L’Asinara: l’isola degli ergastolani senza scampo di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 8 ottobre 2016 "Lo scorrere del tempo viaggia senza di me, destinato a essere per sempre fuori dalla vita". (Frase scritta sulla parete di una cella dell’Asinara). In questi venticinque anni di carcere, tra un mese entrerò nel ventiseiesimo, ho scritto molto. Probabilmente perché ho sempre pensato che di me non rimarrà nulla, a parte quello che scrivo. Dopo la condanna alla "Pena di Morte Viva" decisi di affrontare l’Assassino dei Sogni (come chiamo il carcere) con gli occhi aperti e la penna in mano. Anche per questo, per un quarto di secolo, la scrittura è sempre stata il solo modo per sentirmi vivo. Dei miei lunghi cinque anni nell’isola dell’Asinara (di cui un anno e sei mesi in totale isolamento) vissuti nel regime di tortura del carcere duro del 41 bis, ho raccontato molto. Forse, però, non abbastanza. E ho pensato di scrivere ancora qualcosa. In quegli anni avevo più paura del futuro che del presente perché un prigioniero, per vivere, ha bisogno di sapere quando finisce la sua pena. Ed io non lo sapevo. O, meglio, lo sapevo bene perché nel mio certificato di detenzione c’era scritto, in rosso, "fine pena mai". Adesso, invece, l’amministrazione penitenziaria scrive: "fine pena anno 9.999". L’Asinara è sempre stata un’isola carcere. Ed è sempre stata considerata la Guantánamo del mar Mediterraneo. Nel 1992, a seguito delle gravissime stragi mafiose avvenute nel nostro paese, fu riaperta la diramazione Fornelli. Vi furono deportati molti ergastolani. E così l’Asinara divenne l’isola degli ergastolani senza scampo. Io fui uno dei primi ad arrivarci pur non appartenendo alla categoria dei "mafiosi" e per reati completamente estranei alle stragi di quegli anni. I muri piangono di dolore/ Impregnati di anime senza pace e speranze/ Di chi è passato ed ha lasciato tanto/ E chi ha dato tutto/ Ascolto i loro lamenti/ Che mi penetrano/ Mi lacerano/ Mi distruggono. Dopo tre anni e mezzo in quell’inferno, mi venne applicato l’isolamento totale previsto per gli ergastolani. Rumori di chiavi/ Urla metalliche/ Arrivano i lupi/ Camminano sul mio cuore/ Cado dalla speranza/ Eppure Carmelo è vivo. Un giorno le guardie mi vennero a prendere e mi portarono nel reparto isolamento. E il mio mondo divenne la mia cella. Nell’amarezza sconfinata del mio cuore affronto e lotto con me stesso/ Fra le pieghe del dolore/ Corro dietro ai sogni/ Nonostante tutto vivo/ Non per scelta ma per amore. Incominciai a sentirmi l’uomo più triste e malinconico del mondo. Forse dell’universo. Nell’angolo del mio mondo guardo la mia anima/ Nella disperazione osservo la vita/ I ricordi affiorano nella memoria/ Muoio ogni giorno. Di giorno trascorrevo le ore sdraiato sulla branda a fissare il soffitto. Di notte scrutavo il mio cuore rivivendo i momenti più belli della mia vita che avevo passato insieme alla mia compagna. Tutto intorno è Buio/ Silenzio/ Desolazione/ Tristezza/ Rimpianti/ Ma nella mia anima ci sono tanti ricordi di te/ Mi vedo dentro i tuoi occhi/ Dove vedo la mia vita accanto alla tua/ Mi trovo lontano, ma ti sento così vicina che sento il tuo cuore battere accanto al mio/ Non sono con te, ma sono dentro di te/ Dove mi sento libero e felice d’amarti. Il ricordo dei miei due figli mi teneva in vita. La mia famiglia fuori continuava ad aspettarmi pur sapendo che di me avrebbe avuto solo il cadavere. Questa loro attesa era un po’ la mia salvezza ma, nello stesso tempo, la mia maledizione. Bella dolorosa malinconia/ In te trovo la vita e la morte/ Non c’è nessuno intorno a me/ Mi sembra ormai di poter afferrare le persone che amo/ Invece l’alba del mattino li fa allontanare/ Non sono però stato abbandonato/ Sono io che sto abbandonando loro. I giorni passavano senza che accadesse nulla. Col passare dei mesi mi abituai a guardare la cella in cui vivevo come un pianeta lontano che non aveva più nulla a che fare con me. Vedevo le guardie solo quando mi portavano nella gabbia a cielo aperto per trascorrere l’ora d’aria o quando mi aprivano lo spioncino per passarmi da mangiare. Non mi parlavano. E io non parlavo loro. La mia era diventata una vita di silenzio. Mi sentivo disperato, infelice e tagliato fuori dall’umanità. Urla che toccano i deboli/ Ma non smuovono i forti/ Un’ombra viva/ Nessuna speranza/ Tutto è ormai perduto/ Soltanto il tempo è qui con me. Quello che mi mancava di più era scambiare due chiacchiere con un essere umano. Caddi in depressione. Iniziai a conversare con i miei stessi pensieri. E il mio cuore iniziò a ragionare con me. Nel mio cuore c’è troppa libertà che non può più avere /E ormai non c’è nessuna via/ L’unica via è dentro di me. Camminavo di giorno e di notte. Su e giù per la cella. Come sanno fare solo i morti che camminano. Le tenebre del dolore entrano dentro di me/ Svaniscono i sogni/ Scompaiono le speranze. In quel periodo non vedevo nessuna possibilità di sopravvivere. Tutti i miei pensieri erano rivolti ai miei figli e alla mia compagna. Soprattutto per loro non volevo rinunciare alla speranza, ma sapevo anche che questa poteva essere un veleno che avrebbe potuto far ammalare il mio cuore e la mia mente. Sapevo che la speranza era la droga dei deboli per convincerli a non fare nulla. La misi da parte. E iniziai a nutrirmi solo dell’amore che avevo ancora nel cuore. In certi giorni e in certe notti me la prendevo anche con Dio che aveva creato gli umani così cattivi. Ti parlo sconosciuto Dio/ Ma non credo/ Quindi non puoi sentirmi/ Anche se forse mi ascolti/ Solo così posso pensarti/ Capirti/ E perdonarti- Via via che il tempo passava, i ricordi si affievolirono. Si dileguarono finché non scomparvero del tutto dalla mia mente. Per un certo periodo smisi persino di pensare e di sentire. E iniziai a desiderare che venisse presto la morte a liberarmi. Pensavo che da morto non mi potesse capitare nulla di peggio. E avrei messo fine a tutti i miei guai in una volta sola. Sostenni molte lotte con me stesso per decidere se vivere da morto o morire da vivo. Alla fine decisi di usare la fantasia e la pazzia per continuare ad esistere. Spero nella morte/ Continuo però a cercare la vita/ E continuo a morire per vivere/ Avverto il gelo della solitudine/ Maledico il giorno che deve venire/ Lego il lenzuolo alla sbarre/ Parto per l’aldilà/ Ritorno deluso/ Penso che un uomo, finché non è libero di morire, non può morire/ E slego il lenzuolo. Dopo quella terribile esperienza, non riesco più a vedere le cose come prima. In quei cinque anni passati nell’isola degli ergastolani senza scampo, con la condanna alla "Pena di Morte Viva" sulla testa e sul cuore, torturato fisicamente e psicologicamente e trattato peggio di una bestia, capii che chi lotta contro il male usando un altro male non potrà, purtroppo, che farlo aumentare. "La penso come Gherardo Colombo: in Italia c’è troppo carcere" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 ottobre 2016 Intervista a Nicola Mazzamuto, coordinatore nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Il Coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza chiude oggi a Roma la sua assemblea generale. Dopo aver ricordato le figure di Alessandro Margara e di Luigi Daga, veri cultori di un diritto penitenziario umano e costituzionalmente orientato, l’assemblea è stata anche l’occasione per un bilancio della Legge Gozzini a trenta anni della sua approvazione. Legge spesso vituperata, a cui si attribuisce la colpa di tutti i "buonismi" ed i "lassismi", quando invece ha avuto il merito di aver reso umana la pena contribuendo alla realizzazione delle sue finalità costituzionali. In occasione dell’assemblea abbiamo intervistato Nicola Mazzamuto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Messina e coordinatore nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Presidente, a che punto siamo sui rimedi risarcitori per detenzione inumana e degradante? La sentenza Torreggiani ingiungeva all’Italia la messa a punto di un efficace sistema di tutela preventiva e compensativa dei diritti dei detenuti. E accordava priorità al rimedio che impedisce o interrompe la lesione in corso. Occorre quindi dire che il rimedio risarcitorio, al di là del suo valore simbolico e del suo modesto effetto lenitivo in termini di riduzione di pena detentiva e/o di ristoro pecuniario, interviene comunque a lesione consumata. Nella pratica giurisprudenziale non ha trovato ampia e diffusa applicazione, sia in ragione delle difficoltà interpretative della nuova normativa, che solo di recente sembrano superate, sia in ragione della oggettiva complessità degli accertamenti istruttori, sia soprattutto in ragione delle condizioni di operatività degli Uffici di sorveglianza che soffrono ataviche carenze d’organico. Che cosa si deve fare? Se sotto il profilo della riforma legislativa sempre perfettibile e delle misure penitenziarie volte alla riduzione del sovraffollamento ed al miglioramento del regime penitenziario l’Italia ha superato l’esame di Strasburgo, anche se di recente il trend penitenziario è tornato a salire, l’obiettivo di un sistema giudiziario di tutele efficienti ed effettive è ancora tutto da realizzare. Non possono non salutarsi con favore i recenti indirizzi legislativi e ministeriali finalizzati al potenziamento ed alla stabilizzazione del personale magistraturale e amministrativo della Magistratura di sorveglianza. Non è riduttivo concentrarsi solo sulla questione dei 3mq per detenuto, quando poi nelle celle si hanno i bagni alla turca? In realtà il criterio "catastale" della metratura della cella, che pure ha il pregio di essere un parametro oggettivo e misurabile, non costituisce nella giurisprudenza nazionale ed europea un indice esclusivo ed esaustivo. Il giudizio sulle condizioni (dis) umane e (non) degradanti dovrebbe integrarsi con le valutazioni inerenti la salubrità e dignità degli ambienti e, più in generale, il complessivo regime trattamentale con particolare riguardo alla tutela della salute, e alle concrete opportunità rieducative e risocializzanti. È possibile che, pur in presenza di una cella con metri quadri superiori al limite minimo, si ravvisi la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu a causa della deficienza degli altri parametri. Si segnalano spesso "tensioni" fra il magistrato di sorveglianza e il garante dei detenuti. Quale è la sua esperienza? Credo che tali rapporti andrebbero impostati fin dall’inizio in termini di mutua e leale collaborazione e di chiara distinzione dei rispettivi ambiti di competenza, visto che in mancanza di ciò è elevato il rischio di confusioni, sovrapposizioni di ruoli e funzioni, dispersioni di energie e prevedibili conflitti. Mi pare in tale ottica un buon criterio è quello che riconosce alla Magistratura di sorveglianza la garanzia giurisdizionale dei diritti e la cura dei casi concreti. Mentre al Garante riconosce la tutela "politica" di tali diritti e l’azione politico-culturale volta ad affrontare i nodi strutturali del sistema sanzionatorio e penitenziario ed al suo complessivo miglioramento, coinvolgendo istituzioni ed opinione pubblica. Dagli Opg alle Rems. A che punto siamo? L’esodo verso le Rems è stato lento, faticoso e progressivo e soltanto nei prossimi mesi si può sperare che si completi l’opera di dimissione. Nelle more si verificano situazioni di conflitto, a fronte dell’insufficienza delle Rems disponibili e del numero chiuso di quelle esistenti. Si è allora costretti a scegliere tra lasciare i ricoverati in Opg illegittimamente o in libertà in caso di misure di sicurezza provvisorie ineseguite, oppure derogare al numero chiuso e metterli nei Rems. Non è anomalo il rapporto fra detenuti in custodia cautelare e detenuti definitivi? La custodia cautelare in carcere, in un numero non infrequente di casi, non è ultima ma prima ratio. Viene utilizzata, al di là delle appropriate finalità endoprocessuali, come anticipazione di pena, anche quando sarebbe prevedibile, in fase esecutiva, la concessione di una misura alternativa. Indubbiamente tale rapporto si può configurare come una anomalia. Non si ricorre troppo spesso al carcere in Italia? Credo che un sistema sanzionatorio e penitenziario moderno, in linea con i principi costituzionali e con le direttive europee, debba realizzare l’idea della pena e della pena detentiva come extrema ratio. Concordo con i recenti scritti di Gherardo Colombo e del professor Giovanni Fiandaca: in Italia come in altri Paesi c’è troppo carcere e soprattutto troppo cattivo carcere, nonostante i recenti sforzi del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria per migliorare la situazione detentiva. Penso, inoltre, non solo in una prospettiva utopica ma riflettendo su concrete esperienze giurisprudenziali, che un tale sistema dovrebbe prevedere le pene non detentive e le misure alternative in una percentuale del 70/80% - purché ricche di contenuti rieducativi, riparativi e risocializzativi e soprattutto ben gestite con regimi prescrittivi individualizzati. Bisognerebbe riservare la costosa (in termini non solo economici) e segregante pena detentiva ai casi gravi che la meritano, puntando attraverso strategie sanzionatorie differenziate, a una lotta davvero efficace al crimine anche organizzato, alla recidiva ed alla diffusa impunità. Tortura: l’Italia non può più aspettare. Il 13 ottobre in piazza per il reato Associazione Antigone, 8 ottobre 2016 A dicembre saranno 28 anni che l’Italia aspetta l’introduzione del reato di tortura nel proprio codice penale. Tanti ne sono passati da quando il nostro Paese ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, impegnandosi ad inserire questo delitto nella propria legislazione. All’inizio di questa legislatura una proposta di legge aveva iniziato il suo iter parlamentare. Approvata al Senato nel marzo 2014, successivamente fu approvata alla Camera, all’indomani della condanna dell’Italia per le torture nella scuola Diaz da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, nell’aprile del 2015. Il testo, qui modificato, fu spedito nuovamente al Senato dove è stato affossato. Eppure in Italia non sono mancati i casi di tortura per i quali, le vittime, non hanno ricevuto giustizia. Oltre alla scuola Diaz, anche gli episodi di violenza avvenuti nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001 e le torture avvenute nel carcere di Asti nel 2004 sono attualmente all’attenzione della CEDU che, a breve, si pronuncerà su entrambi. Lo Stato italiano aveva proposto una composizione amichevole, patteggiano le torture per 45.000 a testa per ogni ricorrente, lasciando intendere quanta consapevolezza ci sia, anche da parte del governo, rispetto al fatto che quegli atti si possano qualificare come tortura. Torture per le quali, in Italia, esiste l’impunità. Perciò Antigone ha promosso il 13 ottobre, a partire dalle ore 10.00, un sit-in in Piazza Montecitorio, per chiedere al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e al Ministro della Giustizia Andrea Orlando, di farsi garanti dell’approvazione del reato di tortura. L’Italia non può più aspettare. Hanno finora aderito: A buon diritto, ACAT Italia, ACT, Amnesty International Italia, Arci, BIN Italia, Camera Penale di Roma, CILD, CIR, Cittadinanzattiva, CNVG, Associazione Federico Aldrovandi, Forum Droghe, Fondazione Franca e Franco Basaglia, Fuoriluogo, FP CGIL, Giuristi Democratici, associazione radicale Il detenuto ignoto, L’altro diritto, Magistratura Democratica, Medici contro la Tortura, Naga, Progetto Diritti, Radicali Italiani, Ristretti Orizzonti, SIPP, Società della Ragione, Unione delle Camere Penali Italiane. Giustizia minorile e Comunità d’accoglienza: la direttiva di Orlando Il Dubbio, 8 ottobre 2016 Il ministero della Giustizia mette ordine nei rapporti tra la giustizia minorile, il privato sociale e comunità di accoglienza. Il ministro Andrea Orlando ha trasmesso una direttiva trasmessa al Capo del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Francesco Cascini. L’obiettivo è quello di assicurare economicità, trasparenza ed efficienza alle attività del dipartimento, che provvederà ad esercitare un’attenta vigilanza sul rispetto delle norme introdotte dal nuovo Codice degli Appalti nell’affidamento di servizi a cooperative o altri enti analoghi, dettagliando procedure e stabilendo percorsi di standardizzazione e contenimento dei relativi costi. I collocamenti in comunità disposti dall’autorità giudiziaria, chiarisce la direttiva, nel corso di procedimenti penali, dovranno essere effettuati dai Centri di Giustizia Minorile garantendo la massima trasparenza nella scelta della struttura secondo criteri obiettivi predeterminati, derogabili solo, previa autorizzazione del Dipartimento, in casi di necessità ed urgenza adeguatamente motivati. Per ricavare informazioni sullo stato di attuazione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, anche in ambito civile ed amministrativo, per l’inserimento di minori in strutture comunitarie, il Dipartimento procederà a una ricognizione dei risultati del potere ispettivo esercitato dalle procure della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni. Parimenti, verranno assunte informazioni presso i Presidenti dei Tribunali per i Minorenni sugli esiti dell’attività di vigilanza sulle incompatibilità dei giudici onorari minorili previste dal Csm al fine di monitorare l’effettivo perseguimento degli obiettivi di trasparenza e buon andamento propri dell’amministrazione della giustizia. La direttiva ministeriale si è resa necessaria dopo una approfondita disamina della situazione in cui versa in questo momento storico il "mondo della giustizia minorile". Il ministro Orlando ha evidenziato che "il ricorso a operatori esterni dovrà essere tendenzialmente riservato alla realizzazione di specifiche attività progettuali finalizzate al recupero e al reinserimento dei minori e dei giovani adulti", invocando, consequenzialmente, la "massima trasparenza" nella esecuzione dei provvedimenti di collocamento di minori nelle comunità nell’ambito di procedimenti penali. Il Guardasigilli ha evidenziato la necessità e l’urgenza di "controlli costanti e diffusi sulla adeguatezza dei servizi di tutte le comunità prescelte dall’Autorità Giudiziaria minorile". Il frullatore delle indagini (a 25 anni da Mani pulite) di Marco Imarisio Corriere della Sera, 8 ottobre 2016 Dal caso di Marino a quello di Cota: le assoluzioni avranno come conseguenza solo scuse retrodatate ma il danno personale e politico rimane. L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e l’ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota appartengono ormai al passato. Nel frullatore sempre acceso della nostra politica non c’è tempo per voltarsi indietro. Le assoluzioni dei due amministratori per le cosiddette spese pazze con i soldi dei contribuenti avranno come unica conseguenza soltanto scuse retrodatate, spesso ipocrite come le frasi fatte sulla restituzione dell’onore ai diretti interessati. Il danno che hanno subìto a livello personale e politico rimane. Le cinquantasei cene del "marziano" salito al Campidoglio e le mutande verdi del leghista devoto a Umberto Bossi non sono state la causa principale della loro caduta. Il primo fu costretto a dimettersi perché il Pd, il suo partito, organizzò una raccolta di firme tra i consiglieri comunali per sfiduciarlo. Cota fu destituito da una sentenza del Tar per una vicenda di firme false che fin dall’inizio gravò sulla sua legislatura. Ma l’azione della magistratura venne usata dai loro avversari politici per accompagnare l’azione di delegittimazione dei due amministratori, per demolirli anche come persone additando all’elettorato la loro indegnità morale. La differenza tra l’eco mediatico prodotto dalle accuse e il verdetto finale non è prerogativa solo di queste due vicende. Forse le 116 richieste di archiviazione per politici, imprenditori e funzionari pubblici indagati per Mafia Capitale non tolgono nulla all’inchiesta e alla sua ragion d’essere, ma giustificano le recriminazioni comunque vane di chi ha visto andare in fumo la propria carriera o ha dovuto rinunciare alle sue ambizioni elettorali, come denunciato da alcuni esponenti della destra romana. Nel 2014 il presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani si dimise dopo una condanna per falso ideologico. Alla sua successione si candidarono Matteo Richetti e Stefano Bonaccini, che pochi giorni dopo vennero indagati per le spese del gruppo consiliare della Regione. Il primo si ritirò dalle primarie, il secondo rimase e gli andò bene, perché la sua posizione venne subito archiviata. Errani e Richetti sono stati assolti quest’anno. L’ex governatore è stato nominato commissario per la ricostruzione nelle aree colpite dal terremoto del 24 agosto. I suoi detrattori ancora gli rinfacciano quelle accuse cadute nel vuoto, perché non sempre l’assoluzione porta via anche la maldicenza e il pregiudizio, almeno dalle nostre parti. Marino era ritenuto non adatto al ruolo, isolato, autoreferenziale. Ma onesto. Le cene pagate con la carta di credito del Comune fecero cadere l’ultimo bastione. "Mente anche sugli scontrini", dissero esponenti del Pd romano e nazionale sull’allora sindaco della Capitale. Le loro odierne professioni di garantismo, che in Italia viene sempre esercitato a giorni alterni e in base alle proprie appartenenze, sono un corollario penoso a una vicenda già triste di suo. Nel biennio 2012-2014 i dettagli sulle presunte spese pazze degli amministratori locali riempirono le pagine dei nostri giornali. Ovunque sono arrivate molte condanne e quasi altrettante assoluzioni. Può essere un segno del fatto che i giudici non hanno ceduto a un facile giustizialismo moralistico, distinguendo le responsabilità individuali tra dolo ed errori di vario tipo. Ma intanto, Cota, come Marino e con lui molti altri, sono stati umiliati e ridicolizzati a mezzo stampa. E infine messi da parte. Le mutande verdi divennero il simbolo dell’ingordigia dei consiglieri regionali, la più vituperata delle nostre classi dirigenti, spesso con solidi argomenti. In queste settimane di campagna referendaria sono state spesso citate da Matteo Renzi, l’ultima volta proprio ieri mattina dai microfoni di Radio anch’io. In questi anni è stato comunque in buona compagnia. Da destra a sinistra, passando per i nemici interni della Lega, lo hanno fatto tutti. Il ricorso continuo a quell’indumento intimo in attesa di giudizio come il suo proprietario è un altro indizio della subalternità della nostra classe dirigente a un immaginario di derivazione giudiziaria. Così come l’uso strumentale delle inchieste per affossare gli avversari dimostra come la politica italiana sia ancora succube della magistratura. A quasi 25 anni da Tangentopoli. Palamara: "Un giudice può sbagliare, ma i partiti non utilizzino le inchieste per fini propri" di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 8 ottobre 2016 Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati e ora membro togato del Consiglio superiore della magistratura, invita alla cautela: "È interesse della politica che i fatti vengano accertati: non si può chiedere a un magistrato di non vedere" Ma è adesso che le polemiche divampano. Come risponde? "È la normale dialettica del processo. Proprio chi riprende queste sterili polemiche dovrebbe sentirsi rassicurato dal fatto che il giudice può vederla in modo diverso dal pm". La politica lamenta di essere troppo spesso azzoppata dalle inchieste. "È interesse della politica che i fatti vengano accertati. Non si può chiedere a un magistrato di far finta di non vedere, significherebbe aver paura. Poi, certo, ognuno ha il suo ruolo". Cosa intende? "Il compito del giudice è accertare se il fatto costituisce reato, quello della politica è valutare se quel fatto è moralmente scorretto e se il soggetto è in grado di ricoprire una carica pubblica. Non sta alla magistratura selezionare la classe dirigente". Ma chi è sotto indagine spesso "salta". E quindi, lamentano alcuni, indirettamente ciò avviene. "Questo è il grande equivoco che ritorna, da Tangentopoli in poi. Non è stata la magistratura a togliere l’immunità parlamentare". Vuole dire che sarebbe stato meglio lasciarla? "Non sta a me dirlo. È stata una scelta della politica. Togliendo l’immunità le regole del processo valgono per i politici come per qualunque altro cittadino, che il reato sia un furto, una tangente o un rimborso non dovuto". La politica accusa: i pm sbagliano e nessuno li controlla. "Non è così. Non dico che l’errore non ci sia. Ma il sistema consente di riparare. Con gli ordinari mezzi di impugnazione nel processo. E con le valutazioni del Csm che può riscontrare elementi di scarsa professionalità. Si obietterà che sono spesso positive, ma i sistemi si stanno affinando". Da pm della Procura di Roma, pensa che Marino abbia avuto un’attenzione particolare? "Ho rispetto per la decisione emessa. Penso, comunque, che la Procura di Roma si sia dimostrata un punto di riferimento per tanti uffici giudiziari su indagini di questo tipo". A far cadere l’ex sindaco è stato il Pd: crede che la politica usi i magistrati per regolare i suoi conti interni? "Può accadere. Per questo invito i magistrati a rimanere nel proprio ambito. Ma anche la politica a non usare le inchieste a propri fini". Sta tornando un clima teso tra politica e magistratura, come quando al governo c’era Berlusconi? "Non bisogna rimanere prigionieri del passato. Ogni fase politica ha sue peculiarità. Dobbiamo liberarci da un’idea nella quale magistratura e politica sono perennemente in conflitto". Ma sugli organici e la riforma della prescrizione un conflitto c’è. "C’è bisogno di provvedimenti immediati che diano efficienza. Quanto alle riforma della prescrizione, la mia idea è che la sentenza di primo grado possa interromperla. Ma discuterne è positivo. Prima si parlava solo di blocca-processi". Violante: "Basta con la subalternità della politica ai magistrati" di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 8 ottobre 2016 Secondo l’ex presidente della Camera, è la mancanza di autonomia, insieme agli eccessi dei mezzi di comunicazione, che finisce per rovinare reputazioni e influire negativamente sulla vita pubblica. Il problema, per Luciano Violante, magistrato ed ex presidente della Camera, è soprattutto la subalternità della politica e della società civile alla magistratura. È questa mancanza di autonomia, insieme agli eccessi dei mezzi di comunicazione, che finisce per rovinare reputazioni e influire negativamente sulla vita pubblica. Per Mafia Capitale sono state chieste 116 archiviazioni dalla Procura. Non fa un po’ impressione? "Occorre freddezza e senso di responsabilità. Anche perché su quelle richieste dovrà decidere il giudice. E se poi decidesse di respingere in tutto o in parte le richieste?". Certo, potrebbe accadere. "Perciò occorre freddezza e senso di responsabilità. Anche da parte dei mezzi di comunicazione". Tutta colpa della stampa? "Questo mantra non mi convince. I mezzi di comunicazione formano l’opinione dei cittadini, funzione essenziale nella democrazia, ma proprio per questo non irresponsabile. Colpisce lo spazio che i media hanno dato all’inchiesta sull’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati e poi le poche righe destinate alla sua assoluzione. Sulla base di indagini non definitive, si distrugge la dignità delle persone e anche quella del Paese. C’è una grande responsabilità della politica che non è capace di regolare e di porre un limite ai propri conflitti. Il costume della denigrazione diventa così costume dell’autodenigrazione". Non c’è anche una responsabilità della magistratura? "La magistratura ha avviato le indagini e la magistratura ha chiesto l’archiviazione. Io credo che stiamo assistendo alla sconfitta di quella che ho chiamato la "società giudiziaria", una società di mezzo tra quella civile e politica, che comprende cittadini comuni, politici, mezzi di comunicazione e settori della magistratura. E che si basa sull’idea di fondo che la magistratura sia il grande tutore della vita pubblica. C’è una pericolosa subalternità della politica alla giustizia e insieme una furbesca utilizzazione della magistratura per attivare i conflitti interni al mondo politico". Serve più garantismo? "Non parlo di garantismo, ma di legalità e di rigore nella valutazione dei fatti. Il conflitto politico privo di regole condanna alla gogna l’intero Paese. Deve sempre avere un confine. Se ne stanno rendendo conto anche i 5 Stelle". Parla del caso dell’assessore romano Muraro, indagata? "Sì. Può essere un passaggio che serve alla maturazione di quel partito". Però anche la magistratura può sbagliare e distruggere reputazioni. "La magistratura non è il quinto evangelista. Magistratura è quella che ha mandato a processo Penati, magistratura è quella che lo ha assolto. Il punto è che non si può dare lo stesso peso all’avvio di un processo giudiziario e al finale". Marino vorrebbe le scuse del Pd. "La storia delle scuse mi interessa poco. Lo scusantismo è un’altra faccia della stessa malattia. Ilaria Capua e tanti altri casi ci dicono che bisogna mantenersi pacati e stare attenti a non distruggere reputazioni. Ora, in Mafia Capitale ci sono le richieste di archiviazione: domani il giudice potrebbe respingerle. Prendiamola bassa, come si dice da noi". Cuneo: detenuto di 47 anni muore suicida, la protesta dei sinti davanti al carcere La Stampa, 8 ottobre 2016 Si è tolto la vita ieri pomeriggio (7 ottobre) nel carcere Cerialdo di Cuneo, Luciano Botta, 47 anni, di origine sinti. L’uomo era stato arrestato alcuni giorni fa dai carabinieri con l’accusa di aver rubato un compressore esposto davanti alla vetrina di un negozio di ferramenta. La traduzione in carcere era stata decisa poiché l’uomo aveva commesso il reato mentre era già sottoposto all’obbligo di dimora a Busca, città di residenza, in seguito a un precedente furto. Alla notizia della morte un centinaio di sinti si sono radunati davanti al penitenziario cuneese per chiedere spiegazioni sulla vicenda. Taranto: detenuto morì dopo ricovero in ospedale, la famiglia chiede indagini e giustizia di Francesca Pastore Quotidiano di Puglia, 8 ottobre 2016 La famiglia di Cesario Antonio Fiordiso si oppone all’archiviazione e chiede che vangano effettuate indagini per spiegare la morte del ragazzo, trasportato in gravi condizioni dal carcere in ospedale e poi deceduto. "Giustizia per Antonio, la chiediamo allo Stato. Da chi ha portato via per sempre il sorriso di un ragazzo di soli 31 anni". Parole dure perché nutrite dal dolore e dalla rabbia, quelle dei familiari di Cesario Antonio Fiordiso, di San Cesario, morto l’8 dicembre del 2015 nell’ospedale di Taranto, dove fu trasferito dal carcere della stessa città. Al San Giuseppe Moscati, l’uomo è arrivato in condizioni gravissime, perché affetto da "stato settico con interessamento multiorgano, polmonite a focolai multipli, grave disidratazione con insufficienza renale acuta, adenoma ipofisario". Il 9 dicembre, i familiari hanno depositato in Procura la denuncia-querela con cui gli avvocati Paolo Vinci e Pantaleo Cannoletta chiedevano la punizione di "chiunque dovesse risultare responsabile della morte di Cesario Antonio". I familiari vogliono "vederci chiaro, vogliamo che sia fatta luce sulla morte di mio nipote - racconta - zia Oriana Fiordiso anche per conto del papà del ragazzo - sballottolato da un carcere all’altro, da un ospedale all’altro, come un sacco di patate. Antonio stava benissimo, cosa è accaduto veramente negli ultimi due mesi? Pretendiamo che la giustizia faccia il suo corso". Proprio oggi si svolgerà l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione dinanzi al Gip del Tribunale Penale di Taranto. Una vicenda nota perché oggetto di un incontro proprio nel Comune di San Cesario e anche per le interrogazioni parlamentari ai ministri della Giustizia e della Salute, a cura di Salvatore Capone ed Elisa Mariano, deputati pugliesi Pd, componenti della commissione Affari sociali della Camera. L’avvocato Paolo Vinci, del Foro di Milano, attende che il Gip di Taranto provveda a rimettere in corsa le indagini: "Raccapricciante il fatto che non sia stata mai disposta l’autopsia". I legali Cannoletta e Vinci chiedono di verificare due circostanze: "La natura dei lividi riscontrati sul corpo del ragazzo e indagini difensive che avrebbero fatto emergere la possibilità che sia stato picchiato da un gruppo di rumeni mentre era detenuto a Lecce e le condizioni in cui Fiordisio giunse in ospedale, i medici lo trovarono denutrito, disidratato, con una infezione che aveva colpito diversi organi, polmonite, insufficienza renale ed altro". Taranto: caso Fiordiso, tutto da rifare. "Indagini lacunose" di Marilù Mastrogiovanni Il Manifesto, 8 ottobre 2016 Antonio Fiordiso è morto in carcere l’8 dicembre 2015 e ancora oggi dopo quasi un anno di indagini non si sa perché. L’indagine è stata lacunosa e inesistente. Tutto da rifare, perché si possa stabilire "la causa o le cause" che l’hanno ridotto al simulacro di un essere umano nel carcere di Taranto. Pompeo Carriere, giudice per le indagini preliminari della Procura del capoluogo ionico ha accolto la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio, che si era opposta alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm Lelio Festa, che aveva evidenziato una "insussistenza di profili di responsabilità penale" nella condotta del personale sanitario e della sorveglianza coinvolti. Scrive il giudice Carriere che il pm "avrebbe dovuto disporre la riesumazione della salma e un esame autoptico urgente", come aveva chiesto, inascoltata, la zia nella sua denuncia all’indomani della morte del nipote. Il gip ha disposto dunque non solo l’esame autoptico da effettuarsi ma anche, nel caso l’autopsia sia ormai impraticabile, una perizia medico-legale "di scienza" che accerti le cause della morte; ha disposto che vengano sentiti i detenuti, il personale penitenziario e il personale dell’ospedale SS. Annunziata e Moscati di Taranto, dove fu ricoverato Antonio, ormai quasi incosciente, disidratato e denutrito. "È uno di quei momenti in cui si è fieri di essere avvocato - dice Paolo Vinci, tra i massimi esperti in Italia di malasanità, che con Pantaleo Cannoletta difende Oriana Fiordiso. Il gip ha accolto ogni mia richiesta, azzerando quella del pm Festa e la sua indagine lacunosa e inesistente. Gli ha ordinato autopsia e perizia medico-legale, oltre a sentire testimonianze mai effettuate. Occorre chiarire le cause della morte di Antonio e capire chi, probabilmente col suo comportamento colposo, lo ha ucciso. Ora siamo sulla via maestra". Che ci sia tanto di non scritto sulla morte di Antonio Fiordiso lo capiamo leggendo la cartella clinica e vedendo le foto e i video che Oriana ha avuto la prontezza di girare poco prima che Antonio spirasse: il corpo ridotto a uno scheletro, contratto, ematomi diffusi ed escoriazioni. Sulle costole e sui fianchi strisce di lividi lunghi e larghi circa tre centimetri. Le mani contratte, il corpo rigido e contorto. Dopo la denuncia del manifesto, Elisa Mariano (Pd) e Salvatore Capone (Pd), deputati salentini, hanno presentato un’interrogazione a risposta scritta, in cui chiedono di sapere come sia stato possibile che un ragazzo che godeva di ottima salute sia potuto morire in tre mesi e ridursi a un fantasma tumefatto. La risposta del ministro della Giustizia ricostruisce cronologicamente i ricoveri e le dimissioni dai vari ospedali e i tanti spostamenti tra gli istituti penitenziari di Lecce, Taranto e Asti. Si apprende così che Antonio, poco prima del ricovero che lo farà precipitare nell’abisso, era stato picchiato in carcere da un gruppo di rumeni e ricoverato al pronto soccorso. Uscito dal pronto soccorso, inizia ad avere atteggiamenti aggressivi e autolesionistici, tanto da essere sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio presso l’ospedale Vito Fazzi di Lecce. È l’inizio della fine: viene trasferito al carcere di Asti per oltre un mese e la zia Oriana perde le sue tracce: lo saprà solo dopo, nessuno le comunica il trasferimento. Poi di nuovo torna a Lecce, poi a Taranto, dove morirà. Antonio aveva 32 anni ed era un povero ragazzo sfortunato. Buono e sfortunato. Abbandonato dalla madre, era vissuto con la nonna perché il padre entrava e usciva dalla galera e aveva problemi psichiatrici. Anche Antonio, con quel fardello di vita sulle spalle, era sottoposto a cure psichiatriche e faceva piccoli furti. Non aveva mai assunto droghe pesante e c’è chi, nel suo paese d’origine, San Cesario, un bel centro barocco alle porte di Lecce, lo ricorda con simpatia, perché rubava dalle casse dei tabacchini e poi il giorno dopo restituiva il "di più", cioè quello che non gli serviva. Sfortunato e infelice, ma godeva di ottima salute. Eppure in soli tre mesi le cartelle cliniche dicono che s’era ridotto così: "Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica", e apprende che versava in uno stato di "progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale". Le nuove indagini stabiliranno il perché? Genova: Marassi è diventato un lazzaretto sovraffollato, la denuncia del sindacato Uil-Pa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2016 Zecche nelle celle detentive ed escrementi di topi e piccioni nei posti di lavoro della polizia penitenziaria. È la fotografia attuale del carcere genovese di Marassi dove si aggiunge anche il grave problema del sovraffollamento, 701 detenuti su 541 posti disponibili. "Non ho commenti da aggiungere - denuncia Fabio Pagani, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Uilpa - se non auspicare che le competenti autorità sanitarie ed amministrative facciano piena luce sull’accaduto e decidano di individuare eventuali responsabilità. Per tanto il minimo che possiamo attenderci dopo questa pubblica denuncia è che tali episodi non abbiano più a ripetersi". Prosegue sempre il sindacalista: "Sarà anche vero, come è ben noto, che il sistema penitenziario italiano è oberato da una serie di criticità che ne minano l’efficienza, ed è certo che l’impegno del ministro della Giustizia, dell’Amministrazione penitenziaria e del sindacato sta contribuendo a riportare nei parametri richiesti dalla Cedu la situazione della vivibilità penitenziaria. Ma, come da tempo ripetiamo, molto, ma proprio molto, occorre ancora fare per stimolare molti dirigenti periferici a gestire con oculatezza, responsabilità e competenza anche le minime questioni per cui non serve essere ne grandi giuristi ne impeccabili manager". Pagani infine conclude: "Quello che abbiamo documentato a Genova Marassi è scandaloso ed è testimonianza di una superficialità che va immediatamente corretta". Il carcere Marassi presenta anche altri problemi non dissimili agli altri istituti penitenziari. Oltre alla mancanza del garante dei detenuti, tra i 701 detenuti ci sono decine di ristretti effetti da patologie psichiatriche, sieropositivi, disabili e senza fissa dimora. Un vero e proprio "carcere-lazzaretto", contenitore di soggetti che dovrebbero essere altrove. A proposito di detenuti psichiatrici, in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che si celebra in tutto il mondo lunedì 10 ottobre, gli esperti lanciano l’allarme sulla gestione dei disturbi mentali nelle carceri italiane e indicano la strada per permettere ai detenuti di avere le stesse opportunità di cura e di assistenza di cui godono i pazienti al di fuori dei penitenziari. Per questo motivo è stato lanciato il progetto "Insieme - La salute mentale in carcere": l’iniziativa è promossa dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, dalla Società Italiana di Psichiatria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze. Il progetto individua così un nuovo percorso diagnostico terapeutico assistenziale, si propone di integrare le diverse figure professionali che lavorano all’interno delle prigioni e di assicurare una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Il panorama delle malattie mentali nelle carceri italiane è molto variegato, con una prevalenza nettamente più alta rispetto a quella che si registra nella popolazione generale. Se fuori dal carcere, ad esempio, i disturbi psicotici si riscontrano nell’1% delle persone, dietro le sbarre la percentuale sale al 4%. Più alti sono anche i numeri della depressione: nei detenuti la prevalenza si attesta intorno al 10% contro il 2-4% della popolazione generale. Inoltre più della metà dei reclusi, il 65%, convive con un disturbo della personalità, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). Al disagio mentale, infine, si sommano spesso i disturbi da sostanze stupefacenti, che tra i detenuti hanno una frequenza 12 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale (48% contro 4%). L’isolamento e la mancanza di contatti verso l’esterno possono favorire la comparsa o l’aggravarsi delle malattie mentali, finendo per alimentare il "circolo vizioso della sofferenza psichica". Asti: la direzione del carcere interviene sul progetto teatrale con i detenuti Comunicato stampa, 8 ottobre 2016 Questa Direzione, per onestà intellettuale e amor di verità reputa doveroso precisare la notizia, pubblicata su La Stampa del 5 ottobre 2016, nella quale si annuncia un progetto nel quale, attraverso un laboratorio teatrale, le persone detenute mettano in scena i reati commessi. In realtà per la popolazione detenuta è previsto un corso di teatro che ha obiettivi educativi che, ovviamente, indirettamente coinvolgono i fatti di reato ma si concentrano sulla persona nel suo complesso e sul suo agire presente e futuro. Il progetto che la Casa di Reclusione di Asti sta inaugurando in questi giorni, è di altra natura: l’istituto ha cambiato destinazione dalla primavera del 2015. Il compito affidato richiede quindi un cambiamento che il personale della casa di reclusione di Asti, insieme agli interlocutori della sensibile comunità locale, ha deciso di affrontare innanzitutto attraverso la propria istruzione e crescita professionale. Tutti insieme ci siamo seduti intorno ad un tavolo e con unùltà e spirito critico abbiamo definito le carenze e i bisogni da colmare per offrire alla cittadinanza un servizio di qualità. Operare per la sicurezza, per gli operatori penitenziari, significa essere dei qualificati professionisti nella gestione del proprio mandato istituzionale e quindi nella presa in carico delle persone detenute affidate. Uno dei temi emersi è quello della mediazione del conflitto, della conversione del conflitto in una occasione di crescita e eli trasformazione della relazione con l’Altro. L’istituzione penitenziaria, attraverso i suoi operatori, vuole costituire il luogo in cui le esistenze vengono limitate e compresse e nel quale quindi U conflitto è un dato di contesto, ma nel quale si respiri il significato della responsabilità e della serietà dell’agire onesto. Esempio che il carcere può e deve trasmettere attraverso la qualità del lavoro che svolge. Tra le docenze offerte al personale della casa di reclusione anche il "teatro del conflitto": una tecnica di apprendimento attraverso la rappresentazione teatrale di situazioni di criticità o di conflitto. Il progetto, finanziato dalla Fondazione della Compagnia di San Paolo merita attenzione e plauso perché, rivolto a tutto il personale dell’Istituto penitenziario ed ai suoi stabili collaboratori esterni (insegnanti, medici e infermieri, formatori e volontari), investe sulla vera risorsa per la sicurezza che il carcere contiene e cioè sulle persone che ogni giorno vi operano e la cui qualità costituisce la qualità dei percorsi di reinserimento sociale per cui la collettività investe ingenti e spesso incomprese risorse pubbliche. Il 5 ottobre 2016, ha avuto luogo nella sala Pastrone del Teatro Alfieri di Asti la prima lezione, questa aperta al pubblico, del primo modulo del corso attirando e coinvolgendo la comunità locale nella condivisione dei temi della giustizia ripartiva e della mediazione penale così come avverrà negli altri tre incontri programmati e di cui si allega il programma. Il tema è tecnico, specifico, e di difficile comprensione per chi non conosce da vicino il mondo carcere e non ha la possibilità di comprendere la preziosità e il coraggio di una scelta di profondo cambiamento e la disponibilità a percorrerla mettendo in discussione il proprio modo di operare scardinando abitudini e prassi, ricercando le proprie tradizioni positive e volgendo lo sguardo al nuovo con fiducia, speranza, onesto spirito di servizio e la convinzione che in ciascuno di noi si debbano e si possano trovare le capacità necessarie a compiere il proprio dovere senza addossare ad altri le responsabilità o attendere perpetuamente che altri risolvano i nostri problemi. Il Direttore, Elena Lombardi Vallauri Sondrio: la Commissione regionale per le carceri in visita all’Istituto penitenziario Il Giorno, 8 ottobre 2016 Il Movimento 5 Stelle ha chiesto e ottenuto che la Commissione visitasse l’Istituto penitenziario. La Commissione regionale carceri visiterà la Casa circondariale di via Caimi dopo i problemi riscontrati in queste settimane, con i detenuti che hanno dichiarato lo sciopero della fame e della sete contro la direttrice, poi revocato. "Il Movimento 5 Stelle, sempre attento alle persone in difficoltà, ha preso atto dei problemi conseguenti alle dimissioni del Garante dei detenuti Francesco Racchetti - afferma il portavoce Matteo Barberi -. Ritenendo indispensabile che la Commissione carceri della Regione debba far luce sulle ragioni che hanno portato il garante a rassegnare le dimissioni abbiamo richiesto attraverso il consigliere regionale Paola Macchi una visita, della commissione stessa, all’istituto penitenziario di Sondrio ottenendone la programmazione per il 17 ottobre prossimo. Abbiamo anche fatto specifica richiesta perché all’incontro sia presente anche l’ex garante in modo da poter avere una visione a 360 gradi dei problemi. Apprendiamo oggi che è stata convocata una commissione consigliare comunale per giovedì 13 ottobre per ascoltare le voci di associazioni in merito alla questione. Riteniamo che tale situazione sia stata sottovalutata da parte dell’Amministrazione comunale, pertanto deve intervenire con decisone per ripristinare il Garante e garantire i diritti dei detenuti". Bergamo: detenuti al lavoro tra farina e lievito, così anche il carcere diventa più dolce di Jessica Signorile Il Giorno, 8 ottobre 2016 Un passato con una condanna per concorso in omicidio da lasciarsi alle spalle e, nelle sue mani, un futuro tutto da costruire. Per oltre un anno Ivan (nome di fantasia) ha messo le "mani in pasta" nel laboratorio di pasticceria artigianale del carcere di Bergamo e, tra pane, pizze e biscotti, si è messo in gioco, ha scommesso su se stesso ed è riuscito a diventare una persona diversa. Quando per la prima volta è entrato nel laboratorio della casa circondariale di via Gleno sognava di imparare a fare la pizza per aprire un giorno un ristorante tutto suo. Quel sogno, nonostante il buio della colpa, ha avuto il coraggio di non abbandonarlo e oggi continua a inseguirlo, fuori carcere, grazie al percorso formativo intrapreso dentro l’istituto di pena. Con il sostegno del progetto "Dolci Sogni Liberi" Ivan sta scontando la sua condanna residua in regime di affidamento ai servizi sociali e lavora nella cucina di una mensa di una comunità dove sforna pane, pizze e torte. "L’obiettivo è formare questi ragazzi mentre scontano la loro pena in carcere per dare loro la possibilità di scoprire abilità che magari non pensavano nemmeno di avere e che possono tornare utili una volta usciti", spiega la dottoressa Rosalucia Tramontano, Presidente della Cooperativa Calimero e responsabile del progetto che dal 2013 si occupa di formare all’arte bianca i detenuti e di avviarli a percorsi professionali esterni. "Capire che possono fare qualcosa per gli altri li stimola a comportarsi meglio e a non ricadere nelle maglie della criminalità una volta usciti dal carcere. Con questo percorso i ragazzi imparano a rivalutare se stessi e ad acquisire consapevolezza del loro valore", aggiunge la presidente. Tra i detenuti che si sono riscattati grazie all’opportunità del lavoro nel laboratorio del carcere c’è anche Michele, un giovane straniero poco più che ventenne, padre di famiglia, anche lui autore di un reato di sangue grave con una condanna con cui fare i conti. Michele ha ricominciato da capo e si è rimesso in gioco, aggrappandosi a quella possibilità che poteva diventare il suo futuro e che oggi, ormai fuori dal carcere, lo ha portato a essere un vero professionista che ogni giorno impasta e inforna in un panificio della bergamasca. Il lavoro nel laboratorio della casa circondariale è retribuito e i detenuti si alternano su due turni dal lunedì al sabato: il loro inquadramento prevede prima un tirocinio e in seguito l’assunzione sotto la cooperativa. Attualmente il laboratorio conta cinque detenuti panificatori, quattro italiani e un cittadino straniero, tutti alle prese con la loro condanna, per droga, maltrattamenti in famiglia o omicidio, e con una grande voglia di riscattarsi e ricominciare, seguendo una nuova "ricetta" per la loro vita. Varese: "La citta ideale vista dal carcere", il convegno si è svolto ieri mattina di Valentina Fumagalli La Provincia di Varese, 8 ottobre 2016 "I Miogni sono una realtà talmente piccola e collocata nel centro città, che dovrebbero avere una maggiore considerazione da parte della collettività". "La citta ideale vista dal carcere" è il titolo del convegno che si è svolto ieri mattina al Cpia di Varese, organizzato con Universauser nell’ambito del Festival dell’Utopia. Un’analisi sulle condizioni carcerarie e il rapporto con la città, fatta dal direttore della casa circondariale di Varese il dottor Gianfranco Mongelli, dalla responsabile UEPE la dottoressa Stefania Scarpinato, dal professor Giovanni Bandi e dalla presidente dell’associazione "Nessuno Tocchi Caino" Rita Bernardini, a cui hanno partecipato gli studenti del Liceo Artistico Frattini e dell’Isis Newton. In realtà quello che è emerso, è che non c’è alcun rapporto tra i Miogni e Varese e tra i detenuti e i varesini, se non in minima parte e grazie al prezioso lavoro svolto dalle associazioni che operano all’interno della struttura circondariale. "E questo è un peccato - spiega Rita Bernardini che ieri ha visitato la struttura carceraria varesina. I Miogni sono una realtà talmente piccola e collocata nel centro città, che dovrebbero avere una maggiore considerazione da parte della collettività. Il carcere dovrebbe essere più aperto e dialogante con le istituzioni locali e il centro produttivo della città, anche perché i detenuti usciranno tra pochi anni e serve che siano reinseriti nel migliore dei modi". Maggiore considerazione anche in rapporto alle condizioni strutturali della casa circondariale, "che sono indegne - sottolinea la presidentessa di Nessuno Tocchi Caino -. La struttura è fatiscente e nonostante siano stati fatti dei piccoli lavori di ristrutturazione, il grosso è ancora da fare. Basti considerare che le celle non hanno la doccia e nemmeno l’acqua calda, hanno il bagno alla turca adiacente al cucinino e al lavandino. Una cosa pietosa dal punto di vista igienico sanitario". Anche sulle condizioni di detenzione ci sarebbe, secondo Rita Bernardini, tanto da dire. "I detenuti non hanno niente da fare. Solo in minima parte hanno possibilità di studiare e lavorare e per cui il carcere, così, diviene un luogo in cui non c’è alcun recupero o possibilità di reinserimento sociale". Le celle dei Miogni in realtà sono aperte 12 ore, "ma i detenuti non hanno possibilità di impiegare le ore libere, possono solo girare nel ballatoio su cui danno le celle. Una sorta di balcone che gira intorno al piano centrale circondato da una rete di sicurezza". Il ritratto della nostra casa circondariale non è proprio degno di un paese civile. "Si vede che è fatiscente - aggiunge - e spero che i soldi stanziati per la riqualificazione siano effettivamente impegnati". I fondi sono quelli che il Governo dovrebbe stanziare dai bilanci del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e che l’onorevole Maria Chiara Gadda aveva annunciato essere in arrivo. "Intanto ho informato i detenuti che il 6 novembre a Roma faremo una marcia per l’amnistia in onore di Marco Pannella e Papa Francesco. Le adesioni possono avvenire anche dalle carceri, con il digiuno che cominceremo il 5 novembre e termineremo il 6 con la fine della marcia". Pistoia: nel carcere un’oasi verde per incontrare i figli di Valentina Vettori Il Tirreno, 8 ottobre 2016 Inaugurato lo spazio interno realizzato dai detenuti del Santa Caterina. Un albero dalla folta chioma e panchine dove potersi sedere a parlare, aiuole ben curate, un cavallino a molla e un dondolo su cui far giocare i bambini. "Oltre la corte" è la piccola oasi verde, inaugurata ieri alla presenza di autorità e istituzioni cittadine, nel cuore del Santa Caterina, la casa circondariale di Pistoia che si affaccia sulla Brana. Uno spazio realizzato dai detenuti per i detenuti stessi e i loro familiari, dove i bambini potranno incontrare i genitori in uno spazio all’aperto. E dove potranno giocare e trascorrere momenti di serenità. Quella normalità del quotidiano che spesso si vedono negata. Ci sono voluti oltre due anni, ma il lavoro di riqualificazione della corte interna della casa circondariale di via dei Macelli ora è realtà. Il progetto, nato nel 2014 per volontà di Legambiente Pistoia, è stato realizzato grazie al contributo della Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia: valore complessivo di 13mila euro, pari al 50% del totale. I restanti 13mila euro sono stati finanziati da Cassa edile, Fondazione Un raggio di luce, Fondazione Giovanni Michelucci e associazione Ortoxorto, mentre la Fondazione Giorgio Tesi ha donato tutti gli arredi a verde. Un giardino, costruito grazie alla manodopera dei detenuti, che si aggiunge alle opere di riqualificazione del Santa Caterina già realizzate con l’arrivo del direttore del carcere Tazio Bianchi (biblioteca e teatro). Il progetto è stato affidato agli architetti Roberto Agnoletti e Nicoletta Boccardi che, in collaborazione con una ventina di detenuti del Santa Caterina, hanno immaginato un luogo nuovo che riportasse vita e sprazzi di quotidianità nel carcere, soprattutto nei momenti in cui i detenuti incontrano i familiari e i propri figli. I lavori sono cominciati nel 2014, ma hanno subito un arresto dopo la tempesta di vento del 5 marzo 2015, l’evento calamitoso in cui anche il tetto del carcere riportò ingenti danni (i lavori di ripristino partiranno a breve). "Oltre la corte - spiega Antonio Sessa, presidente di Legambiente Pistoia - nasce dopo le prime esperienze portate avanti con i detenuti del carcere. Nel 2014 avviammo un laboratorio ludico dedicato ai figli dei detenuti, con attività di riciclo dei materiali. Nel 2015, invece, coinvolgemmo i detenuti nel progetto "Puliamo il mondo" a Spedaletto, per poi avviare la raccolta differenziata all’interno del carcere. Piccole cose che però hanno un alto valore simbolico e che donano quotidianità ai detenuti". Il giardino è stato benedetto da padre Alfredo Maria Paladini, cappellano del carcere, e dopo l’inaugurazione è stata anche mostrata la nuova area esterna della mensa, riqualificata grazie al lavoro di tre detenuti. Palermo: i detenuti realizzano uno sgabello per Papa Francesco Adnkronos, 8 ottobre 2016 Uno sgabello realizzato dai detenuti del carcere Ucciardone di Palermo e decorato con le immagini simboliche del capoluogo siciliano: le quattro sante protettrici, la Cattedrale, lo stemma della città. ‘Ucciò, questo è il nome dello sgabello, sarà donato al Papa, in occasione del "Giubileo dei carcerati" e consegnato da una delegazione di detenuti. Ma, nel frattempo, è esposto al Palazzo Arcivescovile per "Le Vie dei Tesori", la manifestazione a cui partecipa anche il Museo diocesano. ‘Ucciò è stato realizzato da alcuni detenuti del laboratorio artistico artigianale del Cpia Palermo 1, diretto da Vincenzo Merlo: si rifà agli sgabelli che arredano le celle ed è un simbolo del percorso di redenzione svolto dai carcerati attraverso la riflessione, lo studio e il lavoro di recupero che vede impegnati tutti gli operatori della casa di reclusione Ucciardone. Lo sgabello, realizzato recuperando arredi dismessi, è stato decorato con immagini simboliche legate alla città, sull’esempio dell’antica arte dei carretti siciliani e dei dipinti su vetro degli ex-voto: le sante dei Quattro Canti, Santa Rosalia, il Cristo della Cattedrale di Cefalù, la Cattedrale di Palermo, lo scontro tra il Bene e il Male (un duello tra pupi siciliani), lo stemma di Papa Francesco, l’aquila della città, la pianta originaria del carcere e le colombe della Pace. All’interno è riportato anche uno scritto sulla Misericordia. Gli autori di questo sgabello sono Giuseppe Di Natale e Salvatore Rotolo, ma i detenuti hanno realizzato altri venti sedili, uno dei quali, decorato con immagini iconografiche di Santa Rosalia, è stato offerto a giugno all’arcivescovo Corrado Lorefice in occasione della partita di calcio sacerdoti-detenuti. È anche allo studio un progetto finalizzato a trasformare l’attività del laboratorio artistico, in un vero e proprio lavoro per i detenuti. Genova: teatro-carcere, inaugurata la Terza rassegna "Destini Incrociati" liguriaoggi.it, 8 ottobre 2016 Si è svolta stamattina al Teatro dell’Arca, situato dentro la Casa Circondariale di Genova Marassi, la conferenza stampa di presentazione della terza rassegna nazionale di teatro in carcere "Destini incrociati", che si svolgerà a Genova dal 14 al 16 ottobre 2016. Ideata dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, è diretta in questa edizione da Teatro Necessario Onlus e Teatro dell’Ortica, gruppi attivi rispettivamente nel carcere di Marassi e nel carcere di Pontedecimo. A rappresentare le istituzioni che sostengono la manifestazione erano presenti l’assessore alla Cultura della Regione Liguria Ilaria Cavo e l’assessore alla Cultura del Comune di Genova Carla Sibilla. "Destini incrociati è una rassegna che la Regione Liguria sostiene come evento culturale che raggruppa spettacoli teatrali da tutte le carceri d’Italia - ha affermato l’assessore regionale alla Cultura Ilaria Cavo - dopo avere già sostenuto in passato le rappresentazioni realizzate nelle due carceri genovesi. Non potevo non sostenere un’iniziativa che rende merito alle vitali associazioni liguri del lavoro fatto in questi anni, tanto che Genova è stata scelta come sede italiana del Festival dal Coordinamento nazionale delle carceri. Utilizzare la cultura per l’inclusione sociale, del resto, è in linea con il bando varato quest’estate dalla Giunta regionale con uno stanziamento complessivo di 12 milioni e 500 mila euro, di cui 2 milioni e 500 mila euro dedicati a quei progetti, sportivi e culturali, che sappiano accompagnare i soggetti svantaggiati, come detenuti ed ex detenuti, in percorsi di vita attiva, in una prospettiva di inserimento occupazionale. Auspico che per questo bando vengano presentati molti progetti di qualità legati specificamente a percorsi culturali che possono essere realizzati all’interno delle carceri". L’assessore alla Cultura del Comune di Genova Carla Sibilla ha sottolineato a sua volta l’importanza del progetto e quindi l’impegno a sostenere le attività culturali all’interno delle case circondariali: "Siamo orgogliosi - ha detto - di ospitare un coordinamento che comprende una quarantina di soggetti provenienti da tutta Italia. La cultura deve supportare il sociale, favorire l’inclusione e dare speranza. Per questo, nonostante le difficoltà contingenti, siamo impegnati al fianco delle associazioni che hanno costruito il programma della rassegna "Destini incrociati". Valeria Ottolenghi, rappresentante del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere ha espresso il suo stupore nel vedere per la prima volta il Teatro dell’Arca: "Ecco la ragione per cui abbiamo scelto di venire a Genova. Non mi aspettavo di vedere un teatro così bello. Destini incrociati è nato per fare in modo che tutte le esperienze maturate dentro le case circondariali, non rimanessero chiuse fra quattro mura. È importante costruire delle reti di relazioni per scambiare il frutto maturato dalle proprie esperienze, in un ambito così delicato e così importante". La direttrice della casa Circondariale di Genova Marassi, Maria Milano, ha messo in evidenza "il lavoro e l’impegno del corpo di polizia penitenziaria in tutte le attività collaterali proposte nel corso del tempo e il valore della riflessione, di un momento di pausa, offerto dalla manifestazione culturale Destini incrociati". La direttrice del carcere di Pontedecimo Maria Isabella De Gennaro ha invece spiegato come l’obiettivo "non sia tanto e solo proporre spettacoli ma sviluppare una coscienza condivisa, un’esperienza in grado di affrontare e superare i momenti difficili in cui ognuno si può trovare". Infine, hanno parlato i direttori della manifestazione, Sandro Baldacci, Mirco Bonomi, Anna Solaro e Carlo Imparato. Hanno spiegato la filosofia di una manifestazione che deve aiutare tutti a trovare nuovi modi di convivere all’interno e all’esterno delle carceri: "Tutti - ha dichiarato Solaro - devono mettersi in relazione fra loro perché il carcere è e rimane una casa dove le persone convivono, siano essi detenuti, agenti di polizia penitenziaria, educatori". Baldacci e Bonomi hanno illustrato il corposo programma che in tre giorni comprende sei spettacoli teatrali, venti cortometraggi, cinque incontri due conferenze, la proiezione di uno spettacolo, tre laboratori e due presentazioni editoriali. Si comincia venerdì 14 ottobre, alle ore 10, 30, a Palazzo Tursi, con l’apertura ufficiale della manifestazione a cui saranno presenti il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore e il professor Michele Miravalle dell’Università di Torino, esponente dell’associazione Antigone. Lecce: teatro-carcere, gli attori-detenuti di "Io Ci Provo" di nuovo in scena di Elena Carbotti ilpaesenuovo.it, 8 ottobre 2016 "PPP Passione, Prigione, Pietà e/o Porca Puttana Pasolini…" è il titolo della nuova produzione di "Io Ci Provo", la compagnia di attori/detenuti diretta dalla regista Paola Leone nata all’interno di Borgo San Nicola di Lecce. Da lunedì 17 a venerdì 21 ottobre (due repliche per ogni data) lo spettacolo, "un omaggio a Pasolini al suo essere uomo tra gli uomini" come definito dalla Leone, andrà in scena non sul palco del Paisiello, come negli ultimi due anni, ma in una sezione dell’istituto penitenziario leccese. Annunciato dall’assessore comunale Luigi Coclite durante la presentazione dello spettacolo svoltasi al Paisiello, l’apertura di un centro teatrale culturale all’interno della struttura penitenziaria: "Il Comune ha abbracciato questo progetto e ha avviato un processo di crescita civile più ampio. Stiamo lavorando ad una convenzione allargata a diversi enti e istituzioni per la realizzazione del centro. Ma sia chiaro, questo non è solo un evento sociale ma di grande valore artistico perché gli attori-detenuti sono molto bravi e la produzione teatrale è straordinaria". "La realizzazione del laboratorio teatrale Io ci Provo - ha sottolineato durante il suo intervento Rita Russo, direttrice della casa circondariale leccese - rappresenta una grande sfida che il penitenziario ha deciso di raccogliere e nella quale si è impegnata moltissimo a tutti i livelli. Senza la collaborazione di tutto il personale gli straordinari risultati raggiunti dai partecipanti al laboratorio non sarebbero stati possibili. Ed è proprio questo che desidero sottolineare. Aldilà della valenza sociale e civile quest’attività si caratterizza per l’altissimo spessore artistico. Gli attori sono davvero molto bravi. E questo premia tutti i nostri sforzi". "Il mio progetto sulla vita per raccontare la pena di morte" di Elisa Conselvan La Stampa, 8 ottobre 2016 A Berlino la mostra "Dieci anni e 87 giorni" della fotografa Luisa Menazzi Moretti: "Lettere, testi e interviste dei detenuti hanno ispirato le mie immagini". "Non ferirti in me, sarà inutile, non ferir me, perché ti ferisci" recitano i versi di una poesia di Pablo Neruda evocati da un detenuto del braccio della morte di Livingston, in Texas. Partendo dalle parole dei condannati, la fotografa Luisa Menazzi Moretti ha provato a rappresentare la loro condizione attraverso le immagini. Il progetto, intitolato "Dieci anni e 87 giorni", è in mostra all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino fino al 28 ottobre. Dalle interviste ai detenuti emerge un contrasto stridente tra l’approssimarsi della morte e il loro attaccamento alla vita. Come mai ha preferito non incontrarli di persona? "Il mio non è un lavoro di reportage e conoscere i prigionieri, come mi è capitato in passato, mi avrebbe condizionata troppo. Ho preferito basarmi su testi, interviste e lettere già scritte, che ho isolato e che mi hanno suggerito delle immagini. Se li avessi incontrati ci sarebbe stata troppo empatia o, al contrario, sarei stata allontanata dalle loro menzogne, perché non tutti dicono la verità. Così sono riuscita a mantenere la mia visione personale e a realizzare un progetto sulla vita, non sulla morte. Nel braccio della morte di Livingstone si vive in condizioni abominevoli: le celle sono due metri per tre e non sono previsti programmi di recupero. Qui l’isolamento totale è stato introdotto nel ‘99, dopo un’evasione, e pesanti porte d’acciaio hanno sostituito le sbarre, che prima consentivano la comunicazione fra i prigionieri". "La maggior parte dei condannati sono ragazzi senza famiglia tra i 18 e i 24 anni cresciuti nei ghetti, vittime di molestie, della fame, della droga. Quando entrano in possesso di armi sparano per cento dollari e vengono arrestati per piccole rapine: in questi casi non si può parlare di efferatezza del crimine. Quest’anno era da marzo che in Texas non si praticavano più condanne, ma l’ultima è avvenuta il 5 ottobre. È più raro che a venire condannate siano le donne, rinchiuse al Mountain View Unit, a tre ore da Huntsville. Comunque succede, soprattutto in conseguenza dei crimini cosiddetti "di maternità". Il suo progetto ruota attorno alla domanda "Quali sentimenti e ragioni possono giustificare una pratica tanto arcaica quanto l’esecuzione capitale nel XXI secolo?". È riuscita a darsi una risposta? "No, non c’è risposta. Non esiste alternativa alla pena di morte se non il carcere a vita, anche per i killer più terribili. Lo Stato non dovrebbe reagire come reagirebbe una famiglia sconvolta dal dolore, anche perché questa è una pratica che porta abissi ovunque: nelle famiglie, nelle vittime, nei dipendenti del carcere. Nel 2000 il capo della camera della morte di Huntsville si è dimesso perché non ce la faceva più e anche fra i secondini bisogna fare delle distinzioni, perché non sono tutti collaboratori della morte: alcuni sono malvagi, altri cercano di rendere la vita dei detenuti la migliore possibile. Le famiglie delle vittime, ad esempio, spesso vogliono partecipare all’esecuzione, ma poi rimangono sconvolte. A questo proposito devo citare Into the Abyss, lo straordinario documentario di Werner Herzog del 2011 sui penitenziari di Huntsville e Livingstone, dove si mostrano non dettagli truci, ma la lacerazione mentale dei detenuti. Come nelle mie fotografie, dove di crudo compare solo una macchia di sangue seccato sul marciapiede. Io ho scelto di partire da una domanda retorica, ma il mio lavoro è solo una delle possibili risposte". Com’è stata accolta la sua opera negli Stati Uniti? "Non ho ancora esposto negli Stati Uniti. In passato avevo partecipato al FotoFest di Houston, la mia città, e la scorsa estate ho provato a proporre "Dieci anni e 87 giorni". Anche lì sono molti quelli che sostengono l’abolizione della pena di morte, insieme ai gruppi religiosi e ad Amnesty International, quindi spero che il progetto verrà accolto con entusiasmo, come mi è capitato in passato con altri lavori. Dopo Berlino, da marzo a maggio 2017 la mostra sarà ospitata presso il Museo di Santa Maria della Scala di Siena, che l’ha interamente prodotta, e Contrasto pubblicherà il catalogo. Il mio obiettivo, poi, è portarla negli Stati Uniti". Il suo è un lavoro sulla parola, ma reso attraverso le immagini. La fotografia può rappresentare quello che la parola non riesce a dire? "Assolutamente sì. Il mio è un lavoro sulle parole attraverso la fotografia, come avevo già fatto in passato con Words e con Ingredients for a Thought, dedicato al cibo, per Expo 2015. A volte le parole, o le frasi, mi evocano un mondo di immagini". Le sue fotografie sembrano frammenti di storie dai contorni poco definiti. Come mai questa scelta? "Non volevo descrivere dei casi singoli, ma lasciare libertà di interpretazione. Sono immagini che devono invocare la libertà per ogni singolo individuo di immaginarsi quella storia. Oltre a guardare le fotografie, poi, è fondamentale leggere le frasi dei prigionieri, per costruirsi un racconto". Il thriller rivelazione di Marcello Ghiringhelli: l’altra faccia di un brigatista di Rino Casazza frontedelblog.it, 8 ottobre 2016 Marcello Ghiringhelli è un ergastolano che ha scelto una forma di rinascita classica per un detenuto: la narrativa. Carcerati romanzieri se ne contano parecchi, e viene spontaneo citare Silvio Pellico, col suo celeberrimo "Le mie prigioni", ed Henry Carriere, autore dell’altrettanto famoso "Papillon". Di solito i detenuti scrittori fanno, come i due citati, dell’esperienza in carcere materia delle loro storie, scrivendone quando sono tornati in libertà. Marcello Ghiringhelli, in controtendenza, non solo ha composto il suo "L’altra faccia della luna", appena uscito in formato ebook per Algama, da galeotto (non avrebbe avuto scelta, vista la pena a vita) ma nel libro della sua reclusione non parla affatto. Naturalmente la storia, un notevole spy-thriller ambientato in una Parigi invernale e cupa dei primi anni 90 del secolo scorso, parla molto di lui, finito in galera dopo due esperienze assai "toste": come legionario, e poi come brigatista rosso. Il passato di Ghiringhelli traspare dalla competenza con cui tratta di armi e tecniche di combattimento, e dalla vivezza con cui descrive le scene d’azione, sia che si tratti di scontri a fuoco, all’arma bianca o a mani nude. Interessanti anche i risvolti tecnologici, tutti credibilissimi. Da una ex testa di cuoio ed ex terrorista, non ci sarebbe stato da aspettarsi di meno. Ma, alla fine, in questa sorprendente opera prima, colpiscono due aspetti. Primo: il personaggio dominante, un sicario spietato ed efficiente che ricorda lo Sciacallo di Frederich Forsyth, solo che è psicologicamente più complesso e tormentato di quest’ultimo, e raggiunge la grandezza perversa di certi criminali, vittime della loro personalità deviata, tipici della narrativa di Andrew Klavan. Secondo: la cornice complottistico-spionistica, suggerita e poi svelata con conoscenza, unita a sincera riprovazione, dei meccanismi della realpolitik e della spartizione mondiale delle influenze. Ecco: nella crudezza amara con cui Ghiringhelli tratteggia un mondo dominato da interessi politici e capitalistici cinicamente intrecciati, viene fuori l’ispirazione giacobina del brigatista che, senza la giustificazione della violenza a fini ideali, potrebbe essere, nel suo idealismo manicheo, persino produttiva. Rimane comunque, giunti all’ultima pagina, il piacere di una cavalcata trascinante attraverso la "ville lumiere" trasformata in sanguinoso campo di battaglia manovrato da forze oscure. Russia. Politkovskaja, a 10 anni dalla morte una lunga catena di delitti all’ombra del Cremlino di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 8 ottobre 2016 L’uccisione della giornalista il 7 ottobre 2006 sull’ascensore del suo palazzo a Mosca. Da allora, sono numerosi i delitti registrati in Russia. Stava tornando a casa con la spesa quel sabato pomeriggio di dieci anni fa Anna Politkovskaya, la giornalista investigativa di Novaya Gazetache tanto fastidio dava al potere con le sue inchieste. Ma nell’androne del numero 8 di ulitsa Lesnaya non era sola. Davanti all’ascensore, appostato da pochi minuti c’era un giovane vestito di nero con in mano una pistola automatica che la uccise con freddezza professionale. Tre, quattro colpi al corpo e poi un ultimo proiettile alla testa, mentre Anna cadeva in terra e i pomodori rotolavano sul pavimento. Ci sono voluti quasi tutti questi dieci anni per arrivare a condannare l’esecutore, un ceceno, i suoi due fratelli, i complici, l’organizzatore. Niente invece sui veri mandanti dell’omicidio. Addirittura in un primo momento si cercò di accreditare l’idea che a volere Anna morta fosse stato Boris Berezovskij, l’ex magnate che aveva rotto con il presidente Vladimir Putin e che era scappato in Gran Bretagna. Per mettere in imbarazzo Vladimir Vladimirovich, si disse: l’uccisione avvenne proprio nel giorno del compleanno del presidente. Ma quello di Anna, in realtà, fu l’assassinio politico che aprì una stagione drammatica per la Russia, con oppositori, giornalisti, difensori dei diritti umani e semplici cittadini onesti ammazzati a decine. Il secondo caso clamoroso si verificò pochissimi giorni dopo l’uccisione della Politkovskaya. A Londra era fuggito anche l’ex agente segreto Aleksandr Litvinenko che aveva clamorosamente denunciato come i suoi capi gli avessero ordinato di assassinare proprio quel Boris Berezovskij che ora lo proteggeva. Litvinenko aveva preso pure a collaborare con il controspionaggio britannico, cosa che forse non era andata giù al mondo che aveva lasciato a Mosca. Si incontrò in un albergo di Kensington con due ex colleghi e poco dopo morì avvelenato da polonio 210, un rarissimo isotopo radioattivo. E Berezovskij? La vecchia volpe stava attentissimo, ma a un certo punto decise di fare causa al suo ex protetto Roman Abramovich, sostenendo che gli doveva un mucchio di quattrini. Anziché mantenere un "basso profilo", finì su tutte le prime pagine e, forse, questo lo rese nuovamente un bersaglio. Fatto sta che un giorno di marzo del 2013 venne trovato morto nella sua casa nel Berkshire. Chiuso a chiave in bagno e impiccato. Il coroner britannico non è riuscito a stabilire la causa della morte. Da Politkovskaja a Litvinenko: una lunga storia di omicidi politici. Ma intanto altri personaggi poco ortodossi erano morti in Russia. Natalia Estemirova, che aveva lavorato anche con la Politkovskaya, fu rapita da casa in Cecenia nel luglio del 2009 e assassinata in un bosco. Poi l’avvocato Markelov, freddato sempre nel 2009 in strada a Mosca assieme alla giornalista Anastasia Baburova. Fino a Sergej Magnitsky, l’avvocato che aveva denunciato un losco traffico e che morì in carcere nel 2009 dove era finito un anno prima al posto dei presunti corrotti. Dal 2006 i soli giornalisti eliminati sono stati 20. Sembrava che ultimamente le cose si fossero tranquillizzate, ma non è così. Forse lo credeva anche Boris Nemtsov, esponente di punta dell’opposizione che ai tempi del presidente Boris Eltsin era stato anche vice primo ministro. E magari si sentiva sicuro mentre passeggiava il 27 febbraio del 2015 sotto le mura del Cremlino. Invece un killer lo freddò con quattro colpi alla schiena.