La strada per una detenzione conforme alla Legge è sempre in salita di Riccardo Polidoro (Responsabile Carcere Ucpi) camerepenali.it, 10 settembre 2016 I commenti che ha suscitato la rivolta di alcuni giorni fa, nell’istituto minorile di Airola, dimostrano, ancora una volta, che la strada per una detenzione conforme alla Legge è sempre in salita. Il percorso è lungo, faticoso, accidentato e la méta sempre più lontana, quasi invisibile e non si sa se effettivamente raggiungibile. Che in un carcere possa avvenire una protesta, anche violenta, crediamo sia prevedibile. Viste le condizioni in cui versano alcuni istituti, potrebbe essere addirittura scontato. Le ragioni possono essere diverse. Le fonti sempre uniche, quelle dell’Amministrazione Penitenziaria, a cui si rivolgono i cronisti per avere notizie sull’accaduto. A scatenare gli incidenti sarebbe stato il mancato arrivo delle sigarette o il vitto scadente. Altri, invece, riferiscono di una manifestazione di forza da parte dei clan della criminalità organizzata che si sono formati all’interno dell’istituto. I sindacati di Polizia Penitenziaria denunciano che gli istituti minorili sono diventati gli "atenei del crimine" e che la riforma del 2014, che consente la presenza anche di detenuti venticinquenni, ha creato enormi problemi di convivenza. In mancanza, allo stato, di fonti certe, diamo per scontato che quanto avvenuto nel minorile beneventano, sia dovuto effettivamente alla prepotente presenza di ragazzi ormai adulti. Va innanzitutto evidenziato che i detenuti negli istituti minorili sono di gran lunga inferiori, rispetto a quelli per adulti. Nel caso specifico di Airola, al momento della ribellione erano presenti 49 detenuti, di cui 37 minorenni e 12 maggiorenni. Un numero di persone che non dovrebbe destare alcune preoccupazione per un’Amministrazione efficiente, in grado - e messa in grado - di applicare Leggi e Regolamenti. Polizia Penitenziaria, Educatori, Assistenti Sociali, Volontari, dovrebbero avere continuamente il polso della situazione. Il Magistrato di Sorveglianza dovrebbe vigilare e conoscere la personalità di ogni ragazzo. Se tutto questo avvenisse, la situazione sarebbe davvero sotto controllo e le eventuali "teste calde" sarebbero isolate dai loro stessi compagni di sventura, incentivati ad effettuare il percorso trattamentale previsto dalla Legge. Questa e solo questa la soluzione. Le altre, quelle sbandierate da sindacati e promosse da titoli di giornali allarmistici ("Carceri Minorili riempite di adulti. Uno su sei ha più di 18 anni"), sarebbero un rimedio peggiore del male e davvero incentiverebbero la scuola del crimine. Per il giovane condannato adulto (21/25 anni), che ha commesso il reato quando era minorenne, si aprirebbero le porte del carcere ordinario, oggi, come ieri, vero e proprio deserto di legalità, rispetto agli istituti minorili. Per coloro, poi, che, minorenni, sono già detenuti e stanno svolgendo attività rieducativa, ma hanno la sventura di compiere 21 anni, tale percorso sarebbe interrotto bruscamente per dover entrare nell’inferno degli adulti. In realtà sembra che dietro certe posizioni, assunte in questi giorni, si nasconda il desiderio inconfessabile di buttare la chiave per chi, minore o meno, abbia sbagliato. I penalisti contrasteranno sempre questa ideologia, ben nascosta e contra legem e, anche se la strada è in salita, continueranno a percorrerla. Carceri. Filomena Albano (Garante Infanzia), "attenzione sempre costante" agensir.it, 10 settembre 2016 "Attenzione sempre costante al pianeta carcere, ragionando e intervenendo a tutela dei diritti di bambini e adolescenti, senza mai rinunciare al loro recupero". Nella settimana che ha visto la firma della Carta a favore dei figli dei genitori detenuti, con il rinnovo del protocollo tra autorità garante, ministero della Giustizia e Bambinisenzasbarre onlus, Filomena Albano, garante per l’infanzia e l’adolescenza, riporta l’attenzione a iniziative e avvenimenti legati al mondo del carcere che coinvolgono, in diverso modo e a diverso titolo, le vite di bambini e adolescenti. Il "pianeta carcere", infatti, è un ambito importante, tra gli innumerevoli temi di interesse dell’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, sia quando si tratta del mantenimento di legami affettivi tra figli e genitori detenuti sia quando si tratta della detenzione delle persone di minore età. In merito ai casi registrati negli scorsi giorni di rivolte all’interno di un carcere minorile - dove sono compresenti sia adolescenti sia giovani adulti - "vi è la necessità di bilanciare due fattori: da un lato la prevenzione di fattori di rischio, a partire dal fenomeno dell’emulazione da parte dei minorenni, dall’altra, la necessità di consentire la continuità de percorso educativo anche alle persone di minore età che siano divenute maggiorenni e, ancora, le esigenze di prossimità, vale a dire la vicinanza dell’istituto di detenzione ai luoghi di riferimento affettivo dei diretti interessati, con l’opportunità di non favorire la continuità di relazioni insalubri". Il bilanciamento si realizza differenziando i percorsi pur all’interno dello stesso istituto penitenziario, agendo su progetti educativi individualizzati, prevedendo spazi "dedicati", personale specializzato e risorse per i progetti di inclusione sociale. Per la garante, occorre valorizzare le buone prassi che esistono in diversi istituti attraverso la collaborazione istituzionale, già sperimentata con la firma della Carta dei figli dei genitori detenuti. Da lunedì esame in Aula per il ddl penale, i grillini tenteranno di minare l’intesa Carfagna (Fi): situazione preoccupante minorili Sud, da Nisida parte mia verifica "Presenterò un’ interrogazione parlamentare sulla condizione delle carceri minorili al Sud e intendo verificare personalmente lo stato dei luoghi, incontrando ragazze e ragazzi. Inizierò dal carcere di Nisida, dove sarò in visita tra qualche giorno". Così Mara Carfagna, deputata e consigliere comunale a Napoli di Forza Italia. "Sono molto preoccupata -aggiunge- per i dati diffusi dalla stampa. Una fotografia impietosa e allarmante anche in questo caso di un’Italia divisa a metà, con il Centro-Nord da una parte e il Sud dall’altra. Manterrò alta l’attenzione sulla carenza delle strutture penitenziarie minorili nel Mezzogiorno e sull’offerta inadeguata all’esigenza di rieducare i minori, che -conclude- dev’essere la priorità delle istituzioni locali e dello Stato". Opg e "nuove" Rems di Franco Vatrini quotidianosanita.it, 10 settembre 2016 Il 28 luglio scorso, presso la sala stampa della Camera dei deputati è stato presentato dall’associazione Antigone il ben articolato "Pre-rapporto 2016" sulle condizioni ambientali, di vita e di salute degli attuali 54.000 detenuti, di cui "oltre il 50% assume terapie farmacologiche per problemi psichiatrici". Sulla salute mentale in carcere, l’attività di osservazione svolta da Antigone ha rilevato non solo occasionali cattiverie come, ad esempio, il ricorso alle "celle lisce", ma anche, e soprattutto, una "situazione in generale molto critica". C’è scritto che: "Lo strumento del trasferimento in un reparto psichiatrico è utilizzato in modo indebito e poco trasparente. In generale si ha la percezione che questi reparti vengano usati come valvole di sfogo per ospitare (e contenere) detenuti problematici (ma senza patologie psichiatriche conclamate) che hanno problemi di convivenza nelle sezioni ordinarie". È anche palese la difficoltà al dialogo tra il personale di sicurezza e gli operatori sanitari, sempre in numero carente. La presentazione del Pre-rapporto ai numerosi parlamentari interessati, ha preceduto di quattro giorni la prevista conclusione dei lavori della Commissione Giustizia del Senato su un progetto di legge il cui iter era iniziato alla Camera alla fine del 2014, per poi essere trasmesso alcuni mesi dopo a Palazzo Madama. Il 3 agosto, a ferie incombenti, il suo relatore è stato così in grado di anticiparne sinteticamente, a chi lo stava ascoltando in Assemblea o tramite WebTV, il primo lotto dei 40 articoli che compongono il Testo Unificato del ddl 2067 che contiene: "Modifiche al c.p., al c.c.p. e all’ordinamento penitenziario." Se ne riparlerà in Aula a partire dal 13 settembre, unitamente agli emendamenti già accolti in Commissione o da presentare ex novo, e il cui destino, salvo eccezioni, sarà del tutto simile a quello delle foglie sugli alberi d’autunno di ungarettiana memoria. Mi soffermo, tuttavia, su due emendamenti che riguardano il futuro dei pazienti psichiatrici autori di reato. È abbastanza probabile che l’irrisolto problema della salute mentale in carcere (sintetizzato dall’Associazione Antigone) abbia indotto la maggioranza dei componenti della 2^ Commissione permanente a non pensarci due volte, il primo di agosto, nell’esprimersi a favore del subemendamento 13/10000.1 (testo2) della senatrice Mussini. Scritto allo scopo di contrastare l’emendamento 13/10000 materializzatosi in Commissione e senza preavviso alcuno, il 26 luglio, sotto forma di proposta verbale. Dal resoconto dei lavori emerge infatti che il senatore Cucca ha chiesto alla senatrice Mussini di riformulare, ricevendone un rifiuto, il suo emendamento 13.28 nel senso di "prevedere che la destinazione alle Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) esclusivamente dei condannati per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermità al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosità sociale, nonché la destinazione alle sezioni degli istituti penitenziari per i soggetti affetti da infermità mentale: dei condannati per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena; degli imputati sottoposti a misura di sicurezza provvisoria e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche." La senatrice Mussini si è limitata a spiegare che ciò "equivarrebbe a reintrodurre di fatto gli ospedali psichiatrici giudiziari nelle carceri che, come è noto, non sono un luogo di cura come invece le Rems". Il senatore Cucca, (pur trovandosi ormai in piena zona Cesarini) non si è perso d’animo e presa carta e penna ha scritto ed il giorno successivo ha presentato l’emendamento 13.1000 che contiene quanto lui aveva già cercato di ottenere per interposta persona durante la seduta precedente. Fatta la pentola, mancava solo il coperchio. Ma a quel punto la senatrice Mussini si è posta nuovamente di traverso con il suo subemendamento 13.10000.1-testo2-. Sbianchettando la parola "esclusivamente" e proponendo di aprire le porte delle Rems per accogliere detenuti con problemi psichiatrici "qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i necessari trattamenti terapeutico-riabilitativi". La querelle si è conclusa il primo di agosto, quando la Commissione giustizia è stata chiamata a votare sia l’emendamento che il subemendamento. A maggioranza ha scelto di approvarli entrambi e di allegarli al Testo Unificato. Quello sì non improvvisato, ma frutto di mesi di laboriosa e approfondita discussione. Perciò, deciderà l’Aula. Sempre che nel frattempo non vengano ritirati entrambi, e già oggi basterebbero due motivi per farlo: 1) Per quanto riguarda il subemendamento 13.10000.1 (testo2), sono convinto che se quei senatori ci avessero pensato una volta di più si sarebbero accorti che, oltre a nascondere la polvere sotto il tappeto, stavano accogliendo un subemendamento semplicemente "lunare" per il nostro Paese. Infatti, con una media aritmetica di 280 detenuti per ciascuna delle attuali 193 carceri italiane: se solo il 3/4% (e non certo il 50% del Pre-rapporto ) soffrisse di seri problemi di salute mentale: servirebbero non meno di un centinaio di ulteriori Rems che per funzionare a norma di legge (con équipe multifunzionali) richiederebbero l’assunzione di almeno 2500 operatori sanitari. Orbene, se dopo quattro anni [utilizzando, salvo il vero, risorse precedentemente accantonate in Fondi creati a favore dell’industria della concia, del tessile e delle calzature; nonché delle infrastrutture ferroviarie e stradali, ma anche per l’ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico] delle trentina di Rems, programmate dalle Regioni, ne sono state realizzate a fatica ventiquattro (perlopiù provvisorie): l’aggettivo qualificativo "lunare" non sfigura. 2) Per quanto riguarda l’emendamento 13.10000 [che, se approvato modificherebbe perfino la legge 81/2014] a me pare che la parola "esclusivamente", che il senatore Cucca ha posto come trave portante della "sua?" proposta, sia un rigido vincolo imposto al giudice, e quindi abbia discrete possibilità di essere giudicato illegittimo. Il precedente lo fornisce la Consulta che nel 2003 sentenziò: "a) l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del codice penale nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza". E i cinque, si fa per dire, "ospedali" Psichiatrici Giudiziari maschili non erano altro che delle carceri. La Corte Costituzionale, in quella fondamentale sentenza (la n.253), spiegò che l’automatismo di una misura segregante e "totale" imposta pur quando essa appaia in concreto inadatta, infrange l’equilibrio costituzionalmente necessario e viola esigenze essenziali di protezione dei diritti della persona. La Corte, si fece carico del compito di eliminare l’automatismo fino ad allora esistente, stabilendo che: "il giudice possa adottare, fra le misure che l’ordinamento prevede, quella che in concreto appaia idonea a soddisfare le esigenze di cura e tutela della persona, da un lato, di controllo e contenimento della sua pericolosità sociale dall’altro lato". Esigenza di cura che verrebbe di fatto preclusa con l’avverbio "esclusivamente" inserito con solerzia dal senatore Cucca nella sua proposta. Forse non sa che, di norma, la comparsa del primo episodio di schizofrenia è per gli uomini tra i 20-25 anni, e per le donne tra i 27-30. Esiste quindi la possibilità per alcuni dei potenziali predestinati di commettere un reato prima che la malattia faccia la sua scelta tra chi dovrà contrarla e chi invece no. E quando un giovane adulto è dietro le sbarre, e nella sua cella entra la schizofrenia, succede che una condanna ingiusta e duratura si sommi a quella giusta del Tribunale. Perché, quindi, al detenuto sconvolto da allucinazioni o voci, la legge dovrebbero precludere la via del ricovero in una Residenza forense (Rems) per essere curato efficacemente? Quando in carcere oggi, e chissà per quanto tempo ancora, non sono in grado di farlo? Quelle che seguono sono una dozzina di righe scritte da un familiare che dopo parecchi (troppi) anni spera ancora che si tratti di un brutto sogno. Vivrò forse ormai in un altro mondo, ma quanto accaduto per circa due settimane a partire dal 5 agosto e che ha ripreso slancio in questi giorni, mi ha lasciato e mi lascia basito. È semplicemente successo che del Pre-rapporto di Antigone e del Testo Unificato contenente importanti modifiche al Codice Penale se ne è parlato pochissimo, quasi niente. Al contrario, si è parlato e scritto sicuramente molto e in modo univoco (quasi un copia e incolla) del "lunare"subemendamento 13.10000.1 (testo.2) della senatrice Mussini. Gratificata, con gli interessi, della stessa accusa di voler ritornare agli OPG che lei coerentemente aveva rivolto al collega Cucca in Commissione il 26 luglio. Della questione, e da subito, è stato coinvolto anche il ministro della giustizia con la richiesta di un "intervento deciso del governo". Blindando forse l’emendamento 13.10000 del senatore Cucca con la richiesta perentoria di un voto di fiducia? Prima a Montecitorio e poi Palazzo Madama dove il ddl 2067 dovrà in tutti i casi tornare in terza lettura? Prima di terminare, ricordo a chi è più giovane di me, o a chi se ne è scordato, tre tappe del percorso iniziato grazie soprattutto al Dottor Basaglia: 1) Fa ormai tendenza sostenere che l’utilizzo delle Rems dovrebbe essere "residuale" o come "extrema ratio". Da ultima spiaggia, insomma. Se però facciamo qualche passo a ritroso fino al 13 maggio 1978, e rileggiamo l’articolo 2 della legge 180, troviamo che il trattamento sanitario obbligatorio (Tso) nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) deve avvenire "solo se esistano alterazioni psichiche tali da ecc., ecc." Nessuno si è mai sognato di ritenere tale ricovero come residuale o di extrema ratio. "Solo se". Punto e a capo. Vale a dire, quando è necessario. La legge 81/2014 ha previsto un’analoga evenienza stabilendo che il giudice dispone l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria diversa... " salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a far fronte alla sua pericolosità sociale". "Salvo quando". Punto e a capo. Vale a dire quando è necessario. 2) Rammento che le norme a cui si dovono attenere anche le Residenze forensi (Rems) presero avvio con il primo Progetto Obiettivo a tutela della Salute mentale (1994) nel capoverso dove si pretende che "in ogni caso, una risposta che non sia manicomiale deve prevedere l’assistenza in piccole strutture con non più di 20 posti letto... respingendo, in via pregiudiziale soluzioni che prevedano eccessive concentrazioni di popolazione assistita". Di lì a poco, nel 1997, furono fissati per legge i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per l’esercizio di attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private; mentre nel 1999 un secondo Progetto Obiettivo stabilì che le dimissioni di ex degenti degli Ospedali Psichiatrici fossero effettuate nelle strutture residenziali psichiatriche. 3) Perché, quindi, continuare a chiamarle "nuove" Rems allo scopo di far passare l’idea che ne siano esistite di "vecchie" solo più grandi, ma uguali nella sostanza? Anche per chi non li ha visti: i cinque "ospedali" psichiatrici giudiziari maschili non erano altro, e senza possibilità di smentita, che delle prigioni per prosciolti i cui ritmi di vita venivano scanditi dai chiavistelli, dalle celle con sbarre e porte in ferro, ma anche dove "i detenuti, legata per il collo una bottiglia d’acqua con una corda, la tenevano sospesa all’interno dello scarico del water, nell’acqua che media il sifone, per mantenerla fresca". Ma anche di letti (rigorosamente arrugginiti) predisposti con un foro centrale con "feci e urine a caduta libera in una pozzetta posta in corrispondenza sul pavimento". Ho citato due esempi tratti dei resoconti della Commissione di inchiesta del 2010/2011, ma non i peggiori. Al contrario, se l’emendamento 13.10000, suggerito al senatore Cucca, diventerà legge così come è stato presentato: ci troveremo a dover giustificare l’attuale prassi di "alleggerire" temporaneamente le strutture trasferendo da un carcere all’altro alcuni detenuti colpiti da gravi disturbi mentali. Prescrizione, rush finale con prova di nervi Pd-M5s di Errico Novi Il Dubbio, 10 settembre 2016 È la prima e addirittura decisiva prova di tenuta del Pd di fronte alla crisi dei cinquestelle. La riforma del processo penale affronta l’ultimo chilometro del suo lungo iter al Senato da lunedì prossimo, con la discussione in Aula. Nel provvedimento ci sono almeno due questioni caldissime: la delega sulle intercettazioni e le nuove norme sulla prescrizione. Due bersagli sui quali il l’M5S proverà a scagliare tutte le proprie frecce, nella speranza di scatenare divisioni tra i senatori dem. Anzi, i grillini hanno già cominciato l’altro ieri, con l’annuncio di ben 100 emendamenti, proprio sugli ascolti e sulle registrazioni "fraudolente". Maurizio Buccarella, tra le teste d’ariete grilline a Palazzo Madama ha già definito "liberticida", e dunque da modificare, la norma che punisce chi effettui registrazioni all’insaputa dell’interlocutore "al solo fine di comprometterne la reputazione". Un attacco evidentemente strumentale, che ne preannuncia altri. Si può dare per scontato che nell’esame dell’ampio ddl il Movimento si scaglierà anche contro l’accordo trovato sulla prescrizione tra Pd e Ncd. Ovvio che gli uomini di Grillo lo presenteranno come un vergognoso compromesso. Tenteranno di far dimenticare così l’odissea della giunta Raggi e di bilanciare un po’ il vantaggio acquisito dal Pd nella contesa mediatica. Sarà proprio questo il passaggio che metterà alla prova i nervi dei renziani. La tentazione potrebbe essere quella di assecondare alcune delle pretese dei cinquestelle sui tempi del processo per evitare che questi ultimi facciano passare il Pd come una forza amica dei corrotti. Ma è improbabile che si butti a mare l’alchimia dell’aumento della metà giocato sull’articolo 161 del codice penale anziché sul 158, grazie al quale la durata di un processo per corruzione propria è stata ritoccata dai 21 anni e 9 mesi di Montecitorio a 18 anni. Potrebbero paradossalmente tornare utili i nuovi emendamenti depositati dal relatore del ddl, il senatore pd Felice Casson. Non quelli che insistono sullo stop alla prescrizione dopo la condanna di primo grado, già cestinati, quanto gli altri che fanno decorrere il cronometro del processo non dal compimento del reato ma dall’acquisizione della notizia di reato da parte del pm. Una rivoluzione che in realtà Casson propone solo per le fattispecie - recentemente introdotte - di disastro ambientale e di morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale. Sono casi in cui la condotta delittuosa emerge anche dopo diversi anni, a volte a causa di patologie che si manifestano a distanza di tempo nelle persone esposte ai fattori inquinanti, come nel caso dell’Eternit. Sarebbe una notevole forzatura dell’impianto normativo attuale, ma forse assai più sopportabile, per la maggioranza, come prezzo da pagare alla propaganda grillina. Cyber-bulli senza età. Il Pd vuole 6 anni di galera per chi insulta in Internet di Virginia Della Sala Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2016 "Non in mio nome": stravolta la legge sul cyberbullismo. Nata per proteggere i minori, metterà il bavaglio al web. Non me la sento di associare il mio nome al testo che è uscito dalla Camera. Non è questo lo spirito con cui è nato". Paolo Picchio è il papà di Carolina, 14enne di Novara che nel 2013 si è tolta la vita perché vittima di cyberbullismo. Insieme alla senatrice del Pd Elena Ferrara, da un anno e mezzo lavora su un disegno di legge: "Disposizioni per la tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo". Intento chiaro, intervento chiaro. Eppure, dopo il passaggio nelle commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera, il progetto di legge (approvato all’unanimità in Senato) è stato stravolto, diventando una norma a carattere sanzionatorio che favorisce la censura sul web. L’origine del ddl. Il disegno di legge, che lunedì sarà discusso alla Camera, nasce dal caso di Carolina. Prima di lanciarsi dal balcone, aveva lasciato una lettera: "Perché questo? Il bullismo, tutto qui. Le parole fanno più male delle botte... Non importa che lingua sia". Le offese, gli insulti, lo stalking continuavano sui social network, negli sms. E nei video: Carolina ubriaca, molestata da ragazzi per i quali nei mesi scorsi sono arrivate diverse sentenze, dal carcere alla messa in prova. "La Rete, se usata male, ti perfora l’anima - dice Paolo. C’è bisogno di una legge per il futuro dei ragazzi, non per punire gli adulti. Ma qualcuno ha deciso di usarla per tornaconti politici". Le modifiche. Il primo ad accorgersene è stato l’avvocato Fulvio Sarzana. Dalla definizione generica di bullismo all’aggravante per l’uso di sistemi informatici (già prevista dal codice penale). E l’aggiunta dell’articolo 2-bis che, nella seconda parte, recita: "Per cyberbullismo si intendono, inoltre, la realizzazione, la pubblicazione e la diffusione on line (...) di immagini, registrazioni audio o video o altri contenuti con lo scopo di offendere l’onore, il decoro e la reputazione (...) nonché pubblicare informazioni lesive dell’onore, del decoro e della reputazione". La norma, che conteneva indirizzi per i minorenni e solo una forma di ammonimento in assenza di querele, si è estesa anche ai maggiorenni e ha introdotto un nuovo reato: in sostanza la possibilità di bloccare qualunque espressione sgradita nel web. Un bavaglio. Tutti possono chiedere la cancellazione dei contenuti che ritengono infamanti, quelli che li producono rischiano l’oscuramento e condanne fino a 6 anni di carcere. Per la stesura del testo originale erano stati auditi Polizia Postale, i garanti della privacy e dell’infanzia, l’Agcom e i new media, come Facebook. Chi. "È un intervento sul presupposto che il fenomeno non coinvolge soltanto il mondo dei minori", avevano detto i presidenti delle commissioni alla Camera licenziando il testo a luglio. Relatori, i deputati del Pd Paolo Beni e Micaela Campana, promotrice di un suo disegno di legge sul bullismo su cui lavora anche la presidente di commissione, Donatella Ferranti, deputata dem. Pd contro Pd. "E - spiega Picchio - mentre aspettiamo che i politici facciano i loro comodi, inizierà la scuola ma non la prevenzione". Niente fondi. Nei mesi scorsi è stato firmato un protocollo d’intesa tra il ministero dell’Istruzione e il Polo Pediatrico Fatebenefratelli Sacco di Milano per la creazione del Centro nazionale per il contrasto al cyberbullismo. È già operativo, ma del finanziamento di 140 mila euro l’anno previsto dall’accordo non c’è traccia. "Abbiamo un coordinamento territoriale con un referente in ogni regione 24 ore su 24 - spiega il direttore Luca Bernardo. Il cyberbullismo è continuo: pc e smartphone sono attivi notte e giorno e i ragazzi non sanno dove nascondersi". "Per i centri antiviolenza 19 milioni dal governo" di Marilisa Palumbo Corriere della Sera, 10 settembre 2016 È un po’ l’esordio pubblico nel ruolo di ministra con delega alle Pari opportunità, e anche se la sua agenda è costellata dai moltissimi impegni per promuovere il Sì al referendum, Maria Elena Boschi ha già diverse idee su come interpretare il nuovo compito. Giovedì c’è stata la prima riunione della cabina di regia contro la violenza sulle donne: "La prima volta in assoluto che è previsto un luogo di confronto tra i vari ministeri che si occupano di questi temi, ma anche con le Regioni e gli enti locali. E non sarà un incontro episodico", ha detto a "il Tempo delle donne". Le risorse ci sono, ma non vanno disperse: "Ho chiesto di avere una rendicontazione di come e se sono stati spesi i fondi. Abbiamo scoperto che quasi 10 milioni dei 31 messi a disposizione lo scorso biennio da Stato e Regioni non sono stati utilizzati, c’è molto da lavorare. Per i prossimi due anni lo Stato ne stanzierà quasi 19 milioni aggiuntivi". A questi si aggiungeranno altri 13 milioni per formazione, autonomia abitativa e lavorativa. La ministra (al femminile, sì, perché "anche le parole che usiamo sono un modo per diffondere l’idea che certi ruoli non siano solo per gli uomini") ha rivendicato gli sforzi fatti per aumentare l’equilibrio di genere nelle leggi elettorali, lei che era contraria alle quote in nome della meritocrazia: "Mi sono convinta lungo la strada, accelerano un percorso che diventa naturale. Avere più donne nei vari organi elettivi non è questione da donne, ma di democrazia". Le critiche spesso sessiste di cui è bersaglio? Possono ferirla, ma non demotivarla: "Mi dispiace però per le ragazze più giovani se passa l’idea che se ti impegni ma sei donna rischi di essere attaccata non per quello che fai ma solo perché donna". Non che per essere prese sul serio si debba rinunciare "Altri 13 milioni stanziati per formazione, autonomia abitativa e lavorativa" alla femminilità. "Il problema è che ci viene chiesto sin da piccole di essere perfette e non coraggiose - dice citando l’attivista ed educatrice Reshma Saujani - e invece dovremmo cercare di essere più coraggiose e meno perfette. E passare un po’ più di tempo a leggere e studiare che a preoccuparci delle foto che le amiche postano su Instagram". Più libri e meno selfie. "Oddio speriamo che ora non mi diano della maestrina", scherza poi, andando via. Intervista a Carlo Nordio: "A noi magistrati la politica va vietata" di Errico Novi Il Dubbio, 10 settembre 2016 Chi entra in Parlamento o nelle giunte fa un danno a tutti gli altri colleghi, dice il procuratore aggiunto di Venezia. Che accusa: "Alcuni pm hanno fatto il gran salto spinti da un complesso di superiorità". Carlo Nordio è un magistrato che parla. Molto. Scrive editoriali, libri, prende posizione sui temi che scuotono il sistema giustizia. Passa però una differenza tra lui e certi pm che intrecciano le loro carriere con gli scoop dei giornali: Nordio interviene quasi sempre per dire quali errori lui e i suoi colleghi dovrebbero guardarsi dal commettere. E anche di fronte all’ultima ondata di toghe chiamate dalla politica per salvare il Paese, il procuratore aggiunto di Venezia non si trattiene dal dire quello che pensa: "Ai magistrati la politica dovrebbe essere vietata per legge". Vietata addirittura? Guardi che non lo dico adesso. L’ho scritto nel mio primo libro sulla giustizia, nel 1997: un magistrato non dovrebbe entrare in politica, o in parapolitica, né durante la carriera né da pensionato. E il motivo è semplicissimo. Lo spieghi. Persino nei casi in cui un giudice entra in politica dopo essere andato in pensione, tutto quanto ha fatto da magistrato rischia di essere letto come strumentale rispetto al secondo tempo della sua vita pubblica, quello giocato nel campo della politica, appunto. Addio all’idea della terzietà, insomma. Scusi ma se il dottor Nordio dopo aver condotto l’inchiesta sul Mose (una delle poche inchieste di corruzione ad aver prodotto confessioni e restituzioni di tangenti prima ancora che sentenze, ndr) si presenta alle elezioni in Veneto, molti penseranno che si sia dato da fare con quell’indagine per prepararsi una futura nicchia da politico. Molti hanno trascurato la sfumatura. Poi sa, questa è una delle ragioni che dovrebbero scoraggiare il pensionamento anticipato dei magistrati: a 70 anni ci si trova ancora nelle pieno delle forze, esposti a mille tentazioni, e se cominciano a chiederti se ti vuoi candidare... meglio tenere i giudici al lavoro ancora un po’. Ne riparliamo. Intanto in una delibera di fine 2015 il Csm ha suggerito di prevedere almeno che dopo un eventuale lungo transito in politica un magistrato non possa rimettersi la toga, e che debba essere ricollocato in altro ruolo della pubblica amministrazione. Sono assolutamente d’accordo. Ripeto, io sono più radicale e arriverei a uno sbarramento assoluto tra magistratura e politica. Ma visto che la cosa rischia di essere incostituzionale ben venga la proposta del Csm, che trovai subito indovinata. In Parlamento per ora si ragiona su ipotesi normative più tenui. Io credo una cosa: se un magistrato si candida o entra in una giunta come quella di Roma, così nettamente legata a un singolo partito, finisce per essere così esposto che la sua caratura pubblica rischia di essere compromessa. E ma lei ha descritto proprio quanto avvenuto con Raineri prima e De Dominicis dopo. Da quanti anni mandiamo a memoria la massima di Pertini, ‘bisogna apparire imparziali, oltre che esserlò? D’altronde è successo più volte, un magistrato assume funzioni di governo, o diventa parlamentare, e poi rientra in magistratura: il fatto è che la legge lo consente. E ci risiamo col caso ravvicinato: dopo l’esperienza lampo in Campidoglio la dottoressa Raineri tornerà automaticamente in Corte d’Appello a Milano. Sono sempre situazioni imbarazzanti, il caso Ingroia fu emblematico, poi è finito come sappiamo. Il punto è che già la magistratura è sospettata di essere politicizzata: non è vero, intendiamoci, ma certo bisognerebbe cercare di non alimentare il sospetto. Con l’ascesa dei Cinque Stelle rischiamo di trovarci con sempre più toghe che assumono funzioni politiche, visto che il Movimento considera i politici in quanto tali indegni di rappresentare la legalità? È assolutamente così, il rischio di cui lei parla c’è. Però scusi, dov’è la novità? È dai tempi di Mani pulite che si guarda alla magistratura come a un baluardo di legalità che la politica non è in grado di rappresentare. È un errore pratico e politico: ognuno deve fare il suo mestiere, e siamo di fronte a una bestemmia rispetto al principio di separazione dei poteri. Non tutti i magistrati la pensano come lei evidentemente. Molti miei colleghi hanno alimentato l’illusione di quella supplenza pensando di essere migliori degli altri. Si sbagliano: le persone di valore, e quelle inadeguate, sono tra i politici come tra i magistrati, indifferentemente. La responsabilità della commistione è da dividersi equamente tra toghe e partiti, insomma. In realtà la magistratura ha occupato il vuoto lasciato dai partiti ogni qualvolta questi ultimi hanno fatto un passo indietro. C’è una data di inizio, di questa resa: il ritiro da parte dell’allora ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso del decreto che depenalizzava il reato di finanziamento illecito. Ritiro avvenuto dopo il pronunciamento dei quattro sostituti del Pool. In questi ultimi vent’anni c’è stato un continuo scivolare della politica verso l’idea di far fare ai magistrati cose che competono a lei, salvo accusare i giudici di invasione di campo. Ecco ancora un’altra dimostrazione del fatto che servirebbe un’assoluta divisione tra i due ambiti. Il fatto che alcuni giudici assumano ruoli politici è un danno, per la magistratura? È un danno, esatto. Da decenni ci battiamo per preservare la nostra indipendenza, dovremmo essere i primi a capire che più ci accostiamo alla politica e più si penserà che ne siamo dipendenti, visto che andiamo a prenderne il posto. A proposito di giudici che da pensionati possono cedere alle lusinghe dei partiti: il decreto che proroga il pensionamento per le Alte Corti è davvero un errore? È un grave errore: rappresenta un inedito ed è a rischio incostituzionalità. Posso prenderla un po’ alla lontana? Se crede. Il primo errore è quello commesso due anni fa con l’improvvisa riduzione dell’età pensionabile dei magistrati da 75 a 70 anni, stabilita per decreto legge. Perché fu un errore? Innanzitutto per la forma. Si procede per decreto se c’è necessità e urgenza. Ma tanto urgente quel provvedimento non doveva essere, visto che prevedeva l’entrata in vigore della misura dall’anno successivo... In effetti. Ecco, ci aggiunga che poi si intervenne con una proroga e vedrà come il presupposto dell’urgenza fu formalmente smentito dallo stesso governo. Tanto da rendere addirittura incostituzionale il decreto originario. Sul quale non a caso il Consiglio di Stato si espresse assai negativamente. Parte dell’opinione pubblica pensa che quella soglia così alta per il pensionamento dei magistrati fosse un incomprensibile privilegio. Io non penso sia sacrilego abbassarci l’età pensionabile, anche se la cosa confligge con tutta la filosofia affermatasi dalla legge Fornero in poi: un giudice in pensione riceve un assegno esattamente pari allo stipendio che raggiunge a 70 anni, quindi lo Stato non risparmia nulla. Anzi ci perde: perché prima ci manda in pensione e prima deve assumere nuovi magistrati. Ma non c’era una particolare emergenza in Cassazione? No guardi, non c’era una ragione logica per limitare il provvedimento alle figure apicali della Cassazione. Se c’è un’emergenza riguarda anche il resto della giurisdizione. Le faccio un esempio: di qui a un anno a Venezia andranno in pensione sia il procuratore capo che l’aggiunto vicario, cioè il sottoscritto. Considerato che il tempo fisiologico che il Csm impiega per riempire le caselle scoperte è di circa un anno, la Procura di Venezia resterà per un anno sulle spalle dell’altro attuale procuratore aggiunto, che dovrà fare il lavoro di tre persone. L’ufficio non potrà più lavorare. Infatti l’Anm reclama l’immediata rettifica e il reinnalzamento della soglia a 72 anni. Mai vista l’Anm muoversi come un solo uomo come stavolta: le storiche divisioni tra correnti sono state completamente annullate. E anche a livello personale, molti colleghi che ho sentito hanno accolto quest’ultimo provvedimento con sdegno: non ha giustificazione alcuna, è inspiegabile. E sono convinto che i colleghi delle Alte Corti avvertano per primi il disagio. Anzi, le dico: io mi sentirei a disagio, se fossi il primo presidente di Cassazione. Intervista ad Antonio Di Pietro "Cari pm, fate politica ma dite addio alla toga" di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2016 Ben vengano i magistrati in politica - "perché è giusto farsi aiutare da persone qualificate" -, ma una volta passato il guado e svestita la toga, non si può tornare indietro. Antonio Di Pietro, ex magistrato ed ex politico, è uno che ha frequentato entrambi i palazzi, ma su una cosa non transige: "Un arbitro può anche fare il giocatore ma è bene che non torni a fare l’arbitro". E poi tra la folla di quelli col dito puntato contro Virginia Raggi & Co, spunta l’ex pm Antonio Di Pietro a difendere e dare fiducia ai pentastellati. Di Pietro sostiene che quello che sta succedendo in questi giorni al Campidoglio è solo frutto di accanimento contro i grillini e accusa di memoria corta coloro che fanno finta di dimenticare i veri artefici del degrado capitolino. Giù le mani, dunque, dai grillini e dalle persone chiamate in Giunta: perché è proprio lui che potrebbe diventare il nuovo assessore al Bilancio, dopo che anche De Dominicis è stato fatto fuori. Le indiscrezioni che lo riguardano sono corrette oppure è fantasia? Di Pietro su questo preferisce sorvolare... Secondo lei l’assessora Muraro si dovrebbe dimettere? Non capisco perché qualcuno chieda le sue dimissioni. A quanto risulta ufficialmente l’assessore Muraro non è stata raggiunta da nessun avviso di garanzia. Niente dimissioni, dunque? A quanto ne so, è stata la Muraro stessa a fare richiesta per sapere se fosse stata iscritta o meno al modello 21, ai sensi dell’articolo 335 del codice di procedura penale. L’iscrizione al modello 21 è una cosa diversa dall’avviso di garanzia. Al momento non sappiamo la ragione per cui qualcuno ha denunciato la Muraro. Lo potremmo sapere nel momento in cui ci sarà un avviso di garanzia, all’interno del quale è indicato l’eventuale reato a suo carico. Al momento, a suo parere è giusta la posizione di Virginia Raggi che fa quadrato intorno all’assessore? Io difendo in questo momento il Movimento 5 Stelle perché vedo chiaramente una strumentalizzazione di vicende ordinarie che vengono ogni giorno ingigantite fino al punto da far credere che Roma è una città allo sfascio per colpa dei due mesi di governo Raggi e non per colpa dei venti anni in cui ha governato il sistema dei partiti tradizionali. Quanto è grave questa mancanza di trasparenza da parte di Muraro e Raggi? Non ho capito in cosa consista la mancata trasparenza, cos’è che non hanno detto. L’avviso di garanzia è appunto un avviso che ti fa l’autorità giudiziaria per dirti "sto indagando su di te in relazione a questo reato, difenditi se ne hai voglia e possibilità". Al momento l’autorità giudiziaria non ha comunicato nulla in tal senso alla Muraro. Se l’assessora all’ambiente ricevesse un avviso di garanzia dovrebbe lasciare? Per quanto riguarda la mia persona, quando io ho ricevuto un avviso di garanzia mi sono dimesso. Ciò premesso, ritengo che vada valutato il merito, onde evitare che ci sia un abuso nelle denunce per provocare dimissioni piuttosto che raccontare fatti veri. Crede che l’accanimento che c’è contro il Movimento di Grillo riguardante la trasparenza è stato gonfiato dai mass media e da chi vuole politicamente criticare il loro operato? A mio parere si sta cercando di colpire il dito per non vedere la trave, vale a dire il malaffare di questi ultimi anni. Con questo non voglio dire che io desidero credere ad occhi chiusi al Movimento 5 Stelle. Voglio dire che dobbiamo dar loro il tempo di governare, per vedere se sanno governare. Ritengo che in riferimento alle persone che si sono dimesse e soprattutto di quelle di cui si chiedono le dimissioni, mi amareggia e mi dispiace il fatto che il Movimento 5 Stelle si sia fatto travolgere da queste pressioni. Le persone di cui parliamo, dalla Raineri all’attuale assessore al Bilancio De Dominicis, sono tutte persone di altissima professionalità, di specchiata moralità. Secondo lei cosa deve fare il Movimento per uscire da questa crisi? Deve ignorare questi sistematici attacchi e deve pensare a dimostrare di saper governare. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno che si perdono dietro queste polemiche è tempo sottratto per fare qualcosa per la città di Roma e per il Paese. Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, ha espresso parere negativo sullo stipendio della Raineri, ex capo di Gabinetto del Comune di Roma. Secondo lei ha ragione Cantone o la Raineri, per la quale il suo stipendio era in linea con quello da magistrato? Cantone ha il diritto-dovere di esprimere le proprie valutazioni in ordine ad un quesito che gli è stato posto. Quindi nulla quaestio sulle decisioni di Cantone. Dopo di che ognuno in relazione a quelle decisioni ha il diritto di prendere a sua volta le decisioni che ritiene più opportune. Nel caso della Raineri, una possibilità era quella di dimettersi, ma non credo che lei si sia dimessa per la questione in se dello stipendio ma per ben altre ragioni che ha già spiegato in parte. Quindi chi è il destinatario del provvedimento ha il diritto-dovere di prendere atto della decisione e fare le proprie scelte: ridurre lo stipendio, chiedere una rivalutazione di questa decisione, dimettersi. Raineri ha scelto legittimamente di dimettersi e io rispetto questa sua scelta. Carla Romana Raineri si appresta a tornare alla Corte d’appello di Milano. Di magistrati fuori ruolo, il Movimento 5 Stelle è solito avvalersi. Lei prima di entrare in politica si è dimesso dalla magistratura. Il fenomeno dei magistrati fuori ruolo può, a suo giudizio, incidere negativamente sulla indipendenza e autonomia della magistratura? Farsi aiutare da persone terze e professionalmente qualificate che esistono in magistratura e nelle altre professioni - avvocati, ingegneri, giornalisti, ragionieri - rappresenta un valore aggiunto per l’attività politica che si vuole portare avanti e come tale va rispettato. Io penso che anche un arbitro possa fare il giocatore se sa ben giocare. Se ha fatto il giocatore è bene che non torni a fare l’arbitro. Io ho preferito dimettermi e solo dopo due anni e mezzo sono entrato in politica. Regime di Alta Sorveglianza per gli anarchici in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2016 Martedì scorso una vasta operazione della polizia, denominata "Scripta manent", su disposizione della procura di Torino ha portato all’arresto di sette anarchici italiani. Secondo la procura, gli arrestati risulterebbero affiliati all’organizzazione Federazione Anarchica Informale (Fai). Ai fermati è stato contestato il reato di associazione con finalità di terrorismo, e in particolare l’essere artefici di tre esplosioni negli ultimi anni: una nel marzo del 2007 a Torino, due presso la Caserma allievi dei Carabinieri di Fossano, nel giugno del 2006. L’inchiesta trae origine dal procedimento penale nato in seguito al ferimento da parte del "Nucleo Olga" della Fai dell’ingegner Roberto Adinolfi, amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare, gambizzato a Genova nel 2012. Durante le perquisizioni, a parte qualche fumogeno e petardo, non è stato ritrovato nessun materiale pericoloso, ma alcuni opuscoli anarchici e manifesti di provenienza greca. E sempre a proposito di scritti che rimangono hanno trovato delle corrispondenze datate con alcuni detenuti reclusi in carcere. L’accusa è una di quelle più gravi, l’articolo 270 bis, ovvero "Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico". Le assoluzione e le derubricazioni del 270 bis - Non è la prima operazione giudiziaria nei confronti degli anarchici. Una delle prime - quelle che seguono sono tutte operazioni giudiziarie eseguite tra il 2011 e il 2012 - è stata l’operazione "Ardire" condotta dalla pm Manuela Comodi di Perugia con l’allora generale dei Ros, Giampaolo Ganzer, poi la "Mangiafuoco", la "Ixodidae" (ovvero zecca in latino) e l’operazione "Thor". Il materiale pericoloso repertato per quest’ultima operazione consisteva in una busta di chiodi, libri anarchici, giornali autogestiti e scambi di lettere con i detenuti anarchici stranieri. Nell’operazione "Ardire" è crollata l’accusa di associazione terroristica (270 Bis) che ha giustificato gli arresti preventivi; la "Ixodidae" si è conclusa con un’assoluzione. Per quest’ultima operazione sono state effettuate oltre 10mila le intercettazioni ambientali, 92mila le ore di riprese video analizzate, 148.990 i contatti telefonici, 18.000 le comunicazioni telematiche intercettate, 80 gli eventi giudiziari presi in considerazione di cui 28 sono stati considerati nell’ambito di quel procedimento. Nel 2014 alcuni ragazzi, per aver fatto una manifestazione di solidarietà per gli arrestati di un’altra operazione giudiziaria denominata "Brushwood" - finita quando sono venute meno alcune accuse come quella di associazione sovversiva con finalità di terrorismo e basata solo sulle interpretazioni delle intercettazioni - sono stati condannati a dieci giorni, tramutati poi in un’ammenda di 2.600 euro. Introdotte nuove fattispecie di reato - Colpevoli o meno, gli accusati di 270 bis finiscono in custodia cautelare nei regimi speciali e, a seconda della loro area politica di appartenenza, finiscono in sezioni apposite. I detenuti in Alta Sicurezza devono essere tenuti completamente separati dagli altri e le sezioni devono essere assegnate a personale qualificato. I detenuti devono essere uno o al massimo due per cella e occorre evitare che stiano insieme i ristretti che "possono sfruttare la loro vicinanza per fini criminali", inoltre, occorre evitare che stiano insieme soggetti fra loro incompatibili, in modo da evitare situazioni di tensione: minacce, violenze o aggressioni. Per l’accertamento dell’incompatibilità fra i detenuti si deve valutare non solo il loro comportamento all’interno del carcere, ma si deve attingere anche alle informazioni dell’autorità di polizia e giudiziaria. Nel 2009 il Dap con la Circolare n. 3619/6069 del 21 aprile abolisce il regime Eiv (Elevato indice di vigilanza). Dagli inizi degli anni 2000, con la nuova emergenza del "terrorismo internazionale", inizia una nuova stagione di differenziazione nelle carceri. Nel 2005 entra in vigore la Legge Pisanu, n. 155 del 31/07/2005, che, fra le altre misure di limitazione della libertà di tutti/e a favore di una fantomatica sicurezza, prevede la nascita di nuove normative di contrasto al terrorismo. Vengono infatti introdotte nel Codice penale nuove fattispecie di reato, in particolare il 270 quater ("Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale"), il 270 quinquies ("Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale"), ed il 270 sexies ("Condotte con finalità di terrorismo"). La Legge Pisanu prevede inoltre la possibilità di colloqui investigativi personali eseguibili dalle forze dell’ordine alle persone detenute in assenza di avvocati o magistrati. Nel 2009 il Dap con la Circolare n. 3619/6069 del 21 aprile abolisce il regime Eiv (Elevato indice di vigilanza) per sostituirlo con tre gradi di Alta Sorveglianza. Ovvero l’ As1 che è dedicato al contenimento dei detenuti e internati appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso; l’AS2 dove vengono inseriti automaticamente i soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza e poi l’As3 dove vengono inseriti i detenuti per mafia, sequestro di persona, traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Nell’As2 c’è una ulteriore suddivisione. I detenuti vengono suddivisi per aree omogenee di appartenenza ai diversi gruppi definiti terroristici. Attualmente le sezioni As2 del carcere di Alessandria e di Ferrara sono destinate ai detenuti anarchici, le sezioni di As2 di Siano (Catanzaro) e Carinola (Caserta) ai detenuti di matrice comunista, mentre la As2 di Macomer (Nuoro) e Rossano Calabro (Cosenza) ai detenuti islamici. L’associazione Antigone in un scheda relativa al carcere di Ferrara fa riferimento anche alla sezione relativa agli anarchici. I detenuti sono descritti dal comandante come soggetti che tenterebbero continuamente di fomentare la rivolta e di mettere in discussione gli assetti normativi ("per questo vanno tenuti distanti dagli altri detenuti"). Nel corso della visita alla sezione, Antigone riferisce che i detenuti anarchici (riuniti in un’unica cella e intenti a seguire il telegiornale) non rispondono al saluto del comandante, il quale poi riferisce: "Io ci provo sempre, ma non c’è verso che rispondano al saluto". Ad Antigone ha assicurato che questi detenuti non subiscono un trattamento particolarmente restrittivo in riferimento alle attività. I passeggi loro dedicati - fa notare sempre Antigone - sono però piuttosto piccoli, senza copertura e sormontati da decine di metri di filo spinato. Airola (Bn): nel carcere minorile dell’ultima rivolta "o la morte o la galera" di Micaela Farlocco e Maddalena Oliva Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2016 "Tu queste cose le devi fare ora che sei giovane. Perché così, se vai in galera per vent’anni, esci e hai tutta la vita davanti". Parola di un camorrista di oggi, quello che non è mai stato bambino. Ma il camorrista di oggi ha la faccia imberbe. Non ha più di 20 anni. Sono i ragazzi che abbiamo incontrato nel corso delle riprese di Robinù, il film documentario di Michele Santoro appena presentato al Festival del Cinema di Venezia, tra le stanze del carcere minorile di Airola (Benevento) e le celle di Poggioreale a Napoli: ragazzi per cui la detenzione è tornata a essere - a trent’anni da Raffaele Cutolo - una possibilità per acquisire punti nella carriera criminale, uno step fondamentale per acquisire lo status di boss a tutti gli effetti. "È come fosse un posto di fatica. Oggi stai facendo l’assistente, domani vuoi diventare brigadiere, poi diventi comandante", dice Mariano, uno dei nostri protagonisti, incontrato ad Airola. L’Istituto penale minorile di Airola, in provincia di Benevento, lo chiamano il carcere-scuola. Lunghi corridoi, tante aule che cadenzano le poche celle, la stanza con il biliardino e i tavoli da ping-pong: in tutto 30 ragazzi, dai 17 ai 25 anni, tutti di Napoli e dintorni, sorvegliati da 40 agenti di polizia penitenziaria. Tra i corsi di ceramica e qualche ora di lezione, la noia che spesso si respira è tanta. Mariano ha lo sguardo schivo, veloce, di chi ha tutto sotto controllo. I compagni di cella lo salutano con rispetto. Ha l’aria del capo, anche se ha solo 18 anni. E ci ha accolto facendo tutti gli onori, come fosse casa sua. Il carcere di Airola nei giorni scorsi è diventato il teatro di una rivolta, animata proprio dai ragazzi che abbiamo intervistato in Robinù. Dopo i feriti, le celle sfasciate e i tavoli rotti, sono partite le consuete ispezioni di ordinanza, qualche articolo indignato (sulla stampa locale) e le discussioni tra addetti ai lavori sul fatto se sia giusto o meno far convivere giovani criminali e detenuti minorenni. E tutto si appresta a tornare come prima. Il carcere minorile di Airola non è nuovo a episodi del genere, così come nessuno degli altri 15 istituti penitenziari minorili italiani, ma lì, come nelle altre carceri campane, sta succedendo qualcosa di nuovo. Con i numerosi arresti di giovani capi clan di spicco, a seguito delle inchieste degli ultimi anni della magistratura sulla "paranza dei bambini" nel centro storico di Napoli, e sulle faide dei quartieri nella periferia orientale della città, i ragazzi detenuti sono aumentati a dismisura. E vivono il carcere, per quello che abbiamo potuto vedere direttamente, come un’estensione del loro vicolo o quartiere. Non c’è - per loro che stanno "dentro" - distinzione tra il "dentro" e il "fuori". E anche in prigione è svanito il confine tra ragazzi e uomini, tra guaglioni e capi. Dalle celle i ragazzi provano a comandare, ad affermare la loro superiorità su qualche altro capetto riferibile a un altro gruppo, a un’altra famiglia, a un altro clan, riproducendo appieno le dinamiche criminali che governano la strada, la città. Schegge impazzite che guardano alla detenzione come a un segno di potenza da esibire. "Il carcere te lo devi saper fare", spiega Michele, detenuto a Poggioreale, 22 anni di cui sei passati spostandosi da un istituto penale minorile a un altro. Uscirà a 40 anni. E, ridendo, dice: "Che fa? Uno come me sa a cosa va incontro. O alla morte o alla galera. E poi con la mente tu sei libero, no?". Vogliono fare tutti i pizzaioli, quando non direttamente i boss. "Eppure potrebbero diventare artisti, potrebbero diventare medici. Possono diventare calciatori, ma costruire un campetto di calcio dove farli giocare sarebbe già un successo", diceva il vecchio boss Luigi Giuliano, il re di Forcella. "Un ragazzo di Forcella come me - raccontava - viene guardato con sospetto dalla società, vive nella perenne emarginazione. Forse per questo, per avere una certa rivincita sulla vita e sugli altri, prende un fucile in mano". Sono passati molti anni e in carcere oggi ci sono i Giuliano di terza generazione, i nipoti di quel boss dagli occhi di ghiaccio. Su 503 ragazzi detenuti nelle carceri minorili in Italia, 279 sono italiani. Se su questi 239 - 8 su 10 - sono del Sud, qualcosa vorrà dire. Lecce: convenzione tra Comune di Caprarica e Casa Circondariale di Eleonora Romano leccenews24.it, 10 settembre 2016 L’accordo è già stato sottoscritto ed è operativo dai primi giorni di agosto e consentirà a due detenuti, che a breve diverranno tre, di scontare parte della pena prestando servizio nel comune salentino. Si svolgerà il prossimo lunedì 19 settembre, presso la Sala Consiliare del Comune di Caprarica di Lecce la presentazione della convenzione sottoscritta tra il Comune e la Casa Circondariale di Lecce. L’accordo - già firmato e operativo sin dai primi giorni di agosto - consentirà a due detenuti, che presto diventeranno tre, di scontare parte della pena prestando servizio nel comune salentino, svolgendo mansioni di recupero del decoro urbano. L’intesa in oggetto non mira solo a questo, c’è anche altro, infatti. Oltre a prevedere possibilità di ampliamento anche ad attività differenti, è inserita in un progetto sociale di reinserimento e formazione avviato in sinergia con la Regione Puglia. Il Sindaco di Caprarica di Lecce, Paolo Greco sottolinea come tale convenzione sia uno strumento attivato immediatamente dopo le elezioni del giugno 2016 e di come sia soltanto il primo passo verso lo sviluppo di un progetto più ampio. Rita Russo, direttrice della Casa Circondariale ha a cuore quest’azione per reinserire e reintegrare i detenuti nella società, attraverso numerose attività come per fare qualche esempio quelle di valorizzazione dei mestieri e dei laboratori che caratterizzano i piccoli centri che vanno scomparendo, tramite un coinvolgimento del Centro Anziani locale e, soprattutto, di recupero dei terreni agricoli (tra cui gli uliveti) abbandonati. La convenzione e il relativo progetto sociale saranno illustrati nel corso di un incontro con gli operatori della comunicazione alla presenza del Parroco di Caprarica, Don Antonio Scotellaro; del Comandante della Stazione dei Carabinieri di Calimera; da Rita Russo, direttrice della Casa Circondariale di Lecce; da Annantonia Margiotta, funzionaria della Regione Puglia ed esperta di tematiche e politiche di Welfare e dal Sindaco di Caprarica di Lecce Paolo Greco. Ascoli: il giudice gli nega i domiciliari e lo salva dal terremoto Il Resto del Carlino, 10 settembre 2016 La storia di un detenuto ascolano: la sua casa ad Arquata è crollata a causa del sisma. Il giudice non gli concede gli arresti domiciliari e lui si salva dal terremoto perché era in cella. E perché la sua casa si trovava ad Arquata. Sembra incredibile, ma è la vera storia di un detenuto del carcere del Marino, che è scampato per miracolo al sisma del 24 agosto: dovrà quindi benedire il momento in cui il giudice del tribunale di Ascoli, Marco Bartoli, ha deciso di non concedergli i domiciliari. Questa è stata la salvezza del 55enne arquatano, arrestato a maggio per aver dato alle fiamme il letto della compagna, nel paese poi devastato dal sisma. Un fatto per il quale era stato condannato a sei anni, pena che sta scontando nel carcere del Marino; nel frattempo il suo avvocato aveva presentato un’istanza per fargli ottenere gli arresti domiciliari, ma pochi giorni prima del sisma era arrivato il diniego del giudice, che gli ha così salvato la vita. Quel che il reato costringe nell’ombra. Leggendo "Dentro", di Sandro Bonvissuto di Fabio Gianfilippi (Magistrato di sorveglianza Spoleto) questionegiustizia.it, 10 settembre 2016 "Ho letto "Dentro" di Sandro Bonvissuto dopo averne sentito molto parlare in ambito penitenziario. Il testo si compone di un trittico di racconti che vede il narratore vestire i panni del detenuto nel primo, affrontare nel secondo la nascita di una amicizia magica con il proprio compagno di banco e, infine, sempre a ritroso, nel terzo apprendere dal padre come si va in bicicletta. Ho molto amato le atmosfere che caratterizzano i capitoli non carcerari, evocative di momenti di passaggio ancestrali, nei quali è facile riconoscersi: le giornate e i rovelli del tempo agro della scuola, spesso ammantato di un mito soltanto postumo; i colori ed i ritmi delle interminabili estati piene di possibilità e degli enormi rischi del crescere. Sono però arrivato a Bonvissuto soprattutto per il suo racconto del carcere: aspro, crudo, per nulla generoso e forse manchevole di una componente riflessiva rispetto al necessario percorso critico che deve connettersi all’esecuzione penale, e però emotivamente molto intenso e, per un magistrato di sorveglianza, ricco di provocazioni sul tanto che c’è da fare. Il lettore segue il protagonista nel suo percorso di ingresso in carcere e con lui apprende i meccanismi e le opacità del mondo della detenzione, fotografato negli anni in cui l’emergenza del sovraffollamento appariva più drammatica. Un carcere descritto come luogo della sottrazione, non solo della libertà personale, com’è proprio della pena detentiva, ma progressivamente di molto altro ed alla fine di tutto, come si avvede il protagonista nel guardare per la prima volta i locali destinati al passeggio: "non avevano tolto tutto fino a non lasciare più niente, lì avevano tolto tutto e poi ci avevano messo il nulla". Come accade alla biblioteca vuota, e perciò inutile, da incubo. Una biblioteca ben lontana, per la verità, da quelle che nel tempo mi è stata data l’occasione di visitare negli istituti penitenziari dei quali mi sono occupato, e però simbolo immediatamente leggibile del rischio paradossale che il mondo penitenziario può correre, se dimentica di cosa non si può proprio fare a meno, come dei libri in una biblioteca. Se smarrisce, cioè, la bussola della ineludibile funzione risocializzante della pena stagliata nell’art. 27 Cost. In una pagina che ho trovato particolarmente felice di questo viaggio senza sconti nel mondo della detenzione, l’autore afferma: "una delle cose più assurde che succede a chi sta in carcere è che il detenuto comincia pian piano ad assomigliare al suo reato". E continua spiegando come la sua colpa lentamente lo sovrasti e insieme attiri consenso o disprezzo e finisca per contare solo lei e non più la persona. Accade che "il reato diventa l’unica cosa che il detenuto è stato capace di fare". È qui che Bonvissuto si rivolge alle istituzioni penitenziarie ed in particolare parla al magistrato di sorveglianza. Quel giudice deve essere facilmente raggiungibile, prossimo ai detenuti di cui si occupa, capace di ascolto, deve essere in grado di lasciare una eredità di speranza. E il pensiero in questi giorni non può che andare a Sandro Margara, recentemente scomparso, il magistrato di sorveglianza che prima di ogni altro ha saputo seminare questa speranza, fino ad incarnarla col suo stesso nome, divenuto nelle prigioni d’Italia sinonimo di attenzione e fiducia da parte delle istituzioni. Quel tipo di giudice, continua l’autore, con la sua disponibilità ad incontrare i detenuti può fare la differenza dando "spazio e voce all’uomo che porta il reato". Anche nel resto del libro, d’altra parte, c’è sempre questo riferimento al valore dell’individualità come strumento di ricerca del proprio posto nel mondo. E nelle istituzioni totali, come è il carcere, come a tratti è la scuola, come finiscono per diventare certi gruppi amicali basati su ruoli e regole rigidissimi ed indefettibili, occorre a tutti i costi, per far emergere l’uomo, combattere le categorie e i pregiudizi che vi si avvitano intorno. Ogni luogo in cui ci si trovi, allora, anche un penitenziario, con i suoi muri perfetti ed orribili, può disvelare l’umanità dei singoli. A chi lavora col carcere Bonvissuto consegna una chiave di lettura di quel mondo che, oltre il doveroso percorso verso il rispetto integrale dei diritti della persona, passa per l’individualizzazione e la valorizzazione di ciò che il reato ha costretto nell’ombra. Perché il carcere è chiamato ad essere, quando è inevitabile, un contenitore di opportunità risocializzanti ed il reato non è affatto l’unica cosa che un uomo sia capace di fare. Migranti. Un patto a sette contro chi rifiuta di accogliere i profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 10 settembre 2016 Ripartire dal Mediterraneo per costruire il futuro dell’Europa, come auspicato ieri nel vertice Euro-Med, significa prima di tutto provare a cambiare alcune regole e comportamenti che finora hanno condizionato l’Ue. Regole e comportamenti giudicate troppo rigide dai capi di stato e di governo che si sono incontrati ad Atene. Un giudizio che vale per i temi economici, ma anche per l’immigrazione. Su quest’ultimo punto Alexis Tsipras ieri è stato chiaro e ha ripetuto quanto va sostenendo da tempo. Di fronte alla crisi dei migranti "la Grecia ha fatto la sua parte, il resto dell’Europa no". Un’accusa che il premier greco ha rivolto a tutti quei Paesi che, mossi solo da egoismi nazionali, finora hanno ostacolato il ricollocamento dei profughi da Grecia e Italia e condivisa da Matteo Renzi che, come Tsipras, ha rivendicato di aver fatto i compiti assegnati a suo tempo da Bruxelles (a partire dalla creazione degli hotspot e dall’identificazione dei migranti sbarcati sulle coste italiane) senza però aver ricevuto il promesso trasferimento dei profughi. Il vertice che ha riunito ieri nella capitale greca i leader di Italia, Francia, Malta, Cipro, Portogallo e Grecia, oltre al viceministro spagnolo per gli Affari europei (e che vedrà oggi un seguito sempre ad Atene con il summit dei ministri per gli affari europei al quale parteciperà il sottosegretario Sandro Gozi), è servito quindi a fare il punto sulle inadempienze dell’Unione europea ma soprattutto a dar vita a un fronte comune in vista del vertice informale che il 16 settembre si terrà a Bratislava. Vertice che non sarà una passeggiata come sanno tutti, al punto che i vari schieramenti stanno già affilando le armi. La questione delle quote sarà infatti una di quelle che terranno banco, con il blocco dei paesi dell’est contrari alla ripartizione obbligatoria dei profughi e decisi a non cedere di un millimetro. Tanto che su questo Ungheria e Slovacchia hanno già fatto ricorso alla Corte di giustizia europea e Budapest ha organizzato un referendum per il 2 ottobre. La costituzione di un blocco dei paesi del Mediterraneo (in Germania già etichettato "Club Med"), servirebbe quindi a fare da contraltare all’altro blocco costituito da Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia - al quale ultimamente si è accodata l’Austria - alla ricerca di un maggior peso all’interno della stessa Unione europea. Con, in mezzo, una Germania divisa tra il mantenimento della linea dura per quanto riguarda le questioni economiche e la convinzione che Italia e Grecia non possano più mantenere da sole tutto il peso della crisi dei migranti. Del resto, in un’intervista apparsa ieri su Le Monde, Tsipras ha ribadito come il destino dei milioni di uomini, donne e bambini che fuggono da guerre e miseria non si possa ridurre a una pura questione locale. "La crisi dei migranti non né europea né greca, è mondiale", ha detto il premier greco. "L’Europa deve dare prova di solidarietà e dividere concretamente questo peso. È inammissibile vedere che su 33 mila ricollocamenti di rifugiati previsti nel 2016, soltanto 3.000 hanno avuto realmente luogo. È inammissibile anche che dei paesi erigano dei muri alle nostre frontiere". Da Atene è partita la sfida. La prossima settimana a Bratislava si vedrà chi l’avrà vinta. Egitto. Regeni era controllato dalla polizia. Fu denunciato dal leader sindacalista di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 settembre 2016 Svolta nell’incontro tra le procure. Gli egiziani ammettono che il ricercatore italiano era stato segnalato alle forze dell’ordine del Cairo due settimane prima della scomparsa. La comunicazione negata in passato dagli inquirenti locali e ora ammessa dal procuratore generale egiziano Nabeel Sadek fa saltare sulla sedia i pubblici ministeri romani e accende un faro sul sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni: il giovane ricercatore friulano finì nel mirino della polizia del Cairo a gennaio 2016, due settimane prima della sua scomparsa. Ufficialmente solo per tre giorni, da 7 al 10, ma è plausibile che le "attenzioni" siano proseguite anche dopo e abbiano a che fare con il rapimento del 25 gennaio, le successive torture, la decisione di ucciderlo e riconsegnarlo cadavere il 3 febbraio. Le novità - È la novità più importante emersa da due giorni di incontri tra Sadek, accompagnato dal suo team investigativo, e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone con il sostituto Sergio Colaiocco, che stanno cercando di verificare le indagini egiziane e raccogliere elementi per arrivare alla verità. Riunione definita "confronto proficuo" dal comunicato congiunto firmato da Pignatone e Sadek, che sancisce la ripresa della collaborazione giudiziaria interrotta dopo il fallimento del vertice di aprile (dove non c’era il procuratore generale ma altri magistrati, accompagnati da esponenti della polizia egiziana che stavolta sono rimasti a casa) a seguito del quale il governo richiamò l’ambasciatore, non ancora tornato al Cairo. Il capo del sindacato degli ambulanti - L’inchiesta a carico di Regeni fu la conseguenza di un esposto presentato da Mohamed Abdallah, all’epoca capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti sui quali Giulio stava conducendo delle ricerche per conto dell’Università di Cambridge, e a cui s’era impegnato a far ottenere un finanziamento di 10.000 sterline. Ma i soldi non arrivarono e il 7 gennaio Abdallah denunciò Regeni, definendo strane e insistenti le sue domande nell’ambiente degli ambulanti. Quanto bastava perché la polizia delle infrastrutture pubbliche trasmettesse l’esposto alla polizia investigativa penale, che però dopo tre giorni avrebbe concluso che non c’erano profili d’interesse per la sicurezza nazionale. La tangente - Ufficialmente gli accertamenti finirono lì, ma è evidente l’interesse investigativo di questo episodio, visto che nei mesi scorsi i poliziotti del Servizio centrale operativo e i carabinieri del Ros avevano già indagato sulla figura di Abdallah presentando ai pm di Roma un voluminoso rapporto. Anche attingendo a ciò che Giulio aveva scritto sul suo computer e riferito ad altri sul conto del capo-sindacalista. Il quale, a dicembre, gli avrebbe fatto capire di pretendere un guadagno personale dall’eventuale finanziamento. Una sorta di tangente, insomma. Inoltre era emerso un ruolo ambiguo di questo personaggio, considerato vicino ai servizi segreti egiziani. Il fascicolo su Giulio - Certo, il fatto che solo ora, a quasi otto mesi dal sequestro, si ammetta che la polizia aveva un fascicolo su Giulio desta sospetto e inquietudine. Ma per gli inquirenti italiani è comunque un’informazione importante che - insieme ad altre - segna un salto di qualità nelle relazioni tra le due magistrature. Il famoso traffico telefonico sui due luoghi in cui Regeni è stato rapito e poi ritrovato il cadavere, in passato negato, è stato analizzato dalla Procura generale cairota, che ha individuato oltre cinquanta persone presenti in entrambi i posti. Sono troppe, ma i successivi accertamenti avrebbero individuato fra loro almeno una decina di appartenenti alle forze di sicurezza. Ulteriori verifiche sono già in corso, come si continua a lavorare per provare a recuperare le immagini delle telecamere a circuito chiuso della stazione della metropolitana. La Farnesina - L’ipotetico ruolo dei criminali comuni contrabbandati a marzo come responsabili dell’omicidio, subito derubricato a depistaggio dagli italiani, è diventato marginale anche per gli inquirenti locali. Che hanno manifestato l’intenzione di incontrare i genitori di Giulio, i quali al momento non fanno commenti. Ieri hanno ricevuto una telefonata dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che ha sottolineato i "segnali positivi" giunti dal vertice romano. Nel frattempo resta aperta la questione delle relazioni diplomatiche, ed entro fine mese l’Italia dovrebbe decidere se e quando inviare al Cairo il nuovo ambasciatore. Al rientro dal G20, il premier Renzi ha detto di aver parlato con il presidente Al Sisi: "Mi ha promesso che farà piena luce e che l’Egitto si assumerà le proprie responsabilità". Si vedrà. Egitto. Caso Regeni, indagini su Giulio ma solo per 3 giorni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 settembre 2016 Vertice tra procure, dall’Egitto prima ammissione. Ma non consegna né tabulati né video di sorveglianza. Il Cairo non dirà mai la verità: dovrebbe riconoscere l’esistenza di una macchina repressiva di Stato. Dopo sette mesi dall’omicidio di Giulio Regeni, per la prima volta, l’Egitto ammette che la polizia indagò sul giovane ricercatore: il 7 gennaio (meno di 20 giorni prima della sua scomparsa), su esposto di Mohammed Abdallah, il responsabile del sindacato indipendente dei venditori ambulanti, personaggio già noto agli investigatori italiani, "la polizia ha eseguito accertamenti sulle attività dello stesso". È quanto riporta il comunicato congiunto della Procura di Roma e della procura generale egiziana, a seguito della chiusura del terzo vertice tra il pm Pignatone e il procuratore Sadek: "All’esito delle verifiche durate tre giorni - si legge - non è stata riscontrata alcuna attività di interesse per la sicurezza nazionale e, quindi, sono cessati gli accertamenti". Da quel momento, dunque, dice Il Cairo, i servizi egiziani non avrebbero più mostrato interesse per Regeni, dichiarazione utile a scansare dubbi di coinvolgimento nella sua morte. Che, però, non vengono affatto dissipati: la "firma" sul corpo martoriato di Giulio parla da sé. Oltre all’attesa ammissione - Giulio era noto ai servizi - Sadek ha consegnato alla procura romana anche "l’ampia, completa e approfondita relazione sull’esame del traffico delle celle che coprono l’area delle zone della scomparsa e del ritrovamento del corpo di Regeni". L’esame, dunque, e non i tabulati: non sono stati portati, sebbene Pignatone abbia più volte insistito sulla necessità di consegnare il materiale grezzo e non rimestato. Il comunicato aggiunge che sono in corso accertamenti sulle utenze presenti in entrambe le zone il 25 gennaio e il 3 febbraio. Su questo punto indiscrezioni, mai confermate ufficialmente, erano state pubblicate a fine luglio: i cellulari di cinque poliziotti sarebbero stati catturati dalle celle telefoniche dei luoghi di sparizione e ritrovamento del cadavere, il quartiere di Dokki al Cairo e la superstrada Il Cairo-Alessandria. Infine, i famigerati video delle telecamere di sorveglianza, una saga infinita costellata di folli giustificazioni al rifiuto di consegnarli: violano la privacy e la costituzione, questo hanno ripetuto per mesi gli inquirenti egiziani. Ieri a Roma hanno detto altro: la mancata consegna è da imputare a "ostacoli tecnici che hanno impedito di completare l’accertamento". Ma si provvederà, dicono. Da parte sua, la Procura di Roma ha passato alla controparte i risultati delle analisi sul computer di Giulio. Sadek ha provato a mostrare la faccia migliore del regime egiziano, ribadendo l’intenzione a collaborare per giungere all’agognata verità e ad incontrare i genitori di Giulio per esprimere loro vicinanza. Ma le dichiarazioni di buona volontà si mescolano alle solite gravi omissioni, sono la maschera del depistaggio: dei tabulati non c’è traccia, dei video neppure. E tirare di nuovo in ballo la presunta banda di criminali "sgominata" a marzo e poi accusata dell’omicidio (altre cinque vittime del regime) è sintomo di uno stantio atteggiamento di difesa. Nonostante sia palese la loro estraneità alla vicenda come cristallino è il tentativo di insabbiamento da parte della polizia, che ficcò i documenti di Giulio nella casa del "capo-banda", Sadek ha detto che le verifiche continuano anche se gli elementi a loro carico sono "deboli". Così come - scriveva ieri La Stampa - la lista degli sms mandati da Giulio agli amici al Cairo non sarebbe completa, non combacerebbe con quella a disposizione degli inquirenti italiani. Un altro sintomo, se confermato, dei tentativi egiziani di modificare informazioni e prove. Se accade con i messaggi, può accadere con qualsiasi altro elemento utile alle indagini. A monte sta la responsabilità politica del regime del generale golpista al-Sisi. Per quanto la procura di Roma si sforzi di dire che l’ultimo round è stato proficuo perché ha permesso di aggiungere piccoli tasselli al quadro generale, si procede con una lentezza esasperante e senza segnare punti decisivi. Ammettere la colpa dell’omicidio Regeni significherebbe, per Il Cairo, scoperchiare il vaso di Pandora. Significherebbe riconoscere l’esistenza di una macchina della repressione che fa sparire ogni anno migliaia di egiziani, che li tortura sistematicamente e li uccide, che li incarcera senza processo sulla base di una legge anti-terrorismo da dittatura sudamericana. Il Cairo non dirà mai la verità. Getta qualche boccone per evitare che il governo italiano si trovi costretto a rompere definitivamente, cosa che evidentemente non intende fare, vuoi per gli interessi politici ed economici che ha con il Cairo vuoi per la totale mancanza di sostegno dal resto dell’Unione Europea. Egitto. Non solo caso Regeni. Nel report di Human Rights Watch gli abusi del regime di Antonella Napoli La Repubblica, 10 settembre 2016 Le torture subite dai venti casi seguiti dal ricercatore di Hrw sono le stesse che hanno ucciso il 27enne Italiano. Un report sulle torture e le violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto che evidenzia sistemi coercitivi da regime senza scrupoli. Lo ha realizzato il ricercatore al Cairo di Human Rights Watch, che ne ha anticipato "a porte chiuse" i contenuti ai rappresentanti delle Commissioni Diritti Umani ed Esteri di vari parlamenti europei. Almeno 20 i casi analizzati e approfonditi nella ricerca che sarà resa pubblica entro fine anno. Sevizie e torture documentati in un anno di ricerca. I contenuti del report, che già solo a leggerli sono un vero e proprio colpo allo stomaco, quando li ascolti raccontati da chi quelle testimonianze le ha raccolte si avverte quasi un dolore fisico. "I sistemi utilizzati sui venti casi che ho seguito in Egitto sono gli stessi che hanno lasciato segni sul corpo di Giulio Regeni". Parole ferme, scandite senza esitazioni. A pronunciarle il ricercatore al Cairo di Human Rights Watch, Mark Spencer, (il nome è fittizio per tutelarne l’anonimato, fondamentale per la sua sicurezza quando rientrerà nel paese nordafricano). Sui casi seguiti da Hrw gli stessi segni trovati sul corpo di Regeni. Il ricercatore di Hrw ha vissuto per oltre un anno nella capitale egiziana e ha indagato su decine e decine di episodi di tortura. Un dettagliato resoconto sulle pratiche adottate dai servizi segreti per costringere oppositori, attivisti, giornalisti o, come nel caso di Regeni, cittadini stranieri sospettati di spionaggio o di atti che possano mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, a confessare le proprie ‘colpè. Focus del report il National security service. L’attenzione è stata focalizzata su una ventina di prigionieri sotto la custodia di uomini della National Security che, dopo la rivoluzione del 2011, ha cambiato denominazione ma ha mantenuto lo stesso modus operandi. Anzi, sottolinea Spencer, la situazione è addirittura peggiorata rispetto ai tempi di Mubarak. Dalle informazioni che il ricercatore ha potuto acquisire dai detenuti egiziani, confrontandole con quelle relative al caso Regeni, ha concluso che a perpetrare le sevizie sia sui primi che su Giulio siano stati gli stessi uomini dell’agenzia di sicurezza nazionale. "In Egitto unico canale diretto da arresto a condanna". Mentre parla di quello che ha scoperto durante le sue indagini, l’analista di HRW appare profondamente colpito, segnato da quanto ha visto, sentito. Racconta che in Egitto, ormai, esiste un unico canale giudiziario diretto che va dall’arresto alla condanna, passando per le torture finalizzate a estorcere ammissioni di colpevolezza spesso a chi non ha nulla da confessare. Si passa dalle percosse all’applicazione di elettrodi per indurre scosse elettriche, alla minaccia di stupro, compiuto anche con spranghe di ferro. Alcuni prigionieri scompaiono per mesi. Il sistema di tortura per Human Rights Watch è interamente ed esclusivamente gestito dagli appartenenti a questo organo di Stato che sottopongono i malcapitati detenuti ai violenti e coercitivi interrogatori lunghi dai tre giorni a una o più settimane. Alcuni di loro scompaiono anche per mesi. Tra i casi seguiti da Spencer ci sono persone che sono state tenute in isolamento, senza poter interagire o incontrare nessuno, per quasi un anno. Unica discriminante, la resistenza alle pratiche di tortura di cui sono stati vittime. Di tutti gli intervistati nessuno di loro è stato liberato senza un’ammissione di responsabilità di qualche tipo, se non fornendo nomi di ‘complicì. Il caso Regeni ha scoperchiato un sistema consolidato. Sei mesi dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, caso che ha scoperchiato un sistema consolidato e molto più vasto di quanto si supponesse, il sospetto che anche il ricercatore italiano, come altri prigionieri prima e dopo di lui, non sia sopravvissuto all’incessante dose di sevizie perché non abbia ceduto ai suoi inquisitori acquisisce maggiore consistenza. La macchina della repressione guidata dalla polizia egiziana non si ferma mentre l’Italia aspetta il nuovo incontro tra la Procura italiana e gli inquirenti locali previsto nei prossimi giorni al Cairo. Siria. Prima intesa tra Usa e Russia sulla transizione di Paolo Mastrolilli La Stampa, 10 settembre 2016 Kerry e Lavrov a Ginevra: l’accordo potrebbe essere un punto di svolta. Intelligence coordinate per colpire meglio. Stati Uniti e Russia hanno raggiunto l’accordo per una tregua in Siria. Lo hanno annunciato i due ministri degli Esteri, John Kerry e Sergey Lavrov, dopo una lunga giornata di trattative a Ginevra. Lo scopo immediato dell’intesa è fermare i combattimenti in tutto il paese, ma secondo il segretario di Stato americano potrebbe rappresentare "un punto di svolta per l’intero conflitto", perché prevede anche dei meccanismi per la soluzione politica della guerra civile. L’accordo prevede un cessate il fuoco che dovrebbe cominciare con il tramonto di lunedì, coincidendo con la festa musulmana di Eid al Adha. Le forze governative dunque dovrebbero sospendere le operazioni e i bombardamenti, in particolare quelli che negli ultimi mesi hanno dilaniato la città di Aleppo, uccidendo almeno 700 civili tra cui 160 bambini. Gli scambi di informazioni - Se la tregua reggerà, americani e russi cominceranno ad avviare una collaborazione militare e di intelligence, scambiandosi informazioni su come combattere i terroristi. Su piano politico, Mosca dovrà garantire che il regime di Assad rispetti i termini dell’intesa e fermi i combattimenti, mentre Washington dovrà separare le forze dei ribelli laici e moderati dai gruppi come al Nusra e l’Isis. Una volta realizzati tutti questi punti, americani e russi potrebbero coordinare le loro azioni per sconfiggere e scacciare dalla Siria i terroristi, con l’aiuto congiunto delle forze governative e dei ribelli laici. L’accordo, in questo modo, darebbe una nuova spinta alla mediazione diplomatica condotta dall’inviato dell’Onu, Staffan de Mistura, per trovare poi una soluzione politica di lungo termine al conflitto. L’ipotesi di una federazione - Gli Stati Uniti vogliono sempre che Assad passi la mano, ma su questo la Russia non concorda, o quanto meno vuole garanzie sulla tutela dei propri interessi. Una ipotesi che viene considerata dietro le quinte è mantenere formalmente unita la Siria sotto un’amministrazione federale, ma poi dividerla nei fatti, assegnando alle varie fazioni il controllo dei loro territori su basi etniche e religiose, escludendo i terroristi. Questo accordo era stato discusso dagli stessi presidenti Obama e Putin, quando si erano incontrati a margine del vertice dei G20 in Cina, ma allora non era stato possibile concluderlo. Anche ieri le trattative sono andate molto per le lunghe, soprattutto per le resistenze venute dal Pentagono e dall’intelligence americana, che non vuole condividere le sue informazioni con i russi e legittimare la loro presenza in Siria. Pizza e vodka - Un altro elemento fondamentale era che la tregua doveva riguardare tutto il territorio nazionale, e non congelare solo lo status quo dei combattimenti in alcune città. Ad un certo punto della serata Lavrov ha offerto pizza e vodka ai giornalisti, "la prima viene dalla delegazione americana e la seconda dalla nostra", in attesa che Washington desse il via libera definitivo all’annuncio dell’intesa. La speranza ora è che l’accordo funzioni, venga applicato e apra la porta ad una soluzione politica del conflitto, ma in passato simili operazioni erano già fallite. Siria. 70 Ong legate all’opposizione mettono sotto accusa l’Onu di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 settembre 2016 In una lettera sostengono che le Nazioni Unite "collaborano" con le autorità di Damasco. Ieri sera funzionari americani ridimensionavano le possibilità di un accordo ampio tra Kerry e Lavrov riuniti a Ginevra. Si parla di una tregua di 7-10 giorni. Funzionari americani ieri sera ridimensionavano le aspettative legate al vertice Kerry-Lavrov a Ginevra. La possibilità di un accordo imminente Usa-Russia di cessate il fuoco in Siria restano scarse, hanno spiegato le fonti, mentre da Berlino il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier faceva sapere che i colloqui tra il Segretario di stato Usa e il suo omologo russo non produrranno più di una tregua della durata di 7-10 giorni. La diplomazia procede lentamente, stenta, ostacolata anche dagli interessi dei Paesi che sostengono le varie parti che si danno battaglia in Siria. E tra gli attori protagonisti sullo scacchiere diplomatico c’è sempre il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha avuto giovedì sera una conversazione telefonica con Vladimir Putin proprio sul futuro della Siria. Ormai è chiaro che le truppe turche entrate in Siria con l’operazione "Scudo dell’Eufrate" - per combattere i curdi - faranno retromarcia solo se Russia e Usa daranno la loro approvazione alla costituzione di una "no-fly zone", ossia al progetto che Ankara ha in testa da più di cinque anni per smembrare la Siria e assegnare porzioni del suo territorio ai ribelli jihadisti. Prima del vertice l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura, aveva sottolineato l’importanza dell’esito dell’incontro a Ginevra tra i capi della diplomazia di Stati Uniti e Russia. "Le discussioni - aveva spiegato - vertono su questioni complesse, delicate e difficili ma se giungeranno a un successo questo potrebbe fare una grande differenza". De Mistura ha anche insistito per un accesso facilitato all’assistenza umanitaria per la popolazione civile. Proprio le Nazioni Unite sono finite ieri sotto attacco di una coalizione di più di 70 Ong e gruppi siriani di "assistenza" ai civili nelle aree dove si combatte. In una lettera, questi gruppi annunciano la sospensione della collaborazione con l’Onu perché, a loro dire, collabora con il governo siriano e si lascerebbe "manipolare" nella questione delicata della distribuzione degli aiuti umanitari. Tra i firmatari più importanti del documento, ci sono la Syrian American Medical Society e la Civil Defence Force, nota anche come "caschi bianchi" e composta da volontari che spesso sono tra i primi ad intervenire in aree di combattimento o bombardate. Le ong dicono di voler sospendere la condivisione delle informazioni in segno di protesta contro quella che descrivono come "l’influenza politica" del governo siriano nella gestione e nella distribuzione degli aiuti. E citano il caso dei gemelli siamesi Moaz e Nawras, morti mentre attendevano di essere evacuati da Damasco. Ma la probabile ragione dietro l’attacco alle Nazioni Unite da parte di queste Ong, molte delle quali sono legate ai "ribelli" e alle formazioni islamiste, è quella della rimozione della parola "assedio" dai rapporti dell’Onu sull’accerchiamento da parte delle forze militari governative della zona Est di Aleppo e di altre città e villaggi siriani occupati dalle milizie "ribelli". Proprio nelle ultime ore l’esercito hanno completato la chiusura della parte di Aleppo controllata dai qaedisti di al Nusra, i salafiti di Ahrar al Sham e altri gruppi armati. Lì però sono intrappolati anche 200 mila civili che ogni giorno fanno i conti con la guerra, i bombardamenti e la penuria di generi di prima necessità. Ieri, secondo fonti locali, in un raid aereo sulla zona est di Aleppo e in tiri di mortaio dei ribelli su quella ovest di Aleppo controllata dall’esercito siriano sono morte almeno 19 persone. Il portavoce di Ocha ha respinto le accuse contenute nella lettera delle ong. Ha spiegato che "la risposta umanitaria in Siria, come in qualsiasi altro paese, avviene in consultazione con le autorità". Ocha fissa il numero di siriani circondati e bloccati nei loro quartieri a 393.700. Secondo Assedio Watch, una rete di monitoraggio, invece il numero ammonterebbe a più di un milione mentre Medici Senza Frontiere (Msf) addirittura sostiene che la cifra è vicina ai due milioni. Numeri molto diversi che sono il risultato, con ogni probabilità, di idee diverse di un assedio.