirte, il Comando Operativo Interforze di Centocelle ha coordinato una missione di ricognizione per capire dove poteva essere schierato l’ospedale, quali erano le condizioni delle strutture a Misurata e soprattutto che tipo di assistenza sarebbe stata utile per i soldati libici. Fathi Bishaga, il deputato che è coordinatore politico-militare nella città ed è il potenziale "national security advisor" del governo libico, ha seguito i lavori della missione italiana e coordinato il lavoro con i medici libici che curano a Misurata e Tripoli le centinaia di feriti che da giugno arrivano dal fronte di Sirte. Ed è Bishaga che a Misurata seguirà l’integrazione fra l’ospedale italiano e le varie strutture libiche. Il problema è che come sempre il caos libico è pronto a cambiare forma: da ieri la minaccia di una nuova fase nella guerra civile si è fatta molto più seria. Il generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, capo di una milizia che in Cirenaica è sostenuta e armata dall’Egitto, ha occupato 3 dei principali terminal petroliferi dell’Est. Mentre Tripoli e Misurata combattevano a Sirte, le truppe di Haftar da un paio di settimane si erano avvicinate ai terminal petroliferi. Ieri, alla vigilia della festa musulmana del sacrificio, i soldati di Haftar sono entrati a Es Sider, Ras Lanuf e Brega. Ieri notte il Consiglio presidenziale ha ordinato alle sue truppe di marciare per riprendere i pozzi. È la prima volta che i soldati di Haftar affrontano forze leali al governo di Tripoli. Il colpo di mano è stato deciso da Haftar alla vigilia della importante festa musulmana dell’Eid (il premier Fayez Serraj era all’estero in vacanza ed è stato costretto a rientrare), ma soprattutto è stato messo a segno proprio mentre le Nazioni Unite stavano lavorando a una mediazione fra Haftar, Tripoli e Misurata. L’inviato Onu Kobler esamina una proposta che sarebbe stata avanzata dallo stesso Haftar, quella di creare un "consiglio supremo di Difesa", un organismo in cui fare entrare lo stesso Haftar e il presidente del parlamento di Tobruk Agila Saleh assieme al premier Fayez Serraj, al vice-premier di Misurata Ahmed Maitig e a un vice- premier del Sud, Musa al Koni. Il commento di Kobler sulla mossa di Haftar è stato assai duro: "Questa vicenda non farà altro che aumentare la divisione e fermare le esportazioni di petrolio, il petrolio di tutti i libici, le divergenze vanno risolte solo attraverso il dialogo e non con i combattimenti". L’Onu teme quello che tutti vedono come un pericolo assai concreto: Haftar ha attaccato i pozzi mentre Misurata sta chiudendo le operazioni militari a Sirte. Il governo di Tripoli adesso dovrà affrontare un nuovo confronto militare spostando alcuni dei soldati che sono a Sirte verso la zona dei pozzi petroliferi, per dare sostegno alle guardie di Jadran e bloccare l’operazione di Haftar. Potrebbe scoppiare una terza fase nella guerra civile. E questa volta in Libia sarebbero presenti anche i militari italiani dell’ospedale che presto verrà schierato a Misurata. Stati Uniti. Quando a invocare i lavori forzati è la più grande democrazia del mondo di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 12 settembre 2016 Il sistema penitenziario della più grande democrazia del mondo è tra i peggiori del mondo: venerdì 9 settembre migliaia di detenuti in diversi penitenziari degli Stati Uniti hanno partecipato ad uno sciopero, "il più grande sciopero nella storia del carcere" dicono i promotori, incrociando le braccia e rifiutandosi di andare ai lavori forzati. "È ora di dire basta con la schiavitù in America" si legge nel manifesto pubblicato online lo scorso 1 aprile dai promotori e dagli organizzatori della protesta - Free Alabama Movement, Support Prisoner Resistance e Incarcerated Workers Organizing Committee - "noi stessi smetteremo di essere degli schiavi". Nelle prigioni di 24 diversi stati americani i detenuti-lavoratori hanno incrociato le braccia nel giorno del 45esimo anniversario della rivolta nel carcere di Attica, nei pressi di Buffalo, stato di New York, quando i detenuti riuscirono a prendere il controllo della prigione per qualche giorno: oggi come allora i detenuti americani chiedono di migliorare le proprie condizioni di detenzione e di porre fine alle brutalità nelle carceri. Ad Attica le cose andarono molto male: la reazione del governatore Rockfeller fu spietata e il 13 settembre 1971 500 agenti fecero irruzione nel carcere calandosi dagli elicotteri e sparando all’impazzata sui detenuti e sugli ostaggi. 39 morti, tra cui 10 guardie e 29 detenuti, 200 feriti e una punizione esemplare per i superstiti fatta di torture e pestaggi. Secondo il Bureau of Prisons, l’ente federale che supervisiona i detenuti reclusi nelle carceri pubbliche, tutti i prigionieri devono lavorare per ripagare il proprio debito con la giustizia: oggi negli istituti penitenziari degli Stati Uniti vivono 900.000 detenuti-lavoratori che vengono pagati tra gli 0,12 e gli 0,40 dollari l’ora, ma in stati come il Texas e l’Arkansas devono lavorare e basta, senza alcuno stipendio. Manutenzione degli istituti, pulizia, servizio mensa e lavanderia sono le mansioni più diffuse tra i detenuti, ma 80.000 di questi hanno la possibilità di lavorare esternamente al carcere. E qui cominciano i problemi: tra questi detenuti c’è chi lavora per il governo o per lo Stato in cui è recluso ma anche chi lavora in appalto ad aziende private come nei campi agricoli di Whole Foods, per Victoriàs Secrets o Walmart. A differenza dei loro colleghi "liberi" però i detenuti lavorano senza alcun diritto di tutela e le leggi sul lavoro non valgono per chi sta scontando la propria pena: stipendi ben al di sotto del salario minimo, nessuna compensazione, divieto di formare sindacati o associazioni di lavoratori, nessuna malattia, condizioni e orari di lavoro insostenibili sono tutti elementi che fanno sembrare il sistema correzionale americano più simile a quello del Myanmar che non a quello di una qualsiasi democrazia occidentale. "Non possono far funzionare queste strutture senza di noi" si legge nella call-to-action, dove si indica nel 13esimo emendamento della Costituzione americana la pietra dello scandalo: pur abolendo la schiavitù infatti la Costituzione mantiene un’eccezione per i reclusi nelle carceri del Paese. "Non avanziamo richieste ai nostri carcerieri" dicono gli organizzatori "noi stessi andiamo all’azione […] chiediamo di smetterla di essere schiavi, di lasciare che i raccolti marciscano nei campi e nelle piantagioni, di scioperare e smetterla di alimentare questo sistema". La protesta, dichiaratamente nonviolenta, è stata organizzata anche per denunciare le condizioni di detenzione nelle carceri pubbliche americane (per quelle private infatti sono diversi i documentari e le inchieste che raccontano di una realtà completamente al di fuori dello stato di diritto americano): i detenuti infatti, appellandosi alla solidarietà di chi è fuori, chiedono di non essere dimenticati perché la repressione e le punizioni per chi disobbedisce, in carcere, sono durissime. Le proteste nelle carceri americane sono state numerose in passato ma per i loro protagonisti la repressione è sempre stata dura: alimentazione forzata per chi ha deciso di intraprendere lo sciopero della fame, isolamento continuato per chi rifiuta di lavorare in condizioni di semi-schiavitù, botte per chi crea problemi o fa semplicemente resistenza passiva agli ordini dei secondini. Tutto questo in un Paese, l’America, dove la minaccia della pena di morte stragiudiziale (il classico poliziotto che spara e resta impunito, negli ultimi anni sono state decine le manifestazioni in tutto il Paese per dire "basta" alla violenza della Polizia) rappresenta una paura per tutti. Cesare Beccaria nel suo Dei Delitti e Delle Pene scriveva che "lo stato delle carceri risulta specchio dello stato delle nazioni" ed è importante osservare attentamente come "la più grande democrazia al mondo" tratta i propri detenuti, al netto del fatto che decine di cittadini italiani ed europei sono oggi detenuti nelle carceri americane. Le condizioni di lavoro dei detenuti americani, in particolare, non possono che produrre ulteriore rabbia sociale e criminalità: il lavoro in carcere rappresenta, nei sistemi penali moderni, un’opportunità per il detenuto di mostrare realmente il proprio desiderio di rivalsa sociale e nei Paesi in cui questo è incentivato e promosso all’interno delle carceri la recidiva è oggi ai minimi storici. Continuare a perpetrare la logica del "chi sbaglia la paga cara" non produce null’altro che altra insicurezza, altra violenza, altra criminalità. Egitto. Rilasciato su cauzione l’attivista Ahmed Abdallah di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 settembre 2016 Finalmente, dopo 138 giorni di detenzione preventiva e numerosi rinvii, questa mattina Ahmed Abdallah, l’esponente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, l’Ong egiziana che fornisce consulenza ai legali della famiglia Regeni, è stato rilasciato su cauzione. Abdallah era stato arrestato il 25 aprile, durante il giro di vite ordinato dalle autorità del Cairo nei confronti di coloro che avevano contestato attraverso manifestazioni, ricorsi e petizioni la decisione del presidente al-Sisi (poi annullata da un tribunale amministrativo) di cedere all’Arabia Saudita la sovranità su due isole del mar Rosso. La scarcerazione su cauzione di Abdallah, come quella nei giorni scorsi dell’avvocato Malek Adly, è una buona notizia. Ora l’obiettivo degli organismi egiziani e internazionali per i diritti umani è che l’uno e l’altro siano prosciolti da ogni accusa e i procedimenti nei loro confronti vengano abbandonati. Egitto. "I miei 5 mesi nelle celle egiziane per aver difeso Giulio Regeni" di Francesca Paci La Stampa, 12 settembre 2016 Parla il consulente della famiglia, in carcere dal 25 aprile per attività sovversive e liberato dalle autorità del Cairo: "Mi hanno picchiato, volevano il mio telefono". L’apertura A 7 mesi dall’omicidio di Regeni, Il Cairo pare pronto a collaborare. Tre giorni fa gli egiziani anno ammesso che il ricercatore era seguito dalla polizia. Ahmed Abdallah è libero. Sabato, nelle ore in cui dall’incontro tra gli inquirenti del Cairo e la Procura di Roma emergeva un primo vero abbozzo di collaborazione da parte dell’Egitto sull’assassinio di Giulio Regeni, con l’ammissione di un’indagine a suo carico, il consulente legale della famiglia del ricercatore friulano a sorpresa è stato scarcerato. Abdallah, che è anche presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecfr), era stato arrestato il 25 aprile scorso con una procedura di fermo da allora rinnovata di mese in mese. L’accusa ufficiale era quella di attività sovversiva e partecipazione a manifestazione non autorizzata (quella contro la cessione ai sauditi delle isole Turan e Sanafir a cui Abdallah non sarebbe mai arrivato) ma in un’intervista rilasciata a maggio a La Stampa da dentro la gabbia allestita nel tribunale di Abassya il ragazzo spiegava come gli ripetessero di continuo che era in cella per il suo impegno nel caso Regeni. Mentre si prepara a festeggiare l’Eid in casa della madre, Ahmed Abdallah ci parla al telefono con la foga di chi ha taciuto a lungo. Innanzitutto, come sta dopo quattro mesi e mezzo di carcere? "Libero, ancora incredulo, ma bene. Ho avuto fortissime pressioni psicologiche e per settimane ho condiviso una cella di pochissimi metri quadrati con altre 13 persone. Mi hanno picchiato una sola volta, un mese fa, quando volevano che consegnassi loro il mio iPhone. Sapevano che ne avevo uno e lo nascondevo, colpivano duro sulle spalle, ma non hanno ottenuto nulla. Poi di colpo, la settimana scorsa, mi hanno trasferito in isolamento, stavo seduto sul pavimento, non avevo nulla tranne una t-shirt. E li, altrettanto a sorpresa, mi hanno annunciato che mi liberavano". Ha o ha avuto l’impressione che la sua scarcerazione sia legata agli ultimi sviluppi del caso Regeni, a partire dall’ammissione di un fascicolo aperto e chiuso su di lui all’inizio di gennaio che l’Italia legge come un passo avanti? "Non sono stato arrestato perché colpevole di qualcosa e non sono stato rilasciato perché trovato innocente: nonostante le accuse formali restino in piedi, la mia vicenda giudiziaria è interamente politica. Hanno usato la scusa del mio impegno con l’Ecfr, un pretesto. Mi avevano cercato per arrestarmi anche a gennaio, erano venuti nel caffè che frequentavo senza trovarmi. Routine per noi. Succede di tanto in tanto. Sono tornati dopo tre mesi ma la novità era che mi occupavo di Regeni, mi hanno preso per Regeni. I poliziotti dell’ultima prigione in cui sono stato in isolamento non sapevano neppure cosa facessi o di cosa fossi presidente, menzionavano solo Regeni, esattamente come i talk show sul caso sulle tv governative". È stato interrogato in questi mesi e, se si, cosa volevano sapere? "All’inizio si, tanto la State Security quanto la polizia. Poi meno. Mi facevano sempre la stessa domanda, volevano sapere cosa avessi a che fare con Regeni, dicevano che la mia relazione con lui faceva di me un soggetto pericoloso. Ma io non gli ho mai risposto, nulla". Che idea si è fatto delle ultime novità, il capo del sindacato degli ambulanti Mohammed Abdullah che ieri, nonostante alla Rai avesse detto il contrario, ha ammesso al giornale egiziano Aswat Masriya di aver denunciato Giulio Regeni alla polizia? "Non ne so molto ma non mi basta. La polizia che finora ha sempre negato di seguire e controllare Regeni ora ammette di averlo "indagato"? Bene, è un passo avanti. E poi? Cosa è accaduto dopo? Perché loro lo sanno, devono saperlo, il 25 gennaio il Cairo era imbottito di polizia dovunque e Giulio è sparito. Sotto i loro occhi? E i cinque innocenti ammazzati per venderci la verità incredibile che fossero i colpevoli? Aspettiamo di sapere, ora che sono libero ricomincerò a chiedere". Di nuovo? Non ha paura? "Andrò avanti finché non sapremo chi ha ucciso Giulio, lo merita e noi egiziani glielo dobbiamo perché era uno di noi". Libia. Il generale Haftar attacca i pozzi di petrolio e il caos si aggrava di Francesco Battistini Corriere della Sera, 12 settembre 2016 L’escalation è seria, il generale alza la posta: se l’Onu non può e Misurata non vuole e Tobruk non sa riconoscergli il comando d’un eventuale esercito libico unificato, continuerà a far da sé. Se c’è una cosa che riesce bene al generale libico Khalifa Haftar, padre padrone della Cirenaica e del governo di Tobruk, è lanciare le offensive. È bravissimo a trovare i nomi delle sue campagne militari, da Marcia dei Leoni a Operazione Dignità (nel senso di quella da restituire al Paese, dopo cinque anni di guerra civile). E sa trovare gli appoggi militari che gli servono, dall’Egitto alla Francia. Un po’ meno, tutte queste avanzate, gli riesce di chiuderle. Dopo Tripoli, s’è visto a Bengasi. Dopo Bengasi, a Derna. Dopo Derna, a Sirte. E ora che nessuna delle città assediate è mai stata riconquistata veramente, nonostante l’Isis sia in ritirata, ecco l’attacco letale alla Mezzaluna petrolifera. E all’arcinemico Ibrahim Jadran: il signore dei pozzi che con le sue guardie controlla il tesoro nero e che dal separatismo, in pochi mesi, s’è convertito al governo d’unità nazionale dell’Onu e del primo ministro Fayez al-Serraj, firmando un accordo per le esportazioni di greggio. Il nodo è proprio questa firma. Si capisce poco degli sviluppi militari dell’attacco - la Brigata 153 ha colpito di sorpresa nella Festa del Sacrificio, quando s’è distratti dagli arrosti d’agnello; ora bisogna vedere come reagiranno le milizie di Misurata, le sole capaci di contrastare Haftar -, di sicuro s’è aperto un nuovo fronte che punta alla conquista decisiva d’Al Zanitina, Ras Lanuf e Sidra, i campi del petrolio più prezioso. L’escalation è seria, Haftar alza la posta: se l’Onu non può e Misurata non vuole e Tobruk non sa riconoscergli il comando d’un eventuale esercito libico unificato, il generalissimo continua a far da sé. S’è comprato l’appoggio d’alcuni clan, contrari a Jadran, e ha intrapreso la sua marcia nel deserto. I depositi bruciano, i civili scappano. Conquistare del tutto la Mezzaluna, in fondo, non gli servirà nemmeno stavolta. Basterà essere lì: è nel fumo dei pozzi incendiati, altro che agnello sacrificale, l’arrosto del futuro libico. Francia. Marsigliese, uniformi e ippoterapia. Il primo centro di recupero dal jihad di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 12 settembre 2016 Pontourny, nel comune di Beaumont-en-Veron, a 300 chilometri da Parigi, ospiterà i potenziali terroristi per 10 mesi. Il venerdì mattina, dopo la sveglia all’alba, la colazione e la pulizia delle camere, alle 8 e 45 gli ospiti di Pontourny dovranno partecipare alla cerimonia dell’alzabandiera, salutare il tricolore e cantare la Marsigliese. Sarà dura, perché se sono accolti in questo castello settecentesco nella valle della Loira è perché odiano la Francia e i suoi simboli: sono ragazze e ragazzi attratti dal jihadismo e dal terrorismo islamico dell’Isis che hanno accettato di sottoporsi al programma di de-radicalizzazione promosso dal primo ministro Manuel Valls. Pontourny, nel comune di Beaumont-en-Veron a 300 chilometri da Parigi, è il primo centro di questo genere, entro la fine del 2017 ne apriranno altri 12, ogni regione avrà il suo. L’esperimento verrà presentato ufficialmente domani, dopo sei mesi di polemiche e proteste. Nemici della République - Beaumont è un villaggio di neanche 3.000 abitanti nella tranquilla, bellissima campagna francese. Chi vive qui ha scelto di tenersi lontano dalla città e dai suoi pericoli. Sono i pericoli che, inaspettatamente, si sono avvicinati. "Fino al giugno scorso il castello ospitava un centro di accoglienza per minori stranieri senza genitori, chiuso per mancanza di fondi", dice Jean-Louis Salvaing, da una vita educatore a Pontourny. "Quei ragazzi amavano la Francia, sognavano di imparare un lavoro e integrarsi nella Repubblica, e in molti ci sono riusciti. Adesso invece arrivano giovani che odiano la République", dice Salvaing, che però non è contrario al centro di de-radicalizzazione. Ha partecipato alla formazione, due mesi - luglio e agosto - per preparare al nuovo compito psicologi, insegnanti, infermieri, assistenti sociali. Una trentina di persone occupate a tempo pieno, più gli esperti di geopolitica, Islam, storia, che di volta in volta verranno a tenere delle lezioni. Il percorso - I ragazzi soggiorneranno a Pontourny per 10 mesi e indosseranno un’uniforme, "perché devono liberarsi dei segni visibili della loro vita precedente: niente veli o barbe sul mento", dice Salvaing. Si proverà a salvarli "come se appartenessero a una setta". Ai potenziali terroristi verranno offerti corsi di educazione civica, ma il direttore del centro ha parlato anche di ippoterapia nel vicino maneggio, scatenando la rabbia di molti abitanti. Dopo le prime settimane i giovani potranno uscire. Dal maniero sono state tolte tutte le insegne, l’obiettivo è non dare nell’occhio e nessuna scritta indica la nuova destinazione d’uso. In compenso, nelle villette vicine sono spuntati i cartelli "À vendre", vendesi: è un gesto di protesta, per denunciare che adesso non vale più la pena vivere qui, e che comunque nessuno comprerà mai più una casa accanto a una specie di albergo per jihadisti, forse pentiti, forse no. Il profilo degli ospiti è stato definito così: chi firma il contratto con lo Stato non ha precedenti penali, non è schedato dai servizi, ma è stato segnalato - spesso dalle famiglie - perché si teme possa andare in Siria a combattere o, soprattutto, organizzare attentati in Francia. Chi accetta sa che è l’ultima chance. Se rifiuta non troverà più stage o lavori. Le polemiche - L’associazione "Radicalmente degni di Pontourny" si batte contro il centro di de-radicalizzazione. Il presidente, Michel, abita proprio davanti al castello. "Al di là del cancello c’è anche la cappella dove è sepolto Marie-Alphonse Gréban de Pontourny", grande magistrato parigino che nel 1895 donò la proprietà al municipio della capitale per favorire opere di carità cristiana. "E invece ora ci mettono gli jihadisti, il vecchio Gréban si starà rivoltando nella tomba", dice Catherine, vice presidente dell’associazione, che assieme alla segretaria Valérie sta organizzando una protesta per martedì. I vicini contestano che un esperimento simile, riunire in uno stesso luogo dei giovani pericolosi, venga fatto nel cuore di una zona abitata, senza sicurezza per i residenti."Perché non hanno scelto piuttosto una caserma, o una fabbrica abbandonata? Abbiamo paura che Pontourny diventi un bersaglio dell’Isis, che potrebbe punire quei ragazzi perché stanno tradendo la causa", dice Valérie. "Soprattutto, non esistono jihadisti buoni, e la prova è che non li hanno trovati - dice Michel -. Dovevano cominciare con 10 persone per arrivare a 30, per adesso gli ospiti saranno al massimo 5 o 6". Fare funzionare Pontourny costerà oltre un milione di euro l’anno. Valls va avanti, convinto che il centro di de-radicalizzazione sia l’inizio di una risposta di fondo contro l’ideologia jihadista. Siria. Accordo per una tregua, ma gran parte dei ribelli non ci sta di Giordano Stabile La Stampa, 12 settembre 2016 Al tramonto scatta il cessate-il-fuoco: stop ai raid governativi e russi. Il presidente siriano Bashar al Assad si è recato a pregare oggi nella moschea di Daraya, la città simbolo della ribellione che a fine agosto si è arresa dopo quattro anni alle forze del regime. Le foto e il video del presidente che arriva nel centro alle porte di Damasco, in occasione della festa islamica del Sacrificio e a qualche ora dall’inizio della tregua, sono state trasmesse dalla tv statale e rilanciate su Twitter Oggi al tramonto scatterà il cessate-il-fuoco in Siria. L’intesa fra America e Russia prevede la fine delle ostilità e dei raid aerei, tranne che sulle formazioni jihadiste, cioè l’Isis e Al-Qaeda, che in Siria si è fatta chiamare Al-Nusra e ora Jabat al-Fatah al-Sham. L’accordo è stato accettato dal regime siriano e dall’opposizione armata moderata, il Free Syrian Army, anche se con riserve. Ma il potente gruppo Ahrar al-Sham, vicino a Turchia e Arabia Saudita, ha detto oggi che non la rispetterà. Aiuti alle città assediate - Se la tregua regge i civili non saranno più sottoposti a bombardamenti e i convogli con cibo e medicinali dell’Onu potranno raggiungere le città e i quartieri assediati sia dai ribelli che soprattutto dai governativi, dove vivono 600 mila persone in condizioni disperate. Circa la metà, 300 mila, si trovano nella parte orientale di Aleppo. Ad Aleppo Est negli ultimi due mesi non è entrato neanche un convoglio umanitario e i bombardamenti hanno ucciso centinaia di persone e decine di bambini. Ancora raid - Dopo l’intesa di venerdì notte sono continuati i raid governativi e russi, che dovrebbero fermarsi questa sera. Sabato è stato colpito un mercato a Idlib, città in mano a Jabat al-Fatah al-Sham: sono morte almeno 58 persone, 90 sono state ferite. Ieri è stata colpita di nuovo Aleppo in due bombardamenti che hanno fatto complessivamente 45 vittime. Il no degli insorti - Ma sulla tenuta della tregua c’è anche l’incognita dei ribelli. Dopo il fallimento dell’intesa di febbraio, sono molto diffidenti. Ieri Fares al-Bayoush, comandante del fronte Nord del Free Syrian Army, ha detto che è impossibile separarsi da Jabat al-Fatah al-Sham (Jfs), per lo meno ad Aleppo. Oggi è arrivato il no alla tregua del potente gruppo Ahrar al-Sham, appoggiato da Turchia e Arabia Saudita, che sempre ad Aleppo combatte a fianco di Jsf. Può contare in tutta la Siria su 20 mila combattenti, quanti quelli di Jsf e più del Free Syrian Army. Turchia. Dopo 500 giorni concesse a Ocalan possibilità di ricevere visite in carcere Ansa, 12 settembre 2016 Prima visita da oltre 500 giorni per una delegazione proveniente dalla Turchia al leader del Pkk curdo, Abdullah Ocalan, detenuto dal 1999 nell’isola-prigione di Imrali. A compierla, dopo l’autorizzazione concessa dal governo di Ankara in occasione della festa islamica del Sacrificio, è stato il fratello di "Apo", Mehmet, che non lo vedeva dall’ottobre 2014. Ad accompagnarlo, il legale Mazlum Dinc. L’ultima visita interna a Ocalan, compiuta da un gruppo di esponenti del partito filo-curdo Hdp, risaliva al 5 aprile 2015. Ankara aveva poi reso noto di aver permesso nell’aprile scorso una visita di 3 membri della Commissione per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. Lunedì, 50 politici curdi avevano avviato uno sciopero della fame per chiedere che venisse concesso a familiari, avvocati e delegazioni politiche di incontrare Ocalan, anche alla luce di timori per le sue condizioni di salute e di sicurezza. Marocco. Mohammed VI grazia 698 detenuti per la Festa del Sacrificio Nova, 12 settembre 2016 In occasione di Eid al-Adha, la Festa islamica del Sacrificio, il re Mohammed VI, ha graziato 698 detenuti in Marocco. Lo ha annunciato in una nota il ministero della Giustizia di Rabat. Si tratta di persone che hanno commesso reati di vario genere, molti dei quali erano però già in libertà condizionata ed hanno usufruito di uno sconto di pena mentre erano in 526 quelli in carcere che domani celebreranno la ricorrenza religiosa con le loro famiglie. Il re del Marocco oltre ad essere capo dello stato è anche un leader religioso nel suo paese e quindi può fare questo genere di concessioni in occasione delle ricorrenze religiose.