Subito la legge, l’Italia non è offshore per torturatori di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 9 ottobre 2016 13 Ottobre. In silenzio per ricordare tutte le vittime della tortura. Dittatori e criminali di guerra potrebbero scegliere l’Italia quale rifugio per sottrarsi alla giustizia. L’Italia rischia di diventare il paradiso dei torturatori di professione. Non proprio una bella figura per il Paese di Verri e Beccaria. Nei giorni scorsi Matteo Viviani, nella trasmissione Le Iene, ha raccontato la storia di un sacerdote italo-argentino accusato di "imposicion de tormentos" dai giudici sudamericani per fatti risalenti ai tempi del regime fascista di Videla e rifugiatosi in Italia che ha negato l’estradizione. In Italia la tortura non è reato. Per gli altri crimini a lui ascrivibili la prescrizione ha fatto il suo corso. L’Italia ha ratificato lo Statuto della Corte Penale Internazionale che inserisce la tortura, al pari del genocidio e dei crimini di guerra, tra i crimini contro l’umanità, ma non ha adeguato ancora il proprio codice penale. Dunque se un criminale di Stato si presenta nel nostro Paese i nostri giudici e i nostri poliziotti non potrebbero arrestarlo per tortura. È triste una nazione che penalizza tutto e tutti ma che lascia impunita la tortura. A luglio il Senato ha nuovamente deciso di anestetizzare la discussione dopo trentadue anni da quel solenne 10 dicembre 1984 quando le Nazioni Unite sancirono e definirono la tortura quale delitto iuris gentium. Il dibattito si è nuovamente arenato intorno a sofismi su parole. In quei giorni caldi e grigi di luglio il centrodestra esultò. Il Pd non si oppose alla morte della legge, nonostante il capogruppo Luigi Zanda poco tempo prima avesse affermato perentoriamente che: "Il Parlamento ha un debito con la società italiana e anche con l’ordinamento internazionale. E questo debito va onorato: quello di introdurre nel nostro ordinamento con venti anni di ritardo il reato di tortura". A parte che gli anni sono molti più di venti, il debito non è stato onorato. Il ministro Alfano si è dichiarato vincitore. Ma vincitore di che? L’Italia si sta lentamente guadagnando la palma di paradiso per i torturatori offshore. Viviamo in un Paese dove accade che un sindaco, a Trieste, con prepotenza decida di togliere dal proprio Comune lo striscione di Amnesty International che chiedeva "Verità per Giulio Regeni", torturato sino alla morte. Siamo vicini ai sette anni dalla morte di Stefano Cucchi. Non è stato possibile procedere per tortura, in quanto la tortura non è reato. Siccome siamo testardi abbiamo deciso di ricordare a Matteo Renzi, ad Andrea Orlando, a Luigi Zanda i loro impegni e le loro promesse. Il prossimo 13 di ottobre la mattina alle 10 saremo davanti al Parlamento in silenzio per ricordare tutte le vittime della tortura. Il sit-in vede la partecipazione di tantissime associazioni (Antigone, Cild, A buon diritto, ACAT Italia, ACT, Amnesty International Italia, Arci, BIN Italia, Camera Penale di Roma, CIR, Cittadinanzattiva, CNVG, Associazione Federico Aldrovandi, Forum Droghe, Fondazione Franca e Franco Basaglia, Fuoriluogo, Giuristi Democratici, associazione radicale Il detenuto ignoto, L’altro diritto, Medici contro la Tortura, Naga, Progetto Diritti, Radicali Italiani, Ristretti Orizzonti, SIPP, Società della Ragione). del sindacato (la Fp Cgil), degli avvocati dell’Unione delle Camere Penali Italiane e dei giudici di Md. Saremo in silenzio perché le vittime di tortura sono silenziate. Perché è tornato silente il dibattito in Parlamento. Perché non ci sono parole per esprimere i sentimenti di indignazione per il silenzio delle istituzioni di fronte alla tragedia della violenza pubblica. C’è un elenco lungo di responsabilità politiche dalla fine degli anni ‘80 a oggi. C’è ancora tempo per approvare la legge prima della fine della legislatura. E noi lo ricorderemo in silenzio a chi ci governa. Orlando: "Se l’articolo di una legge non piace all’Anm non vuol dire che tutta la legge fa schifo" di Errico Novi Il Dubbio, 9 ottobre 2016 Il ministro della Giustizia al Congresso nazionale forense: "Sì al confronto con Davigo, ma la riforma del processo penale va approvata. Sui rapporti tra vicende giudiziarie e politica si torni alla presunzione di non colpevolezza". Basterà un’avvocatura dalla rappresentanza più incisiva per riequilibrare i pesi nella giustizia? Andrea Orlando attende "la prova dei fatti", ma intanto incassa il "segnale importante" arrivato da Rimini. Il ministro della Giustizia interviene dal palco del trentatreesimo Congresso nazionale forense e accoglie come un "buon auspicio" la svolta verso una più coesa rappresentanza politica degli avvocati. Gli sarà utile quando farà i conti con l’Anm. "Non è che se l’Anm dice che un dettaglio di un provvedimento non le è gradito, vuol dire che l’intera legge fa schifo". Lo dice con chiarezza, il ministro della Giustizia, anche in vista del confronto tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati sulla riforma del processo penale. "Adesso passeremo per questa interlocuzione", conferma il guardasigilli dopo che il premier Matteo Renzi aveva prefigurato l’ennesima "verifica" con le toghe. "Ma poi", avverte Orlando, "io credo che sia assolutamente necessario passare all’approvazione del disegno di legge, pur consapevoli delle difficoltà che ci sono sui numeri e dunque con tutte la cautela necessaria". È un impegno che il ministro prende di fronte a una platea di quasi duemila avvocati, nell’intervento clou dell’ultima giornata di assise. Nella sala plenaria, al Palacongressi di Rimini, Orlando è intervistato dal giornalista del "Sole-24 Ore" Giovanni Negri. Il colloquio live è di fatto l’occasione, per il guardasigilli, utile a ribadire un "alleanza strategica" con l’avvocatura. Sul tavolo ci sono le riforme di sistema - il ddl sul penale ma anche la legge delega sul processo civile, ferma in cosa sempre a Palazzo Madama - ma Orlando si impegna anche per alcune misure che riguardano in modo specifico la categoria. "Dedicherò l’ultima parte del mio mandato a anche a una disciplina per l’equo compenso", assicura il responsabile della Giustizia, "misura necessaria una volta acquisito il fallimento di impostazioni affidate all’esclusiva sovrana regia del mercato". Allo stesso modo Orlando si impegna a occuparsi dei "diritti delle avvocate in gravidanza". Il suo intervento è ampio, rivisita l’intero arco degli interventi compiuti o impostati nel corso del mandato, e a volte suona anche come l’evocazione dei rischi che si correrebbero se in futuro a via Arenula si insediasse un inquilino non così disponibile al dialogo come lo è stato lui. Cosa cambia nel rapporto politica-avvocatura con la nuova rappresentanza forense. "Auspico che si vada nella direzione di un rapporto ancora più produttivo, con il sottoscritto o con i miei successori. Ora c’è una cultura diffusa che guarda con insofferenza al tema delle garanzie e dei diritti, per questo una più forte unità dell’avvocatura diventa una forza della democrazia. C’è un’opportunità, sui principali dossier non ho praticamente mai visto una posizione unitaria: il più delle volte rappresentanza istituzionale e rappresentanza politica si sono trovate in disaccordo, come sulle specializzazioni. E io a mia volta mi trovavo a scontentare una parte nel momento in cui provavo a venire incontro all’altra. Mi auguro che la scelta fatta in questo Congresso renda tutto più semplice. E che per l’avvocatura possa discenderne una rappresentazione meno macchiettistica". Presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari. "È necessario arrivare a una nuova impostazione che preveda il diritto di voto per i rappresentanti dell’avvocatura all’interno dei Consigli giudiziari anche a proposito delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Tanto per intenderci, non è possibile che siano solo questi ultimi a esprimere i giudizi, perché se il Consiglio giudiziario deve scattare una fotografia sulla attività degli uffici, non è che può trattarsi di un selfie". Provvedimenti in favore delle donne avvocato. "Sono convinto che ne dovremo assumere, e il tema deve riguardare la giurisdizione nel suo complesso. In Marocco ho incontrato il presidente della Corte suprema, non parliamo di un Paese arretrato ma certo non uno dei modelli di sistema a cui tradizionalmente si guarda. Ebbene, si lamentava del fatto che nel Csm del Marocco ci fosse solo un terzo di donne, ho evitato di far presente che nel nostro ce ne sono solo due. Penso che il nuovo organismo di rappresentanza dell’avvocatura debba istituire una commissione che si occupi di proporre misure sulla condizione delle donne avvocato e di quelle che in generale operano nel mondo della giurisdizione. Sarebbe ora che nei palazzi di giustizia fossero previsti anche spazi per i bambini. Cominciano ad essercene nelle carceri, non credo che ci siano problemi a crearne anche nei Tribunali. Sul legittimo impedimento delle avvocate in gravidanza? Sono molto convinto della necessità di questa scelta. Una donna in gravidanza ha difficoltà a frequentare i Palazzi di giustizia, e bisogna anche riconoscere la sua specifica condizione all’interno del sistema del processo". Il rapporto tra inchieste giudiziarie e politica. "Sono il titolare dell’azione disciplinare per i magistrati, dunque non è il caso che mi pronunci nel merito dei processi arrivati a conclusione nelle ultime ore. In generale ci sono evidentemente tre disfunzioni. Un processo penale che funziona male, innanzitutto, che si presta a usi impropri. Ecco perché approvare la riforma è importante. Nel disegno di legge all’attenzione del Senato si affronta tra l’altro un tema non banale come l’utilizzo improprio delle intercettazioni. C’è una seconda questione, relativa all’uso che la politica fa dei processi. Che se ne discuta è salutare, ma non secondo uno schema per cui uno è indulgente con i suoi e intransigente con gli altri, evidentemente è questo un modello di uso strumentale dei processi. Siamo dunque al caso in cui la giustizia diventa un presupposto della lotta politica, praticamente il surrogato a cui si ricorre per carenza di idee. E il fenomeno avviene non solo tra una forza politica e l’altra, ma anche all’interno dello stesso partito". Tornare alla Costituzione. "Proprio per superare questo uso improprio della giustizia come arma di lotta politica credo ci sia solo una strada possibile: adottare una moratoria e tornare alla Costituzione. Secondo alcuni, basilari principi: presunzione di non colpevolezza, diritto alla difesa e al contraddittorio". Il processo mediatico. "C’è una terza questione, a proposito del processo penale: come lo si racconta. Qui non può intervenire un provvedimento legislativo: si correrebbe il rischio di intaccare la libertà di stampa. Ma lo stesso sistema dell’informazione dovrebbe fissare un codice deontologico, che preveda di non lasciare spazio alle campagne contro i presunti colpevoli. Un’iniziativa da parte del mondo dei media è necessaria perché ci si liberi dalla funzione impropria del processo penale. Che non serve a valutare la moralità delle persone, ma ad accertare se uno ha commesso un reato, punto. Il resto è distorsione. Ma c’è anche un’altra strada da percorrere: criteri chiari per selezionare i capi degli uffici, basati sulla loro capacità organizzativa. Non può fare carriera il magistrato che va spesso sui giornali". L’allarme di Orlando: "giustizia spesso usata nella lotta politica" di Andrea Carugati La Repubblica, 9 ottobre 2016 Il ministro dopo le sentenze Marino e Cota. Orfini all’ex sindaco: stia pure con D’Alema. "Spesso la giustizia è usata per la lotta politica". Il Guardasigilli Andrea Orlando commenta così le polemiche tra "tifoserie" che si sono accese dopo le due assoluzioni eccellenti di Ignazio Marino e Roberto Cota. Dal congresso nazionale forense, il ministro invita a evitare "un uso politico dei processi". Non entra nel merito dei due casi e non apre fronti polemici con la magistratura. Ma rimarca la necessità di correggere alcune "disfunzioni". E lancia l’idea di una "moratoria per tornare ai principi della Costituzione": stop all’"utilizzo politico dei processi, usati con indulgenza quando riguardano gli amici e con intransigenza se toccano ai nemici". Orlando coglie l’occasione per spingere sull’approvazione della riforma ferma in Senato per volontà di Palazzo Chigi. "Ci sono anche misure sull’utilizzo improprio delle intercettazioni", ricorda, invitando la stampa a "darsi regole deontologiche" su come trattare le inchieste. Il caso Marino, l’ex sindaco di Roma dimissionato un anno fa dal Pd nel pieno di un’inchiesta sui rimborsi, divide i dem. Marino ha ricevuto messaggi di sostegno da Veltroni e D’Alema, Bersani invita a recuperarlo nella vita del partito e raccoglie l’ ok del capogruppo alla Camera Ettore Rosato: "Il suo contributo può essere utile al partito". Marino, almeno nell’immediato, un ritorno l’ha già pianificato: un tour per l’Italia per promuovere il No al referendum contro una riforma "incomprensibile e inefficace". Prima tappa oggi su Rai3 a "In 1/2 ora". Non si esclude una collaborazione con il comitato del No lanciato da D’Alema, ma ancora non sono previsti impegni comuni. Gelida la replica di Matteo Orfini, il commissario del Pd romano che, dopo l’assoluzione, ha rivendicato la cacciata del sindaco per la sua "totale incapacità". "Ora però non voglio commentare le cose che fa Marino. Se militerà per il No al referendum starà con D’Alema, in bocca al lupo". Ancora più duro il deputato renziano Dario Parrini: "Un pessimo sindaco non diventa buono per essere stato assolto". La Lega Nord va all’attacco per il caso che ha riguardato l’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, rimasto marchiato dalle famose "mutande verdi". Paolo Grimoldi, deputato e segretario della Lega lombarda, annuncia una proposta di legge "per imporre le "pubbliche scuse" da parte dei pubblici ministeri". Una norma per "restituire piena dignità, anche a livello mediatico, a chi per anni è stato ingiustamente messo alla gogna mediatica". La proposta, almeno in questa legislatura, ha davvero poche chance di venire approvata. Ma in queste ore le due assoluzioni stanno creando un clima di garantismo bipartisan. Da Forza Italia a membri della maggioranza come la centrista Paola Binetti si levano richieste di "una svolta nel rapporto tra politica e magistratura". Il Csm in campo: "i pm applichino i codici e stiano più attenti a valutare le accuse" di Liana Milella La Repubblica, 9 ottobre 2016 Caso Marino, intervista a Legnini. Per il vicepresidente del Csm anche le assoluzioni dimostrano che il processo funziona. "I partiti però allontanino i responsabili di fatti riprovevoli accertati". "Più rigore dei partiti, che devono fare pulizia in casa propria. Ma i pm applichino il codice accertando anche fatti e circostante a favore delle persone indagate". Così il vice presidente del Csm Giovanni Legnini affronta, con Repubblica, la partita delle assoluzioni dei politici, da ultimo Marino e Cota. Che impressione le hanno fatto queste notizie? Una premessa. Non parlo del merito dei processi, né delle persone interessate... Già parte in difesa? Nient’affatto. Il mio ruolo mi consiglia, e non da oggi, di non farlo. Tanto più quando si parla di persone di cui sono amico Si riferisce a Marino? Lo sta dicendo lei. Anche senza far nomi, il caso esiste. Inchieste e processi con protagonisti politici che interrompono una carriera, ma poi finiscono con un’assoluzione. I magistrati sbagliano? Innanzitutto è giusto sottolineare l’aspetto positivo di queste vicende: c’è sempre un giudice che, nel contraddittorio delle parti, accerta la verità giudiziaria ed emana una sentenza di condanna o di assoluzione. E quando c’è un’assoluzione non necessariamente il pm ha sbagliato. Ritengo solo che i pm dovrebbero effettuare di più e meglio, già in fase di conclusione delle indagini, un giudizio prognostico più rigoroso sull’esito del procedimento. E che cosa sarebbe il "giudizio prognostico"? Significa porsi il problema dell’effettiva sostenibilità delle accuse in dibattimento. Esiste ad esempio una precisa disposizione di legge - l’articolo 358 del codice di procedura penale - nel quale è scritto che il pm deve svolgere anche accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Il che costituisce un giusto corollario all’obbligatorietà dell’azione penale. Mi piacerebbe che ogni pm potesse dire a se stesso, innanzitutto, di aver sempre applicato questa norma del codice. Lei ha l’impressione che i pm che indagano sui politici siano pregiudizialmente prevenuti contro di loro? Della serie: chi fa politica è comunque un potenziale corrotto? I politici rappresentano le istituzioni e quindi devono essere sottoposti al controllo di legalità come e più dei normali cittadini. Sono certo che la stragrande maggioranza dei pm non è animata da pregiudizi di alcun genere ed esercita le sue funzioni solo per accertare la verità. Il che non esclude che a volte non si verifichino anomalie ed eccessi nelle indagini. Piuttosto penso che la politica e la magistratura debbano recuperare il senso costituzionale delle rispettive autonomie. In fondo basterebbe che ciascuno s’impegnasse a fondo per applicare alcuni principi cardine della nostra Carta, obbligatorietà dell’azione penale certo, ma anche presunzione di innocenza, nonché obbligo di esercitare le funzioni pubbliche con disciplina e onore. Ma ha sentito cosa dice il Guardasigilli Orlando? Dice che la giustizia è usata spesso per la lotta politica. Lo vede anche lei? Lei, seppure legittimamente, mi vuole trascinare nell’agone politico, ma io oggi rappresento un organo di rilevanza costituzionale che ha la finalità di garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, nell’interesse dei cittadini e del corretto esercizio della giurisdizione. Mi auguro solo che queste assoluzioni, e anche altre del passato, aiutino a produrre una vera e propria svolta culturale, prim’ancora che normativa. È necessario un cambiamento profondo nella costituzione materiale del nostro Paese recuperando la forza antica ma sempre attualissima della separazione dei poteri. Ma non è che una politica debole utilizza le inchieste della magistratura, anticipando i verdetti, per regolare i conti interni di un partito? È proprio quando ciò accade che la politica si mostra debole. Ciò che serve invece, se si vuole riaffermare la reciproca autonomia, è che la politica decida con rigore, in casa propria e con le proprie regole, chi e quando allontanare, perché responsabile di fatti riprovevoli già accertati. E ciò prescindendo dall’andamento delle indagini penali che appunto possono avere un fisiologico esito di assoluzione. Lei dice così, ma sono anni che ci si barcamena sulle conseguenze di un avviso di garanzia e perfino sull’applicazione della legge Severino, a cui i politici chiaramente resistono anche se lì c’è una condanna. Le ipotesi di decadenza della Severino sono chiare e vanno rispettate, pur in presenza di scelte a volte non condivisibili del legislatore, come nel caso di condanne solo in primo grado per l’abuso di ufficio. Quanto al resto ho già risposto: non è sufficiente un avviso di garanzia per provocare dimissioni, ma occorre una valutazione sulla gravità dei fatti già accertati che i partiti devono fare con rigore ma evitando affrettate conclusioni spesso indotte da ricostruzioni e campagne giornalistiche. Non mi dirà adesso che è tutta colpa della stampa... Non mi iscrivo tra i fustigatori dei media, se un giornalista ha una notizia è normale che la pubblichi. E anche vero però che il cortocircuito giustizia-politica-informazione, da molti denunciato, si è verificato con troppa frequenza. Bisogna superarlo, garantendo una corretta comunicazione delle indagini, che spetta ai capi delle procure assicurare, e, se mi permette, una dose aggiuntiva di rispetto delle regole deontologiche proprie dei giornalisti Che fa? Ci accusa di essere scorretti? No. Ma lo scandalismo e l’utilizzo strumentale e a fini politici di notizie o atti di indagine coperti dal segreto non è annoverabile tra i canoni della corretta informazione. Ferri: "processi più rapidi e vero garantismo se alla sbarra c’è un amministratore" di Sara Menafra Il Messaggero, 9 ottobre 2016 Il Sottosegretario alla Giustizia: "soltanto così sarà possibile venire fuori dal cortocircuito". Dottor Ferri, il cortocircuito tra inchieste e politica si ripete: alcune indagini che hanno influenzato la vita politica dell’ultimo anno si sono risolte con una assoluzione, lasciando tutti disorientati. Dalla sua ottica di magistrato e sottosegretario alla Giustizia, qual è il problema? "C’è una strumentalizzazione molto mediatica delle inchieste giudiziarie. I giornali ne parlano, cosa in parte comprensibile specie se le indagini si occupano di personaggi pubblici, ma il rischio è che i cittadini siano portati a pensare che la responsabilità penale sia stata già accertata". Dunque, secondo lei, la responsabilità è dei giornali e non della politica? "I giornalisti fanno il loro mestiere, è normale che parlino delle notizie che accadono. Molte volte, però, quelle stesse notizie finiscono per essere oggetto di diatribe di una parte politica contro l’altra e le indagini sono conseguentemente "usate" per altri fini". Come uscirne? "Occorre una riflessione ampia da parte di tutti i soggetti in campo e innanzitutto sono fondamentali garantismo e massimo rispetto anche per chi è sotto indagine. Ma è necessario anche un cambiamento culturale forte, prevenendo gli stereotipi. Questo vale per tutti, per la giustizia, per i cittadini e per i media. Ma credo anche che alcuni interventi concreti potrebbero aiutare. Ad esempio, quando gli indagati sono soggetti pubblici i processi devono essere ancor più veloci. Non perché i politici abbiano un canale privilegiato ma va rispettata l’esigenza dei cittadini di sapere in tempi brevi se la persona di cui si discute debba essere assolta oppure no. I tempi hanno una rilevanza che può essere determinante e quindi credo che si debba lavorare a stringerli il più possibile. Nulla lascia più disorientata l’opinione pubblica di un’assoluzione giunta dopo molti anni". Per l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, l’intera vicenda dalla denuncia alla sentenza di primo grado è durata 11 mesi. Un record di velocità per i tribunali italiani... "Non parlo di casi specifici anche perché non so se l’inchiesta sia effettivamente stata la causa delle dimissioni. Prima di pronunciarsi sulla vicenda, bisogna aspettare di leggere le motivazioni della sentenza". La Lega dice che i pm che sbagliano dovrebbero chiedere pubblicamente scusa, lei cosa ne pensa? "Esistono già gli strumenti per sanzionare, laddove siano stati accertati, gli illeciti disciplinari dei magistrati e la legge di riforma della responsabilità civile garantisce il cittadino in misura superiore al passato. In sede di indagine, il pm ha il dovere di ricercare gli elementi sia a carico sia a favore dell’indagato. Non si può avallare il teorema secondo cui un pubblico ministero ha sbagliato laddove non venga ottenuta la condanna dell’imputato. D’altra parte anche una differente valutazione delle prove nei tre gradi di giudizio e un conseguente diverso esito processuale non può essere sintomo di un errore del giudice". Il Csm dovrebbe occuparsi della vicenda? "A mio avviso non ci sono i presupposti per un intervento del Csm". La riforma del processo penale ora ferma al Senato sarebbe stata utile per evitare il cortocircuito di cui parliamo? "La riforma porta con sé novità importanti che mirano a garantire maggiore funzionalità al processo penale, accelerando l’accertamento della verità nel rispetto delle garanzie difensive. Queste sono le basi sulle quali si sta svolgendo in questi mesi un articolato dibattito alla ricerca di un punto di equilibrio per riformare settori rilevanti in un sistema giudiziario moderno. Ad esempio, sono previste importanti misure destinate a snellire il regime delle impugnazioni. Rendendo più complicato il ricorso alla Cassazione per il pm che ha visto assolvere l’imputato in due gradi di giudizio si rende il processo più giusto e si rafforza la certezza del diritto". Il Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza ha eletto i nuovi rappresentanti Ristretti Orizzonti, 9 ottobre 2016 Coordinatore Nazionale: Dr.ssa Antonietta Fiorillo Presidente Tribunale di Sorveglianza Firenze Componenti del Comitato Esecutivo: Dr.ssa Monica Amirante Magistrato di Sorveglianza di Napoli Dr.ssa Linda Arata Magistrato di Sorveglianza di Padova Dr. Marcello Bortolato Magistrato di Sorveglianza di Padova (segretario) Dr.ssa Roberta Cossia Magistrato di Sorveglianza di Milano Dr. Riccardo De Vito Magistrato di Sorveglianza di Nuoro Dr. Fabio Gianfilippi Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Dr. Nicola Mazzamuto Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina Dr. Marco Puglia Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere Direttore del Sito Web del Coordinamento : Dr. Carmelo Ioppolo Magistrato di Sorveglianza di Messina Arriva l’equo compenso per i legali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2016 Orlando: spesso uso politico della giustizia, la riforma del processo penale può aiutare. Un disegno di legge sull’equo compenso degli avvocati. Per riequilibrare i rapporti contrattuali con alcuni clienti forti come banche, imprese e assicurazione. È quello che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha annunciato ieri nel suo intervento al congresso nazionale forense che si è chiuso a Rimini. Nel dettaglio, il provvedimento che il ministro ha annunciato di avere già inviato a Palazzo Chigi prevede di bollare con lo stigma della nullità la clausola o patto vessatorio che stabilisce un compenso non equo. All’autorità giudiziaria il compito di rideterminare il compenso tenendo conto degli ordinari parametri. Come esempio di clausole vessatorie si possono ricordare quella che attribuisce al committente la facoltà di recedere dal contratto senza congruo preavviso e quella che impone al legale di anticipare le spese della controversia. Orlando ha confermato il pieno favore al rafforzamento del ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari dando loro voce in capitolo nelle valutazioni sui magistrati. "Avevo pensato anche di inserirla - ha ricordato il ministro - nel decreto legge sui vertici della Cassazione, ma non è stato possibile per l’eterogeneità del tema". Il ministro ha poi preannunciato un tavolo di confronto per l’innalzamento delle tutele a favore delle donne avvocato e sottolineato come nei palazzi di giustizia di nuova costruzione dovrebbero esserci spazi dedicati ai figli di chi frequenta il palazzo. Su temi "caldi" di politica della giustizia, Orlando ha riconosciuto lo sforzo fatto dal Csm con le nuove regole per le nomine, "sforzo che però non sembra ancora avere prodotto risultati significativi. Nel conferimento degli incarichi direttivi dovrebbe avere un peso maggiore la valutazione delle performance, oggi misurabili anche grazie al lavoro del ministero. A chi ha dato prova non brillantissima nella direzione di un ufficio di media dimensione non dovrebbe essere affidata la guida di un ufficio di dimensioni superiori". I proscioglimenti delle ultime ore dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e dell’ex governatore del Piemonte Roberto Cota rilanciano poi con forza il tema del rapporto tra giustizia e politica con Orlando che ha stigmatizzato "l’uso strumentale del processo penale, che ha i suoi tempi e le forze politiche non possono brandire l’arma dell’intransigenza con gli avversari e dell’indulgenza con sé stesse. In questo senso il disegno di legge di riforma potrebbe aiutare. Le disposizioni su un utilizzo responsabile delle intercettazioni ne sono un esempio". Sul disegno di legge Orlando ha confermato la volontà di "portarlo a casa" in tempi rapidi anche senza fare ricorso al voto di fiducia. È vero che l’Anm da una parte annuncia un piano per la giustizia e poi minaccia uno sciopero di protesta anche su alcune norme del processo penale, tuttavia Orlando sdrammatizza: "Ritengo che anche l’Anm viva la tensione di tutte le forme di rappresentanza. C’è una sorta di campagna elettorale permanente e questo non sempre aiuta a stemperare le tensioni. In ogni caso considero un passo avanti che se i magistrati decideranno di scioperare lo faranno più nel segno dell’efficienza del sistema che degli attentati all’indipendenza della magistratura come nel recente passato". Ma poi sull’Anm, il ministro è stato meno tenero quando ha ricordato come non sia accettabile la bocciatura da parte della magistratura organizzata di provvedimenti anche assai complessi per l’assenza di qualche elemento. E ha fatto l’esempio della nuova legge sulla corruzione, che ha permesso un salto di qualità nella lotta nei reati contro la pubblica amministrazione "anche se si tratta di un conteggio brutale, si è passati dai 300 detenuti agli attuali 800". Legge, ha ricordato il ministro, lodata anche all’estero, ma bocciata dall’Anm perché mancava l’agente provocatore. Identico schema che nel civile ha portato l’Anm a criticare le norme di due anni fa sulla giustizia civile perché vi si prevedeva anche il taglio delle ferie. Sul processo civile Orlando ha annunciato la fine, con il decreto sul rinvio del pensionamento dei vertici della Cassazione, degli interventi spot e di volere apre un confronto con l’avvocatura su misure più strutturali come quella sull’allargamento dell’applicazione del rito sommario di cognizione. Il figlio tolto ai genitori cattivi di Carlo Rimini* La Stampa, 9 ottobre 2016 Il figlio della "coppia dell’acido" è stato tolto ai suoi genitori e sarà adottato da un’altra famiglia. Non condivido questa decisione. Mi spaventa uno Stato che toglie i figli alle persone perché le giudica cattive e per questo inadatte a crescerli. Molti la pensano diversamente. La pensano diversamente e approvano la decisione sulla base di una considerazione semplice che pare persuasiva: il giudice decide sulla base dell’interesse del bambino e crescere in un ambiente sano, fra persone per bene, è molto meglio che essere figlio di due genitori responsabili di reati orrendi, che passeranno molti anni in carcere. È evidente, però, che l’interesse del minore non consente qualsiasi decisione: altrimenti dovremmo togliere un bambino a genitori analfabeti o malati per assegnarlo a una coppia istruita e sana. Il confine entro il quale l’interesse del minore consente di dichiararlo adottabile è chiaramente fissato dalla legge. L’art. 1 della legge sull’adozione afferma che il bambino ha diritto a crescere nella propria famiglia (e le convenzioni internazionali ormai impongono questa regola). L’art. 8 precisa che sono dichiarati adottabili "i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti". Occorre quindi che i genitori abbiano abbandonato il figlio in modo continuativo. La giurisprudenza ha chiarito che l’abbandono può essere realizzato non solo con una omissione (non occuparsi del bambino) ma anche con comportamenti inadeguati a garantirne la crescita dignitosa. La legge è però chiarissima nell’indicare che la dichiarazione di adottabilità presuppone l’accertamento di una condotta protratta nel tempo e tenuta dal genitore nei confronti del suo bambino. Il fondamento razionale di questa scelta legislativa è evidente: lo Stato non può togliere un bambino ai genitori sulla base di una valutazione etica o come ulteriore sanzione per i reati commessi. Molti bambini hanno entrambi i genitori in carcere per aver commesso reati gravi e nessuno ha mai pensato di darli in adozione. Anzi una legge dolorosa, ma umana e civile, consente alle mamme carcerate di tenere i figli più piccoli vicini a sé; quando ciò non è possibile se ne occupano i parenti. Lo Stato non può neppure togliere un bambino ai genitori perché un esame psicologico ha concluso che si tratta di genitori inadeguati: per supportare la decisione servono fatti. I genitori e i parenti del bambino devono avere dimostrato con i loro comportamenti tenuti nei confronti dei figli di non essere in grado di occuparsene. Qualche anno fa un tribunale aveva dichiarato adottabile un bambino figlio di genitori molto anziani sulla base di un unico e contestato episodio in cui avevano dimostrato una certa trascuratezza. Lunghe osservazioni psicologiche avevano supportato la conclusione della loro incapacità genitoriale. Recentemente la Cassazione ha revocato quella decisione richiamando i giudici ad effettuare un accertamento oggettivo dello stato di abbandono come presupposto della dichiarazione di adottabilità. Dimenticarselo, anche con l’intento di tutelare l’interesse di un bambino, non è possibile. Altrimenti il Giudice si fa interprete di uno Stato etico, come il Leviatano di Hobbes, arbitro del bene e del male. *Professore ordinario di diritto privato all’Università di Milano La giustizia fallibile e la politica suddita di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 9 ottobre 2016 Nelle ultime settimane le aule dei tribunali hanno emesso sentenze sulle quali varrebbe la pena avviare un dibattito finalmente serio riguardo al rapporto malato fra giustizia, politica e informazione. Ignazio Marino è stato assolto ieri nel processo che lo vedeva imputato di peculato e falso in relazione all’utilizzo della carta di credito assegnatagli a suo tempo dall’amministrazione capitolina. L’ex sindaco di Roma è stato assolto anche per l’ipotesi di reato di concorso in truffa per compensi destinati a collaboratori fittizi quando era il rappresentante legale di una associazione non profit che aveva fondato per portare aiuti sanitari in Honduras e in Congo. Ancora ieri la stessa sorte è toccata a Roberto Cota. L’ex governatore del Piemonte è stato infatti assolto (perché il fatto non sussiste) insieme ad altri 15 imputati dall’accusa di truffa per le "spese pazze" in Regione (dieci consiglieri sono stati invece condannati per peculato). A metà settembre la Cassazione aveva messo il sigillo finale al processo che vedeva imputato per abuso d’ufficio Vincenzo De Luca, confermando l’assoluzione. Al centro del processo la nomina di un manager nell’ambito di un progetto per la costruzione di un termovalorizzatore a Salerno, quando De Luca era il sindaco. La giustizia fa il suo corso, si dice. E le assoluzioni sono il segnale di un sistema giudiziario che non condanna i politici preventivamente. Tutto bene quindi? Non proprio, perché i processi che hanno chiamato in causa Marino (ex Pd), Cota (Lega) e De Luca (Pd) furono casi roboanti dati in pasto all’opinione pubblica dall’ineffabile circo mediatico-giudiziario. Con il corredo folcloristico (ricordate le mutande verdi di Cota, pluricitate nelle cronache sulla "Rimborsopoli piemontese"?) e gli scontri all’arma bianca dentro i partiti: la Commissione Antimafia presieduta da Rosi Bindi, anche lei del Pd, definì De Luca "impresentabile" quale candidato alla presidenza regionale della Campania proprio perché coinvolto nell’inchiesta dalla quale è uscito pulito, dopo otto anni... Anche Bergamo ancora a metà settembre è stata toccata da un caso, durato sei anni e mezzo: Daniele Belotti era finito sotto inchiesta per una serie di intercettazioni telefoniche fra lui e il leader della Curva Nord atalantina, Claudio "Bocia" Galimberti. Secondo l’accusa quei dialoghi facevano dell’attuale segretario provinciale della Lega l’ideologo del capo ultrà e si sono tradotti nell’accusa di concorso esterno in associazione per delinquere. Accusa archiviata dalla Cassazione. Una prima considerazione riguarda la politica, vittima della propria debolezza. Usare le sentenze e gli avvisi di garanzia come una clava per colpire l’avversario?è un clamoroso autogol: non è degno di chi deve dare una risposta ai problemi del Paese anche in questo ambito. Ma nei partiti c’è una sorta di sudditanza al giustizialismo del senso comune, quasi a voler pagare dazio al giacobinismo degli anti casta e del "tutti ladri, tutti a casa" che ammorba il dibattito pubblico, al quale l’informazione nazionale ha lisciato irresponsabilmente il pelo, anche sposando spesso acriticamente l’onda grillina (salvo poi frenare quando pure i 5 Stelle hanno ricevuto l’attenzione delle Procure). Per anni non è stato possibile un ragionamento serio sulla giustizia perché Silvio Berlusconi aveva monopolizzato il tema (o si stava con i magistrati o con l’ex premier, senza se e senza ma). Eppure in quegli anni tanti ignoti rimasero vittima della malagiustizia, senza meritare parole garantiste, perché il clima era quello e guai a chiamarsi fuori. Ma la questione è davvero seria, come sa chiunque sia stato coinvolto con la propria persona in un’indagine o abbia messo piede nell’inferno delle carceri italiane. Una seconda considerazione riguarda la magistratura. L’evidenza che "la giustizia fa il suo corso" non può bastare a giustificare l’ostinazione e la ricerca della ribalta mediatica nel sostenere inchieste che toccano la politica. Non è compito dei pm indagare il malcostume, ma solo cercare fatti di reato. Il populismo penale è una malattia che chiama in causa non solo il Parlamento e l’informazione, ma anche le stesse toghe. La Costituzione italiana è tornata d’attualità nella campagna in vista del referendum del 4 dicembre prossimo che vede politici, opinionisti e magistrati schierati su fronti opposti. Tutti a discettare sull’intangibilità della Carta o sulla sua riformabilità. Nessuno mette in discussione articoli quali il numero 27, che dice: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Cominciassimo finalmente ad applicarla la nostra cara Costituzione. Comunità che accolgono minori "a rischio": risposta all’articolo di Giuliano Foschini dall’Associazione Jonathan Ristretti Orizzonti, 9 ottobre 2016 Ci pare doverosa una riflessione sull’articolo, pubblicato su la Repubblica venerdì 7 ottobre a firma Giuliano Foschini. Ci pare doverosa perché, pur comprendendo lo spirito con il quale esso è stato scritto, rischia di dar luogo a confusione e fraintendimenti, piuttosto che ad una comprensione effettiva del problema. E ci pare doveroso anche perché si corre il rischio di svilire l’impegno di tanti operatori sociali che investono la loro professionalità, il loro tempo, la loro vita in un lavoro che non "produce cose" ma ha a che fare con persone, anzi con i minori. Un impegno che nel caso dell’Associazione Jonathan è sotto gli occhi di tutti e che noi rivendichiamo in tutto e per tutto. L’articolo rischia di fare confusione perché non delimita le responsabilità lasciando anzi pensare a chi legge (a partire dal titolo) che il marcio sia nel privato sociale, generalmente ed omogeneamente considerato. Perché fornisce una serie di dati e cifre, segnatamente quando parla della media diaria dai 130 ai 150 euro fino ad arrivare a 500 euro, che non si applicano ad ogni tipologia di struttura ed ancora più certamente non riguardano le comunità alloggio che accolgono minori a rischio e dell’area penale, il nostro caso. La realtà del nostro lavoro, e di tanti altri come noi, ci parla di tutt’altro scenario. Di rette di gran lunga inferiori a quelle riportate e pagate con ritardi biblici, mesi se non anni. Più nel particolare, ammesso che una retta di poco inferiore ai 100 euro (perché di quello parliamo) possa essere considerata "tanta roba", va altrettanto considerato che non stiamo parlando di grandi numeri ma nel caso dell’area penale, di 3 minori collocati in comunità su un tetto massimo di 8. Appare del tutto evidente, dunque, che la qualità dell’intervento che le comunità offrono non è direttamente proporzionale alle entrate, non potrebbe esserlo se si considera che quelle rette - unica entrata che molte comunità hanno, di sicuro la nostra - devono coprire tutte le spese (fitto, assicurazioni, operatori (stipendi e contributi), spese alimentari, utenze, attività esterne etc.). Anche sul piano dei controlli, l’articolo può facilmente generare confusione. Nel nostro ambito di riferimento, infatti, non ci risulta la mancanza di controlli denunciata se si pensa che le comunità che accolgono minori a rischio e dell’area penale sono sottoposte ai controlli del Centro Giustizia Minorile, della Procura Minorenni - Sezione Istituti e dell’Ufficio di Piano competente e che proprio a seguito di questi, alcune comunità negli ultimi anni hanno cessato la loro attività. Più in generale pare evidente la confusione tra due piani, quello pubblico e quello del privato sociale. Ci sia perdonato, ma sembra quasi che l’articolo abbia voluto cavalcare l’onda dell’indignazione popolare, che già è montata riguardo alle cooperative che si occupano dei migranti (peraltro in un quadro generale di informazione non sempre lineare), lasciando intendere che gli sprechi e le aberrazioni nella gestione della complessità dell’universo dei minori a rischio siano tutte intestabili alle cooperative o alle associazioni che con i minori ci lavorano. Lungi da noi attenuare o mettere sotto il tappeto responsabilità che nei casi specifici sicuramente ci saranno, ma ci sarebbe sembrato più corretto mettere a fuoco meglio l’ordine di responsabilità, definire meglio chi è il controllore e chi il controllato e, solo dopo, denunciare commistioni e clientele. Per intenderci, si fa un titolo in cui si sottolineano gli sprechi delle cooperative, però poi si attacca il pezzo riportando che una struttura pubblica - il Centro di Prima Accoglienza di Roma impiega 50 persone per 3 minori. Qualcosa non torna. Ci rendiamo conto che si tratta di un problema complesso, che la globalizzazione ha trasformato il welfare in una grande opportunità per gli speculatori senza scrupoli ed in questo contesto gli sprechi e gli scandali non sono destinati a ridimensionarsi, tutt’altro. Ma non bisogna dimenticare che il lavoro sociale, quello onesto e solidale, è ancora oggi la vera e propria spina dorsale del welfare in questo paese. Le semplificazioni non servono. Senza un sistema che sostenga e premi la meritocrazia e la qualità non si risolve il problema. Un esempio: noi pensiamo che l’assegnazione di un minore in comunità con lo strumento della turnazione automatica sia disfunzionale, in quanto si corre il rischio di una omologazione verso il basso e si contribuisca alla desertificazione dell’offerta e dei servizi ad alta qualità. I servizi e le organizzazioni che li propongono, gli uomini e le donne che li realizzano, non sono tutti uguali, ed è quindi auspicabile che chi decide dove assegnare un minore lo faccia non per automatismi ma si assuma la responsabilità del suo ruolo, la responsabilità di una scelta. In conclusione, pur ribadendo la nostra comprensione verso ogni lavoro che miri ad individuare e denunciare sprechi, storture e scandali, riteniamo che ognuno di essi debba avere il carattere della rigorosità, debba essere specifico e chiarire ambiti e responsabilità, qualora siano esse individuabili. Altrimenti si rischia di vanificare il lavoro di anni. Perché ci vogliono anni per costruire, è quello che facciamo noi, un rapporto di fiducia, un sistema di rete che vada ad integrare le risorse (poche) di cui disponiamo, ma basta un attimo, basta un articolo, per indurre in quelle realtà che ci sostengono, come Whirlpool e Manfrotto, nell’opinione pubblica, nel cittadino l’idea che "siamo tutti uguali, tutti rubano alla stessa maniera". Associazione Jonathan Silvia Ricciardi Giovanni Salomone Vincenzo Morgera Liguria: la Regione taglia "Nessuno tocchi Caino" Il Secolo XIX, 9 ottobre 2016 Dopo 21 anni la giunta non ha confermato l’iscrizione. Cancellato il contributo all’associazione che si batte contro pena di morte e torture. Il vento è cambiato, recita lo slogan della giunta Toti. A tal punto che non è più il caso di supportare un’organizzazione impegnata contro la pena di morte e la tortura. Così ritiene il presidente Giovanni Toti, che ha deciso di cancellare la Regione dalla schiera dei sostenitori dell’associazione "Nessuno tocchi Caino". "Non c’è più alcun interesse regionale al suo mantenimento", recita, in burocratese, l’atto che ha messo in moto - fermo restando la necessità di una ratifica del consiglio regionale - il "recesso dal vincolo associativo". L’iscrizione resisteva da 21 anni (solo Abruzzo, Lombardia e Veneto avevano aderito prima, nel 1994), ha navigato fra governi d’ogni colore e forse per questo il cambio di rotta diverse perplessità le ha sollevate. A votare l’ingresso, un’era fa - il 13 dicembre del ‘95 - è stata l’aula che sosteneva Giancarlo Mori, eletto presidente alcuni mesi prima. Sulle ragioni è utile ricordare com’era composta quella compagine e in particolare il ruolo dei Verdi che erano quarto partito di maggioranza. Il contributo ligure è peraltro generoso, 5000 euro di versamento annuo, a fronte di quote standard assai più ridotte: 500 euro per lo status di socio fondatore, 100 per quello di socio ordinario e 50 per quello contribuente. Gli enti, da statuto, non sono obbligati a spendere, perché le adesioni possono anche essere soltanto "morali". La Liguria invece ha deciso di metterci una pietra sopra. Decidendo per il taglio al sostegno materiale (e morale) che, storicamente, è stato erogato perché si è ritenuto, negli anni, che l’associazione svolgesse "attività di interesse regionale", definizione talmente generica da poter giustificare tutto e il contrario di tutto. Giovanni Toti - in attesa del responso del Consiglio - ha dato la sua lettura. La Liguria ha altre priorità, e non c’è ragione di supportare chi si batte contro la pena di morte. Sondrio: in carcere apre il pastificio "A Mani libere" Agi, 9 ottobre 2016 "Un forte elemento di novità in una piccola realtà come la nostra e una concreta possibilità per acquisire competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro". Nel carcere di Sondrio aprirà "A mani libere", un pastificio "per consentire agli ospiti dell’istituto di impegnarsi in una vera attività lavorativa". Con la consegna, ieri, dei macchinari del laboratorio alimentare il progetto nato nel 2013 è in dirittura d’arrivo. Elaborato in collaborazione tra la Provincia di Sondrio e la Direzione del carcere, immaginando che una vecchia autorimessa inutilizzata potesse divenire, invece, un prezioso spazio per impiantare un’attività lavorativa "un segno tangibile per togliere i detenuti dall’ozio involontario, permettere loro di aiutarsi e aiutare le proprie famiglie e favorire il loro percorso di reinserimento sociale". Nell’ottica di mantenere aperta l’interlocuzione tra carcere e territorio, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Luigi Pagano, sottolinea come il lavoro sinergico tra le due realtà sia, prima che un dovere normativamente stabilito, assolutamente indispensabile se si vogliono raggiungere risultati efficaci. "Non è stato un cammino semplice - si legge in una nota del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia - tante le difficoltà da superare e prima fra tutte quella di individuare un settore produttivo che avesse in sè la vocazione sociale e si ponesse anche come ponte, legame tra carcere e società esterna guardando alle espressioni tipiche del territorio". La scelta, alla fine, è stata quella di creare un pastificio "un forte elemento di novità in una piccola realtà come la nostra - sottolineano gli operatori dell’Istituto di via Caimi - e una concreta possibilità per acquisire competenze professionali spendibili sul mercato del lavoro". E la cooperativa Ippogrifodi Paolo Pomi, sollecitata dal direttore, Stefania Mussio e dai suoi collaboratori, l’educatore Tevere Maellaro, il comandante della Polizia Penitenziaria Somma, ha raccolto volentieri l’invito a elaborare un piano di lavoro per la concreta fattibilità del progetto. È così iniziata la riconversione dei locali e la ricerca di partner che potessero collaborare alla messa in opera del progetto e Sondrio ha risposto all’appello con entusiasmo tanto che nell’aprile 2016 alla direzione e alla coop Ippogrifo si sono uniti Gritti per Confartigianato, Dell’Acqua la Fondazione Pro Valtellina e Cioccarelli per la Bim Adda sottoscrivendo un protocollo d’intesa per realizzare un’attività "attraverso la quale i detenuti potessero fare per davvero, realizzando prodotti all’interno per destinarli al territorio, convinti del valore dell’iniziativa come ulteriore strumento di dialogo con la città". Anche il nome scelto per il pastificio è simbolico, "A mani libere", due semplici parole che racchiudono i valori, le idee, le finalità che lo hanno visto concepire. Al più presto il laboratorio sarà completato e pronto per iniziare la produzione. La Direzione del carcere e tutti i partners si stanno già preparando per l’inaugurazione con Don Ferruccio Citterio, cappellano dell’istituto, che battezzerà la nascita. Milano: detenuti giardinieri, il sogno realizzato del carcere di Bollate di Teresa Monestiroli La Repubblica, 9 ottobre 2016 "Il giardino è una scuola di vita: insegna a coltivare il desiderio, reggere la frustrazione, affrontare le delusioni che accompagnano ogni giardiniere. Da un fallimento si impara la pazienza, la precisione e la costanza, doti fondamentali per coltivare bene la terra", racconta Susanna Magistretti, coraggiosa giardiniera che qualche anno fa ha scelto di ritirarsi "in galera" e dal 2007 guida la cooperativa sociale Cascina Bollate. "Il giardinaggio opera sulla riparazione, mostra che una seconda chance è possibile. Piante che sembrano mezze morte, se curate con attenzione e passione, tornano a rifiorire. Bisogna dargli fiducia". Che poi è quello che si fa qui dentro tutti i giorni, e non solo con i detenuti in cerca di una seconda opportunità. Anche con le piante. "Perché anche loro qui stanno in galera: soffocate in vasi da 15 centimetri fanno una vita grama, ma una volta tornate libere, rifioriscono. E lo dico senza cinismo né irriverenza per chi vive in una condizione di privazione della libertà". Benvenuti a Cascina Bollate, il vivaio all’interno della casa di reclusione modello alle porte di Milano dove, talvolta con fatica perché le regole di un penitenziario non sempre si conciliano con le esigenze della natura, da quasi dieci anni si coltivano erbacee perenni, si organizzano corsi di giardinaggio (per liberi cittadini), si insegna un mestiere ai detenuti, si produce lavoro. Ma anche si vende al pubblico, due pomeriggi a settimana (mercoledì e venerdì dalle 15 alle 18), quando l’ingresso è quasi libero. Nel senso che si può entrare, ma è necessario seguire una trafila rigida: si entra ogni trenta minuti, dalle 15 alle 17.30, solamente scortati da un volontario che dalla sala d’attesa che si affaccia sul parcheggio delle auto vi porterà fin dentro il muro di cinta; bisogna presentarsi muniti di un documento di identità, ma senza cellulari, macchine fotografiche, cani e bambini minori di 18 anni. Anche se si viene a comprare le piante (che si pagano fuori, al negozio della cooperativa, perché dentro non circola denaro), è sempre un istituto penitenziario. All’interno si nasconde un’inaspettata oasi verde, con 60mila piante di 600 specie diverse che crescono rigogliose all’ombra dell’alta recinzione di cemento armato, sotto le finestre dei reparti maschili del carcere. Quasi un ettaro di terreno, con due affollate serre, coltivato da tre giardinieri (liberi) e cinque detenuti, che lavorano a tempo pieno e ricevono uno stipendio mensile. "I soldi sono importanti - continua Magistretti - perché li rendono responsabili, possono contribuire alla vita della famiglia fuori dal carcere, possono comprare un regalo al figlio, oltre a dargli l’opportunità di avere qualcosa per iniziare una volta usciti". Il progetto è nato nel 2007: "Portare dentro l’ impostazione che si usa fuori, formando veri professionisti del verde, non semplici decespugliatori. Perché imparare un mestiere in carcere è un buon modo per non tornarci più". O per tornarci solo volontariamente. Come Manuel, che dopo aver scontato la pena si è presentato al vivaio da libero cittadino chiedendo di continuare il lavoro. Ed è ancora lì. Biella: in carcere si coltiva verdura biologica newsbiella.it, 9 ottobre 2016 A breve la certificazione per la produzione che i detenuti devolvono alla Caritas. E per le celebrazioni di fine mese saranno disponibili anche piante di crisantemi. Sta per ottenere la certificazione biologica, la produzione di frutta e verdura della Casa Circondariale di Biella. Il progetto, avviato da qualche tempo, coinvolge 23 detenuti, della sezione "Ricominciare" che giornalmente vanno nei campi e nelle serre, di cui una riscaldata, che si trovano nella struttura carceraria, per coltivare prodotti stagionali nell’ambito di un progetto autofinanziato. Un modo per tentare di reinserirsi nella società, con un mestiere in mano, quando verranno rilasciati, e un modo per fare del bene. La produzione, infatti, viene acquisita dalla Caritas e utilizzata nei piatti che vengono serviti alla mensa a cui si appoggiano i più bisognosi. "I reclusi - spiega Valeria Quaregna, una delle educatrici della struttura - vengono seguiti da un agronomo e i risultati si vedono. Stiamo ottenendo ottimi risultati, che ci porteranno alla certificazione bio. In futuro contiamo di passare anche alla trasformazione del prodotto, realizzando passate e marmellate". E il lavoro dei detenuti ha già dato, in parte, i suoi frutti. Hanno infatti esposto i loro prodotti alla Fiera del Tartufo di Alba, importante kermesse che attira gente da tutta Italia. E per il prossimo primo novembre, saranno anche disponibili piante di crisantemi. Biella: pasti consegnati in ritardo e scarsa igiene, protestano gli agenti di Andrea Formagnana La Stampa, 9 ottobre 2016 Sempre più allarmante la situazione del servizio mensa per gli agenti di polizia penitenziaria in forza nel carcere di Biella: pasti consegnati in ritardo, condizioni igieniche non garantite e dipendenti non pagati. A denunciarlo è il sindacato Sinappe tramite il suo delegato l’agente Raffaele Tuttolomondo. "Un anno fa il servizio di mensa obbligatorio, per il quale ci viene trattenuto in busta paga il corrispettivo, è stato appaltato a una cooperativa esterna - racconta. Da allora sono iniziati i disguidi con la consegna dei pasti che arrivavano fuori orario". A preoccupare gli agenti è il fatto che la cooperativa che ha vinto la gara di fornitura non abbia le risorse economiche per pagare i suoi dipendenti. "Sappiamo che da tre mesi non pagano gli stipendi ai loro lavoratori che già non avevano in dotazione divise e guanti e che dovevano provvedere da soli a rifornirsene". Il sindacato chiede che il contratto con quella cooperativa venga risolto: "Le condizioni di inadempienza ci sono tutte. Abbiamo informato la direttrice Giordano perché porti avanti le nostre istanze di fronte all’amministrazione penitenziaria", conclude Tuttolomondo. Caso isolato? - Biella non è comunque un caso isolato. La cooperativa che dovrebbe consegnare i pasti agli agenti della casa circondariale di via dei Tigli è infatti la stessa che dovrebbe assicurare il servizio, non facendolo, anche nelle carceri delle altre città piemontesi e ad Aosta. Quello della mensa è solo l’ultimo di una lunga serie di disagi a cui devono far fronte gli agenti della penitenziaria. È di poche settimane fa, infatti, la denuncia sulle carenze del vestiario. Torino: tre ragazzini evadono dal carcere minorile Ferrante Aporti di Erica Di Blasi La Repubblica, 9 ottobre 2016 Sono scappati scavalcando il muro di cinta del campo sportivo e si sono dileguati nelle vie del quartiere. Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp: "Negli istituti situazione delicata". Torino, tre ragazzini evadono dal carcere minorile Ferrante AportiIl carcere minorile Ferrante Aporti Tre detenuti minorenni sono evasi questa sera dal Ferrante Aporti di Torino. È accaduto intorno alle 17.45. I tre ragazzi, un tunisino, un polacco e un nomade, sono scappati scavalcando il muro del campo sportivo in cui si trovavano per l’ora d’aria. Si sono arrampicati velocissimi, a mani nude, senza usare corde o le classiche lenzuola. Il ragazzo tunisino è alla sua seconda evasione: prima era scappato dal carcere di Catanzaro. Subito dopo sono scomparsi per le vie del quartiere. "L’attuale situazione delle strutture detentive della giustizia minorile - sottolinea Leo Beneduci, segretario generale Osapp (Organizzazione sindacale autonoma Polizia Penitenziaria) - malgrado il basso numero di detenuti (non oltre 500), sul territorio nazionale, anche a causa della presenza di soggetti ultraventenni, è tra le peggiori che ci siano mai state. Accade persino che a fronte di aggressioni, violenze e danneggiamenti, l’amministrazione dia la responsabilità all’incolpevole personale di polizia penitenziaria, invece che fare finalmente un "mea culpa" rispetto alla disorganizzazione e all’assenza di risultati che caratterizzano l’attuale gestione del sistema". Sassari: storie oltre le sbarre, le canzoni liberate da Piero Marras di Paolo Curreli La Nuova Sardegna, 9 ottobre 2016 Una ricerca restituisce una mole di documenti dimenticati. La corrispondenza censurata ritrova la libertà con la musica. È stata un’operazione di ricerca, uno scavo nei sotterranei delle carceri e delle colonie penali sarde. Ma anche l’esplorazione nelle anime degli uomini che dietro quelle sbarre hanno lavorato, sofferto e forse anche raschiato qualche attimo di serenità. Un viaggio di 380 pagine in grande formato, centinaia di foto storiche "Le carte liberate" edito da Carlo Delfino è davvero un volume e una ricerca importante, gli autori Vittorio Gazale e Stefano A. Tedde hanno riportato alla luce, con l’aiuto dei carcerati di oggi, centinaia di carte che raccontano non solo gli aspetti amministrativi e il mutamento dell’istituzione carceraria, ma anche dolorose vicende umane. Di queste storie, e della loro liberazione attraverso le ali della musica e della poesia, si è occupato Piero Marras. Un artista che è un collettore sensibile di storie e sentimenti; ha cantato l’amore e ha raccontato il dolore e le vite dei sardi in brani che sono dei classici, non solo locali, della storia della canzone d’autore. "La maggior parte di queste lettere purtroppo non sono mai arrivate a destinazione, bloccate da una rozza ed arrogante censura. Come dire, anche i sentimenti sono stati messi dietro le sbarre", racconta Piero Marras. Com’è stato lavorare con queste testimonianze? "È stato come prendere contatto con una umanità di confine, dimenticata da tutti. I "reietti del reame" come ha lasciato scritto uno dei reclusi. I silenziosi protagonisti di un passato che all’improvviso irrompe. Ho voluto visitare di persona i luoghi dei reclusi e lì, con i loro scritti ancora nella mente, mi è sembrato di riuscire a cogliere i segni di giornate monotone e interminabili, trascorse in cellette anguste e disumane, insieme ai loro desideri, alle loro speranze non sempre ben riposte. E soprattutto mi è sembrato di riuscire a cogliere nell’aria, come palpabili e ineludibili presenze, i loro pensieri". E dal coinvolgimento è arrivata la canzone? "Sì, è nata l’esigenza inderogabile, urgente, di elaborare questi scritti nascosti. Di cantarli. E in questo modo rendere loro giustizia. Liberarli dall’oblio, farli conoscere. Così sono nate le mie "Storie liberate". Per restituire a questi pensieri la libertà di volare sopra il mondo ed essere finalmente ascoltati e condivisi". Un esempio delle storie che ha scelto? "Ho raccontato in "Se io potessi scrivere" le intense lettere di Nello, matricola 907, caporal maggiore della brigata Nembo, condannato dal Tribunale militare straordinario di guerra a 15 anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici e degradazione del ruolo militare per aver rubato una pecora per fame! La disarmante autodifesa di Marcello, matricola n. 555, in "Non ero io, lo giuro", condannato per tentato femminicidio. Il particolare e intenso rapporto affettivo del detenuto di Mamone Francesco col suo presunto cugino (anch’egli detenuto) in "Mio caro cugino Giuseppe"". Vite, voci e culture molto diverse, che lavoro ha fatto sui testi? "In ogni canzone ho voluto adottare una sorta di rigore filologico. Le parole usate nei miei testi rispettano in maniera quasi pedissequa quelle usate dai detenuti negli scritti rinvenuti. Niente di romanzato o elaborato". Cosa ha scoperto di questo "universo"? "L’opportunità di approfondire la conoscenza del mondo carcerario e lo stimolo su una riflessione sulle attuali condizioni delle carceri in Italia. "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni" ha scritto Dostoevskij. Concetto che riprendo in "Un numero" dove esprimo la mia idea di carcere, in ossequio alla sua principale funzione di luogo di recupero della persona e non esclusivo luogo di pena. Mi ha dato anche l’occasione di esprimere una serie di "riflessioni cantate" sulla recente introduzione dell’aberrante ergastolo ostativo, la cosiddetta "pena senza speranza"". In carcere non solo detenuti? "Sì, "Fare l’agente di custodia" è dedicata al duro e ingrato lavoro quotidiano degli agenti di polizia penitenziaria. Categoria che negli anni ha pagato un pesante tributo di vite umane, troppo spesso ignorata dai media e non solo". Sardegna oltre le sbarre? "Ho scritto alcuni brani in lingua sarda come "Castiadas", sulla storia della piu antica colonia penale sorta in Sardegna e "Caru Ferrandu", tratto da un ottava del famoso poeta-bandito di Fonni Bachisio Falconi che "soggiornò" per diversi anni a Tramariglio, da dove poi riuscì ad evadere. E poi "Ziu Paulinu ‘e sas crapas" ambientata all’Asinara, sulla curiosa vicenda di un anziano detenuto e delle sue capre che lo riconoscono da lontano e gli corrono incontro festose. A volte "menzus sas crapas sun de sas pessones (a volte sono meglio le capre degli uomini)". Coinvolto come uomo, insomma, oltre che come cantante? "Certo, non lo nascondo. Tanto che mi sono arrogato il diritto, nelle performances live, in pieno transfert di immedesimazione, di cantare ipotetiche risposte a quelle lettere inviate ai reclusi e purtroppo dai medesimi mai ricevute. È il caso della corrispondenza d’amore di una giovane coppia, lui detenuto di origine umbra, Nello, e lei, Eleonora, una ragazza di Piscinas. Si tratta di una trentina di lettere intime e profonde, scritte con una grafia incerta, che non vennero mai consegnate al detenuto. Dentro una di queste c’era una foglia appassita di basilico e queste poche righe "ti invio questa foglia del basilico piantato da noi, odorala anche tu come ho fatto io! Ti bacio forte". Dopo oltre 70 anni i versi della mia "Unu frore che a tie" sembrano scritti apposta per una ipotetica risposta di Nello alla dolcezza delle lettere di Eleonora. Fra le tante, un’altra vicenda mi ha colpito. Una morte bianca. Quella del detenuto Fausto Melis che nel pomeriggio del 10 luglio1956, mentre lavorava in campagna, venne travolto da un toro in corsa. Venne trasportato d’urgenza all’ospedale di Alghero, dove morì dopo qualche ora. Una morte molto simile a quella del giovane vaccaro Juanne Arina, mirabilmente raccontata e sublimata da Antonino Mura Ena in "Jeo no ippo torero" poesia che mi son permesso di tradurre in musica". Una esperienza bella e intensa... "Fino alla fine, mi ha commosso ieri l’applauso dei detenuti e del personale del carcere di Bancali, è stata una standing ovation che ho sentito vera come accade raramente". "Basta stragi! Fermiamo le guerre". La nonviolenza attiva si rimette in marcia di Alessandro Santagata Il Manifesto, 9 ottobre 2016 Perugia-Assisi. A cinquantacinque anni dalla prima edizione organizzata da Aldo Capitini. Il movimento pacifista torna in piazza, anzi in marcia. Sono passati ormai cinquantacinque anni dalla prima Perugia-Assisi organizzata dal teorico della nonviolenza attiva Aldo Capitini contro tutte le guerre e le diseguaglianze che le producono. In una scena politica internazionale segnata dalla guerra fredda e dalla paura per il rischio di un olocausto nucleare, intellettuali, ma soprattutto movimenti laici e religiosi erano scesi in piazza per mandare un messaggio in controtendenza rispetto alle ideologie dominanti in materia di guerra, pace e obiezione di coscienza. Nascevano la bandiera della pace e un movimento di movimenti che avrebbe accolto sindacati, ong, comunità di base e organizzazioni della sinistra. Nel 1985, nel pieno della difficile prova dei movimenti contro gli euromissili, si svolgeva una delle edizioni più partecipate contro le spese militari. Venendo ai tempi recenti, sono ancora fresche nella memoria di molti le immagini delle marce dei primi anni Duemila ai tempi delle "guerre umanitarie" e del "conflitto preventivo" contro il terrorismo. Nell’appello "Basta stragi! Fermiamo le guerre", lanciato dalla Tavola della pace e dalla Rete della pace, tornano oggi forti le preoccupazioni per il nostro presente carico di "tensioni e conflitti". Accanto al tradizionale appello contro tutte le guerre figurano gli altri temi chiave della politica, "problemi complessi ignorati e sottovalutati da lungo tempo": dalla miseria alla "distruzione di posti di lavoro", alla "devastazione ambientale" e al "cambiamento climatico". In questa prospettiva si suggerisce anche di interpretare la riemersione della questione del terrorismo: mai citato esplicitamente nell’appello, ma ancora centrale in quella retorica securitaria dilagante in Europa e negli Stati Uniti che "aumenta le paure, accentua le divisioni, avvelena i rapporti e allontana le soluzioni". "L’Europa che oggi conosciamo non ci piace - prosegue l’appello - ma questo non vuol dire che possiamo buttarla via" e tornare alle frontiere nazionali, ai muri e ai confini. Oggi più che mai la questione migratoria si presenta dunque come un prisma che riflette le contraddizioni delle nostre società nel loro processo di chiusura e d’involuzione sociale. La consonanza con le riflessioni sulla guerra mondiale avanzate da papa Francesco circa un mese fa proprio ad Assisi è evidente e, nello stesso tempo, si inserisce in una storia comune alle tante anime che compongono il movimento di lotta per un modello di sviluppo alternativo all’ordine neoliberista. La marcia Perugia-Assisi, del resto, è da sempre uno spazio aperto in cui la dimensione della testimonianza di pace, caratteristica di un certo tipo pacifismo dalle diverse venature filosofiche e religiose, non è slegata dall’impegno politico e dalla contaminazione con le variegate culture dell’altermondialismo. Nelle ultime edizioni si è registrato un calo della partecipazione dovuto in parte anche alle fratture interne che hanno scandito, del resto, la storia della marcia dagli anni Novanta. La scommessa dichiarata dai movimenti consiste nel rilanciare la partecipazione attorno alle nuove urgenze e proporre un’uscita da quello stato di guerra permanente su cui gioca oggi il futuro politico dell’Europa e del mondo. Le idee del populismo contagiano i partiti tradizionali di Federico Fubini Corriere della Sera, 9 ottobre 2016 Ovunque in Europa e in Occidente gli eredi delle vecchie forze politiche adeguano la propria retorica. "Graecia capta ferum victorem cepit" scriveva Orazio della conquista di Roma sull’Ellade. La Grecia, conquistata, conquistò il feroce vincitore. I romani furono dominati dalla cultura greca anche quando il potere era nelle loro mani. A venti secoli di distanza è il caso di chiedersi se Orazio non continui ad avere ragione oggi, fra protagonisti meno nobili: i leader dei partiti tradizionali e quelli dei movimenti anti-sistema che hanno trasformato la politica negli ultimi anni. Anche quando questi ultimi sono perdenti o lontani dal potere, stanno conquistando l’establishment con le loro attitudini e le loro idee. L’ultimo sintomo è emerso dalla conferenza del Partito conservatore britannico pochi giorni fa. Nel suo discorso ai delegati, Theresa May ha riassunto il cambio di stagione in una formula: "Se credete di essere cittadini del mondo, non siete cittadini di nessun posto. Non capite neanche cosa significhi la parola cittadinanza". A pronunciare queste parole era la premier del Paese che ha beneficiato forse di più di qualunque altro in Europa del cosmopolitismo e della caduta dei muri degli ultimi decenni. Da Margareth Thatcher, a Tony Blair, a David Cameron, i suoi predecessori laburisti o conservatori promettevano ai britannici che l’apertura al mondo avrebbe reso tutti più ricchi. May invece parla di patria e di confini, come l’ultranazionalista Nigel Farage nella sua campagna per portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea. Oggi Farage è un leader in pensione, ricorda un po’ Umberto Bossi. Il suo partito è giù nei sondaggi e in preda al caos. Spetta a una premier compassato e prevedibile come May guidare il suo Paese nel divorzio dal resto d’Europa, e forse per questo lei stessa semina altri indizi del fatto che i tempi stanno cambiando. May è la leader del partito europeo da sempre più favorevole all’apertura dei mercati, eppure oggi parla di intervento pubblico e di "settori strategici" dell’industria nazionale come una no global francese. È l’erede della tradizione thatcheriana nutrita di monetarismo e separazione dei poteri, ma getta ombre sull’indipendenza della Bank of England come coloro che lei stessa definiva "populisti". La London School of Economics denuncia che il governo le avrebbe ingiunto di escludere i suoi docenti stranieri (circa metà dello staff) da tutti gli studi preparatori sulla Brexit, come se le spie ormai fossero ovunque. May ha questo da dire dei liberal di tutte le aree politiche: "Trovano il patriottismo di cattivo gusto". Si può approvare o restare spiazzati, è impossibile però non vedere che Theresa May non si muove da sola. Ovunque in Europa e in Occidente gli eredi dei partiti tradizionali stanno adeguando la propria retorica e le decisioni di governo alla nuova aria del tempo. Nessuno di loro intende lasciare un voto più del necessario agli avversari situati ai confini estremi della politica. In Francia, Nicolas Sarkozy cerca di coprire per intero il terreno della destra radicale del Front National di Marin Le Pen. Nel ricandidarsi all’Eliseo, Sarkozy ha proposto misure contro il terrorismo islamico che fanno apparire Guantànamo un’accademia dello Stato di diritto: centri di "detenzione preventiva" per qualunque francese che dia luogo a "sospetti" per i siti in Rete che apre da proprio computer di casa o per il modo in cui si comporta nella sua vita quotidiana. Neanche la Germania della grande coalizione fra democristiani e socialdemocratici sembra al riparo da questo vento nuovo. I nazionalisti anti immigrati di Alternative für Deutschland minacciano per la prima volta di erodere consenso da destra al partito della cancelliera Angela Merkel, ed è per questo che il governo ha preso proprio questa settimana una decisione che sarebbe stata impensabile anche solo pochi anni fa: i cittadini di altri Paesi europei dovranno vivere in Germania per almeno cinque anni, prima di poter ricevere assegni di disoccupazione se restano senza lavoro. In precedenza bastava aver lavorato nella Repubblica federale sei mesi. Una misura del genere rischia adesso di danneggiare migliaia di italiani che hanno lavorato e pagato le tasse per anni in Germania. Ma, ancora una volta, l’ottimismo e lo spirito di apertura dei due decenni di prima della Grande Recessione sembrano ormai un ricordo distante. Lo sono anche negli Stati Uniti. In campagna presidenziale Hillary Clinton ha dovuto promettere che bloccherà gli accordi commerciali con i Paesi del Pacifico che lei stessa aveva negoziato come segretario di Stato pochi anni fa. Dalla Casa Bianca degli Anni 90 suo marito Bill Clinton sosteneva che il libero scambio era "hundred to nothing", solo vantaggi e zero svantaggi; Hillary invece deve tenere testa alla retorica protezionista di Donald Trump. Neanche l’Italia è immune, naturalmente. Le tirate di Matteo Renzi contro "i burocrati di Bruxelles" non sono difficili da capire in un Paese in cui la prima forza nei sondaggi - M5S - propone un referendum sull’euro. Ma anche chi è a disagio di fronte al nazionalismo e al protezionismo dei leader occidentali di oggi deve riconoscere una realtà: Thatcher e Tony Blair si sbagliavano, la globalizzazione e l’apertura delle frontiere non hanno reso tutti più ricchi e sicuri di sé. Hanno creato anche dei perdenti. Perché la società aperta si salvi, dovrà beneficiarne anche chi non ci è riuscito fin qui.